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Il cuore delle tenebre vittoriose

Lunedì 18 gennaio 2016,

Santa Margherita d’Ungheria, principessa e monaca

1.

L’aria del mattino era fredda e una pioggia sottile cadeva sul piccolo cimitero di paese. Una cupa isola di dolore nella provincia di Napoli. File ordinate di tombe, lettere di bronzo, volti, lumini tremolanti e fiori marci. Un cancello arrugginito che aveva visto giorni migliori, ghiaia sul selciato, suoni ovattati e nessuna preghiera. La quotidiana processione di vedove inconsolabili doveva ancora cominciare: ogni volta la stessa strada, gli stessi gesti, un passo dopo l’altro per avvicinarsi al momento in cui avrebbero trovato il loro posto fra i morti.

Gran cosa, la fede.

Avvolte nel silenzio, sette lastre di marmo lucente erano conficcate a forza nella terra nera, denti rotti in una bocca spalancata.

Steso ai piedi della sua lapide, il primo fortunato era già lì. Braccia e gambe allargate sulla fanghiglia del camposanto, la testa piegata all’indietro, la gola tagliata di netto, l’espressione congelata in un grido muto. Dallo squarcio, il sangue aveva macchiato la medaglietta d’oro di Padre Pio ed era colato fino a impregnare l’erba. Un gatto era venuto a leccarlo per fare colazione.

“Vitaliano Esposito, 27 ottobre 1963-14 gennaio 2016” diceva l’iscrizione.

Sulle altre sei sepolture, solo i nomi e le date di nascita. Per la morte c’era ancora tempo. Quelle erano lapidi per il futuro, in attesa.

2.

La galera è galera.

Una considerazione del cazzo ma vera fino in fondo. Fino all’ultimo metro dei cortili di passeggio, fino all’ultima conta notturna, fino all’ultimo cancello che sbatte.

Puoi appendere i poster con tette e culi alle pareti, fra Padre Pio e il papa, puoi giocarti a carte le solite cinque sigarette, frequentare il laboratorio di meccanica o parlare con gli assistenti sociali finché non ti si secca la lingua, ma è tutto inutile. La galera è sempre malamente. La galera è acciaio e cemento, corridoi al neon e puzza di cipolla, rumore di cancelli e chiavi, e tu che te ne stai lì ad aspettare che il tempo passi. I secondi, i minuti, i giorni… gli anni.

La galera è galera. E se la pensi diversamente, vuol dire che non ci sei mai stato.

Michele Vigilante era steso sulla seconda branda del letto a castello, sospeso a mezz’aria fra pavimento e soffitto, e fissava le macchie di muffa. Ormai dormiva sempre meno, neanche cinque ore a notte. Non che gliene fregasse del sonno, degli orari o di far tardi; là dentro di tempo ne aveva a strafottere. Ma sempre sveglio la galera gli durava ancora di più. Più dei vent’anni che s’era già fatto.

Una luce chiara filtrava attraverso le sbarre e le grate, il cielo era bianco e una brezza tagliente soffiava dal finestrone socchiuso. L’aria fredda sul viso era una sensazione piacevole, la pelle tirava e ti sentivi vivo. Lungo i corridoi della sezione c’era ancora silenzio, gli altri dormivano, o almeno se ne stavano zitti, e questa era già una gran cosa.

Michele accese la prima sigaretta della giornata e una nuvola grigia vorticò verso le macchie di muffa. Erano anni che fissava quel soffitto, conosceva a memoria ogni chiazza e crepa dell’intonaco e non se le sarebbe mai più dimenticate.

Sentì il rumore delle chiavi in ottone in fondo alla sezione, i cancelli che sbattevano, un sommesso vociare e i passi degli anfibi sul pavimento. Ce n’erano più del solito. Capì subito di che si trattava.

«Vigilante, perquisa».

L’assistente di polizia penitenziaria aprì il blindo della cella mentre Michele scendeva dalla branda, un piede sullo sgabello e poi a terra. Stava per buttare la sigaretta fuori dal finestrone ma era ancora a metà. La alzò di fronte al poliziotto in una muta richiesta. Quello gli fece un impercettibile cenno di assenso e Michele uscì fumandosi la sua Marlboro. Uno dei piccoli privilegi dello stare lì da tanto tempo.

La perquisizione andò secondo routine: i detenuti chiusi nella saletta socialità della sezione e gli agenti a frugare negli armadietti e nelle borse, sotto i materassi e fuori dalle grate.

Michele si mise vicino alla finestra a dare le ultime boccate e a guardare il paesaggio: colline verdi e cielo chiaro si perdevano all’orizzonte.

Quel posto non era poi così male… Carcere a parte, ovviamente.

Gli altri parlavano ad alta voce, accavallandosi senza rispetto e senza senso. Recitavano un rosario continuo e sempre uguale, un’ossessiva tarantella che gli martellava il cervello ogni giorno di più: chi era stato arrestato e chi era stato sparato, chi aveva tradito e chi voleva vendetta, e poi la famiglia, i figli, l’avvocato, il giudice, il processo, l’appello, la libertà, gli sbirri, e poi ancora e soprattutto gli infami, i pentiti, la feccia della Terra che li aveva condannati lì dentro.

Qualcuno si era stufato e aveva cominciato una partita a carte.

Michele rimase in silenzio. Erano anni che non aveva più nulla da dire.

Dopo una mezz’ora sentì dei colpi attutiti, cadenzati e ritmici, uno dopo l’altro, gomma contro metallo. Era la battitura. Un pesante martello picchiato con forza contro le sbarre per controllare che fossero integre e che nessuno stesse provando a fare il furbo, magari con un paio di lenzuola annodate giù dalla finestra. Evasione da manuale, sputtanata finché vuoi, ma a volte riusciva, anche se poi il fesso di turno in un paio di giorni si faceva ribeccare a casa di amici o parenti.

I colpi del martello erano il segnale che la perquisizione era finita e che se ne potevano tornare in gabbia. Furono fatti uscire uno alla volta, in base al numero di cella. Michele si sistemò in fila per rientrare nella sua ridente dimora di dieci metri quadri vista collina, per rimettere a posto le sue cose e fumarsi un’altra sigaretta intanto che la moka faceva il proprio lavoro.

Un poliziotto gli si avvicinò: «Vigilante, tu no! Colloquio con lo psicologo».

Michele trattenne a stento una bestemmia.

E che cazzo, di prima mattina no.

Quel giorno non teneva voglia di stare a sentire un ragazzino che gli spiegava come gira il mondo, insistendo affinché lui facesse “revisione critica del proprio vissuto criminale”, con un sorriso di falsa comprensione e un giudizio sottinteso. A giudicarlo aveva già pensato la magistratura e a lui era ampiamente bastato.

«Appunta’, me lo posso fa’ un caffè prima?».

Il poliziotto ci pensò un attimo. «Cinque minuti, Vigila’, che se no poi se la pigliano con me».

Michele ringraziò e se ne andò verso la sua cella.

Il caffè era forte, nero e amaro, come piaceva a lui. Un sottile aroma riempì la cella e lui respirò a fondo quell’aria densa e profumata, un modo come un altro per portare la sua mente fuori di lì. Chiuse gli occhi e cercò di non pensare a nulla, di cancellare tutto: il rumore degli anfibi lungo il corridoio, la perquisa, il carcere, la sua vita. Ma non serviva a niente: ogni cosa attorno a lui rimaneva concreta, reale e pesante. Le mura e le sbarre, la puzza di sudore, il brusio onnipresente, le parole confuse dei televisori accesi e lo psicologo che lo aspettava presuntuoso al piano di sotto, nelle salette per i colloqui.

Spense il fornello e bevve la sua tazzina mentre osservava se stesso nel piccolo specchio sopra il lavandino. Somigliava a uno di quei duri del cinema, faccia affilata e sguardo cattivo; i guaglioni più giovani a volte lo chiamavano Vincent perché secondo loro era tale e quale a Vincent Cassel. Ma lui l’aveva visto alla TV: niente di che, provava a fare la faccia da bullo, ma teneva solo la faccia da scemo. Però si scopava la Bellucci e in fondo tanto scemo non doveva essere.

Fissò i propri occhi, erano scuri, quasi neri. Sembravano sprofondare sopra gli zigomi, fra il grigio della pelle e le rughe sottili degli anni. Quegli occhi gli facevano tante domande, ma lui le risposte nun le teneva. E in fondo non aveva alcuna voglia di cercarle.

Uscì dalla cella e si avviò svogliato lungo il corridoio della sezione, rassegnato a rompersi le palle con un ragazzino presuntuoso che doveva per forza insegnargli a vivere, quando invece l’unica vita che aveva era farsi le seghe all’università. Come si dice: ’a pucchiacc ’n mane ’e criature. Scambiò un paio di saluti con dei detenuti diretti alle docce e, arrivato davanti all’ultima cella prima della rotonda, buttò un’occhiata per vedere che faceva chillu guaglione.

Non c’era nessuno. Il cancello a sbarre era socchiuso, la cella vuota. Forse era andato ai passeggi. Michele stava per proseguire indifferente quando sentì un odore inconfondibile: quello delle bombolette di gas butano che fanno andare i loro fornelli, un odore da camping e da galera. Stavolta era troppo forte e lui sapeva bene cosa voleva dire.

Agì d’istinto e si mosse rapido. Spalancò il cancello ed entrò, il ragazzo non c’era. La porta metallica del bagno era chiusa. Si attaccò alla maniglia e cominciò a tirare con tutto il suo peso. Diede uno strattone, poi un altro, il chiavistello tremò e cigolò. Una bestemmia sussurrata fra i denti, un ultimo colpo e la porta si aprì di scatto.

Michele si precipitò nel bagno e lo vide. Stava seduto sulla tazza del water, teneva una busta infilata sulla testa e, dentro la busta, la bomboletta del gas aperta. Un modo come un altro per sballarsi, quando il metadone e il subutex non bastavano più. Era la droga dei poveri e dei carcerati, un metodo facile e a basso costo, con l’unico trascurabile problema che ci puoi crepare. Il cuore accelera fino a impazzire e scoppiare, e muori così, seduto sul cesso, con la testa nel sacchetto dell’immondizia.

Cercò di tirar via la busta, ma il ragazzo se la teneva stretta con tutte e due le mani, aspirando come un pazzo, la bocca affannata come un pesce a riva. Era determinato a finirsi la sua dose, però Michele Vigilante, detto Tiradritto, era un vecchio carcerato e lui la pazienza l’aveva finita da un secolo. Lacerò la plastica per far uscire il gas, la strappò via tirando fuori a forza la testa del ragazzo, afferrò la bomboletta e la buttò dalla finestra del bagno.

Il ragazzo lo guardava con gli occhi persi e la mente annebbiata, l’espressione stralunata e il puzzo di vomito che gli usciva dalla gola mischiandosi a quello del butano. Era pallido e tremava, un sottile rivolo di saliva sul mento.

«E tu che cazzo vuoi…» biascicò a fatica.

Michele lo colpì in pieno viso con il dorso della mano. Uno schiaffo cattivo e doloroso. Il ragazzo fece ondeggiare la testa, pronto a svenire. Michele lo prese per i capelli sollevandolo di peso dalla tazza del cesso. Era deciso a fargli male. Lo trascinò verso la finestra e gli sbatté la faccia contro le sbarre d’acciaio.

«Respira, coglione! Respira!».

Quello provò a fare resistenza, a scalciare, a gridare. Michele strinse ancora di più i pugni, sentiva i capelli del ragazzo che si strappavano fra le dita. Continuava a scuotergli la testa per spezzare la sua resistenza.

