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Ci si libera solo di quello
che si possiede

Giovedì, 21 gennaio 2016,

Sant’Agnese, vergine e martire

1.

La Beretta calibro 9 è un’arma perfetta. Potente, precisa, indistruttibile. La sua forza è l’apparente semplicità, un ammasso di leghe d’acciaio di poco meno di un chilo, con funzionamento semiautomatico a corto rinculo e chiusura geometrica a blocco oscillante. In grado di far viaggiare un proiettile per oltre un chilometro, con una velocità iniziale di 380 metri al secondo e una forza di penetrazione senza eguali. Una canna in acciaio nichel-cromo, brunita all’esterno e cromata all’interno con sei righe destrorse a passo costante che imprimono rotazione e potenza alla pallottola. Il serbatoio di alimentazione, o caricatore, è bifilare, rastremato in alto con presentazione monofilare e può contenere 15 cartucce in calibro 9 millimetri parabellum.

L’uomo poggiò la pistola sul tavolo di fronte a sé. La fissò ammirato. Ne era sempre stato affascinato. Ma non in quanto arma in sé, di quelle non era mai stato un grande appassionato, bensì come oggetto meccanico, esempio di compiuta organizzazione, di organismo e struttura perfettamente calibrati e finalizzati a uno scopo, un po’ come certi orologi da tavolo del Settecento. Migliaia di minuscoli componenti che si muovono simultanei e coordinati solo per eseguire un’azione in maniera impeccabile.

15 cartucce calibro 9 millimetri parabellum.

E con il colpo in canna fanno 16.

Rifletté sul fatto che forse non sarebbero bastate. Una considerazione lucida e operativa, come quella di una massaia che, avendo tanti ospiti a cena, deve preparare e dosare bene gli ingredienti prima di mettersi a cucinare. Un chilo di questo, una manciata di quello, sale qb.

Scuotendo la testa decise di riempire un altro caricatore. Si sedette al tavolino e cominciò a inserire le cartucce una dopo l’altra, con movimenti fluidi ed esperti, una leggera pressione del pollice, e poi ancora una, e ancora, e ancora.

Sempre con assoluta calma.

2.

Michele si sentiva la schiena a pezzi. Un dolore sordo che partiva dal basso e saliva fino al collo, come se un peso lo schiacciasse a terra, come se per lui la forza di gravità valesse doppio. Aveva dormito in macchina, sedile reclinato e freno mano fra le palle, svegliandosi ogni dieci minuti. Incredibile a dirsi, aveva rimpianto la branda del carcere, e stavolta non teneva neanche le macchie sul soffitto da fissare, ma solo il tettuccio scrostato de chillu cess’ de machena de Pepè.

Appena aveva cominciato a fare giorno l’aveva abbandonata in una zona di risulta fra preservativi usati e fazzoletti di carta, bottiglie rotte e qualche copertone accatastato. Aveva impiegato mezz’ora per staccare le targhe, sgonfiare le gomme e sfondare un paio di finestrini, ma il risultato era soddisfacente. Adesso sembrava solo un vecchio rottame abbandonato da chissà quanto tempo, nessuno l’avrebbe degnata di uno sguardo. In quanto alle coppiette che si appartavano lì… be’, quelle avevano ben altro per la testa, e di una vecchia macchina scassata se ne fregavano altamente.

Certo, lui ora era un uomo libero, poteva muoversi a proprio piacimento e fare quello che voleva, e, udite-udite, aveva pagato il suo debito con la giustizia, ma in ogni caso non voleva problemi e tantomeno essere rintracciato da nessuno: polizia, vecchi amici o Schiattamuorto che fossero, aveva bisogno del suo tempo e quindi era meglio essere prudenti.

Aveva pagato il suo debito con la giustizia: ’sta frase gliel’aveva detta qualche settimana prima quel rincoglionito dello psicologo, e per poco Michele non aveva ceduto all’impulso di prenderlo a schiaffi. Come se certe cose si potessero lavare via con un colpo di spugna, come se ci fosse un interruttore dietro la testa che ti spegne i ricordi, cancella i rimorsi o acquieta la rabbia. Quelle sono cose che non se ne vanno, ti restano addosso, si infilano sotto pelle, dentro la carne; puoi far finta di non accorgertene, o convincerti che non ci siano, ma se sei onesto con te stesso, se ti fermi un attimo a riflettere, capisci che sono sempre là, immobili e immutabili, silenziose e presenti. E allora che fai? Te ne scappi e fai finta che va tutto bene? O ci rinunci, le accetti e le abbracci fino in fondo, fino all’ultimo ricordo, fino all’ultimo rimorso, fino all’ultima goccia di rabbia e sangue?

Michele aveva deciso di non spegnere l’interruttore nella sua testa, aveva deciso di ricordare ogni cosa, bella o brutta che fosse, e aveva deciso di saldare i conti che teneva aperti da tanti anni, per lui non ci sarebbe stato nessun colpo di spugna.

Aveva portato via dalla macchina le borse di tela da carcerato: quella con i vestiti e la catenina di Padre Pio l’aveva buttata in un cassonetto sul ciglio della strada, quella con i soldi l’aveva ripiegata e se l’era infilata stretta sotto il braccio. Dopo aver camminato per più di un chilometro aveva fatto scivolare le chiavi della macchina in un tombino e si era allontanato mentre il sole cominciava a rischiarare il cielo.

Di Milano conosceva poco o niente. C’era stato un paio di volte da guaglione per questioni d’affari, e da carcerato aveva conosciuto le prigioni di San Vittore e Opera, brevi permanenze, poi l’avevano impacchettato di nuovo. Ma qualcosa se la ricordava ancora, anche perché adesso si ritrovava proprio dalle parti del carcere di Opera e riconosceva le strade che vedeva dal furgone della polizia penitenziaria mentre lo traducevano da una parte all’altra della città, ospedali o altri istituti che fossero.

Facendosela a piedi senza fretta arrivò alle torri del Vigentino, dove fa capolinea il tram 24. Sulla banchina in cemento un immigrato pakistano vendeva la sua mercanzia fatta di foulard, accendini, cover di cellulari e cazzate varie. Michele gli chiese le indicazioni di cui aveva bisogno, ben consapevole che quello con la polizia non ci avrebbe mai parlato, il vu cumprà fu gentile e rapido nel dare le risposte e non provò a vendere qualcuna delle sue chincaglierie, perché aveva capito con un solo sguardo che il tizio che si trovava di fronte, rasato a zero, con la faccia segnata da occhiaie scure e un forte odore di sudore stantio, non faceva parte della solita clientela di pendolari e studenti delle superiori, aveva occhi rabbiosi e profondi che lo fissavano dritto in faccia scavandogli dentro.

Il pakistano si sentì subito a disagio, una indefinita sensazione di inquietudine, parlò rapido e spedito. Voleva solo che quel tizio se ne andasse subito. Michele non lo ringraziò, prese dal banchetto un accendino e si avviò lungo via Ripamonti.

Era ancora presto e una camminata era quello che ci voleva. Si fermò in un bar per un caffè che faceva schifo e un cornetto che sembrava fatto di cartone. Continuò verso zona Corvetto superando cavalcavia e circonvallazioni, alimentari arabi aperti H24 e palazzi popolari su cui spiccavano come funghi antenne paraboliche, phone center e transfer money per comunicare e spedire soldi negli angoli più disparati del mondo, e poi ancora pizzerie e kebab con facce mediorientali dietro il bancone, sale massaggi con signorine cinesi pronte a tutto, sale scommesse e bar con l’ultimo ubriaco della notte precedente, o forse il primo della giornata. Mancavano solo le puttane rumene, ma quelle avevano già smontato e a quell’ora dormivano, tre in un monolocale sudicio, con soppalco e cesso, da usare a turno, il tutto per ottimizzare l’investimento, manco si trattasse della monta delle vacche in una stalla industriale. Erano sempre silenziose e impaurite, ma soprattutto e obbligatoriamente puntuali nel consegnare i soldi al solito pappone albanese, che poi pagava la percentuale alla famiglia che controllava la zona, calabrese o campana che fosse. Una catena di comando e di interesse in cui le ragazze erano l’ultimo e insignificante gradino, tanto per ognuna che spariva, moriva o scappava, ce n’erano altre dieci che arrivavano da qualche sperduto angolo dell’Africa o dell’Est Europa. La carne fresca, lungo le strade, non mancava mai.

Michele arrivò all’indirizzo che cercava. Era un portone anonimo, con gli infissi in metallo e i vetri smerigliati antisfondamento, ma qualcuno c’aveva provato ugualmente e il pannello in basso era una ragnatela di crepe. Si sentiva un vago odore di piscio e birra, ricordino di qualche buontempone notturno, e lì a fianco un tizio indiano spazzava il marciapiede cercando di pulire l’ingresso del suo negozio dai frammenti delle bottiglie rotte.

Michele cercò il suo uomo nella doppia fila di campanelli, più della metà aveva nomi che lui non riusciva a leggere, molti direttamente in arabo, ma verso la fine della seconda colonna trovò quello che cercava: DE MARCO UMBERTO, AVVOCATO.

Suonò il campanello e non ottenne risposta. Guardò l’orologio, erano solo le otto e mezza ma lui non aveva la minima intenzione di aspettare, si attaccò di nuovo al citofono tenendo premuto fin quando non lo sentì gracchiare.

«L’avvocato non è ancora a studio. Deve ripassare più tardi». Era una voce impastata e catarrosa. Diversa da quella di tanti anni prima, ma Michele la riconobbe lo stesso.

«Umberti’, song’ Michele Tiradritto».

Dall’altra parte vi fu un silenzio prolungato, il tempo necessario a far tornare alla mente i fantasmi del Natale passato. Michele aspettò in mezzo alla strada mentre il tizio indiano, scopa in mano, gli lanciava occhiate dense di preoccupazione. Dopo qualche secondo si udì finalmente l’apertura elettronica del portone. L’indiano tornò rapido a farsi i cazzi suoi raccattando gli ultimi cocci mentre lui entrò nell’androne del palazzo. La puzza continuava anche dentro, o forse era proprio da lì che veniva, mischiandosi a odori di spezie e cucine esotiche. Come nella migliore e più banale tradizione dei posti squallidi, l’ascensore era rotto, quindi Michele si avviò lungo le scale sino al terzo piano.

