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Il giorno spunta in modo sinistro

Mercoledì 20 gennaio 2016,

Santi Sebastiano e Fabiano

1.

Giovanni Morra era un assassino. Un uomo dei clan. Una mezzasega di criminale che era andato avanti ammazzando tossici senza speranze e leccando il culo al capo di turno. Uno di quelli forte con i deboli e debole con i forti. Era capace di mordere e far male, ma fondamentalmente era un cane addestrato che sapeva stare a cuccia e scodinzolare a comando. Nell’organizzazione non teneva considerazione né rispetto, ma era pur sempre un uomo dei clan.

La notizia di essere uno dei fortunati possessori di una lapide al cimitero lo aveva raggiunto agli arresti domiciliari, dove stava finendo di scontare una pena a cinque anni per traffico d’armi e stupefacenti. Un medico affiliato all’organizzazione e i suoi certificati avevano fatto il miracolo. “Gravi ragioni sanitarie”. E lui se ne era tornato beatamente a casa sua. Ovviamente in perfetta forma.

Certo, ogni tanto si doveva sorbire le visite di controllo dei carabinieri, ma ormai gli facevano quasi piacere, erano diventate un passatempo tutto suo. Li accoglieva con un sorriso del cazzo stampato in faccia, e con una dolce aria strafottente gli chiedeva pure se per caso gradivano un caffè. E lui li vedeva che ci stavano male, che gli rodeva e tenevano i nervi a fior di pelle a vederlo fuori dal carcere, a casa sua. Poveri scemi. Loro e il loro stipendio di merda.

Vita da sbirro, vita da infame.

Una delle grandi verità della vita che aveva imparato fin da guaglione.

Nel dubbio che questa storia si chiarisse e che qualcuno dell’organizzazione si facesse vivo per dirgli che era tutto a posto, aveva ammazzato la tensione con troppa cocaina e l’euforia dell’onnipotenza l’aveva fatto ridere delle lapidi al cimitero.

Adesso però gli era scesa la botta e si sentiva stordito, con il pensiero di Vittoriano ’o Maresciall sgozzato che gli rimbalzava in testa.

Fissò il tavolino del soggiorno con gli ultimi rimasugli di polvere bianca, li raccolse svogliato con l’indice della mano destra e se li passò sulle gengive, emise un piccolo sbuffo, il volto rotondo si rilassò, pronto a cadere in pezzi. Ormai aveva cinquant’anni e certe storie non se le poteva più permettere. Quell’amara e sincera considerazione lo fece quasi sorridere mentre si toccava la pancia gonfia. Valutò l’opportunità di una puttana rumena da night o di una nuova botta di coca, ma si sentiva stanco e alla fine decise di farsi due dita di grappa e di andarsene a dormire.

E vaffanculo a tutti. Cimitero compreso.

Il corpo fu trovato dai vicini esasperati.

La musica era andata avanti tutta la notte. Il pianerottolo rimbombava e le note attraversavano i muri sottili. Nessuno teneva il coraggio di protestare. Sapevano da dove veniva quel frastuono, ma nessuno si era alzato dal letto per urlare o battere contro il muro, nessuno aveva chiamato le guardie, nessuno aveva fiatato. Quella non era una zona come tutte le altre.

Quella era Scampia e il loro palazzone figlio dell’emergenza post-terremoto se ne stava, fra alloggi occupati e costruzioni abusive, sempre lì da trent’anni, oltre il parco dedicato a Ciro Esposito, il tifoso del Napoli ammazzato per una partita di calcio, a pochi passi dalle Vele, che con la loro bianca e ingombrante mole oscuravano l’orizzonte e la vita di tanti.

Lì non si poteva protestare. Anche volendo chiamare qualcuno nessuno sarebbe venuto. Se la polizia entrava in quella zona lo faceva in massa, assetto da guerra e sirene spiegate, e solo per le grosse operazioni: droga, armi, qualche latitante. E poi che figura ci si faceva, se si veniva a sapere che uno del quartiere aveva chiamato gli sbirri? Era come darsi la patente di infame, e a quella nessuno ci teneva. La gente tirava a campare, senza infamia e senza lode, solo a campare. Alla fine della fiera, il concetto di base era che Giovanni Morra detto Bebè poteva fare quello che voleva e loro dovevano solo stare zitti. Punto e basta. Senza aggiungere altro.