«Apri la bocca! Respira con la bocca, coglione!».

Finalmente chillu guaglione si arrese e cominciò a incamerare ossigeno a pieni polmoni. Michele sentì i conati di vomito che gli risalivano dallo stomaco, bava e qualche altra schifezza sgorgarono dalla bocca, il respiro cominciò a tornare regolare. Lasciò la presa e il corpo del ragazzo si afflosciò scivolando sul pavimento.

Michele si raddrizzò, adrenalina e cuore pompavano alla grande e le braccia gli tremavano per lo sforzo. Rimase per alcuni secondi a fissare quel giovane coglione steso a terra, trattenendo a stento la voglia di prenderlo a calci in culo. Il ragazzo si pulì con la mano gli angoli della bocca mentre dalla fronte aperta colava un rivolo di sangue. Sputò e tossì. Gli occhi erano ancora assenti ma si stava riprendendo.

«Ma tu che cazzo vuoi? Chi t’ha chiamato?» ringhiò.

I buoni propositi di Michele, se mai c’erano stati, andarono in frantumi come un vaso di porcellana. Si avventò su di lui prendendolo a calci, le mani aggrappate alle sbarre della finestra, strette fino a far diventare le dita bianche. Il ragazzo, accasciato a terra, schiacciato contro il muro, ricevette la sua lezione di vita.

E senza neanche andare dallo psicologo.

Le urla rimbombarono nello stretto bagno e riempirono la sezione. Gli anfibi della polizia penitenziaria accorsero rapidi lungo il corridoio.

Michele sentì delle mani che lo afferravano, lo tiravano e lo trascinavano via. Lasciò la presa delle sbarre e non oppose resistenza.

Mentre i poliziotti lo portavano via di peso, Michele sentì ancora le urla del ragazzo e poi la voce concitata di uno degli agenti.

«Presto, chiamate l’infermeria!».

Michele fu portato nel reparto Osservazione. Rinchiuso in una cella senza suppellettili per evitare che mettesse in atto gesti di autolesionismo. Cosa che in verità non aveva la minima intenzione di fare.

Dopo pochi minuti il blindo si aprì e comparve l’ispettore della sorveglianza generale, il sottufficiale che si occupava di tutto quello che succedeva nelle sezioni detentive. Un tipo a posto, che faceva il suo e conosceva il carcere e la vita. E anche lui senza andare dallo psicologo.

«Vigila’, fra un paio d’ore».

«Va bene, Superio’».

«Tieni da fuma’?».

«No, ho lasciato tutto di sopra».

L’ispettore gli lasciò una sigaretta sulle sbarre del cancello e se ne andò. Il blindo si richiuse e Michele si stese sulla branda in acciaio inchiodata al pavimento. Accese la sigaretta e si mise a fissare le macchie di muffa sul soffitto.

Queste non le ricordavo.

Dopo due ore, il blindo si aprì di nuovo e il detenuto Alta Sicurezza Michele Vigilante fu scortato al piano di sotto, attraverso scale e cancelli e poi lungo il corridoio dell’ufficio Matricola sino alla stanza del comandante. I due agenti al suo fianco non dissero una parola e anche lui non aveva voglia di parlare, sapeva come comportarsi e non c’era niente che non conoscesse già. Fu fatto entrare, senza bussare e senza aspettare.

«Vigilante Michele, questo è il Consiglio di disciplina relativo ai fatti avvenuti in data odierna, come da rapporto elevato a suo carico dall’agente di sezione e che le viene contestato in questa sede».

La voce del commissario comandante era una cantilena conosciuta. Tiradritto annuì, gettò uno sguardo veloce agli altri membri del Consiglio, il direttore del carcere, il medico di turno e l’educatrice, e tornò a voltarsi verso l’ufficiale di polizia penitenziaria. Lui e il comandante si guardarono e si capirono senza bisogno di troppe chiacchiere. Erano due uomini che si erano fatti la galera, ognuno a modo suo, da una parte e dall’altra delle sbarre. Ma sempre galera era.

«Le si contesta una colluttazione con il detenuto Ascienzo Roberto avvenuta stamattina nella cella di quest’ultimo, all’interno del locale bagno. Ci vuole raccontare come sono andati i fatti? Ha qualcosa da dire a sua discolpa?».

«No».

Semplice e lineare.

«Scusi, come sarebbe che non ha nulla da dire?».

Il direttore e il commissario si voltarono verso il giovane medico. Un novellino di prima nomina con camice bianco perfettamente stirato, stetoscopio al collo, cartellino plastificato e penne colorate nel taschino. Uno che in galera non ci aveva mai nemmeno pisciato.

«Ci saranno delle ragioni che l’hanno indotta a un simile comportamento» considerò il dottorino. «Il detenuto Ascienzo è stato portato d’urgenza in infermeria e io stesso ho refertato dieci giorni di prognosi salvo complicazioni. Gli sono stati applicati almeno quindici punti di sutura su fronte e arcata sopraccigliare, e lei ci vuole dire che non sa perché lo ha picchiato?».

Vigilante lo guardò sorpreso come si guarda una bestia rara, uno scherzo della natura, un cane con tre teste e sei gambe. Si voltò verso il comandante in cerca di aiuto, ma l’ufficiale rimase impassibile, consapevole del proprio dovere istituzionale.

«Dotto’, io n’aggio detto che nun ’o sacc’, ma che nun ve lo vogl’ dicere».

Ancora una volta, semplice e lineare.

«Ma questo è un comportamento omertoso, ed è assolutamente intollerabile che lei si presenti qui, in sede disciplinare, e ci proponga dei simili atteggiamenti. Lei ha il diritto e il dovere di chiarire la sua posizione, lei ha l’obbligo di comportarsi in maniera civile in sezione. Dove crede di essere? E con chi crede di parlare? Noi in questo Consiglio di disciplina abbiamo il dovere di…».

Michele ne aveva già abbastanza e decise di inventarsi la madre di tutte le cazzate. «Dotto’, m’ha dato dell’infame».

“Pentito” o “infame” sono i massimi insulti che ti possono rivolgere in carcere, secondi solo a “pedofilo”. Un marchio indelebile che ti fa odiare e schifare dagli altri detenuti, che ti trasforma nel reietto fra i reietti, e se la cosa si dimostra vera è necessario assegnarti alla sezione Protetti, l’unico modo per garantirti l’incolumità.

Il comandante trattenne a stento un sorriso e non gli credette nemmeno per un istante. Era tutta una tarantella, nessuno si sarebbe mai permesso di dare dell’infame a Michele Vigilante. Ma il comandante sapeva anche che lui non avrebbe mai cambiato la sua versione dei fatti ed era inutile insistere.

«E le sembra sufficiente per aggredire a quel modo un altro detenuto?». Il dottorino continuava a non capire un cazzo. Troppa poca galera rende stupidi.

«Dotto’, guardi che io sono una persona seria».

«Ma che seria e seria. Lei? Con il curriculum criminale che si ritrova? Con i morti ammazzati che ha sulla coscienza, e chissà quello che ancora non sappiamo…».

«Dotto’, quella era una guerra. Se io non sparavo a loro, loro sparavano a me». La voce di Michele era diventata tagliente. Una lama tesa e cattiva pronta a spezzarsi. Lo sguardo duro era fisso sul dottorino, che cominciava a sentirsi a disagio, ad avere paura.

«Vuol farmi credere che lei è un missionario? Che non c’è mai finito di mezzo un innocente?».

Michele sbarrò gli occhi e sentì il sangue salirgli alla testa, ma rimase immobile a fissare il dottorino, con la mascella serrata e i denti stretti.

«In ogni caso, Vigilante» intervenne calmo il direttore, «lei negli ultimi anni ha tenuto un comportamento corretto e rispettoso, e da quello che mi risulta il suo fine pena non è troppo elevato. La invito quindi per il futuro a uniformarsi alle regole interne di civile convivenza, affinché simili episodi non abbiano più a ripetersi. Cionondimeno questo Consiglio di disciplina le commina la sanzione di quindici giorni di esclusione dalle attività in comune».

Vigilante non rispose. Sapeva cosa lo attendeva e l’isolamento non lo aveva mai spaventato, neanche quando era giovane di galera.

«Può andare». Il direttore non aveva tempo da perdere.

Michele fece per voltarsi, ma il commissario aveva qualcosa da aggiungere. «Ancora una cosa, Vigilante. Dopo il fatto sono salito nella cella di Ascienzo per un controllo e ho sentito uno strano odore. Un certo odore. Un odore preciso, per intenderci. Lei ne sa niente?». Aveva calcato la voce sulle ultime parole per essere sicuro di farsi capire.

Michele sollevò le spalle mostrando il palmo delle mani in una interpretazione degna della migliore commedia napoletana. «Io n’agg’ sentito niente».

«Ne ero certo. Comunque il ragazzo sta bene».

Michele annuì.

«Come sarebbe a dire che sta bene?». Il dottorino aveva ripreso coraggio e voleva avere l’ultima parola. «Ma se ho appena detto che ho refertato dieci giorni di prognosi… E poi i punti di sutura, ci potrebbero essere complicazioni…».

Il commissario lo ignorò completamente. Lui e Vigilante si scambiarono uno sguardo di saluto, mentre il medico continuava il suo inutile monologo intriso di presunzione e luoghi comuni. Michele uscì dalla stanza e si avviò tranquillo verso l’isolamento.

Martedì 19 gennaio 2016,

San Mario, martire

3.

Quindici giorni di isolamento non sono un cazzo, specialmente dopo una vita di galera. Anzi, sono l’occasione per starsene un po’ in pace, senza rompicoglioni che ti chiedono sigarette e tossici che litigano per il metadone, senza le solite chiacchiere e senza il caro amato psicologo. Non era la prima volta che finiva lì e non sarebbe stata l’ultima, o almeno così credeva.

In fondo non era poi tanto male.

Prima di essere trasferito, Michele aveva chiesto di poter passare nella biblioteca del carcere e aveva preso tre libri in prestito: un bel noir italiano che parlava di un investigatore-buttafuori che non dorme mai perché tiene una doppia identità, e poi dicevano che era lui che teneva bisogno dello psicologo, un thriller svedese di quelli da mille pagine ma ti addormenti al primo capitolo, e un classico, uno di quelli che lo leggi una volta e te lo ricordi per tutta la vita, uno di quei libri che danno un senso a tante cose. Una storia oscura e scintillante che parlava di una esplorazione lungo un fiume dell’Africa, che in realtà si trasforma in un viaggio nella follia e nell’ambiguità dell’uomo.

Michele aveva divorato il primo, abbandonato subito il secondo, e ora si stava facendo trasportare dalle acque di quel serpente nero attraverso le seduzioni del male.

Il blindo si aprì e comparve l’ispettore di sorveglianza generale.

«Vigilante, alzati che devi andare».

Michele scese dalla branda cercando le scarpe. «Superio’, ci deve essere un errore, sono arrivato ieri».

«Nessun errore, devi andare in matricola, tieni delle carte da firmare». L’ispettore aprì anche il cancello. Le pesanti chiavi in ottone erano uno dei simboli assoluti delle patrie galere, luccicanti e ingombranti, lisce e consumate dagli anni, con un grande anello alla fine. Facevano un rumore caratteristico e inconfondibile ogni volta che giravano nella serratura, uno scatto secco, quasi un richiamo, e chiunque lo abbia sentito non potrà mai scordarlo.

Michele uscì dalla sua cella, fece alcuni passi e poi si voltò verso l’ispettore con aria interrogativa.