Il portone era socchiuso e una targhetta di ottone opaca e graffiata indicava, con grafia svolazzante e pretenziosa, che quello era lo studio dell’avvocato De Marco. Michele fissò il nome inciso mettendo a fuoco il proprio riflesso distorto, fece un sorriso sbilenco ed entrò. Gli odori lo raggiunsero come una mareggiata, riempiendogli le narici: muffa, sudore, chiuso, ma soprattutto l’effluvio dolciastro dell’incenso mischiato al fumo e al puzzo di bruciato, un aroma intenso e penetrante di quelli che ti si appiccicano addosso come un miele cattivo che non va più via.

«Umbe’, sono io. Dove stai?». Non ottenne risposta ma seguì il mellifluo aroma che riempiva il corridoio. Si guardò intorno e capì subito che quei locali fungevano da studio e da casa per l’avvocato: ovunque era il caos, pile di libri accatastati a terra, riviste buttate negli angoli, scarpe, ombrelli, vecchi giacconi gettati su un ancor più vecchio attaccapanni, una stampante distrutta e un PC impolverato impilati alla bene e meglio. Superò l’ingresso della cucina da cui vide un lavandino stracolmo di piatti, pentole sporche e troppe bottiglie vuote. In fondo al corridoio l’ultima porta aperta da cui arrivava la luce del giorno e l’aroma dell’incenso.

Michele entrò a passo deciso, con la voce alterata dai nervi e dalla stanchezza.

«Umbe’, tagg’ ditt che song’i. Michele Tiradritto».

L’avvocato stava seduto dietro una scrivania di falso legno massello cercando di darsi un tono con un fascicolo processuale e qualche codice aperto, fingendo di essere impegnato in chissà quale elucubrazione giuridica, ma la recita era del tutto inutile: con i capelli spettinati, la barba arruffata, la faccia pallida e i vestiti sgualciti di chi ci ha dormito dentro, non sembrava nulla di più di quello che era. Un tossico. Uno della peggior specie, quelli che si fanno con qualsiasi cosa gli capiti a tiro, che si distruggono piano piano, giorno dopo giorno, passando da una droga all’altra come se fossero bicchieri d’acqua.

Michele l’aveva conosciuto tanti anni prima, quando era uno degli avvocati di grido delle famiglie campane, uno di quelli che si pigliavano milioni di lire solo per starti a sentire, ma poi i soldi erano diventati troppi e i vizi pure. A Umberto piaceva fare la bella vita e aveva cominciato a pippare coca manco fosse un aspirapolvere. Non che fosse una cosa nuova nel giro dei tribunali, ma mentre tanti altri riuscivano più o meno a contenersi, a darsi una regolata, l’avvocato De Marco, invece, la moderazione non sapeva nemmeno cosa fosse. Dopo qualche tempo cominciò a farsi pagare direttamente in coca, alle famiglie non dispiaceva più di tanto perché in fondo così gli costava di meno, e lui poteva darci dentro alla grande. Lavorava come un pazzo, fino a venti ore al giorno, prendeva sempre più clienti, sempre più soldi e sempre più coca. Pippava da mattina a sera, tra una causa e l’altra nei bagni del tribunale, a studio di fronte ai clienti fidati, ci mancava poco che lo facesse davanti al giudice in udienza. Era costantemente su di giri, accelerato e iperattivo, e alla fine ruppe il suo equilibrio fatto di coca e lavoro e cominciò ad andare in tilt, ciononostante continuò ad avere il suo giro di clienti affezionati, vecchi e nuovi boss che lo tolleravano, perché quando era lucido era un vero e proprio genio del diritto, riusciva a ribaltare sentenze già scritte grazie a interpretazioni imprevedibili, trovava appigli e cavilli dove nessuno era in grado di vederli… Ma le cose cambiarono quando dalla coca passò all’eroina. Ai clienti che si erano dimostrati benevoli col vizietto del professionista cominciarono a girare le palle perché lui perdeva colpi e le cause cominciarono ad andare a puttane. Perse clamorosamente la causa sbagliata e un boss si prese vent’anni invece dell’assoluzione che gli era stata garantita; De Marco in cambio si prese due colpi di pistola che lo mancarono volontariamente, ma che gli fecero capire che il suo mandato di legale era stato revocato per sempre. Il grosso studio in centro città per cui lavorava lo mise alla porta, i colleghi potevano tollerare che si drogasse ma non che facesse perdere guadagni con molti zeri. E così si mise in proprio scendendo sempre più in basso, uno scalino dietro l’altro: clienti peggiori, quartieri peggiori, droghe peggiori, in una spirale senza fondo. La sua esistenza sembrava essere diventata lo scarico di un cesso, e della bella vita di qualche anno prima non c’era più alcuna traccia.

Lui e Michele si erano conosciuti nel periodo d’oro fatto di macchine lussuose e femmene con le tette siliconate. L’avvocato scendeva a Napoli con regolarità per seguire i clienti migliori e per riferire sui loro investimenti immobiliari al Nord. E così erano diventati amici, o almeno qualcosa di simile. L’avvocato gli aveva salvato il culo da qualche accusa minore, roba da poco, un paio di guaglioni sfregiati con la lametta perché avevano fatto gli spiritosi con la figlia di un boss, e lui l’aveva ringraziato con mezzo etto di colombiana pura, ma De Marco anziché farsela da solo aveva invitato Michele a una delle sue feste private offrendogliela su un piatto d’argento, nel vero senso della parola, e così era nato un certo feeling. Ma poi l’eroina di uno e la galera dell’altro li avevano allontanati inesorabilmente.

Michele aveva comunque avuto sue notizie in carcere, era pur sempre un nome conosciuto, e continuava a rappresentare un paio di spacciatori di mezza tacca che erano stati così gentili da fornirgli, al momento opportuno, il suo nuovo indirizzo in cambio di un paio di pacchetti di sigarette.

Michele lo squadrò da capo a piedi e poi mentì pietosamente: «Umbe’, ti trovo bene».

L’avvocato fece una smorfia che voleva essere un sorriso, sapeva che quella era una menzogna ma crederci per qualche istante non gli avrebbe fatto male. E ripagò con la stessa moneta: «Anche io ti vedo bene, Michele. Sei dimagrito, ma sempre in gran forma». Poi si alzò dalla sedia, si diede una veloce rassettata ai vestiti sgualciti e tese una mano tremolante al vecchio cliente e amico. Michele fece finta di non notare il tremolio della mano, ma la strinse con forza trovandola fredda e molliccia come un pesce morto.

«Siediti pure. Non mi aspettavo di vederti, anzi a essere sincero non sapevo neanche che eri uscito».

«I giorni».

L’avvocato annuì. «E dimmi, a che devo il piacere della tua visita?».

«Avrei bisogno di una mano. Devo allontanarmi per un certo periodo. Devo sparire».

«Scusa, non capisco. Se sei libero, qual è il problema? Prendi e vattene».

Michele lo soppesò con lo sguardo, valutando se poteva fidarsi o se lo stesse prendendo per il culo. Milano in effetti era abbastanza lontana perché le voci non fossero ancora arrivate, ma l’avvocato sicuramente conservava qualche conoscenza nel vecchio giro. In ogni caso adesso non poteva più fare lo schizzinoso e aveva bisogno di un appoggio. Tirò un sospiro e parlò.

«Non è dalle guardie che mi devo allontanare, almeno non ancora, è da alcuni vecchi amici che mi stanno a cercare».

L’avvocato continuava a osservarlo con aria interrogativa e allora Michele raccontò delle sette lapidi del cimitero di San Giuliano Campano, del fatto che due tombe erano già occupate e che una gli era stata gentilmente riservata. Aggiunse pure del piccolo screzio con i due stronzetti mandati da Peppe ’o Cardinale.

L’altro lo ascoltò giocherellando con un tagliacarte di plastica.

«E chi è che ti ha fatto questo bel regalo di un posto al camposanto?».

«Nun o sape» tagliò corto.

«E come è possibile che non lo sai? Ce l’avrai pure una mezza idea. Non può essere stato direttamente Peppe ’o Cardinale che vuole fare un po’ di pulizia dei vecchi amici?».

Michele scosse la testa. «Peppe nun i sape fa’ ’sti cos’, è nu guapp’ e’ cartone che s’a pigl’ solo co’ chi se la po’ piglia’, pe’ tutti l’atri nun tene i pall’. E poi… o Schiattamuorto ha pensato pure pe’ lui: una delle lapidi porta il nome suo».

Umberto sgranò gli occhi, questa era una notizia interessante. «Ma tu sei proprio sicuro di non avere idea su chi potrebbe…».

«Tagg’ ditt che nun ’o sape!». Michele alzò la voce e l’avvocato capì subito che doveva cambiare discorso. Lo conosceva troppo bene per non sapere che con quel vecchio carcerato non si poteva scherzare. Mai.

Si guardarono in silenzio dai due lati della scrivania. Michele tenne gli occhi fissi sull’avvocato, deciso a mettere in chiaro che nonostante gli anni passati, nonostante la galera, nonostante tutto, lui era sempre Michele Tiradritto, e certe cose non cambiano col tempo.

Era una prova di forza impari. L’avvocato abbassò lo sguardo, piegandosi a quella che non era mai stata una richiesta di aiuto, bensì un ordine a cui non si poteva sottrarre. Continuò a giocherellare con il tagliacarte di plastica. «Che ti serve?» disse in un sussurro.

Michele annuì in senso di approvazione. L’ordine naturale delle cose era stato ristabilito. Chi comanda e chi ubbidisce. Due categorie ben precise e distinte, che non guardano in faccia a niente, sesso, età, soldi, colore della pelle, è una cosa che viene da dentro, che ti porti per tutta la vita. Lui comandava e gli altri dovevano ubbidire. A partire da quell’avvocato del cazzo.