La musica continuava a riempire l’androne delle scale. Sempre la stessa canzone, a volume altissimo. Una. Due. Tre volte. In loop per l’intera notte.

Tutti la conoscevano e a tutti piaceva.

Perché così doveva essere.

Era l’alba quando il vecchio dirimpettaio, esasperato ma timoroso, si azzardò ad avvicinarsi alla porta socchiusa. Spinse il battente chiedendo ossequioso il permesso di trasire. Alzò la voce per farsi sentire sopra le note di Gianni Celeste che con voce commossa cantava la triste storia di un latitante costretto a lasciare gli affetti più cari per sfuggire agli sbirri.

e chell’occhie re criature nun capevano

n’araggione ca partive sule tu

ti stringeste forte forte

e po’ nun t’hanno viste cchiù

Il vecchio trattenne a stento una smorfia. Non era il caso di passare un guaio. Ma sentì qualcosa dentro di lui che si contorceva. Quella canzone non la poteva soffrire, così come non poteva soffrire quelli come Giovanni Bebè, ma lì in quel palazzo, in quella strada, in quel quartiere, si doveva stare ordinato e coperto, come quando faceva il militare. Teneva figli e nipoti e l’ultima cosa che voleva era mettersi in mezzo ai guai. Lui per quella gente era invisibile, un’ombra senza importanza che fugge via e così voleva rimanere. Un’ombra.

Chiese di nuovo permesso. Niente. Rispondeva solo Gianni Celeste.

nu latitante nun tene cchiù niente

luntano rr’o bbene a nascuse da gente

lurtimo amico a deventa importante

pe fa’ nu regalo a chi aspett’e a papa

Il vecchio entrò nell’ampio salone. La luce filtrava attraverso le serrande e la stanza era un alternarsi di chiaroscuri.

Il corpo di Giovanni Morra detto Bebè pendeva dal soffitto.

nu latitante è ’na foglia int’o viento

nun po’ allucca’ nun po’ di’ so’ innocente

telefono a casa pe’ di’ sulamente

rimane è Natale, vulusse turna’

Era stato impiccato con un laccio a strozzo d’acciaio. Uno di quelli che usano i bracconieri per catturare le bestie in mezzo ai boschi. Uno di quegli aggeggi che più tiri e più si stringe, senza alcuna possibilità di scampo. La pelle del collo era lacerata in profondità, fino a recidere la gola. Il sangue aveva macchiato il pigiama di seta azzurra, colando lungo il petto ampio e la pancia rotonda. Gli occhi erano sbarrati a fissare il vuoto, migliaia di capillari erano esplosi e il sangue li rendeva brillanti. La bocca era spalancata e nera, la lingua gonfia sbucava fra i denti.

Non era stata una morte veloce. Il collo non si era spezzato, l’aria era sgusciata lenta fuori dai polmoni, fino all’ultimo respiro, come da una palloncino bucato. Il dolore alla gola doveva essere stato atroce. Giovanni Bebè aveva le mani coperte di sangue. Aveva cercato di allentare il laccio fino a spezzarsi le unghie, ma era stato del tutto inutile. Il laccio si era stretto sempre di più mentre il suo corpo veniva sollevato verso l’alto dei cieli. Fino al gancio del lampadario che stava per crollare a terra. Giovanni aveva scalciato come una bestia al mattatoio, ma adesso era perfettamente immobile, appeso e silenzioso, come uno di quei fili a piombo che si usano per tirare su i muri.

Il vecchio con un sorriso sadico notò che si era pisciato addosso.

nu latitante nun tene cchiù niente

Si diresse verso l’impianto stereo e lo spense. Finalmente un po’ di silenzio. Non ne poteva più di quella musica. Pensò subito che doveva dire a sua moglie di strillare e piangere, battersi il petto e strapparsi i capelli, possibilmente in pubblico. Dovevano portare rispetto al morto. Era quello che tutti si aspettavano ed era quello che dovevano fare per non avere problemi.