Quello capì e assunse un’espressione fra lo strafottente e il divertito. «No, Vigila’, stavolta vai da solo. Tranquillo».

Michele sentì un fremito lungo la schiena, in galera non si stava mai tranquilli. Era confuso, teneva voglia di fumare ma non aveva preso le sigarette e non se la sentiva di tornare indietro. Guardò verso il fondo del corridoio e si incamminò, cercando di mantenere un passo regolare. In carcere è vietato correre.

Superò i cancelli e gli sbarramenti della sezione Alta Sicurezza, la porzione del carcere dedicata agli AS3, gli appartenenti alla criminalità organizzata. Mafia, camorra, ’ndrangheta e quei quattro superstiti della Sacra Corona Unita. Tutti insieme appassionatamente. Le mele marce ammucchiate in unico cesto, e il cesto calato giù in fondo al pozzo.

Scese le scale della sua sezione, poi altri gradini e vari cancelli, e a ognuno il solito rumore secco delle chiavi che giravano, a ogni sbarramento la solita domanda. «E lei?».

E la solita risposta: «Vigilante, matricola».

L’ispettore della matricola si muoveva frenetico, con la giacca della divisa abbottonata perfettamente ma la cravatta nera allentata. Piccolo e magro, con la faccia affilata e la barba grigia, sembrava una scheggia impazzita tra fax, telefono, fotocopiatrice. Di origini pugliesi, era un uomo pratico e di poche parole, uno di quelli che se hai ragione hai ragione, se hai torto hai torto, punto. Indipendentemente se sei guardia o carcerato. I suoi colleghi lo chiamavano “Sereno”, perché a tutti quelli che si agitavano o arrabbiavano, rispondeva immancabilmente: «Devi stare sereno».

Michele entrò bussando e l’ispettore lo fulminò con uno sguardo di traverso.

«Vigilante, mi deve firmare un po’ di carte».

«Che carte, ispetto’?».

L’ispettore si fermò abbassando il telefono. Attese un istante fissando il detenuto negli occhi.

«I giorni!».

Michele cercò di mantenere la calma. Sentiva di nuovo quel sottile brivido lungo la schiena, un’altra scossa che saliva verso la nuca.

Si trattava dei giorni di liberazione anticipata. Ne maturi quarantacinque ogni semestre di detenzione trascorso con buona condotta, ovvero senza rapporti disciplinari e con partecipazione alle attività trattamentali e rieducative. A lui, delle attività trattamentali non era mai fregato un cazzo, ma negli ultimi anni, a eccezione del piccolo contrattempo di qualche giorno prima, aveva smesso di fare il cretino e la galera gli era passata davanti senza più isolamento e consigli di disciplina.

La richiesta dei giorni al magistrato di sorveglianza l’aveva fatta da qualche mese, un po’ per essere come gli altri carcerati, un po’ perché lo stesso ispettore della matricola aveva insistito. E li aveva richiesti tutti in un colpo, anni e anni di detenzione, senza sapere di preciso quanti gliene sarebbero spettati e se glieli avrebbero concessi. Adesso era arrivata la risposta e il suo fine pena sarebbe stato rideterminato.

L’ispettore gli passò una serie di fogli tutti uguali e incomprensibili, snocciolando numeri, articoli del codice e norme di legge. Michele li firmò senza quasi guardarli, uno dopo l’altro. Era come se una pallina da flipper gli rimbalzasse dentro la testa, non riusciva a concentrarsi su niente, d’improvviso il mondo si muoveva troppo veloce attorno a lui. Immagini, parole, ricordi, pensieri si accalcavano e si confondevano, mentre cominciava ad avvertire una sensazione strana. Qualcosa che non provava più da anni.

Paura.

«Ispetto’, quando esco?». La domanda gli scappò ancor prima che se ne rendesse conto.

L’altro alzò la testa dai fogli. Lo sguardo era duro come sempre, ma stavolta sulle sue labbra c’era un lieve sorriso. Tirato e secco, ma pur sempre un sorriso.

«Oggi».

Michele uscì dalla matricola con un indecifrabile torpore addosso. Gli tornò con prepotenza l’immagine di quell’oscuro fiume africano e di quel viaggio in cerca di un uomo maledetto. Il suo cervello faceva fatica a registrare la notizia della scarcerazione.

L’appuntato della sezione gli aprì il cancello. «Stai bene, Vigila’? Tieni una faccia…».

Lui fece un cenno del capo e tirò dritto verso la sua cella. Tutto gli sembrava d’improvviso diverso, sfocato e tremolante, come se qualcuno durante la sua assenza avesse spostato e rimesso a posto ogni cosa. Uguale a se stesso, ma comunque diverso. La stessa cella gli pareva adesso più grande e spaziosa, più accogliente, più sicura. Un posto semplice, con regole chiare e una vita programmata, orari precisi e compiti assegnati: apertura celle, perquisa, battitura, passeggi, socialità, conta, passaggio del vitto, passaggio della terapia, conta, chiusa celle. Tutto scandito e conosciuto, uguale giorno dopo giorno. E adesso?

Con la mente confusa e le mani malferme si preparò un caffè col fornelletto. Forte, nero, amaro. L’ultimo. Accese la TV su una televendita di pentole e materassi, “una batteria di pentole di dodici pezzi con fondo alto un centimetro…”, e intanto che la moka si scaldava decise di farsi la barba. Aveva bisogno di routine, di gesti collaudati e sicuri. Un modo come un altro per mantenere la calma, tenere a bada la testa prima che arrivi la botta. È come con la cocaina: stai bene, stai bene, stai bene, e poi tutto d’un colpo comincia il giro di giostra, e sali, e scendi. Michele si sentiva come se stesse per risalire su quella giostra, come se stesse per arrivare la marea a portarselo via: gioia, paura, euforia, terrore. Consapevolezza. Ancora un istante e sarebbero venuti a portarlo via. “E solo per le prime dieci telefonate, in omaggio un set di coltelli d’acciaio con lama giapponese…”.

Michele osservò il rasoio di plastica bianca. Tremava. La sua mano tremava. Si fermò, prima di tagliarsi la gola. Sarebbe stato il colmo. Una leggenda che Radio Carcere avrebbe tramandato per generazioni e generazioni. Incidente domestico dopo vent’anni di galera, nel giorno della scarcerazione, proprio da coglione. “E insieme al materasso un coprimaterasso anallergico… doghe in legno… federe… cuscini… telefonate… telefonate… telefonate…”. Tirò un lungo sospiro, buttò nel secchio il rasoio e si guardò nel piccolo specchio sopra il lavabo. Non vide il quasi cinquantenne pallido e segnato che era, ma il ragazzo giovane e abbronzato di tanti anni prima. Nella vita passata. Un ragazzo che aveva fatto carriera. Che sapeva farsi rispettare. Che tenev’ i pall’.

Il caffè era salito e si stava per bruciare. Spense il fornelletto e versò il liquido scuro nel bicchierino di plastica, lo bevve d’un fiato senza sentirne il sapore, solo per darsi una svegliata. Si sedette sulla prima branda e da sotto il letto a castello tirò fuori due borse di tela grandi e consumate, le stesse di vent’anni prima, e cominciò a raccogliere i suoi panni.

Il tempo era passato. Il tempo era finito.

Era arrivato il momento di andare via.

Mise tutto dentro alla rinfusa, c’ nun teneva tiemp’ e pacienza, buttò quello che era da buttare e lasciò nella cella quello che non voleva o che poteva tornare utile a chi restava.

Guardò ancora una volta la stanza. Vent’anni. Cinque su è giù per l’Italia, un trasferimento dopo l’altro, e poi quasi quindici lì, in quei dieci metri quadrati. Fissò l’alto finestrone, lungo e stretto, le sbarre azzurre e scrostate, e poi il paesaggio, il suo spicchio di mondo, la sua promessa di libertà. Per quindici anni la stessa collina verde e grigia a seconda delle stagioni, lo stesso paese in lontananza di cui non aveva mai voluto sapere neppure il nome, e poi le case, che erano comparse come funghi in mezzo a quei prati, le aveva viste costruire e poi essere abitate. Le luci che si accendevano di sera e al mattino, e lui a pensare alle persone dentro quelle mura. Chi erano? Cosa facevano? Vivevano bene? E in qualche modo si sentiva parte invisibile delle loro vite.

Distolse lo sguardo dalla sua porzione di paesaggio e fissò la doppia branda inchiodata al pavimento, i tubi d’acciaio dipinti di blu, il materasso di gomma ignifugo, anni e anni passati lì sdraiato ad aspettare, e poi il tavolo e lo sgabello costruiti da altri detenuti in altri carceri, la TV incastrata in una struttura metallica per impedire che potesse essere usata come un’arma, e gli armadietti del bagno, che aveva messo insieme con il cartone e la colla di vinavil – per farli ci erano voluti sei mesi e adesso lasciarli lì quasi gli dispiaceva. Infine i vecchi libri ammucchiati in un angolo, silenziosi e presenti.

Se ne mise uno sotto il braccio, sollevò da terra i due borsoni con dentro la sua vita, alzò lo sguardo per dare un’ultima occhiata alle macchie di muffa sul soffitto, uscì e si avviò lungo la sezione per l’ultima volta.

Gli altri lo guardavano in silenzio da dentro le loro celle, aggrappati alle sbarre. Dapprima occhi stupiti e increduli, qualche timido saluto e un immediato brusio, poi sorrisi e uno stentato applauso. Una stretta di mano, un “in bocca al lupo” mentre l’appuntato aspettava al cancello. Qualcuno chiese di portare dei messaggi fuori, qualcuno offrì una sigaretta, qualcun altro sperava in silenzio di essere il prossimo.

Michele si fermò davanti all’ultima cella prima della rotonda. Chillu guaglione stava in piedi vicino al blindo. Occupava tutta la visuale oscurando la luce del finestrone. Canottiera bianca attillata, muscoli scolpiti e abbronzati, tatuaggi su braccia e collo, sopracciglia curate e capelli fluenti. Il prototipo del giovane camorrista. Un incrocio fra un pitbull e un tronista. Ma la faccia non era più così bella come prima, aveva ancora i segni dei punti, l’occhio destro era iniettato di sangue, il giallo e il viola dei lividi non si era ancora riassorbito. Ma in fin dei conti non stava poi così male, il comandante aveva ragione: il ragazzo sta bene.

’U guaglione sembrava imbarazzato, teneva gli occhi bassi e le mani strette sulle sbarre del cancello.

«Allora, lo Zì, è vero che esci?».

Dopo tanti anni di galera Michele si era guadagnato il titolo di Zio, sinonimo di ossequio e ammirazione, di rispetto e riconoscimento. E alla fine anche quel ragazzino aveva imparato. Qualcuno doveva avergli sussurrato nell’orecchio qualche parolina dolce in confidenza, giusto per fargli capire chi era veramente Michele Vigilante.

Lo Zio Michele merita rispetto.

Dentro e fuori la sezione.

«Sì, guaglio’, è fernuta». Fissò intensamente il volto segnato del ragazzo. Sarebbe guarito, ci voleva ancora un po’, ma sarebbe guarito. Poi poggiò il libro fra le sbarre del cancello.

Il ragazzo lo guardò incuriosito. «E che d’è?».

«E che vuol esse, guaglio’. È ’nu libr’!».

«’O ved’, ’o Zì! Grazie, ma a me nun piace legge. Nun teng’ ’a pazienza e…».

«Pigghia ’u libr’ e leggilo».

«’O Zì, nun è cosa pe’ me».