«Prima di tutto, mi serve dormire. Sto uno schifo e qualche ora di sonno vero me la devo fare. Dopo, una doccia e vestiti puliti, niente di troppo vistoso, niente che mi faccia ricordare chi sono. Giacca, camicia, pantaloni, scarpe. Più o meno teniamo la stessa taglia, quindi cerca qualcosa che mi stia bene. E poi mi serve un cellulare, uno di quelli senza GPS e con la batteria che si stacca facile, e la scheda deve essere pulita, mai usata, sono sicuro che qualche tuo cliente ci traffica e quindi ti sarà facile trovarla. Ma soprattutto mi servono documenti nuovi, patente, carta d’identità, codice fiscale, la tessera della palestra, quella del supermercato, insomma tutto quello che si può trovare nel portafoglio di uno qualunque, mettici pure qualche scontrino vecchio e una foto di bambini…

«Mi dispiace ma non ho idea di come poterti aiutare in questo».

Michele non lo degnò della minima attenzione. Conosceva i suoi polli e non aveva voglia di giocare, era stanco e cominciava a incazzarsi.

«Mi raccomando, la carta d’identità deve essere valida per l’espatrio, e con il nuovo nome mi prenoti un volo per Valencia. Il prima possibile, che tengo fretta».

Il proprietario di casa stavolta sembrava interessato. «Te ne vai in Spagna?». Non era chiaro se fosse una domanda o una considerazione.

«Sì, vado a trovare un amico».

All’avvocato non piacque quel tono di voce e i sottintesi che rimasero nell’aria, ma decise di comportarsi da professionista. Prima regola: non domandare quello che non è necessario sapere. Seconda regola, uguale alla prima: fatti i cazzi tuoi.

Ma i soldi erano sempre cazzi suoi.

«Miche’, io forse, e dico forse, potrei anche darti una mano per alcune cose, ma in ogni caso ci sarebbero dei costi. Non dico per me, io lo faccio per amicizia» l’avvocato si pose solennemente una mano sul petto, «ma ci sono comunque delle spese vive che io attualmente non sono in grado di anticipare. Sai, ho diversi investimenti vincolati che necessitano di tempo per poter essere di nuovo disponibili».

Michele trattenne a stento una risata. L’unico investimento che quello là era in grado di fare era una siringa nuova, anziché quella che usava tutti i giorni.

«Tranquillo, Umbe’. Non ci sta bisogno di anticipare nulla. Io ho già svincolato qualche investimento». E così dicendo Michele buttò sulla scrivania la borsa di tela mezza vuota.

L’avvocato la aprì e vide i soldi di Pepè. Sentì la puzza che emanavano ma non fece una grinza. I soldi sono soldi, e pecunia non olet era il suo brocardo latino preferito, quello su cui aveva basato la carriera di avvocato. Con una stima prudente valutò che si doveva trattare di almeno cinquemila euro.

«E poi c’è anche questo». Michele si rovistò nelle tasche dei vecchi jeans e fece rotolare sul piano di finto mogano il diamante che aveva preso dalla bocca del camorrista.

Il principe del Foro notò che era incrostato di sangue, ma ricordandosi delle sue due regole preferite non fece domande.

Si doveva trattare di circa mezzo carato, il che significava altri duemila euro, se non di più. Rimase in silenzio e Michele ne approfittò per rincarare la dose: «E se i documenti sono fatti bene, al mio ritorno dalla Spagna ti porto un regalino. Uno di quelli che ti piacciono tanto».

La promessa di roba buona e i soldi gettati sulla scrivania avevano già fatto crollare, se pure ci fosse mai stato, qualsiasi dubbio o incertezza dell’avvocato, il quale, tuttavia, ci teneva a mantenere un tono, e cercare di rinvigorire un po’ del tramontato orgoglio.

«Michele, sinceramente, ho bisogno di rifletterci su».

Il vecchio camorrista aveva capito che era tutta una tarantella ma invece di ricordargli che non aveva la possibilità di dire di no, volle stare al gioco ripescando dentro di sé un briciolo di affetto per i vecchi tempi e per quello che Umberto era stato prima che la droga se lo mangiasse vivo.

«Ma certo. Rifletti pure, è solo che tengo premura. E mi dovresti dare una risposta adesso».

De Marco era sempre più pallido e il viso era imperlato da un velo di sudore freddo, il tremolio delle mani stava aumentando. Non riusciva più a contenersi, aprì di scatto uno dei cassetti della scrivania cacciando fuori un involucro di carta argentata e un accendino.

«Miche’, tu permetti, vero?».

«Ci mancherebbe. Stiamo a casa tua».

L’avvocato aprì la stagnola con irresistibile frenesia, senza trattenere un sorriso. Era già tardi e si sentiva uno schifo, non poteva più aspettare. Estrasse dall’involucro due palline di colore grigio-marrone e le poggiò sulla scrivania, una terza la lasciò nella carta. Stirò per bene il foglio d’alluminio, recuperò dal cassetto una mezza cannuccia bruciacchiata ficcandosela in bocca, sollevò il foglio piazzandoci sotto la fiamma dell’accendino. La cannuccia fra le labbra dondolava lenta, la pallina sfrigolava e lui aspettava il primo filo di fumo.

Michele era uno della vecchia scuola, uno di quelli che si faceva solo di cocaina quando era una cosa per pochi, adesso pure lo sturacessi del condominio si faceva la sua botta e per lui tutto aveva perso senso. Non aveva mai provato altre droghe, ma capì subito di cosa si faceva l’avvocato. I tossici vivono per la droga, la vogliono, la desiderano, la sognano, tutto il loro mondo gira intorno a quella e quando non ce l’hanno gli piace anche solo parlarne: quella buona, quella cattiva, dove la puoi comprare, come te la devi fare, quanto la devi pagare.

L’avvocato si faceva di cobret. Era lo scarto di lavorazione dell’eroina. Economico e devastante. A Scampia girava che era una bellezza. Senza siringhe e senza buchi, si fuma e basta, ma ti spappola il cervello uguale a una pera. I guaglioni cominciano così, pensano che sia poco più di una canna, e dopo un po’ si trovano a bucarsi in qualche topaia. La chiamano cobret perché il primo filo di fumo maleodorante si alza e si avvolge a spirale come un serpente.

Michele sentì il profumo dolciastro del fumo e capì perché la stanza puzzava di incenso bruciato. Serviva a coprire quell’odore, anche se con scarsi risultati.

Il vecchio camorrista si alzò, mentre il suo amico continuava ad aspirare producendo un quieto risucchio, simile a un leggero fischio, l’avvocato era determinato a non perdersi neanche uno spiffero della dose. Tiradritto si mise a ciondolare svogliato nello studio. Mobili di quart’ordine, un tappeto sporco e bruciacchiato (qualche pallina di cobret doveva essere finita a terra), tende tirate e una poltrona nell’angolo con la toga buttata di traverso, la borsa di cuoio per i fascicoli buttata sul pavimento, e poi la libreria. Michele passò uno sguardo distratto su codici e manuali di diritto penale, quando la sua attenzione fu attratta da qualcosa: lì nel mezzo, fra un volume di procedura penale e una rivista giuridica vecchia di tre anni, c’era una copia ingiallita del Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline. Una copia da mercatino dell’usato, con un angolo strappato e mangiucchiato e una lunga piega al centro della copertina, in cui faceva triste mostra di sé un uomo solitario sotto un lampione notturno. La prese e fece velocemente scorrere fra le dita le pagine del romanzo, ritrovandosi di fianco al protagonista fra le trincee della guerra e le terre dell’Africa, fra le strade rampanti di una giovane America sino ai sobborghi di una grigia Parigi, in una girandola di sensazioni e vita che lo spingevano a ridere di se stesso. Ricordò le sensazioni nel leggere quel libro, nel vivere la vita di Ferdinand Bardamu, sino a scivolare nel cinico declivio dell’esistenza, cupo e disincantato, nichilista e oscuro, ma anche comico e ironico, dissacrante e senza pudore. Un viaggio che conduce alla notte dell’uomo, la sua ultima e crepuscolare ombra che svanisce.

Quelle pagine travolsero Michele in un vortice di emozioni. La tensione, la stanchezza, il dolore alle mani, l’odore acre del proprio sudore, quella vaga e impercettibile sensazione che gli montava nello stomaco chiudendogli la gola, la voglia di non essere in nessun luogo. Per un attimo sentì gli occhi diventare umidi, l’amarezza prendere il sopravvento, ma soprattutto lo schiudersi di una porta del suo passato. Una porta che doveva rimanere chiusa, ancora chiusa, almeno sino all’ultimo viaggio al termine della sua notte. Ebbe la voglia e la paura di svenire, cadere a terra, sprofondare dentro la sua anima, rotolarsi in quel tappeto sudicio, urlare sino a morire, sino a che un buio denso e uniforme non lo avesse avvolto come una marea oscura portandolo via, trascinandolo sempre più giù, sin dove non ci sarebbe stato più nulla, dove non avrebbe trovato se stesso.

Michele ebbe un capogiro. La stanza divenne confusa e offuscata. Il pavimento gli oscillò sotto i piedi. Il libro scivolò dalle mani, mentre lui si aggrappava con forza a uno dei montanti della libreria. Chiuse gli occhi stringendo le palpebre e cercando il buio nella mente. Fra le leggere oscillazioni della testa si fece strada una voce lontana.

«Michele. Michele, stai bene? Tutto a posto?».

Riaprì gli occhi e si ritrovò addossato alla vecchia libreria dell’avvocato, aggrappato come un naufrago alla scialuppa. Si sentiva una mosca su un vetro, pronta a essere schiacciata. Vide le sue dita tremare mentre si staccavano dai montanti di finto legno. Si voltò e annuì. L’avvocato era in piedi dietro la scrivania e si protendeva preoccupato verso di lui mentre teneva una mano ben salda sopra la busta con i soldi. Lo vedeva tremolante e offuscato, ma le parole arrivarono limpide e dirette.

«Forse conosco chi può darci una mano».

3.

Michele si svegliò nel letto dell’avvocato.

Gli occhi fissi sul soffitto. Macchie di muffa e crepe nell’intonaco. Ancora una volta.