Si voltò e tornò lento verso il suo appartamento strascicando le ciabatte consumate.

Era pronto il caffè.

2.

Michele si svegliò con il fiato che gli moriva in gola.

Si guardò intorno stordito cercando di ricordare dove si trovasse. La sua vecchia stanza era avvolta nella penombra, una sottile lama di luce filtrava dalle finestre. Il letto era un ammasso di coperte aggrovigliate e la polvere del materasso gli impastava la gola. Si passò una mano sulla faccia, concentrandosi sul soffitto della stanza, e tornò alla propria vita. A vent’anni di carcere, a due guaglioni che non tenevano rispetto e a quella casa abbandonata, senza luce e senza acqua, in cui aveva passato la notte. Un rifugio del passato. Un rudere della sua vita.

Nun era cchiù cosa pe’ lui.

Deglutì, sentiva la bocca asciutta e un sapore di metallo secco. Si tirò su dal letto, voleva togliersi da lì, da quelle coperte sgualcite e sudate, da quel silenzio che continuava a rimbombargli nella testa. Aveva bisogno di aria, di tornare a respirare. Si mise in piedi cercando di dare una rassettata ai vestiti, ma era inutile. Stava una schifezza.

La novità della liberazione e l’adrenalina della lotta erano passate e lui adesso si sentiva andare in pezzi. Pronto a sgretolarsi sotto il peso della vita. Come se la galera fosse stata l’ultima cosa a tenerlo insieme, a farlo andare avanti, nel bene e nel male, ma pur sempre avanti. Adesso invece aveva solo voglia di dormire, scomparire in un mondo silenzioso e buio, e riposarsi. Si sentiva stanco, di una stanchezza profonda che partiva dalle ossa e rendeva tutto lento e doloroso. Voleva riposare, ma non voleva rimettersi in quel letto. Lo guardò con disgusto e decise di uscire per sempre da quella stanza.

Recuperò la pistola del palestrato dal comodino, premette il pulsante sul calcio estraendo il caricatore e controllò quante pallottole aveva a disposizione. Sette. Non stava messo bene e questo poteva essere un problema. Rimise il caricatore a posto con un colpo secco, si infilò il ferro dietro la schiena stando attento a coprirlo con la maglia e tornò sbuffando nel salone.

Sentì subito un odore penetrante di muffa e bruciato. A terra c’erano le chiazze di sangue rappreso. L’idea di pulire non lo sfiorò minimamente. Aveva fame e sete, gli faceva male la testa e aveva addosso l’odore acre del proprio sudore. Si accese una sigaretta, il sapore caldo e denso lo fece tornare alla realtà. Tirò un lungo sospiro, sentiva la mente snebbiarsi.

Prese il sacco della galera, cercando un maglione decente. Provò a darsi una sistemata ma servì a poco. Scansò la pesante catenina d’oro, accessorio imprescindibile del passato, e trovò il vecchio libro sgualcito. L’uomo che ride di Victor Hugo. Era una copia letta e riletta, l’aveva rubata dalla biblioteca del carcere, o meglio non l’aveva mai restituita. Non il suo peggior crimine.

Era la storia di un ragazzo sfigurato da una lunga cicatrice che gli squarcia la bocca, condannandolo a un perenne ghigno. Un sorriso amaro e crudele, che lo accompagnerà dal primo all’ultimo giorno della sua vita. Un trovatello che diventa fenomeno da baraccone assieme a un improbabile patrigno e a una bambina cieca, che scopre le sue nobili origini di pari d’Inghilterra e trova la vera e profonda crudeltà del mondo, il disprezzo di chi non lo accetta e una tragica fine fra le onde del mare. In una notte fitta e sorda, ormai solo al mondo, si lascia cadere fra i flutti inabissandosi mentre “la nave continuò a navigare e il fiume a scorrere”. Insomma un drammone ottocentesco scritto alla grande, una di quelle storie che una volta che ti hanno preso ti travolgono e sconvolgono, ti portano in giro come una marionetta vuota, fra spazio e tempo, amore e dolore, vita e morte, sino all’ultima devastante emozione, sino all’ultima cazzutissima pagina.