«T’agg’ ’itt pigghia ’u libr’ e leggilo!». Il tono di Michele si era fatto cattivo e gli occhi erano diventati duri. Il ragazzo prese il volume passandoselo fra le mani. Fece scorrere le pagine e fissò la copertina.

«Cuore di tenebra di Joseph…».

«Di Joseph Conrad» finì per lui Michele.

«Grazie, ’o Zì» disse timido.

«Prego, guaglio’. E mi raccomando. Dalla prima all’ultima pagina».

«E quando l’agg’ fernut?».

«E quand lu si fernut, ricominci n’ata vota».

Il ragazzo guardò Michele cercando di capire se stesse scherzando. No, lo zio non scherzava.

Chillu guaglione aveva già mancato di rispetto una volta e non intendeva farlo di nuovo. Era un ordine e come tale andava eseguito. Subito e senza fare domande, senza se e senza ma.

Lo Zio lo fissò ancora per un istante e gli sembrò di vedere il ragazzo che era stato di tanti anni prima. Stessa faccia, stessa testa, stessa arroganza e la stessa fottuta convinzione di sapere tutto.

«E ricordati, guaglio’, il carcere è sempre malamente».

«’O sacc’».

«No, tu nun ’o sai». Di nuovo quella voce dura e cattiva.

I due si guardarono negli occhi. Fra di loro le sbarre della cella. Un unico lungo momento di silenzio.

«Vigilante, muoviti» gridò l’appuntato al cancello.

Il ragazzo cercava le parole, ma non erano il suo forte. Alla fine gli sfuggirono dalle labbra come un soffio, tremolanti, quasi impercettibili.

«Grazie, lo Zì».

Michele annuì, non occorreva altro. Le chiacchiere erano roba da femmine. Quella parola era più che sufficiente a dire tante cose, era un segno di rispetto e un’impalpabile speranza. Era tutto un discorso. Una vita intera.

Michele alzò una mano in segno di saluto e si mosse lungo la sezione trascinando le borse di tela.

L’appuntato teneva aperto il cancello azzurro e lo aspettava.

«Vigilante, speriamo che non ci rivediamo troppo presto» disse con un sorriso l’uomo in divisa.

Michele lo fissò serio. «Accà nun c’ torn’ chiù!».

«Si’ sicur’?». L’appuntato era anche lui campano e l’occasione meritava l’uso della sua lingua madre.

«Superio’, io ccà nun c’ torn’ cchiù» ripeté.

L’altro sfilò il mazzo di chiavi in ottone dal cinturone della mimetica. Lo soppesò in mano guardando Michele. Sapevano entrambi il significato di quel gesto e non era cosa da poco.

Il detenuto liberante Michele Vigilante, detto Tiradritto, annuì in silenzio e l’appuntato fece cadere a terra il pesante mazzo di chiavi. Il rumore di metallo rimbombò nella sezione.

L’urlo risuonò immediato fra le celle: «Ahej… a ’o superior’ so’ cadute ’e chiav’!».

Anche l’ultima tradizione del carcere era stata rispettata. Quando cadevano le chiavi all’agente era il segno che qualcuno usciva per non rientrare più. Mai più.

Stavolta l’applauso fu scrosciante, un boato che risuonò lungo lo stretto corridoio. Qualcuno cominciò a battere le pentole contro le inferriate e in un attimo fu una bolgia di canti e grida. L’appuntato della sezione non si scompose più di tanto, nulla che non avesse già visto infinite volte.

Michele sorrise al suo antico avversario e si diresse verso il cancello delle scale. Le porte in acciaio si chiusero pesanti dietro di lui.

Altre firme in matricola, con l’ispettore che continuava a correre tra fax e telefono facendo finta di non badare a lui. E poi al casellario per riprendere le sue cose: una catenina d’oro con l’immagine di Padre Pio, un orologio col cinturino in coccodrillo fermo alle 11:27 del 12 ottobre 1996. Se lo mise al polso, inutile e bellissimo, senza sapere se avrebbe mai più funzionato. Un po’ come lui. Infine il portafogli con i documenti scaduti, un paio di foto spiegazzate, un mazzo di chiavi, e uno, due, tre, quattro gettoni telefonici.

«Ah, Vigilante, c’è anche questa».

L’addetto al magazzino tirò fuori dalla busta in carta gialla una seconda catenina d’oro, sottile e raffinata, con un piccolo crocifisso che pendeva nel mezzo.

Michele la fissò in silenzio. Sapeva che c’era, non poteva dimenticarlo. Aveva cercato di nasconderla in un angolo della memoria ma era stato tutto inutile, anche in quell’anfratto buio continuava a brillare, un piccolo e intenso punto luminoso, lontano ma sempre presente.

Un macigno di dolore racchiuso in pochi grammi d’oro.

Se la rigirò fra le mani, leggerissima e impalpabile, dava l’impressione di potersi spezzare da un momento all’altro, di poter diventare polvere.

Michele sentì un nodo allo stomaco che saliva fino alla gola diventando amaro e cattivo, un sapore disgustoso e reale che gli annebbiava la mente e gli faceva tremare le gambe. Gli bruciavano gli occhi e sentiva freddo.

«Vigila’, ti commuovi dopo, che io c’ho da fare. Se non manca niente firma e vattene».

Michele scrisse il suo nome. Ci pensò un attimo e poi si mise la catenina sottile al collo, mentre gettò quella di Padre Pio in uno dei borsoni. Prese i quattro soldi che gli spettavano come lavorante in sezione, salutò l’assistente e si avviò lungo i corridoi. Superò gli ultimi sbarramenti e oltrepassò il muro di cinta in cemento armato. Un giovane agente lo accompagnò verso la piccola porta che si apriva nel pesante cancello in acciaio. L’ultimo ostacolo, quello dell’intercinta, si mosse lento davanti ai suoi occhi, le grate scivolarono via e il parcheggio del carcere si spalancò davanti a lui.

Una divisa blu gli si avvicinò da dietro. Michele si voltò riconoscendo i passi, era il commissario comandante. Faccia segnata e occhi incazzati. Un mezzo toscano fra le dita. Era uno che s’era fatto più galera di Michele, e anche solo per questo meritava rispetto. Si scambiarono uno sguardo di saluto. Tanti anni avevano portato a una sorta di pace armata, una guerra fredda in cui ciascuno rispettava il ruolo dell’altro. E non c’era bisogno di troppe parole.

«Vigilante. Facciamo che non ci vediamo mai più».

Michele annuì e i due si strinsero la mano.

Era libero.

4.

La macchinetta del caffè si era rotta un’altra volta. Qualcuno aveva attaccato il solito laconico cartello. GUASTA. Un foglio riciclato, ovviamente, ché di carta in ufficio ce n’era poca o niente.

L’ispettore Carmine Lopresti si rimise gli spicci in tasca, imprecò in dialetto pugliese e s’incamminò lungo i corridoi della questura.

Quel luogo, incastonato fra via Medina e via Diaz, gli metteva sempre una certa soggezione, anche dopo tanti anni. L’enorme palazzo, figlio del ventennio fascista, aveva un’aria severa e imponente, e la sua gigantesca facciata di marmo bianco, fatta di linee pulite e squadrate, spiccava come un diamante nel ventre di Napoli.

L’ispettore stava cercando di ignorare il feroce mal di testa che gli martellava le tempie, dopo la notte di stravizi e le due sole ore di sonno che si era fatto. Si guardò riflesso in una delle porte a vetri degli uffici e, nonostante i segni evidenti dell’hangover, non riuscì a trattenere un sorriso compiaciuto. Trentanove anni splendidamente portati. Alto. Moro. Atletico. Abbronzato. Un gran bel figlio di puttana, con lo sguardo perennemente incazzato da fiction televisiva.

Si tolse gli occhiali da sole con studiata disinvoltura a beneficio delle impiegate prossime alla pensione. Sapeva di attirare gli sguardi femminili e la cosa non gli dispiaceva affatto; le occhiaie, del resto, contribuivano al suo fascino da bel tenebroso. Nondimeno, emicrania a parte, l’ispettore sapeva anche quando era il momento di non fare il cazzone e comportarsi da vero sbirro.

Salutò un paio di vecchie conoscenze e si diresse in fretta verso la stanza del dirigente. Era in ritardo. Di poco, ma pur sempre in ritardo. E il dottor Taglieri era un tipo incazzoso. Con lui magari avrebbe chiuso un occhio, o forse tutti e due, sapeva di essere il suo preferito; meglio comunque non tirare troppo la corda.

Arrivato all’ufficio bussò veloce ed entrò borbottando a bassa voce una serie di scuse preconfezionate. La riunione era già iniziata e nessuno fece troppo caso a lui, che si piazzò in piedi vicino alla porta guardandosi intorno.

Nell’ufficio c’era mezza Squadra Mobile. Annunziati e Morganti li conosceva, bravi e preparati, gente che veniva dalla strada, di poche parole e tanti fatti, che sapeva quando era il momento di sorridere e quando quello di mordere, avevano lavorato insieme più di una volta e lui sentiva di potersi fidare. Disero e Cozzolino invece non li conosceva di persona, ma gliene avevano parlato bene, facevano il loro, giorno dopo giorno senza rompere il cazzo, e questa era già una gran cosa. Poi c’era Corrieri, ma su quel poveretto era meglio stendere un velo pietoso: grasso, sciatto, pigro, notoriamente un imboscato, un passacarte che cercava solo il modo più veloce di arrivare alla pensione, aveva fatto carriera leccando il culo a destra e a sinistra, passando da un ufficio all’altro. Uno che, come dicevano dalle sue parti, bussava con i piedi, perché le mani erano troppo impegnate a portare cassette di frutta, salumi, formaggi e tanto altro. Era stato trasferito qualche anno prima, da non si ricordava dove, e in poco tempo, con la sua pelata luccicante e il viso paffuto sempre sudato, era diventato la barzelletta della questura. Gli occhialetti tondi conferivano al suo sguardo l’espressione di un maiale, e prima o poi qualche collega sardo ci avrebbe fatto un bel porceddu.

Lopresti al solo vederlo non riuscì a trattenere una smorfia. Non poteva proprio sopportarlo. Erano troppo diversi. Gli stava sulle palle e non aveva alcuna voglia di farselo piacere.

Il dottor Taglieri se ne accorse e lo fulminò con un’occhiataccia, pur senza interrompere il suo discorso: «… le lapidi sono state rimosse. La Scientifica ha eseguito i rilievi e il corpo è in obitorio. Il referto dell’autopsia è chiaro come il sole, ma non è che ci sia poi molto da capire. Gli hanno tagliato la gola da orecchio a orecchio».

L’ispettore sapeva bene di cosa stavano parlando. La notizia del cimitero aveva fatto il giro della provincia in un attimo. L’immagine delle tombe vuote che aspettavano di essere riempite aveva fatto suonare i campanelli d’allarme nelle procure di mezza Italia. La paura e la curiosità si erano propagate incontrollabili come la puzza di fogna. Hai voglia a rispettare il segreto istruttorio, hai voglia a tenere lontani i giornalisti: ’o Schiattamuorto, il Becchino, aveva subito acceso l’immaginazione della gente e già nei bar non si parlava d’altro. In compenso le informazioni non erano più tanto precise, le chiacchiere si aggiungevano alle chiacchiere e la vicenda cominciava ad assumere i caratteri epici della leggenda. Nel racconto popolare le lapidi erano salite da sette a nove, e poi a tredici. L’ultima voce parlava di quindici, se non di più.

E che cazzo, quant’era grosso ’sto cimitero.