Trattenne a stento una bestemmia. Cominciava ad averne abbastanza, aveva l’impressione di aver solo cambiato cella, ma sempre galera era. Aveva dormito quasi sei ore e per la prima volta da tre giorni non si sentiva troppo stanco. Si fece una doccia, per quella puzza di sudore che si portava appresso dalla galera, o forse era proprio puzza di galera. Infilò i vestiti che gli aveva procurato Umberto, una giacca, un paio di jeans, camicia e scarpe troppo larghe. Non erano nuovi, ma almeno puliti, il che era già un bel passo in avanti. Aprì l’armadietto dei medicinali e, come immaginava, ci trovò di tutto: psicofarmaci e antidolorifici come se piovesse, ma anche quello che cercava, rasoi di plastica usa e getta.

Dopo essersi fatto la barba si guardò nello specchio. Un mezzobusto accettabile, non sembrava un delinquente, al massimo un piazzista di aspirapolveri o un Testimone di Geova. Anonimo e grigio, sarebbe passato inosservato a chiunque se non fosse stato per quegli occhi infossati e scuri, un pozzo nero pronto a risucchiarti l’anima. Ma a quelli non poteva farci niente. Per il resto, andava bene così.

Il suo vecchio amico si fece una risatina dalla porta del bagno.

«Miche’, non mi pari tu».

«Vaffanculo».

E la conversazione finì lì.

Uscirono nell’aria fredda della periferia milanese. Era scesa la sera e Michele si abbottonò il vecchio giaccone che gli aveva dato l’avvocato, tirò su il cappuccio e accese una sigaretta.

«Dove andiamo?».

«Non ti preoccupare, è qui a due passi».

Mika era bulgaro, o almeno così gli aveva detto Umberto. Si occupava di clonare bancomat e carte di credito, ma occasionalmente preparava anche documenti falsi per gli amici che avevano bisogno di cambiare nome o di sparire per un po’. L’avvocato si era già rivolto a lui in passato, ma non volle aggiungere altro, e Michele decise di non chiedere, in fondo non gliene fotteva un cazzo, lui voleva solo darsi una mossa e continuare il suo viaggio.

«Certo» spiegò il suo cicerone mentre si muovevano rapidi per le vie della città, «l’ideale sarebbe stato rivolgersi ai cinesi, quelli sono specialisti in documenti falsi, permessi di soggiorno, patenti, carte d’identità, anche passaporti, ma ahimè lavorano solo per i loro connazionali ed è impossibile convincerli a fare un’eccezione. Si passano i documenti fra i giovani che entrano clandestinamente in Italia e i vecchi che muoiono e vengono rimpatriati in Cina per essere sepolti, li modificano, li cambiano, li sistemano, lavorano su basi originali e questo rende i loro falsi assolutamente perfetti. E così all’anagrafe risultano praticamente immortali, i permessi di soggiorno passano dai nonni ai nipoti e così via, e non si vedono mai funerali cinesi in giro».

Michele continuava a fumare accelerando il passo, non aveva voglia di parlare, ma all’avvocato, a quanto pareva, si era sciolta la lingua. Capì che era nervoso e che quello era il modo per mantenere a freno i nervi. La sua visita e i soldi buttati sulla scrivania avevano spezzato una routine fatta di squallore e clienti di mezza tacca, e adesso era in preda all’euforia. Parlava e gesticolava senza sosta.

«Mentre dormivi ho fatto qualche telefonata. Con discrezione, ovviamente. E Mika mi ha confermato che può darci una mano. Gli ho detto tutto quello che mi hai chiesto e non ci sono problemi, solo che ci vorrà un po’ di tempo».

«Quanto?».

«Un paio di giorni, non di più. Deve procurarsi non so quale timbro e gli ci vogliono due giorni e… altri mille euro» disse guardandolo con la coda dell’occhio.

Michele annuì. Non era un problema. Due giorni poteva anche attenderli e per i soldi si era aspettato di peggio. Sapeva di avere a che fare con dei pezzenti, e come tutti i pezzenti erano ingordi.

Arrivarono a un vecchio portone, messo ancora peggio di quello dell’avvocato, il che non era cosa facile, ma Michele non si fece ingannare e notò subito la telecamera di sicurezza in alto a destra. Discreta ma presente. Capì di essere ripreso e che il bulgaro non doveva essere un cialtrone. La cosa non gli dispiaceva. Sempre meglio lavorare con dei professionisti. Si tirò ancor più su il cappuccio, mentre entravano senza suonare. Erano attesi.

Scesero in uno scantinato buio ma pulito. Superarono una cancellata abusiva che gli ricordò quelle delle piazze di spaccio a Scampia. Si trovarono di fronte a un altro portone, stavolta nuovo e blindato. L’avvocato suonò il campanello e dopo qualche istante si aprì automaticamente uno spiraglio, discreto e silenzioso.

Entrarono.

La stanza era in penombra. Ampia e con il soffitto basso, si trovava sotto il livello della strada, così che le luci dei lampioni filtravano da una finestrella lunga e sottile all’altezza del marciapiede. Il resto dell’illuminazione era costituita da un paio di lampade e dai monitor dei computer, i cui bagliori blu, rossi e verdi davano alla stanza un aspetto surreale da tunnel degli orrori. Michele si guardò attorno individuando quello che doveva essere un plotter professionale, altri macchinari sconosciuti e, in un angolo, una postazione da fotografo con sfondo neutro, treppiedi, luci e ombrelli bianchi; dalla parte opposta, una porta di metallo con chiavistello e lucchetto. Nella sua mente passò rapida una considerazione da professionista: nessuna via di fuga.

«Vieni, avvocato».

La voce arrivava da dietro una sequenza di monitor ultrasottili, in file di tre, disposti su due livelli, come quelli dei broker. Una figura massiccia si alzò dalla scrivania avvicinandosi a loro. Spalle larghe, mascella quadrata, capelli corti a spazzola di un biondo paglierino, carnagione pallida e slavata di chi non vede troppo sole. Ma quello che colpiva del bulgaro erano gli occhi, di un celeste chiarissimo, quasi trasparenti, e anche nella penombra della stanza la differenza con Michele era evidente. I suoi erano scuri, un pozzo nero dove cadere, quelli dello slavo erano acquosi, vuoti e immobili, uno specchio. Entrambi inquietanti.

I due si strinsero la mano, mentre l’avvocato continuava a parlare per rompere il ghiaccio.

«Mika, questo è l’amico di cui ti dicevo. Gli dobbiamo dare una mano ad andare via, e anche con una certa fretta, quindi se puoi velocizzare la cosa… Gli ho parlato e anche lui è d’accordo a darti qualcosa in più, se riesci a chiudere il lavoro entro domani. Il tutto sempre con la solita discrezione che tu sai».

Tiradritto e il bulgaro non si curavano di quei discorsi, ma continuavano a fissarsi, quasi a volersi sincerare di chi avessero realmente di fronte. E a quanto pareva il loro dialogo muto aveva avuto buon esito, perché entrambi annuirono impercettibilmente.

Michele si era stupito di vedere un esperto di computer, un truffatore informatico, con una stazza da lottatore, ma il taglio di capelli e l’andatura gli avevano subito fatto capire che si trovava di fronte a un ex militare. Il tatuaggio sull’avambraccio muscoloso gli aveva chiarito che si trattava di un soldato che si era fatto un po’ di galera.

In galera i tatuaggi si fanno con delle macchinette artigianali costruite assemblando pezzi di radio o lettori CD, poi batterie e cavetti, il fusto di una penna a sfera, inchiostro blu e aghi per cucire. Il risultato è tremolante e imperfetto, con grumi di sangue e inchiostro, ma perfettamente riconoscibile. Quello del bulgaro era una croce avvolta dalle catene, dalla cui base scendeva una scalinata composta da tre gradini. Il significato era chiaro: un anno di carcere per ogni scalino.

Michele fece un leggero cenno del capo a indicare l’avambraccio. «Dove?».

«Lecce».

«Duro».

«Abbastanza».

L’avvocato non stava capendo il senso della discussione ma gli andava bene così.

«Cosa ti serve?». Il bulgaro parlava un italiano perfetto con il solito pesante accento dell’Est.

«Una patente, una carta d’identità valida per l’espatrio e tutto quello che può esserci in un portafogli di uno qualunque, ci puoi mettere anche la fattura del dentista, non me ne frega un cazzo.

Mika ci pensò. «I dentisti non fanno fattura».

Michele trattenne un sorriso, gli ci mancava solo il falsario cabarettista. Ma quello non sorrideva e continuava a guardarlo con i suoi occhi trasparenti.

«Mettici quello che vuoi, l’importante è che i documenti sembrino veri. Meglio se vecchi, sgualciti e usati, danno meno nell’occhio. Falli che stanno per scadere».

«Va bene. Ho quello che vuoi. Ti servono per l’aereo?».

Michele gettò un rapido sguardo all’avvocato. «Questo non ti riguarda».

«No, mi riguarda eccome. Se devi prendere l’aereo devono essere perfetti, devono superare i controlli all’aeroporto. Altrimenti possono essere un po’ meno che perfetti, faccio più veloce e costa di meno».

«Tu falli perfetti».

«Allora costa di più».

«Non è un problema» mentì Michele. Aveva dato tutti i suoi soldi all’avvocato, ma né lui né il bulgaro lo sapevano, e in quanto al pagamento ci avrebbe pensato al momento opportuno.

Mika annuì soddisfatto. «Come ti vuoi chiamare?».

«Come cazzo ti pare».

Mika si diresse verso una delle scrivanie vicino al plotter, aprì un cassetto e tirò fuori una scatola di metallo. «Altezza?».

«Un metro e ottanta più o meno».

Il bulgaro estrasse un fascio di documenti tenuti insieme da un elastico verde. Patenti, carte d’identità, passaporti. Cominciò ad aprirli uno a uno per controllare le caratteristiche fisiche. Michele capì subito che erano il frutto di decine di scippi e rapine. Tossici e ragazzini di strada fottevano in giro portafogli e borse, si tenevano i soldi e poi rivendevano i documenti.

Il bulgaro sapeva di non avere di fronte uno qualunque, se n’era accorto non appena l’aveva visto, era stata una cosa a pelle. Una vaga sensazione di pericolo, come quando combatteva. Capì che era inutile fare il misterioso con quell’uomo.