Riguardo ai nomi, si stava raggiungendo l’apice, a conferma della fantasia partenopea. A parte Vittoriano Esposito, detto ’o Maresciall, piccolo boss di uno dei clan camorristici della zona con un passato nel traffico di droga e un presente di estorsione e armi, che se ne stava beatamente steso all’obitorio a farsi aprire lo stomaco, per gli altri era scattato il toto-lapide. Nell’elenco ci stavano finendo tutti, ma proprio tutti: dal boss alla mezza tacca, dall’assassino allo spacciatore di periferia, dal vicino rompicoglioni al cornuto del paese, compresi sindaco, prete e amante del prete. Ma al di là delle pagliacciate e dei discorsi da bar, Lopresti era sicuro di una cosa, semplice e lineare come solo la verità sa essere: chi contava veramente, i nomi li sapeva, e sapeva quelli giusti.

«… per quanto riguarda gli altri sei, occorre darsi da fare. È tutta bella gente, appartenenti alla criminalità organizzata, boss e mezzi boss, curriculum criminale di vario genere e livello, comunque sempre invischiati coi clan. Gennaro Rizzo, latitante, sappiamo che continua a controllare i carichi di cocaina dal Sudamerica, ma nessuno ha idea di dove sia. L’Interpol lo cerca da cinque anni, è stato spiccato un mandato d’arresto europeo, ma senza risultati, è semplicemente sparito nel nulla. In caso di cattura è un 41-bis sicuro. Poi ci sono i fratelli Surace, Antonio e Ciro, sarà contenta la madre. Anche loro latitanti, ma sono criminali di basso livello e con un po’ di fortuna qualcuno che farà una soffiata lo troviamo. Giovanni Morra invece è ai domiciliari, procediamo con le intercettazioni telefoniche e una pattuglia fuori casa, se si dovesse muovere lo portiamo subito in carcere, che male non gli fa. Giuseppe Notari invece è libero e…».

«E mo’ cu cazzu è ’sto Giuseppe Notari?»

Evviva la sincerità di Disero e del suo dialetto catanese.

«Peppe ’o Cardinale» spiegò Cozzolino.

Disero annuì soddisfatto. L’ispettore Lopresti annotò mentalmente che i due colleghi conoscevano i contranomme, i nomi veri, quelli della strada e dei bassi, e non quelli ufficiali buoni solo per il ministero e per la carta stampata. Buon segno, parlavano la stessa lingua.

«Dicevo che Notari è libero e si muove indisturbato come fosse il padrone del suo paesello, San Giuseppe Campano. Se ne va in piazza la domenica a farsi ossequiare dal popolino. La processione della Madonna fa tappa fissa sotto casa sua, e si mostra nelle cerimonie pubbliche manco fosse il prefetto».

Lopresti rifletté amaramente che forse un po’ lo era. Se il prefetto è il rappresentante del governo e dello Stato sul territorio, Peppe ’o Cardinale era il rappresentante dei clan e dell’antistato. Due cani che si guardano ringhiando, pronti ad azzannarsi al collo.

«Anche qui occorre un piano di intercettazione e sorveglianza, un lavoro fatto bene e discreto. Dobbiamo cercare di rintracciare le varie schede telefoniche che usa, tenete d’occhio i cinesi e gli zingari che gliele forniscono. E poi c’è Michele Vigilante, ma almeno quello è in carcere e non è un problema nostro…».

«Mmh, dottore, mi scusi» intervenne Corrieri con la sua vocina reverente.

Taglieri sbuffò. Odiava essere interrotto, e questa era già la seconda volta.

«Che c’è, ispettore?».

«Vigilante è uscito stamattina».

Le parole rimasero sospese nella stanza in un silenzio irreale da santuario mariano. Il capo della Mobile era rimasto senza parole, evento unico nella storia della questura, e fissava duro il suo sottoposto. Nessuno aveva il coraggio di intervenire.

«Che cazzo significa che è uscito?».

«S… significa che il magistrato di sorveglianza gli ha riconosciuto i giorni di liberazione anticipata, hanno rideterminato il fine pena, e stamattina ha lasciato la casa di reclusione. Ho sentito l’ispettore dell’ufficio matricola, è stato scarcerato alle 9:22». Corrieri era un passacarte, ma almeno in quello era di rara efficienza.

Taglieri si passò una mano sulla faccia magra, quasi scheletrica. Sentì la barba ispida e le ossa sporgenti. La sua passione per la corsa e questo lavoro lo stavano consumando. Non era ancora ora di pranzo e già era incazzato come una bestia. Sentiva fitte lancinanti alla nuca e le vene del collo pulsavano sempre più forti. Aveva voglia di spaccare tutto, di prendere quello schifo di computer preistorico che ingombrava la sua scrivania e scagliarlo a terra, o gettarlo contro la finestra per sentire il meraviglioso rumore dei vetri infranti e lo schianto sul marciapiede. Ma non poteva, lui era il capo e doveva mantenere un tono.

Sospirò con forza mentre gli altri rimanevano in silenzio.

«E va bene. Allora da controllare ne abbiamo uno in più. Non è un problema, in qualche modo faremo. Occorre solo che chieda qualche uomo di rinforzo. Tutto qui».

L’ispettore Lopresti fissò il suo capo e lo vide stanco. Nervoso come non mai. Si conoscevano da diversi anni e si apprezzavano a vicenda. Era stato proprio lui a convincerlo a passare alla Mobile. In privato, e lontano da occhi indiscreti, i due si davano del tu, anche se sempre con il dovuto rispetto da parte sua.

«Dobbiamo immediatamente attivare le procedure di intercettazione, i decreti sono pronti» continuò Taglieri. «Chiamate i vostri contatti. Cercate. Trovate. Fate piangere la Maronna o fate il miracolo di San Gennaro. Inventatevi quello che vi pare ma dobbiamo scoprire cosa sta succedendo».

«Mah, dotto’, non è che stiamo esagerando? Alla fine è un morto ammazzato come gli altri» disse Cozzolino.

Il dirigente lo guardò duro. «Cozzoli’, tu mi sa che non hai capito un cazzo. Qualcuno s’è preso il disturbo di mettere su questa carnevalata del cimitero e pensi davvero che sia finita qui? Pensi davvero che per ammazzare ’onu strunz’ com’a chill serve fare la sceneggiata? Cozzoli’, per uccidere bastano due secondi, due colpi. Pum pum, ed è finita. Entri ed esci dal bar dove stava che ancora non s’è freddato il caffè, tanto nessuno vede mai niente. Prendi la motocicletta e te ne vai. Se qualcuno ha fatto ’ste tarantelle, se qualcuno s’è preso il disturbo di scannare a ’o Maresciall a mano libera…». Il dottor Taglieri fece il gesto di un pittore che dipinge una tela immaginaria. «Vuol dire che non è finita qui».

Tutti sembravano riflettere. Ma una cosa era chiara. Se il sempre formale dottor Taglieri si era lasciato andare e aveva fatto ricorso al dialetto, voleva dire che la situazione era più grave del previsto.

«Adesso facciamo le squadre di intervento. Voglio aggiornamenti due volte al giorno, rapporti quotidiani e soprattutto pretendo risultati. Annunziati e Morganti, voi vi occupate della zona di San Giuliano Campano, di Peppe ’o Cardinale e di quelle mezze seghe dei fratelli Surace. Trovateli. Disero e Cozzolino, voi…».

L’ispettore Carmine Lopresti sentì un brivido salirgli lungo la schiena e il mal di testa farsi sempre più acuto.

No. No. No.

«… interrogate Giovanni Morra e i vostri contatti sul territorio».

Bastardo. Non gli poteva fare questo per soli cinque minuti di ritardo.

«Lopresti e Corrieri, ci servono informazioni su Gennaro Rizzo. E trovate Michele Vigilante, pure se è uscito deve essere ancora rincoglionito dalla galera».

E che cazzo.

«Dottore, io veramente preferirei lavorare da solo. Sa, per preservare le mie fonti confidenziali e i miei contatti sul territorio…». Lopresti tentò un’ultima, disperata carta.

Ma Taglieri era un giocatore migliore di lui e non aveva voglia di farsi prendere per il culo: «Ispettore, non me ne frega niente del suo segreto investigativo. Qui le indagini le dirigo io e lei lavorerà in coppia col collega Corrieri, che, si fidi, ha risorse inaspettate e da cui lei avrà molto da imparare».

Corrieri continuava a fissare il pavimento e Lopresti voleva essere in un altro posto. Uno qualsiasi. Ma lontano da lì. Lontano dalla puzza della sua figura di merda.

Provò un ultimo disperato tentativo: «Dottore, io non metto in dubbio le qualità del collega. Lei però deve capire che il mio modus operandi non prevede che…».

«Basta! Non me ne frega niente del tuo modus operandi. Ma lo volete capire o no che qui rischiamo una nuova faida di Scampia?».

Il silenzio fu immediato. Le proteste morirono in gola a Lopresti. Anche gli altri strinsero muti le labbra.

Si ricordavano bene della faida. Molti di loro erano lì. Dall’ottobre del 2004 al febbraio del 2005. Oltre settanta morti in meno di sei mesi. Si sparava per le strade e nelle case, nei locali e fra la folla. Si sparava subito, senza guardare, senza sapere, senza cercare. Senza curarsi di nulla e di nessuno. Vittime innocenti, sbirri, donne, bambini, niente era un problema, zero ostacoli. Si mirava agli amici dei nemici, ai parenti, ai figli, agli abitanti di questo o quel rione, solo per far uscire dal loro nascondiglio i reali obiettivi. Da una parte la Famiglia che controllava il mercato della droga di Napoli e dintorni, dall’altra gli scissionisti che volevano una fetta più grande della torta. Un motivo banale, ma sempre valido per ammazzarsi.

Un primo colpo di pistola, quasi per caso, sottovoce, uscendo da un bar con gli amici. Il primo omicidio, un corpo che cade a terra. Sangue e cervello sull’asfalto del rione e poi tutto cominciò.

Sangue chiama sangue. Sangue si mischia a sangue.

Omicidi e torture. Incendi e funerali.

Le donne dei rioni che gettavano i vasi di gerani contro le auto dei carabinieri che effettuavano gli arresti. Tre cadaveri in un’auto bruciata. Un corpo decapitato e irriconoscibile. I fuochi d’artificio per l’arresto del boss rivale. I tre omicidi il giorno della visita a Napoli del presidente della Repubblica. L’assassinio delle madri e dei figli, dei colpevoli e degli innocenti, dei diavoli e degli angeli. Un ribollire di sangue e odio nel nome del potere e della droga, del denaro e della vendetta.

E poi la pace in un bacio.

Un bacio fra i due boss rivali in un’aula di Tribunale, in attesa di una sentenza che li avrebbe condannati a vent’anni di galera. Fu il segnale che la faida era finita e si potevano riporre le armi. Tutto doveva tornare come prima. I nemici non erano più nemici, il sangue doveva essere dimenticato e gli affari tornavano sopra ogni cosa.

Come in fondo era sempre stato. Anche nei momenti più crudeli, anche nei giorni più concitati, lo spaccio era sempre continuato, imperterrito e frenetico, fra le vele di Scampia e le piazze di Secondigliano, nei portoni dei condomini e nei cessi delle discoteche. La roba aveva sempre continuato a passare di mano. La roba teneva una vita propria, una strada sua, era un fiume in piena che non si fermava mai. La roba viaggiava e circolava, riempiva nello stesso modo gli angoli delle strade e le case della bella gente, le vene dei disperati e il naso dei ricchi: tutti per sentirsi qualcuno, e poi non sentire più niente. I soldi giravano e crescevano. E i soldi continuavano a scorrere. E a comandare.

I soldi comandano sempre su tutto.

Con quel semplice accenno il dottor Taglieri aveva raggiunto il suo obiettivo: un silenzio pesante e malato, che toglieva il respiro e si stendeva sul suo ufficio come un manto denso e uniforme. Annunziati e Morganti si fissavano i piedi. Disero e Cozzolino guardavano a vuoto la lunga fila di calendari e crest appesi alla parete. Corrieri faceva finta di cercare qualcosa in un fascicolo e Lopresti era mortificato.

«Ognuno di voi sa quello che deve fare. Mi aspetto poche chiacchiere e tanti risultati».

Tutti annuirono in silenzio.

La riunione era finita.

5.

Michele si fermò a guardare le nuvole basse. Il cielo era un ammasso di sfumature grigie che si perdevano in lontananza. L’aria era fredda e un leggero vento tirava la pelle del viso. Era una sensazione piacevole e se la voleva godere fino in fondo. Si era lasciato il carcere alle spalle, scendendo giù dalla collina e passando di fianco a quelle villette che aveva visto costruire e vivere anno dopo anno. Aveva cercato qualcuno con lo sguardo, come se potessero riconoscerlo, come se fosse parte delle loro vite. Ma non c’era nessuno. Le porte erano chiuse, le finestre vuote, e lui era stato solo un’ombra che li fissava dalla sommità della collina.

Camminava come un automa, testa bassa e passo veloce, con l’unico obiettivo di mettere più strada possibile fra lui e quel cancello d’acciaio. Ma adesso cominciava a sentirsi stanco, non aveva ancora fumato e tutto quello spazio aperto gli dava un senso di smarrimento.

In galera aveva quattro ore d’aria, due al mattino e due nel pomeriggio. Il cortile di passeggio era un cubo di cemento armato, mura alte e massicce, pavimento nudo, un rubinetto per l’acqua nell’angolo a destra e il gabbiotto della guardia a sinistra. D’inverno, con il cielo basso e pesante, sembrava un’enorme scatola di ghisa. Cento detenuti si accalcavano a parlare e a fumare. Qualcuno camminava su e giù con ritmo ossessivo, come criceti nella ruota della loro gabbietta, per svegliare le gambe e respirare aria fresca. Altri se ne stavano seduti al freddo senza far niente, fumavano e aspettavano che il tempo passasse. Lui scendeva poco ai passeggi, rimaneva sempre di più nella sua cella, sdraiato in compagnia delle macchie di muffa del soffitto. Non voleva più sentire il continuo vociare della galera, il rumore incessante di passi affrettati che camminavano avanti e indietro, quei discorsi sempre uguali e quelle facce che sembravano ripetersi all’infinito come riflesse da mille specchi. Preferiva sentire un po’ di musica, leggere, e pensare ai cazzi suoi.

O magari pensare a Don Ciro Squillante, detto Pinochet.

Ormai era morto da quasi cinque anni.

Pace all’anima sua.

Lo aveva conosciuto dopo l’ennesimo trasferimento per “opportunità penitenziaria”, dopo l’ennesimo Consiglio di disciplina, dopo l’isolamento, dopo essersi fatto rispettare. Ancora una volta.

L’avevano trasferito vicino casa, “riavvicinamento familiare”, anche se lui una famiglia non ce l’aveva più. Una motivazione elegante e burocratica per passarsi la patata bollente fra un carcere e l’altro. “Soggetto di difficile gestione, insofferente alle regole intramurarie”, era questa la sua definizione preferita. Un modo come un altro per dire che se ne stava uscendo pazzo. Erano già alcuni anni che faceva su e giù fra tutti i penitenziari d’Italia: Opera, Rebibbia, Le Vallette, e poi ancora Terni, Livorno, Frosinone, Fossombrone, e infine la Campania. Casa sua. Altro giro, altra corsa. E sempre con lo stesso biglietto di sola andata.

Ancora un giro di giostra.

Speravano che l’aria di casa potesse calmare Michele Vigilante, detto Tiradritto, camorrista e spacciatore, assassino e ricattatore, e tante altre cose belle. Ma Michele non aveva la minima voglia di calmarsi. Lui lì dentro non ci resisteva. I corridoi della sezione, le luci al neon, orari e regole da rispettare, una direttiva per ogni cosa, le sbarre azzurre sul cielo grigio, tutta roba che lo faceva impazzire. Era una pentola a pressione senza valvola di sfogo, giorno dopo giorno diventava più pericoloso, vicino a esplodere.

Si ricordava perfettamente il suo primo incontro con Pinochet.

Il brigadiere lo aveva accompagnato alla seconda nord, sezione Alta Sicurezza, cella numero 43. Era entrato a testa alta, senza dare confidenza a nessuno, trascinandosi dietro le sue borse di tela e il bustone di plastica nera del magazzino con cuscino e coperta, pronto a trovarsi di fronte un famoso boss, un uomo d’onore, una leggenda del traffico di droga. Finalmente qualcuno del suo livello, qualcuno che veniva dalla strada e che aveva dentro la rabbia della strada.

Si trovò di fronte un vecchio sorridente. Piccolo e magro, scompariva dentro il vecchio pigiama grigio. Aveva dei sottili occhiali tondi cerchiati d’oro, una stempiatura da impiegato del catasto e una barbetta bianca e ispida. Più che un boss del narcotraffico, sembrava l’aiutante scemo di Babbo Natale.

Michele si guardò attorno. Pensò a uno scherzo, si voltò verso il brigadiere.

«Superio’, mi sa che ti stai a sbaglia’».

«Nessuno sbaglio, Vigila’» disse la guardia chiudendo il cancello.

«Ma io dovevo stare in cella con Don Ciro Pinochet».

«E lui è Pinochet!».

Michele tornò a fissare il vecchio. Continuava a sorridere.

«Buona permanenza, Vigilante» disse ironico il brigadiere. «E buona giornata, Squillante».

«Buona giornata a lei, Superio’» rispose dolce il vecchio.

Il brigadiere sorrise chiudendo il blindo d’acciaio.

Michele continuava a fissare il cielo anemico mentre il ricordo di Don Ciro svaniva dalla sua mente. Si voltò a destra e a sinistra, il paesaggio attorno a lui non finiva mai. Era tutto così strano. Un dolore sordo e ritmato gli premeva sulle tempie. Poggiò a terra i pesanti borsoni, se li trascinava dietro da ore ed era arrivato il momento di accendersi una sigaretta. La prima da uomo libero.

Tirò a fondo. Il fumo acre e caldo gli riempì i polmoni. Espirò con gli occhi socchiusi cercando un senso profondo a quel momento, una riflessione degna di quel nome.

Ma non c’era.

Non c’era nessuna frase a effetto. Nessuna considerazione filosofica.

Era solo stanco.

La sigaretta e il fumo erano gli stessi dentro e fuori la galera.

Gli facevano male le braccia e tutto quel freddo gli faceva venire da pisciare.

Tirò con forza altre tre boccate. Buttò il mozzicone e riprese su i borsoni di tela. Doveva darsi una mossa, la strada era ancora lunga.

Casa sua era sempre lì, dove l’aveva lasciata. Nel quartiere di Secondigliano, a pochi passi dalla chiesa dell’Addolorata. Michele era passato davanti al Santuario. Con la coda dell’occhio aveva riconosciuto la facciata grigia e quegli scalini che da ragazzino aveva salito tante volte appresso a sua madre. Ma adesso non era più una creatura e ignorò il passato, tirando dritto verso il futuro.

Il portone di casa sua era solo un po’ più vecchio e acciaccato. Come lui, d’altronde.

Cercò nelle tasche il mazzo di chiavi, fra i gettoni del telefono e i nuovi scintillanti euro che non aveva mai visto in vita sua. Girò a fatica la chiave ed entrò. L’androne sapeva di chiuso e di muffa, e da qualche parte arrivava puzza di topo morto. I calcinacci e la polvere si erano accumulati lungo le scale e scricchiolavano sotto i piedi. Camminava in silenzio, guardandosi attorno come se tutto dovesse sgretolarsi davanti ai suoi occhi.

Arrivò nel soggiorno al primo piano, era immerso nella penombra, poggiò la sua roba a terra e si mosse a memoria fra divano e tavolino. Aprì le finestre e spalancò le vecchie persiane, che cigolarono sui cardini. Erano diventate un ammasso di ragnatele e ruggine, legno screpolato e vernice scrostata.

La luce del primo pomeriggio fece irruzione nella casa dei suoi genitori.

Si voltò, senza tanta convinzione, a osservare la stanza. Era un tripudio di mobili anni Ottanta: un divano con un motivo floreale ormai sbiadito, consumato e senza cuscini, un tavolo tondo con un portafrutta vuoto, quattro sedie accatastate in un angolo, una credenza a vetri con un servizio di piatti e bicchieri, centrini ingialliti e qualche foto incorniciata, una gondola di plastica dorata e la carta da parati stracciata.

I suoi erano morti da più di dieci anni, sua madre di una brutta malattia, suo padre di un colpo di fucile alla schiena. Cose che capitano. Aveva pianto in cella, senza farsi vedere da nessuno, e poi era andato ai loro funerali. Un permesso di necessità concesso dal magistrato di sorveglianza. Chiesa e cimitero scortato dalla polizia penitenziaria. Quattro uomini di scorta, furgone blindato e manette. Tre ore e poi di nuovo in gabbia.

Il fratello minore, invece, s’era ammazzato di droga. Dalla coca all’eroina, una pera dietro l’altra. Braccia, piedi, collo tempestati di buchi. Gli avevano detto che era finito nel buco di Scampia, un sotterraneo traboccante di tossici e disperati che si facevano in mezzo a topi e merda. Il posto più vicino all’inferno che conoscesse.

Questa volta al funerale non c’era voluto andare.

Aveva rifiutato il permesso. Meglio la galera.

Si guardò intorno. Aveva l’impressione che su ogni cosa fosse calata una patina trasparente, un velo impalpabile e sfocato. Ma in fondo era ancora tutto uguale a se stesso. Vecchio e logoro, certo, ma pur sempre identico nella memoria. Per un istante ebbe l’assurda sensazione che nulla fosse veramente cambiato, che quegli anni non fossero trascorsi, e che lui fosse ancora quel guaglione di belle speranze che rubava i motorini e girava fra i tetti di Napoli. Senza droga e senza morti, senza galera e senza coscienza. Da un momento all’altro sarebbe comparsa sua madre dalla cucina, con il grembiule a fiori e le ciabatte consumate, strascicando leggermente i piedi, con la faccia stanca di chi lavora da una vita e gli occhi incazzati di chi non approva le amicizie del figlio. Un urlo in dialetto, un altolà carico di rabbia. A tavola era pronto e lui doveva andare a cercare il fratello.

Ma non comparve nessuno.

In tavola non c’era nulla, e suo fratello era concime.

Il silenzio era assordante. Un silenzio grave e profondo a cui non era più abituato. Sentiva il proprio respiro regolare e il pulsare delle vene.

Era solo.

Cercò un’altra sigaretta. Ma poi si fermò. La madre non voleva che si fumasse in casa. Sorrise del ricordo pensando che fosse una cosa stupida, ma decise ugualmente di andare ad accendersela sul balcone.

Fece solo due passi quando dalla finestra sentì il rombo di un motore truccato e lo stridio delle gomme, lo sbattere delle portiere, lo sprazzo di un cantante neomelodico dall’autoradio.

Aprirono il portone.

Avevano le chiavi.