«I migliori sono gli zingarelli della Stazione Centrale. Rubano a passeggeri e turisti, e così se vuoi ho anche qualche documento straniero. Che ne so, vuoi essere francese, tedesco, greco?» disse, stavolta sorridendo.

«Io sono di Napoli».

E la cosa finì lì.

Il bulgaro trovò quello che cercava. I dati fisici corrispondevano, il nome lo avrebbe alterato per evitare corrispondenze con eventuali denunce di smarrimento.

«Sei un insegnante» disse richiudendo la carta d’identità.

Michele annuì.

«Facciamo le foto».

Gli indicò con la testa l’angolo della stanza adibito a studio fotografico. Accese i faretti e si piazzò dietro la macchina montata sul cavalletto. Michele si trovò accecato dalle luci, percepiva i contorni vaghi della stanza e la figura scura dell’avvocato che si muoveva nervoso avanti e indietro. La cosa cominciava a dargli fastidio.

Finirono in cinque minuti. Il bulgaro tirò fuori una bottiglia di vodka e propose di suggellare l’accordo con un brindisi. L’avvocato dal canto suo non aspettava altro, e Michele pensò che erano all’incirca vent’anni che non toccava alcol, se non il vinaccio in brick della prigione. Un quartino di bianco al giorno per vent’anni. Roba da diventare matti. Accettò.

Vuotarono i bicchieri in un sol colpo, come nella migliore tradizione dell’Est Europa. Michele sentì il bruciore della vodka salirgli lungo la gola. Fece schioccare la lingua sul palato mentre una lieve sensazione di calore gli riempiva il viso. L’avvocato era già tornato a servirsi dalla bottiglia che lui ancora non aveva poggiato il suo bicchiere. Rifletté che fra alcol e droghe al suo amico non sarebbe rimasto ancora molto tempo prima di schiattare. Comunque era una cosa che fra un paio di giorni non lo avrebbe più riguardato.

«Ancora uno?» chiese Mika scuotendo la bottiglia.

«No, sono a posto così e ho voglia di andarmene».

«Un attimo». L’avvocato si versò la terza vodka. Gli scendeva giù manco fosse acqua, ma in compenso lo calmava. Aveva smesso di muoversi avanti e indietro e anche le mani non tremavano più.

Michele tornò a guardarsi intorno fissando svogliatamente uno dei monitor. Le luci colorate erano diventate più luminose e lui sentì una leggera sensazione di stordimento. Non era più abituato ai superalcolici e anche un solo bicchiere gli stava dando fastidio. La testa gli pesava come un macigno. Era stanco. Abbassò istintivamente gli occhi a osservare il bicchiere vuoto. La mano tremava. Il vetro era sfuocato e luminoso. Vide un residuo di polvere sul fondo. Ci infilò le dita mentre tutto intorno a lui cominciava a dilatarsi. Sentì i granelli sotto i polpastrelli mentre lunghi flash lo accecavano attraverso le palpebre chiuse. Il mondo divenne ovattato, solo le luci lo stordivano. La stanza oscillava.

«Michele, stai bene?».

Non è possibile…

Capì che stavolta non era come nello studio dell’avvocato. Stavolta era diverso. E lui era uno stupido.

Non riuscì a rispondere. Percepì qualcuno alle spalle. Un braccio. Anzi un avambraccio, muscoloso e tatuato, che lo stringeva con forza alla gola. Non poté opporre alcuna resistenza mentre un ago gli veniva conficcato nel collo. Non sentì neanche tanto dolore, anche quello era attutito dalla droga che gli avevano dato. Le gambe presero a tremare convulse mentre le ginocchia cedevano e il corpo cadeva a terra.

Le voci lo raggiunsero da un posto lontanissimo, un eco indistinto che si perdeva in quella stanza sotterranea.

«E adesso che facciamo? Adesso se si riprende che facciamo? Che facciamo?». Era la voce stridula e concitata di Umberto.

«Stai tranquillo, avvocato. Non si sveglierà» disse il bulgaro.

Michele percepì un manto denso e indistinto avvolgerlo completamente.

Una sensazione piacevole prima di scivolare nell’oblio.

4.

Si era fatto buio e aveva cominciato a piovere.

L’aria era di colpo diventata fredda, ricordando a tutti che era inverno. I passanti si muovevano veloci per tornare a casa o in qualsiasi altro posto caldo, mentre l’ispettore Lopresti si gelava in silenzio le palle. Se ne stava sotto la tettoia di una pensilina dell’autobus a fissare i sette piani di pietra bianca della questura, che nel buio della notte sembrava ancora più imponente e maestosa. Stava fumando l’ennesima sigaretta saltellando da un piede all’altro, con le mani in tasca e la testa incassata fra le spalle, aspettando con pazienza che il collega finisse di telefonare. Avrebbe potuto tirare dritto e lasciarlo lì da solo, ma non era una cosa da lui. Non più.

Dopo qualche dubbio e una bella dose di pregiudizi aveva dovuto ricredersi su Corrieri, in fondo non era male. Aveva un’educazione d’altri tempi, era moderatamente simpatico e soprattutto non gli rompeva il cazzo con mille domande. Certo, rimanevano sempre l’attitudine da imboscato e la noia delle chiacchiere sulla pensione, ma su questo era disposto a chiudere un occhio, perlomeno sino a fine indagine.

Lopresti si sorprese a fissare le scie rosse degli stop delle auto, con la testa vuota e le parole del collega nelle orecchie.

«Va bene, amore… No, chéri, non c’è nessun problema, passo io a prendere la camomilla e il pane rientrando a casa. Nessun problema… No, per stasera niente di particolare, mangio quello che c’è, non stare a preparare grandi cose… Non ti sbattere. Cerca di riposarti un po’…».

Lopresti aveva finito la seconda sigaretta consecutiva e la telefonata ancora non accennava a chiudersi. Quando all’improvviso arrivò la svolta.

«Sì. Lo sai che ti amo! Ma adesso devo andare, c’ho il collega che poverino aspetta da un pezzo».

Corrieri continuò per altri trenta secondi una smielata serie di saluti e rassicurazioni. Infine chiuse il telefono con un leggero sospiro e gli occhi a cuoricino. Lopresti era sconvolto, guardò il collega a bocca aperta.

«Ma mi vuoi dire da quanti anni sei sposato con tua moglie?».

«Trentasette».

«Trentasette?». Adesso Carmine era veramente sconvolto.

«Sì, ci siamo sposati a diciannove. Però ci conoscevamo dalle scuole medie. Quindi stiamo insieme da quasi cinquant’anni».

«Cioè… mi vuoi dire che ti sei sposato la fidanzatina delle medie?».

«Sì perché?». Corrieri era sinceramente stupito.

«E dopo mezzo secolo state ancora lì a fare ciuciù-ciuciù al telefono? Ti amo, mi manchi, attacca prima tu, no attacco prima io?».

«Eh be’ sì». Corrieri sembrava imbarazzato dall’enfasi del collega e abbassò la testa facendo finta di cercare qualcosa nelle tasche del giaccone.

«Ma ti rendi conto? Cristo santo, vi dovrebbero mettere in un museo dietro una teca di vetro spessa cinque centimetri come la Gioconda, così le persone potrebbero venire a vedervi, ovviamente pagando il biglietto, e sotto un cartellino con su scritto ANCORA INNAMORATI DOPO CINQUANT’ANNI INSIEME, e poi vai di merchandising, magliette, cartoline, borse, palle di vetro con la neve…».

«Mmh… Non ci avevo ancora pensato, è una buona idea, ci potrei integrare la pensione». Corrieri sorrideva, in primo luogo perché era vero che era ancora innamorato della moglie dopo tutto quel tempo, e poi perché aveva capito che la cosa piaceva anche al suo collega. «Comunque adesso muoviamoci che siamo già in ritardo».

«Eh no, che cazzo, mi sono dovuto sorbire te che pomiciavi al telefono con tua moglie, adesso aspetti che mi fumo un’altra sigaretta». Lopresti se la accese mentre il collega rideva.

Tre lunghe tirate ed era finita. Per un attimo ebbe il fugace ricordo di Martina, della loro storia, dei suoi lunghi capelli castani, dei suoi occhi che ridevano, di lei che se ne andava per sempre lasciandolo su un letto disfatto con due strisce di coca sul comodino. Ma fu solo un attimo, una scheggia di vetro che strideva con la felice vita matrimoniale del collega. Scacciò quel ricordo, non voleva altri brutti pensieri. Non adesso.

Gettò la sigaretta sull’asfalto bagnato, si tirò su il cappuccio del giaccone e insieme a Corrieri attraversò di corsa la strada. Effettivamente erano in ritardo.

I due ispettori entrarono in questura e si avviarono lungo un corridoio con il riscaldamento al minimo, silenzioso e semideserto. Le fan prepensionamento di Lopresti a quell’ora erano a casa da un pezzo. Poco male. Anche perché lui, adesso, di fare il simpatico e il piacione non ne aveva voglia, quell’indagine cominciava a pesargli addosso come un macigno. Si era aspettato risultati rapidi, soffiate, confidenze, che ne so… anche una lettera anonima. Ma niente. Nessuno ci capiva un cazzo. Avevano raccattato quattro scemenze da Genny B, ma erano poca cosa, solo voci. Nessuno parlava, o forse, una volta tanto, nessuno sapeva.

Passarono davanti alla porta chiusa del dottor Taglieri, si guardarono in silenzio scambiandosi una smorfia, se non tiravano fuori un coniglio dal cilindro li aspettava una cazziata senza precedenti. Proseguirono oltre l’ascensore e il bagno, sperando che la telefonata di Morganti portasse a qualcosa.

Arrivarono all’ultima porta in fondo a destra, senza indicazioni e targhette, se non il cartello di VIETATO FUMARE. Bussarono ed entrarono senza aspettare. Furono subito avvolti da una nube di fumo stantio.

«E che cavolo, Morganti e il cartello con il divieto?» chiese Corrieri sventolandosi con una mano.

«Quello sta fuori» rispose Morganti senza voltarsi. Se ne stava seduto al PC, sigaretta in bocca e cuffie appoggiate distrattamente al collo.