Radio Carcere aveva già fatto il suo dovere, efficace e diretta come solo le chiacchiere dei detenuti sanno essere. La notizia della scarcerazione si era diffusa rapida e densa come la puzza di letame. Un meraviglioso tsunami di merda. Non era passata mezza giornata da quando era uscito e c’era già chi pensava a lui.

Ma che bella cosa gli amici.

Il comitato di accoglienza entrò senza chiedere permesso, con l’arroganza dettata dalla stupidità. Porta spalancata e facce incazzate. Due guaglioni come tanti, poco più che ventenni, come ne entravano a strafottere in galera: erano la fotocopia di chillu guaglione. Ma questi avevano ancora le facce lisce lisce di chi dietro le sbarre non ci aveva nemmeno pisciato.

Si sentì un po’ offeso che dopo tanti anni di villeggiatura mandassero due pisciaturi ad accoglierlo, pensava di meritare un maggior riguardo. Forse, dopo tutto quel tempo, qualcuno si era dimenticato di chi fosse e di quello che aveva fatto.

Lui odiava la mancanza di rispetto.

«Sei tu a Michele Vigilante?».

Michele lo squadrò da capo a piedi, indeciso se mettersi a ridere o spaccargli la faccia. Era una versione improbabile di Cicciobello camorrista. Grasso e goffo, poco più alto di lui, il viso rotondo e paffuto con tanto di doppio mento molliccio, una barbetta incerta da ragazzino e i capelli rasati. Ostentava orgoglioso il ventre prominente, manco fosse stato una vacca al mercato. Era vestito con la solita tuta di marca e un giubbotto di pelle aperto. Dietro di lui il suo amico silenzioso, era piccolo e tarchiato con un collo taurino da palestra, e le vene gonfie di steroidi.

Due emeriti deficienti. Ma Michele non dubitò che fossero armati.

«T’agg chiest’ se si’ tu Michele Vigilante» ripeté incazzato.

Michele sorrise benevolo. Cominciava a divertirsi.

«Chi lo vuole sapere?».

«Amici».

«E mi dispiace, io amici nun ne teng’. Song stato fuori per tanti anni e adesso nun conosc’ cchiù a nniscun».

«Guaglio’, ma che tieni voglia di scherzare?».

Michele sbarrò gli occhi. Non credeva alle proprie orecchie. Quella palla di grasso e merda s’era permesso di chiamarlo “guaglio’”. No, non poteva essere. Il suo cervello si rifiutava di accettare la cosa, ma le orecchie erano sicure di aver sentito bene.

«Senti, Miche’, cerca di non fare lo spiritoso. Cà nun teniamo tempo da perde, e teniamo la Mercedes in mezzo alla strada…».

Il grassone parlava e parlava, ma Michele era come in trance. Lo stupore lo aveva travolto. Il cervello era andato in tilt e nella testa risuonava solo quella parola.

Guaglio’. Guaglio’. Guaglio. Guaglio’.

«Siamo venuti a prenderti perché ci sta chi ti vuole vedere, chi ci tiene a incontrarti, perché forse puoi dare ancora una mano, e noi non ci dimentichiamo di chi s’è fatto la galera, anche se non ritirava più la mesata, anche se s’era dimenticato degli amici…».

Michele fissava la bocca del grassone. Le parole arrivavano lontane e ovattate, un’eco indistinguibile a cui non faceva più caso. I suoi occhi erano puntati su quella bocca, fissi su quel forno scuro da cui uscivano pagnotte di letame. E in mezzo a tutto quello schifo brillava qualcosa… un diamante. Un diamante incastonato fra gli incisivi del grassone.

Ma che d’è sta schifezza?

«… e questo nostro amico è una persona dal cuore grande che sa punire e perdonare, che tiene carità cristiana. Don Peppe ’o Cardinale vuole parlare con te e…».

Quel nome risvegliò Michele dal suo torpore. Tolse lo sguardo dalla bocca con diamante del grassone per fissarlo negli occhi.

«E che bella chiavica di amicizie ca’ tenet!».

Fu come una frustata. Il grassone si zittì sbarrando gli occhi. Il silenzioso palestrato si irrigidì, le vene del collo si gonfiarono ancor di più.

Song permalosi i ragazzi.

«Ma cume te permitt?». Cicciobello fece un passo avanti. «Tu nun si’ nient davanti a Zì Pepp». Ancora un passo avanti. Uno di troppo. «E se noi siamo venuti qua, pe’ ’na merd cumm’atte…». Allungò una mano spingendolo via.

E questo fu decisamente troppo.

Michele partì in avanti. Niente chiacchiere. Nessuna minaccia. Nessun preavviso. Una testata in piena faccia. Schiena e collo rigidi per imprimere forza. Un ringhio muto fra i denti stretti.

Sentì il rumore del setto nasale che si rompeva. Uno schiocco secco e cattivo. Un mugolio di dolore e Cicciobello camorrista si portò le mani alla faccia.

Michele si mosse rapido verso il palestrato. Inesorabile e silenzioso. Il ragazzo non fece in tempo a tirare fuori la pistola. Michele lo colpì alla gola. Una compressione feroce del pomo d’Adamo che toglie il fiato e stordisce, e poi un altro colpo sempre alla gola, mirato e profondo. Con un po’ di fortuna gli avrebbe sfondato la carotide.

Il vecchio camorrista si voltò verso il grassone che ululava di dolore, la faccia era una maschera di sangue e il naso un ammasso informe di ossa rotte. Si muoveva goffo verso Michele, accecato dalla rabbia e dal dolore. Michele invece era lucido, perfettamente padrone di sé, calmo e senza rabbia. Dopo venti anni di carcere e chissà quante colluttazioni con altri detenuti spavaldi, o tossici in crisi di astinenza, aveva imparato dove colpire, aveva imparato a muoversi negli spazi stretti delle celle, ma soprattutto aveva imparato come fare male.

Lo colpì con un calcio frontale. La pianta del piede contro il ginocchio della gamba d’appoggio. Di nuovo un rumore secco e cattivo. Cartilagine e tendini che si rompono. Il ginocchio che si piega all’indietro in modo innaturale.

Un rantolo di dolore riempì la stanza e il grassone cadde a terra. Michele si avvicinò con calma. Il ragazzo urlava tenendosi la gamba spezzata. Offriva il capo scoperto.

Michele pensò che in fondo era fin troppo facile. Gli assestò un pugno alla tempia. Caricò il colpo dall’alto verso il basso, con tutta la forza e il peso del proprio corpo. Il ragazzo vide solo un’ombra fra le nebbie della sofferenza, non ebbe il tempo di muoversi mentre le nocche gli sfondavano la parete molle del cranio. Il ciccione cadde disteso a terra come un sacco vuoto, finalmente zitto.

Vederlo crollare fu come vedere un budino sbattuto su un piatto. Faceva vagamente schifo.

Michele tornò dal palestrato che era riverso a terra, boccheggiava con le mani alla gola cercando inutilmente di respirare, il viso era diventato paonazzo e le vene del collo si erano gonfiate per la mancanza d’aria. Sembrava un pesce cacciato a forza dal suo acquario mentre si dibatteva prima di morire.

Vigilante gli tirò un calcio alle palle.

Odiava lasciare il lavoro a metà.

Allungò di qualche passo e aprì la credenza dei suoi genitori. Uno sguardo veloce fra piatti e bicchieri e trovò quello che cercava, la bomboniera della prima comunione di suo fratello. Uno di quegli animaletti di cristallo Swarovski, inutili e pacchiani, il cui unico scopo era prendere polvere infilato e dimenticato da qualche parte. Era un orsetto dalla faccia buffa, pesante e spigoloso.

Lo soppesò.

Perfetto.

Il palestrato aveva più o meno ripreso a respirare, ma il dolore alle palle lo teneva piegato. Il primo colpo lo raggiunse sopra l’orecchio e aprì un profondo taglio. La testa cadde a terra con un tonfo innaturale. Michele si chinò in avanti per continuare il lavoro. Il secondo colpo fu alla fronte. Altro sangue sul pavimento. Sua madre si sarebbe arrabbiata di tutta quella schifezza da pulire. Ma ormai era tardi, lei non c’era più, era morta e sepolta, e lui non aveva più voglia di pensare, spense il cervello e continuò in automatico, come gli era stato insegnato tanti anni prima.

Altri colpi e altro sangue. Il palestrato ebbe un ultimo sussulto e poi svenne definitivamente. Michele gli frugò nelle tasche e trovò la pistola. Una calibro 9 parabellum di fabbricazione jugoslava, marca Zastava. La conosceva, in passato gli era toccato usarla, era un’arma dalla meccanica semplice ed efficace, indistruttibile e precisa come tutti i ferri di quel calibro. Guardò la canna, era senza matricola. Di sicuro il regalo di qualche delinquentello albanese. Roba da poco, puttane e hascisc, con un piccolo regalo per gli amici italiani.

Controllò anche il grassone, ma lui era disarmato. Strano, forse si considerava veramente intoccabile. Errori di gioventù.

Lo fissò di nuovo. La bocca era aperta e sembrava baciare il pavimento, la lingua che spuntava fra i denti. Un rivolo di sangue usciva dall’orecchio disegnando una sottile linea lungo il collo. Gli occhi erano ribaltati. Ma respirava ancora.

Un lieve brillare fra le labbra. Il diamante.

Michele si tirò su e rifletté sul fatto che quella si stava rivelando una giornata fin troppo impegnativa e lui in fondo non era più un ragazzino, cominciava a sentirsi stanco. Prese fiato, sbuffò con forza e sferrò un calcio su quella bocca di merda che l’aveva chiamato guaglione. Gli incisivi resistettero.

Ce ne volle un altro, e un altro ancora, ma alla fine i denti si spezzarono e il diamante cadde a terra. Lo raccolse e lo guardò nella penombra della stanza. Non ne capiva nulla di gioielli ma a ogni buon conto se lo infilò in tasca.

Sentiva le braccia tremargli per lo sforzo e l’adrenalina. Stringeva ancora la bomboniera di cristallo, era coperta di sangue e anche le mani lo erano. Ma la cosa non lo turbava. Non lo aveva mai turbato.

Rimise a posto l’orsetto insanguinato fra le tazzine e i piatti della credenza, stando attento a non rompere nulla. Suo fratello avrebbe apprezzato il gesto.

In fondo la famiglia è sempre la famiglia.

Ma non aveva ancora finito. Sua madre aveva cercato di dargli una certa educazione, e sapeva che era ora di rimettere a posto e di buttare la munnezza.

Trascinò il corpo del grassone per i piedi, attraverso la sala e giù lungo le scale. Dalla bocca uscivano fiotti di sangue che macchiarono il pavimento, disegnando una pista che sembrava inseguirlo. La testa sbatteva contro ogni singolo scalino mentre scendeva, tonfi sordi e ritmati mentre lui aveva solo voglia di una sigaretta. Lasciò il corpo in fondo alle scale mentre il ragazzo emetteva un flebile lamento.

Con il palestrato fu più semplice. Era magro e tonico, e scivolava sul pavimento che era un piacere, ma la scia di sangue era più densa e scura, le ferite aperte sul cranio continuavano a sgorgare. Anche in questo caso sentì i rassicuranti tonfi sugli scalini. Gli veniva da sorridere, ma fu solo un attimo. Non voleva mancare di rispetto a nessuno, nemmeno a quei due stronzi. Erano passati troppi anni da quando si comportava con arroganza e strafottenza, e non voleva tornare indietro.

Abbandonò i corpi davanti alla Mercedes parcheggiata in doppia fila. Qualcuno si sarebbe occupato di loro. Una vedetta dai tetti o un passante premuroso avrebbe dato l’allarme. Dopotutto erano ancora vivi.