Quella era la Sala Ascolto per le intercettazioni, una stanzetta con le finestre oscurate, anonima e appartata, con tre scrivanie e altrettanti computer. Sulla destra una scaffalatura in ferro, con macchine fotografiche e dei macchinari fuori uso. E, per la gioia di Corrieri, un numero imprecisato di posacenere stracolmi. Le postazioni erano tutte occupate da colleghi che non li degnarono di uno sguardo. Occhi fissi sui monitor e cuffie nelle orecchie.

«Annunziati?» chiese Lopresti.

«Ha fatto il primo turno di ascolto» rispose Morganti passandosi una mano sulla faccia. Era stanco e aveva mal di testa. Tutti segnali poco incoraggianti.

«Al telefono mi hai detto che c’era qualcosa per noi» continuò Carmine.

Morganti annuì mentre spegneva la sigaretta. «Sì, qualcosina ce l’ho. Abbiamo messo sotto controllo un po’ di telefoni. Ti dico subito, prima che me lo chiedi, che quello di Peppe ’o Cardinale non ci siamo riusciti. Ormai sta attento a tutto, tiene paura pure dell’ombra sua, e manco esce più di casa, per la prima volta da dieci anni non l’hanno visto lungo la piazza di San Giuliano Campano a fare il guappo. Ma in compenso abbiamo messo sotto controllo dei suoi luogotenenti e c’ha detto culo. Salvatore Cuomo, detto Palletta, è uno di quelli che conta fra gli uomini di Peppe, gli fa i lavori delicati: rapporti con altri clan, rendiconti sullo spaccio, se serve ammazza con discrezione e senza fare casini e…».

«E…?». Lopresti era impaziente.

«E un paio d’ore fa ha chiamato il suo capo e hanno parlato di cose interessanti». Morganti si alzò dalla sua postazione facendo spazio al collega, recuperò una sedia anche per Corrieri e collegò due cuffie al computer. Sullo schermo una lunga lista di target: gli obiettivi, o meglio i numeri intercettati, indicati con le ultime tre cifre, numero delle chiamate effettuate, durata, e anche il testo degli SMS inviati e ricevuti.

«Salvatore è convinto che il suo cellulare sia sicuro. Dopo i fatti del cimitero quasi tutti gli uomini di Notari hanno fatto pulizia dei vecchi apparecchi, ma per fortuna abbiamo intercettato lo slavo che doveva rifornirli di nuove schede, e dietro la minaccia di un’accusa di associazione mafiosa ex 416 bis ha deciso di darci una mano. Anche se sono sicuro che quello, tempo tre giorni, se n’è tornato in Albania cambiando nome» aggiunse Morganti.

«E ’o Cardinale?» chiese Corrieri.

Il collega tornò a scuotere la testa. «Lui no. Ve l’ho detto. Userà il telefono di qualche incensurato, di qualche novantenne che manco sa di avercelo, il cellulare. C’è chi si mette a disposizione fornendo queste cose anche se non gli vengono richieste, ma solo per dimostrarsi servizievole con il boss, e allora diventa impossibile intercettare. Con l’ambientale poi è ancora peggio, Notari vive in un vero e proprio bunker. Porte e vetri blindati, telecamere all’ingresso, vedette a ogni angolo della strada, e di sicuro c’è qualche cunicolo sotterraneo o stanza segreta. Entrare per mettere una cimice è impossibile».

Morganti selezionò uno dei Target e premette “invio”. Dalle cuffie arrivò un fruscio inframezzato dagli squilli del telefono.

«Pronto».

«Pronto, Don Giuseppe. Sono Salvatore».

«Guaglio’, putimme parla’?».

«Sì, lo Zì. Il telefono è nuovo».

«E allora dimmi».

«Lo Zì, i due guaglioni stanno ancora in ospedale, ma stanno meglio. Sul referto sta scritto che hanno avuto un incidente con lo scooter, ma si vede tale e quale che l’hanno menati. Ma comunque si stanno a ripiglia’, a Cosimo ci devono rimettere i denti e…».

«Palle’, a me non me ne frega un cazzo dei due guaglioni, voglio sapere a dove sta Michele Tiradritto!».

«E questo, Don Giuse’, è un problema. Le vedette l’hanno perso dopo che è uscito da casa. Lo sapeva che lo tenevamo d’occhio e s’è infilato nel mercatino del Rione Berlingeri, in mezzo alla folla e… niente, se ne fujte».

«E che cazz…».

«Però ci stanno novità. Ci sta’ nu miezz scem, un ragazzo detto Pepè, che vende la roba per conto nostro, pare che Michele lo conosceva, e allora tanto pe’ dimostra’ che schifo d’omm che è, l’ha scassato di mazzate e gli si è fottuto tutt’ cos’. Soldi, roba e macchina. E se n’è andato».

«E dove?».

«Nun ’o sacc’, lo Zì. Ma ho fatto un po’ di domande in giro, e un amico che sta ancora dentro mi ha detto che Michele tiene qualche conoscenza in giro. Di sicuro a Roma e a Milano, e qualcuno anche dalle parti di Genova».

«Chi?».

«Gente con cui s’è fatto la galera, con cui ha spartito il mangiare».

«Ma non stava in cella con Pinochet?».

«Sì, ma quando Don Ciro è morto l’hanno cambiato di cella, e pure prima di stare con lui aveva girato parecchio e s’era fatto degli amici. E poi ci sarebbero alcuni dei nostri che stanno giù a Liano che mi hanno detto che pare che Michele cercava l’indirizzo di un avvocato».

«Un avvocato?».

«Sì, un certo… aspetta, lo Zì, che me lo sono segnato… avvocato De Marco Umberto».

«Lo conosco, è un tossico e non pensavo che fosse ancora vivo. Ma potrebbe essere una soluzione».

«Che devo fa, lo Zì?».

«Manda qualcuno da ’sto Pepè. Dobbiamo essere sicuri che ci ha detto tutto. Deve parlare. Ci siamo capiti?».

«Capiti, lo Zì. E io?».

«Tu te ne vai a Milano a trovare quest’avvocato. E mi raccomando, prima di partire avverti i Calabresi, non voglio casini, non voglio che nessuno si possa piglia’ collera che non è stato avvertito, chillu strunz’ ’e Tiradritto sta creando pure troppi problemi».

«Lo Zì, scusa se mi permetto, ma non è troppo scomodo? Non può essere stato Michele a combina’ quel casino al cimitero. Quando hanno ammazzato ’o Maresciallo stava ancora dentro, e la notte che hanno impiccato Bebè stava a casa e noi lo controllavamo».

«Guaglio’, nun dicere strunzat’. Qua non c’è nessuno scomodo. Lo sai meglio di me che le case tengono pertusi che non ti immagini, e se uno come Michele vuole uscire senza farsi vedere da quattro scemi come voi, esce e basta. E poi, guaglio’, ricordati che uno dei nomi al camposanto è il mio e io non ho la minima intenzione di farmi ammazzare. Ci siamo capiti?».

«Scusa, lo Zì, io pensavo che…».

«Tu non devi pensare un cazzo! Tu devi eseguire e basta! Se ti dico che dovete trovare a Michele Tiradritto, lo dovete trovare e basta. Tu nun sai niente di tutta ’sta storia e nun ne devi sapere niente. Obbedisci e basta!».

«Obbedisco, lo Zì».

«… bravo guaglio’ e non famm’ chiu piglia’ collera. I Surace?».

«Lo Zì, stanno da quei nostri amici sotto a Roma, hanno detto che stanno bene e che per un po’ preferiscono non tornare».

«Eh già, quelli tenevano paura da piccerelli, figurati adesso. Se ne staranno rintanati ai mercati generali, in mezzo alle patate e alle melanzane, a far finta di controllare la distribuzione della nostra roba, ma in realtà se la stanno solo facendo sotto e aspettano che io risolvo ’sto casino. Che io trovo a Michele Vigilante».

«Allora, lo Zì, che faccio?».

«Fai quello che ti ho detto. Manda qualcuno da quel ragazzino che è stato menato da Michele. Dobbiamo essere sicuri che ci ha detto tutto. Ma mi raccomando, un lavoro pulito, senza fare casini, che qua la gente comincia a parlare e noi non ci stiamo facendo una bella figura. Le persone iniziano a pensare che non sappiamo che pesci pigliare e se continua così perdiamo il rispetto. E se perdiamo il rispetto abbiamo perso tutto. Tu, invece, te ne vai a Milano. Parti stasera stessa. E manda qualcuno dai fratelli Surace. Devono tornare qua, si devono far vedere in giro, la gente non deve pensare che sono scappati. Devono vedere che siamo sempre noi a comandare e che a noi non ci fa paura nessuno. Nemmeno lo Schiattamuorto. Mi hai capito?».

«Tutto chiaro, lo Zì».

La telefonata si interruppe. Corrieri e Lopresti fissavano il monitor in silenzio. L’elenco dei Target indicava che quella era l’ultima telefonata di Giuseppe Notari.

Morganti sorrideva e tirò fuori un’altra sigaretta. «Non so che ne pensate voi» disse, «ma hai voglia a parlare di rispetto, di farsi vedere… Quelli si stanno cacando sotto. ’O Cardinale per primo». La sua voce arrivava attutita attraverso le cuffie. Lopresti se le tolse per rispondere.

«Voi come vi state muovendo?».

«Come al solito. Continuiamo le intercettazioni. Abbiamo cominciato a interessarci dell’avvocato, i colleghi di Milano ci hanno già confermato che si tratta di un bel tipino: tossicodipendente e forse anche spacciatore. Uno che si è rovinato con le mani sue ed è finito in un brutto giro. Da stasera avrà l’appartamento sotto controllo».

«E per Palletta?» chiese Corrieri.

«Gli abbiamo messo un dispositivo GPS sotto la macchina e stiamo aspettando che parta verso Milano. Quando arriva dall’avvocato dobbiamo stare attenti che non gli faccia la pelle, per il resto aspettiamo che Vigilante spunti fuori da qualche parte».

«Ma se non sappiamo neanche se c’entra in questa storia?» obiettò Corrieri.