Malmessi ma vivi.

Michele rifletté sul fatto che tanti anni prima, una vita fa, probabilmente li avrebbe finiti con un colpo di pistola alla nuca e avrebbe buttato i corpi in qualche fosso. Ma adesso non più. Le cose cambiano e anche le persone. Gli anni passati gli pesavano addosso e lui si stava facendo vecchio.

Rientrò in casa sbarrando il portone, non prima però di aver spezzato la chiave dei ragazzi dentro la serratura. Nessuno potrà entrare. Almeno per ora.

Salì di nuovo le scale. La polvere e i calcinacci erano sempre lì, stavolta impastati con il sangue dei due guaglioni.

Si sentiva stanchissimo, di una debolezza nuova e sconosciuta. Un sottile brivido gli attraversò il corpo. Le braccia e le spalle pesavano, il collo era rigido e indolenzito e la testa gli faceva ancora male dopo aver rotto il naso del grassone. Si accese finalmente la sua sigaretta e decise di fumare in casa.

Mamma mi perdonerà, per questa volta.

Tornò nella sua vecchia camera e poggiò la pistola sul comodino. Fuori si stava facendo buio e a casa non c’era la corrente, era stata tagliata anni prima quando erano morti tutti. Si stese vestito sul letto fra polvere e ragnatele. Si mise a fissare il soffitto e sentì il corpo che si rilassava. Aveva le mani sporche di sangue e la gola che bruciava per il fumo. Ma era troppo stanco. Buttò la sigaretta in un angolo e si addormentò.

6.

Il piccolo bar aveva una aria consumata e stanca. Silenziosamente adagiato su se stesso, sembrava una scheggia del passato conficcata nel cuore di Milano. A poche centinaia di metri dal carcere di San Vittore, affinché ogni cosa avesse il suo posto nel mondo.

Il lungo bancone opaco e ammaccato, le mattonelle a quadrati bianchi e neri, la macchinetta del caffè fumante e profumata, i tavoli di formica grigia e una lunga lista di liquori Nazionali: Fernet, Cynar, Branca Menta, Amaro del Capo. Niente rum o whisky di pregio, niente preparati per cocktail alla frutta. Quello era un altro tipo di bar.

Il vecchio al tavolo beveva con calma il suo caffè al vetro.

Era sera, ma al suo caffè non sapeva e non voleva rinunciare, e in ogni caso non sarebbe riuscito a dormire lo stesso. L’età, i pensieri e le responsabilità di un capo lo tenevano sveglio, e lui ormai si era abituato così.

Il barista, corpulento e silenzioso, sistemava le tazzine e rassettava il bancone, lo strofinaccio umido appoggiato con noncuranza su una spalla. Movimenti consueti e ripetuti, senza fretta e senza pensare a nulla. Era quasi l’ora di chiudere, gli ultimi clienti erano già andati via salutando e ripiegando la Gazzetta dello Sport. Rimanevano solo il vecchio e la sua tazzina di caffè.

Ma lui poteva restare quanto voleva. Lui era Don Aldo.

Lui era un Mammasantissima.

Era un santista. Uno dei trentatré uomini della Santa. L’organizzazione interna alla ’ndrangheta i cui membri potevano avere rapporti e contatti con i non affiliati e con coloro che appartenevano ad altre organizzazioni. Il loro compito era semplice e necessario: intessere rapporti, corrompere gli incorruttibili, mandare avanti gli affari, ottenere il potere, compiere vendette. Le loro parole erano venerate ed eseguite, senza obiezioni e senza remore, con l’oscuro e assoluto affidamento del sangue.

Erano le parole della Santa.

Don Aldo era lì a Milano da anni, a centinaia di chilometri dalla sua Calabria, proprio per questo. Per gestire e controllare. Decidere e condannare. Sempre e comunque per il benessere dell’Onorata Società.

Tutta la sua vita aveva avuto come unico scopo l’organizzazione e il rispetto delle sue regole. Una carriera fatta di devozione assoluta e sangue, nato da famiglia seria e onorata. A quattordici anni ebbe il suo battesimo ed entrò nella ’ndrina. Fu giovane e volenteroso picciotto alla fine della Seconda guerra mondiale, fra americani ubriachi da derubare e tedeschi infami da seppellire, fra contadini da educare e pizzo da riscuotere. Imparò il mestiere negli anni Cinquanta, quando arrivavano i soldi degli emigrati al Nord e gli affari si facevano con il cemento e gli appalti, e ovviamente con le estorsioni. Poi fu sgarrista, e il suo compito era di riscuotere le tangenti, un compito che assolveva con assoluta diligenza e malcelata gioia, era giovane e la violenza lo faceva sentire vivo. Era un brivido di piacere puro che lo attraversava. Un formicolio di godimento fino all’ultimo angolo del suo corpo. Amava l’assoluta sensazione di paura che ispirava negli altri. Amava la voce che tremava e gli occhi bassi di chi era dinanzi a lui, uomini e donne, giovani e vecchi. La loro paura lo riempiva e lo nutriva, lo avvolgeva e lo stritolava come una droga.

Ma gli anni passarono e le cose cambiarono. Lui crebbe e capì che il potere non era nulla senza il rispetto, e se il sangue si poteva lavare via, la paura, invece, restava attaccata alle persone per sempre. Era come un’ombra sulla faccia, una luce grigia negli occhi che lui non aveva mai avuto, ma sapeva riconoscere negli altri. Divenne un capobastone mentre la prima guerra di ’ndrangheta negli anni Settanta riempiva i cimiteri e concimava la terra con oltre trecento morti. Ma le guerre iniziano e finiscono, le alleanze nascono e muoiono, i morti tacciono e gli affari prosperano. Arrivò il grande traffico della cocaina, i viaggi in Sudamerica, i fiumi di denaro da ripulire, e gli affari da gestire, tante cose erano cambiate, il mondo non era più lo stesso, e anche lui cambiò di nuovo.

Divenne santista.

Ma non si era fermato lì. Don Aldo aveva ostentato negli anni della gioventù ferocia e crudeltà, ma negli anni della maturità aveva dimostrato di saper usare anche il cervello, e di non avere mai pietà per chi si opponeva alla Società. E così aveva continuato a salire i ranghi dell’associazione, fu richiamato in Calabria e in un casolare abbandonato, davanti agli uomini d’onore, fu nominato “Vangelista” e poi “Quartino”. E infine, dopo la morte di chi lo precedeva e con il benestare del Consiglio, egli stesso era diventato “Associazione”.

Il grado ultimo e massimo. L’apice dell’organizzazione criminale.

Il potere assoluto.

L’inconsapevole e indaffarato barista non sapeva fin dove il potere di Don Aldo fosse arrivato e lui non aveva interesse a che lo sapesse. Non tutti gli uomini erano in grado di conoscere e comprendere, non ne erano degni; e la ’ndrangheta ci teneva a mantenere un profilo basso, a comandare nel silenzio, rumore e strepiti fanno male agli affari, e il potere non si ostenta, si esercita.

Ma il barista in fondo era un bravo cristiano. Rispettoso e silenzioso. Due grandi qualità per un picciotto.

Don Aldo gli sorrise mentre girava ancora una volta il suo caffè. Era tardi. Si sentiva stanco ed era arrivato il momento di andare via. Per oggi gli affari erano finiti.

Nel locale c’era stata la solita processione di affiliati che venivano a chiedere consiglio e a ricevere ordini. E lui aveva preso le sue decisioni: un nuovo carico di cocaina dall’Ecuador e l’omicidio di un affiliato in Germania. Il ragazzo aveva sbagliato e occorreva punirlo per dare il buon esempio. Nulla di particolare. Ordinaria amministrazione.

Don Aldo finì l’ultimo sorso del suo caffè. Buono, con tanto zucchero, come piaceva a lui. Poggiò la tazzina e si alzò stando attento alla schiena dolorante e agli acciacchi dell’età, quando la porta del bar si aprì per un nuovo cliente.

Il barista provò a protestare che erano chiusi, ma non era il caso.

Sapeva quando stare zitto.

Giovanni Treccape non lo degnò di uno sguardo e raggiunse Don Aldo. Un lieve cenno del capo per mostrare il dovuto rispetto. Don Aldo fissò la sedia davanti a lui. Se Giovanni teneva bisogno di parlare era cosa seria e serviva un altro caffè.

«Don Aldo, perdonate l’ora e il disturbo».

Il vecchio fece un cenno infastidito con la mano, quasi a scansare quelle parole. Fra di loro non c’era bisogno di tante formalità, si conoscevano da una vita. Don Aldo lo aveva tenuto a battesimo, lui come anche i suoi figli. Una famiglia onorata, figli e padri di uomini onorati. Giovanni era un capobastone e di lì a qualche anno sarebbe sicuramente diventato un santista. Questo era poco ma sicuro. Parola di Don Aldo Terucci.

«Teniamo un problema» continuò Giovanni mentre il barista si dava da fare con la Cimbali. Sempre silenzioso, sempre a cuccia nel suo angoletto dietro il bancone. «Tiradritto ha finito la villeggiatura».

Don Aldo alzò un sopracciglio. Durante la condanna a morte emessa poche ore prima era rimasto impassibile, ma adesso la cosa era diversa. La questione stavolta era personale.

«Ma non teneva ancora tempo?».

«I giorni».

Don Aldo annuì, non aveva bisogno di ulteriori spiegazioni. Arrivò il suo caffè. Lo bevve con calma mentre Giovanni rimaneva in assoluto silenzio. Entrambi sapevano della pagliacciata al cimitero di pochi giorni prima. Certo non era casa loro, non erano i loro uomini, non erano i loro affari, ma la notizia si era diffusa.

«Io alle coincidenze non ci credo».

Una frase che poteva essere una sentenza. Il vecchio ’ndranghetista non era uomo di troppe parole, e a volte i sottintesi sono più chiari di qualsiasi discorso.

«Ci devo regalare le scarpe nuove?». Un modo come un altro per chiedere se doveva ucciderlo. Giovanni stava cercando l’autorizzazione della Santa.

«Non lo so» rispose calmo il vecchio. «La gente è quella, ma ancora non sappiamo se lui è pecora o lupo».

«Ma se lui è lupo, io sono pecora». Giovanni ripensò a tanti anni prima, a quell’unico errore nella sua brillante carriera di uomo d’onore. Un errore che adesso aveva finito la galera.

«No. Tu non sei pecora. Sei santista» disse il vecchio stizzito.

Giovanni sgranò gli occhi.

«O comunque lo sarai presto. E quindi devi stare calmo e non fare nulla. I napoletani non hanno voluto risolvere la questione in tanti anni di galera e non dobbiamo essere noi a fare il lavoro per loro» sentenziò Don Aldo.

Giovanni pareva deluso. Non gli piaceva aspettare senza far nulla. Voleva risolvere la questione, voleva dormire tranquillo.

Voleva uccidere Michele Vigilante.

«Certo, se gli amici campani ti chiedono un favore… Sarebbe maleducazione non dare una mano. È questione di buon vicinato». Don Aldo aveva parlato e Giovanni sapeva leggere fra le righe. L’organizzazione non comandava nulla, ma non avrebbe protestato. Il messaggio era chiaro. Se certe cose devono succedere, è giusto che sia così. Nessuno sarebbe andato a chiedere conto. Giovanni ringraziò il suo padrino di battesimo.

Il vecchio sorrise alzandosi dal tavolo. «E adesso andiamo che è tardi e qui stanno per chiudere».