Morganti lo guardò male, con la sigaretta che pendeva spenta dalle labbra e l’accendino in mano. Quasi sconfortato. «Colle’, ma come cazzo ragioni? Ma che tieni voglia di scherzare? Qua più si smuscina ’sta merda, più viene fuori il nome di Michele Tiradritto. Prima i guaglioni pestati, poi quello spacciatore rapinato e poi se n’è fujte, e non ti dimenticare che è cominciato tutto poco prima che lui uscisse dal carcere. Forse non è stato lui ad ammazzare quei due, ma di sicuro sa chi è stato. E sa cosa cazzo sta succedendo».

«E che mi dici di quello spacciatore di cui parlavano, quel Pepè?» aggiunse Lopresti per sviare l’attenzione da Corrieri.

«Niente. ’O contrannome non ci dice niente, e denunce di rapine non ce ne stanno. Anche perché chi denuncerebbe che gli hanno rubato la droga che spacciava? Ma in ogni caso adesso è tardi, speriamo solo che gli uomini di Notari non gli facciano troppo male. Al limite domani mattina ci facciamo un giro per gli ospedali a vedere se stanotte hanno ricoverato uno con i denti rotti».

Morganti scrollò le spalle, e i suoi colleghi non si fecero illusioni. Sapevano come funzionavano quelle cose. E sapevano che per Pepè, chiunque fosse, sarebbe stata una brutta nottata, forse addirittura l’ultima.

«Perché ci hai telefonato?» chiese secco Lopresti.

«Prima di tutto per aggiornarvi sugli sviluppi».

«E poi?».

«Per i Surace».

Corrieri, ancora seduto alla scrivania, sollevò lo sguardo verso il collega.

«Se è vero che spunta sempre il nome di Michele Tiradritto» continuò Morganti, «è anche vero che due delle lapidi del cimitero sono per i fratelli Surace. E visto che finora lo Schiattamuorto pare che ci prende bene, non sarebbe male trovarli, attaccarci a loro come delle zecche e catturare ’sto fetente che ci sta a fa’ fa’ la figura dei fessi».

«Cosa avete per le mani?» chiese rapido Lopresti.

«Un’informativa dei carabinieri di Terracina. Ci indicano chi sono i contatti dei clan nel basso Lazio. I Surace sono latitanti per dei reati minori, cose di poco conto. Un paio d’anni di galera al massimo, visti i precedenti. E secondo me stavolta potrebbero pure essere contenti di farsi arrestare. Almeno in galera non gli arriva lo Schiattamuorto». Morganti sorrideva di nuovo, era evidente che quella storia lo faceva divertire un casino.

Lopresti invece era pensieroso, per il momento la situazione era ancora sotto controllo, la stampa aveva dato risalto alla notizia ma non più di tanto, ma se ci fossero stati altri morti le cose sarebbero cambiate. Potevano cominciare a volare gli stracci sporchi e, a essere onesto, gli sarebbe dispiaciuto se ci fosse andato di mezzo il dottor Taglieri. Era una brava persona e sapeva lavorare, ma a volte le pressioni sono troppe e quello che salta è l’ultimo anello della catena. Il più debole. E Lopresti sperava solo di non essere lui.

«Vabbuò, Morganti, aspettiamo le carte». Lopresti era stanco e voleva tornarsene a casa, fare una doccia, infilarsi a letto e dormire. Da solo. Come sempre.

«Domani stesso ti giro l’informativa. Comunichiamo al capo e vi regaliamo di vero cuore la premiata ditta Fratelli Surace».

«E che bel regalo di merda».

«Carmine, ognuno ha quello che si merita». Morganti continuava a divertirsi.

«Anche tu hai ragione. Corrie’, sbaracchiamo da qua che la giornata è finita. Tu devi ancora fare la spesa per tua moglie e io mi devo riscaldare la pizza surgelata».

Corrieri si alzò e lo seguì lungo il corridoio della procura. Era silenzioso, con la faccia seria e gli occhi bassi verso le mattonelle del pavimento. Forse c’era rimasto male per l’atteggiamento di Morganti, pensò Lopresti. In fondo era un bravo poliziotto; imboscato, ma non cattivo.

«Colle’, che te ne pare? Come ci vogliamo muovere?» disse per allentare la tensione.

Corrieri continuava a guardare a terra. L’espressione era dura, contratta, molto diversa da quella di poco prima, quando parlava al telefono con la moglie. La voce dolce e smielata era sparita, sostituita da un’altra, roca e tremante di rabbia.

«Andiamo a prendere i fratelli Surace».

5.

La ragazza urlava.

Un urlo disperato, di quelli che strappano le corde vocali e bruciano dentro. Un urlo con quanto fiato aveva in gola, nei polmoni, in tutto il suo maledetto corpo.

La tenevano schiacciata a terra. Qualcuno tirava con forza i capelli castani che si strappavano a ciocche, qualcuno bloccava i polsi, qualcun altro le apriva le gambe. E Michele era lì fra le sue cosce. Rideva sino a piangere. Una mano sul petto per placarsi e il naso che continuava a tirar su. Un aspirapolvere di riflessi incondizionati alla ricerca di coca.

Nella sua testa nevicava. Tanta neve. Fiocchi sottili che gli entravano su per le narici, gli sbarravano gli occhi fino a farli schizzar via e poi su fino al cervello, alla scossa finale. Alla botta.

Gli altri strappavano la camicetta della ragazza. Tiravano e strappavano. Tiravano e strappavano. E Michele riusciva solo a pensare: Tanta robba. Tanta robba. Tanta robba.

Non sapeva neppure se era per le tette nude della ragazza o per la cocaina che si era tirato. Ma non gliene fregava un cazzo. Rideva. Rideva. Rideva.

Tanta robba. Tanta robba. Tanta robba.

Urlava. Non riuscivano a tapparle la bocca. La puttana mordeva. Ma lui vedeva le stelle cadenti e un uomo impiccato pendeva dalle sbarre alla finestra. Michele si tolse la cinta. Una cascata bianca piovve nella gola della ragazza. Urla soffocate di dolore. Saliva la botta. Sempre di più. Sempre di più. Michele sentiva che tutto saliva.

Rise e si sbottonò i pantaloni.

La ragazza urlava.

Michele era nel buio.

Galleggiava nell’oscurità. Un movimento lento e sinuoso che lo cullava sospeso nel nulla.

Il Propofol è un anestetico. Il Propofol è un agente ipnotico. Il Propofol ha effetto immediato. Quindici secondi e spegne la tua coscienza. Quindici secondi e il mondo attorno a te sparisce. I medici e gli infermieri lo chiamano “latte di amnesia” o “lattuccio” per quel suo aspetto bianco e denso. Per via endovenosa raggiunge subito il cervello e lì compie il suo dovere.

Il buio era denso e uniforme. Un liquido nero che gli riempiva la bocca e il cuore ovattando ogni cosa. Michele lo percepiva circolare dentro di sé mentre la mente continuava a fargli strani scherzi.

«Guaglio’, dove sta il mio libro?».

Era la voce di Pinochet che gli risuonava da chissà quale luogo e tempo.

Provò a rispondere ma era inutile. La bocca era spalancata e immobile, senza suoni e senza vita. Riusciva a parlargli soltanto nella propria testa.

Non lo so, lo Zì, nun l’aggio visto.

«Miche’, tu lo sai che devi leggere? Che devi farti una cultura? Che devi uscire da ’sta galera?».

Lo so, lo so, Don Ciro. Me lo ripetete ogni giorno.

«Impara’ le cose è importante. Se impari le cose non tieni paura».

Lo Zì, io non tengo mai paura.

«Non dire cazzate, guaglio’, tutti tengono paura. Pure io».

E di che tenete paura, Don Ciro?

«Eh guaglio’, tengo paura di me».

Il silenzio echeggiò dentro Michele mentre quelle parole attraversavano il buio.

«Tu lo sai perché mi chiamano Pinochet?».

No, lo Zì, non me lo ricordo.

«Sforzati, Miche’, pensa bene che so’ sicuro che te lo ricordi».

Michele vide nel vuoto. Vide schegge di ricordi e pensieri comporsi davanti agli occhi chiusi. Vide un piccolo aereo da turismo, bianco e rosso con le ali che fluttuavano lente. Volava a bassa quota sul mare aperto. Il portellone si aprì e un corpo cadde giù. E poi un altro, e un altro, e un altro ancora. L’aereo proseguiva in volo radente mentre i corpi piombavano nell’acqua alzando spruzzi e spuma di mare. Attorno, solo il blu dell’acqua e del cielo che si confondevano all’orizzonte.

«L’aggio imparato dal vero Pinochet. Quello del Cile. Caricavamo gli infami sull’aereo, mani e braccia legate, e poi li buttavamo fuori. Al largo, lontano. Volavamo bassi, così che nessuno si accorgesse di noi. Quasi sempre li gettavano in mare vivi, che poi per morire tenevano tempo. Dopo un po’ non ce la facevano più a restare a galla, e allora piano piano se ne scendevano a fondo, e i pesci facevano il resto. Alcuni, quelli più simpatici, li ammazzavamo prima di buttarli, tagliandogli la gola, e morivano dissanguati in acqua. Non era il massimo, ma almeno era veloce. In un modo o nell’altro, tutti cominciavano a morire sull’aereo. A morire per la paura. Sapevano cosa li attendeva, urlavano, scalciavano, pregavano, c’era pure chi si pisciava addosso… ma era inutile e non c’era bisogno di spiegarglielo. Era un metodo semplice e pulito, senza la preoccupazione di far sparire il corpo. Perché se non ci sta il corpo non ci sta indagine. Se non ci sta il corpo non ci sta omicidio».

Lo so, lo Zì.

«Lo so che lo sai».

La voce di Pinochet era diventata profonda e aveva una nota ironica, come se riuscisse a malapena a trattenere una risata.

Michele continuò a vedere l’aereo che gettava uomini fra le onde, come semi su un campo arato. Una semina di cadaveri. Una semina pronta a dare i suoi frutti.

6.

Le immagini svanirono lentamente e il manto nero riprese a fluttuare come un mare gelido e indifferente. La mente di Michele rallentò il suo galleggiare e lui sentì il pavimento sotto la faccia. Duro, freddo, reale. Il cemento grezzo graffiava e pesava sulla fronte.

Prese coscienza del suo corpo inerme e della morsa che gli stringeva il collo. La testa era ancora ottenebrata, tutto era avvolto da una placenta di nebbia e oscurità. Ma le ombre presero forma e percepì la figura che si muoveva sopra di lui.

«Sveglia, Michele. È ora di alzarsi, tesoruccio mio».

Le parole arrivarono da lontano, flebili e ironiche.

Aprì le palpebre e vide la debole luce della sala computer filtrare da una entrata socchiusa. Era la stessa porta in metallo che aveva visto appena dentro la stanza del Bulgaro, quella chiusa con un massiccio lucchetto che aveva fatto suonare in lui un vago campanello d’allarme. Un campanello che, preso dalla sua smania di continuare il viaggio, si era rifiutato di ascoltare.

Era disteso supino, braccia e gambe ancora addormentati. Non riusciva a muoverli. Mille sottile punture fra pelle e sangue, nervi e ossa.

Mika gli premette un pesante scarpone sul fianco e lo voltò con violenza, quasi scalciandolo via. Il suo corpo rotolò come un vecchio tappeto e Michele vide l’ombra dell’uomo troneggiare sopra di lui, appena distinguibile nel buio della stanza. Eppure, anche così, anche nella confusione della sua mente, e nell’oscurità, era sicuro che stesse ridendo di lui. Del resto ne aveva tutti i motivi: il famoso Michele Tiradritto si era appena fatto fregare come l’ultimo dei guaglioni.

Nella mano, alzata davanti al viso, il Bulgaro stringeva una siringa. Si voltò compiaciuto verso la porta socchiusa.

«Visto come basta poco? Una punturina per addormentarlo e una per svegliarlo. Questo è tutto, avvocato. Ci facciamo quello che ci pare con questo qui. È un burattino in mano a noi. Lo vendiamo a chi vogliamo. Tu cerca il compratore, che a tenerlo buono ci penso io. L’importante è che rimane vivo, giusto?».

«Sì, deve essere vivo». La voce di Umberto arrivò flebile dall’altra stanza, ma Michele la distinse ugualmente mentre provava a snebbiare i suoi pensieri. Cercava di fermare il vortice che aveva in testa, concentrando se stesso su una sola idea: rimanere vivo. Questo era già un ottimo inizio.

«Ma se glielo consegniamo un po’ acciaccato non sarà un problema».

«Non lo so. Credo… credo di no» titubò l’avvocato. Era chiaro che quella situazione lo terrorizzava.

Quel coglione aveva sempre paura di tutto.

Fu un pensiero rapido e irrazionale che passò nella mente di Michele. Lo fece subito sentire meglio. Se riusciva a pensare certe cazzate, voleva dire che stava tornando padrone di sé. Che cominciava a farsi un’idea della situazione, anche se non gli piaceva per niente.

Il Bulgaro si avvicinò. La sua ombra scura riempì gli occhi del vecchio boss confondendosi con il soffitto nero della stanza.

«Hai sentito, Michele? Posso farti male. L’importante è che resti vivo». La sua voce era compiaciuta, quasi eccitata. «E fidati che in Cecenia ho imparato tanti bellissimi giochini per farti soffrire. Non vedo l’ora di divertirmi con te».

Michele capì che chillu strunz’ non era solo pericoloso, era completamente pazzo.

Lo vide chinarsi ancora di più su di lui.

«Questa non ti serve e me la prendo io».

Sentì le mani dell’uomo strappargli dal collo la catenina d’oro che portava. Sottile, delicata, con un crocifisso nel mezzo. Un colpo secco che la spezzò graffiandogli la pelle, ma Michele ebbe la sensazione di tornare a respirare, come se l’aria rifluisse di nuovo nei polmoni. Un sussulto di piacere che il Bulgaro scambiò per dolore.

«Sei delicato, signor Tiradritto. Aspetta che ti mostri i miei attrezzi, e allora sì che diventeremo amici. Mi hai capito? Rispondi, hai capito?».

Michele si finse più intontito di quello che era, scuotendo vagamente la testa e biascicando parole senza senso.

«Ma non è che ci resta secco?». Era ancora l’avvocato.

«No, tranquillo, è solo sedato. Evidentemente non regge il Propofol. Meglio così, starà più buono e gli dovrò fare meno punture».

«Perché, ce ne servono altre?».

«Avvocato, te l’ho già detto: tu pensa a trovare il compratore. Quello che paga di più. Qua lo so io come fare. In guerra mi occupavo dei prigionieri, li facevo parlare e gridare, piangere e pregare. Li tenevo in vita e li facevo morire. Per loro ero Dio. E lo sarò anche per questo stronzo».

L’avvocato rimase in silenzio. Un silenzio molto chiaro, che non consentiva repliche, e da cui non si poteva tornare indietro. Michele registrò la cosa.

Il Bulgaro si allontanò per qualche istante lasciandolo disteso a terra, immobile e muto. Dopo un attimo qualcosa venne buttato sul pavimento di cemento nudo. Un rumore di plastica e metallo risuonò fra le pareti chiuse della stanza.

«E non mi pisciare per terra. Altrimenti vengo e ti strappo le unghie!».

La porta si richiuse con un fragore di metallo. Poi lo scatto secco del lucchetto. Il mondo tornò oscuro.

Michele cercò di fissare un soffitto che non riusciva a vedere. Il buio della stanza era assoluto e i suoi occhi non avevano alcuno spiraglio di luce. Rimase lì sdraiato per un tempo indefinito, cercando di respirare a fondo per dare ossigeno alla mente. Sentiva ancora la droga pesargli sulle palpebre, faticava a restare sveglio. Aveva le braccia legate sul davanti con delle fascette in plastica, come quelle che usano gli elettricisti o i poliziotti in America, impossibile strapparle. Erano strette fino a far male. Un vago formicolio alle dita, il sangue passava anche se con difficoltà. Prese a muoverle per non farle addormentare. Le gambe invece erano libere, tanto non poteva scappare da nessuna parte, e lentamente ne riprese il controllo.

Si sentiva calmo. Di una calma fredda e irrazionale. Come se la cosa non lo riguardasse più di tanto. Come se l’essere intrappolato in quella cantina, con un Bulgaro pazzo che lo voleva seviziare non fosse una delle sue priorità da risolvere. Era tornato in una prigione, in un acquario che conosceva, e in cui sapeva muoversi. Sapeva come comportarsi e soprattutto aveva un vantaggio rispetto ai suoi avversari: lui era disposto a morire per ottenere quello che voleva.

Nel buio rivide ancora una volta la faccia di Pinochet che gli raccontava degli uomini lanciati dall’aereo, del tonfo dei loro corpi in mare. Il suo viso era inespressivo, una tavolozza grigia e senza luce. Gli diceva quelle cose perché dovevano essere dette, perché doveva sapere, ma non c’era nella sua voce alcuna vanteria. Nella voce di Don Ciro non era rimasto più nulla. Il suo passato, il potere, la famiglia, il denaro, la cocaina, la morte del figlio: tutto era sparito da quel viso e le sue parole risuonavano solenni come dentro una cattedrale, ma in realtà provenivano da un guscio vuoto.

Cercò di cancellare quell’immagine, così come cercava di rimuovere il viso dolce e sorridente di Milena. Ma quella era un’altra storia. Una storia che gli toglieva il fiato e che non era ancora pronto ad affrontare.

Cacciò tutti i pensieri e tornò a concentrarsi sul suo corpo. Provò a tirarsi su. Sentì le gambe tremare, poggiò le mani sul pavimento di cemento e piegò le ginocchia. Avvertì un improvviso capogiro, sangue e droga defluivano nel cervello, lottò con se stesso per rimanere concentrato e non crollare a terra. Fece un paio di passi tremolanti nel buio e andò a sbattere contro una parete. Un colpo sordo alla testa. Ma perlomeno era un punto di appoggio. Si voltò schiena al muro, schiacciando il peso sulla parete. Tirò un profondo sospiro. Aveva una sete tremenda e continui sbandamenti. Il suo corpo doveva ancora smaltire le tossine che lo avevano fatto sprofondare nel buio.

Si mosse barcollando, le braccia tese davanti a sé. Pochi passi e trovò la parete opposta. Si voltò di nuovo cercando di esplorare la stanza. Era un cubo di cemento di pochi metri. Praticamente identico alla cella dove aveva trascorso gli ultimi vent’anni. Gli venne da sorridere. Un sorriso isterico e irreale. Continuava a vedere se stesso come un pesce in un acquario, che nuotava e nuotava solo per sbattere contro il vetro. Boccheggiava e si dibatteva senza possibilità di fuga. Era scappato da Napoli, aveva preso a pugni il passato, era finalmente pronto a continuare il viaggio in quel pozzo nero che era il futuro, ma era stato tutto inutile. Gira e vota… era tornato nella stessa galera da cui era partito.

Urtò qualcosa con la gamba. Si accucciò tenendo le mani legate ben dritte. Era un secchio di plastica, uno di quelli da muratore con il manico in ferro che si usano per trasportare i calcinacci. Doveva essere, secondo il Bulgaro, il bagno. Da utilizzare se non voleva che gli strappasse via le unghie. Nel secchio c’era una bottiglia di plastica. Michele la soppesò. Acqua. Il minimo sindacale per tenerlo in vita. Aprì la bottiglia bevendone metà in un solo sorso. Sentiva la gola riarsa e secca, e quel liquido fresco era una benedizione. Tirò un lungo sospiro di soddisfazione, ma dopo un attimo dovette lottare con se stesso per non vomitare. I conati gli risalivano l’esofago fino alla bocca. Prese a camminare avanti e indietro per svegliare i muscoli. Provò a tirare le fascette che gli stringevano le mani, ma era inutile spezzarle.

Tornò a bere dalla bottiglia per sentirsi vivo. Ancora una volta i conati di vomito gli squassarono lo stomaco ma si doveva trattenere, doveva riuscire a tenere tutto dentro il più possibile. Doveva essere lucido e concentrato. Pronto e cattivo. Doveva tornare a essere il vecchio Michele Tiradritto.

Sbarrò gli occhi e si ficcò due dita in gola.