Michele sorrise, anche se il suo ghigno non aveva nulla dell’amato e sfortunato protagonista.

Sorrise e ripensò a Pinochet.

Erano in cella insieme da meno di tre mesi e la convivenza procedeva serena. Andavano d’accordo, non c’era altro modo per dirlo. Michele irruento e dinamico, aggressivo con gli altri detenuti e sprezzante delle guardie; Pinochet dimesso ed educato, silenzioso e abitudinario. Avevano trovato uno strano equilibrio, e la vita nei loro dieci metri quadrati procedeva bene. Si smezzavano le sigarette e compravano assieme al sopravvitto. Don Ciro gli sembrava ancora l’aiutante scemo di Babbo Natale, ma continuava a portargli rispetto, un po’ perché ne aveva sentite troppe sul suo conto e un po’ perché in fondo gli stava simpatico. Lo faceva stare tranquillo. Era come se lui non stesse in galera, come se quella merda fatta di cemento e acciaio non lo riguardasse. Michele in sua compagnia si rilassava, non era più una molla pronta a scattare contro tutto e tutti. Sentiva le spalle diventare pesanti e un formicolio alla base del collo, stava sereno e si faceva la galera. Metteva su il caffè e Don Ciro si gettava con la faccia in mezzo a un libro.

A Pinochet piaceva leggere. Anzi, adorava leggere, era una vera ossessione. Prendeva i libri in prestito dalla biblioteca del carcere, glieli spedivano da fuori, glieli regalavano gli altri detenuti e lui li leggeva e li infilava sotto il letto, e poi li rileggeva e continuava a infilarli ovunque. Le guardie facevano finta di non accorgersene e a Michele non dava fastidio. In fondo lui leggeva e non rompeva mai il cazzo. Una situazione perfetta.

«Don Ciro, ’o pigghiate ’o cafè?».

Pinochet era sdraiato sulla sua branda. Alzò per un istante la faccia dal libro. «E certo, guaglio’. ’O cafè è sempre ’o cafè».

Michele sorrise, a volte gli sembrava che Don Ciro fosse uscito da una di quelle commedie di Eduardo che sua madre vedeva alla televisione, una vita fa. E poi non era un problema se lo chiamava guaglio’. Poteva essere suo padre.

Michele spense il fornelletto e versò il caffè in due bicchierini di plastica. Ne allungò uno al compagno di cella e si sedette sullo sgabello in legno. Fornitura ufficiale standard dell’amministrazione penitenziaria, manifattura non pregiata di altri detenuti in altre carceri.

«È bello u libr’?» chiese Michele accennando al volume abbandonato aperto sul letto.

Don Ciro lo fissò da sopra il bicchierino mentre soffiava sul caffè. «Ajè, guaglio’, c’hai messo solo tre mesi pe’ famme ’sta domanda. Ma comunque sì, è bello».

«E di che parla?». Michele beveva il suo caffè.

«E non te lo posso dire».

Il giovane camorrista lo guardò incuriosito.

«I libri non si raccontano, si leggono» disse il vecchio boss.

«E ma io non l’aggio mai fatto. Non mi piace leggere. Nun so’ capac’. Nun teng’ pacienz’. Nun fa pe’ me».

Don Ciro lo guardò con un sorriso. «E quante scuse tieni. Se non vuoi leggere nun ce sta problem’. Però chist’ libr’ è bell’. Te piacerebbe».

«No, Don Ciro, non mi piacerebbe. Mi stufo facile».

«Vabbuò, guaglio’, fa’ tu, e grazie per il caffè».

«Prego, Don Ciro, ci mancherebbe».

Michele tornò alle sue cose e Don Ciro fra le pagine del libro. La giornata trascorse tranquilla e sempre uguale a se stessa. Michele andò ai passeggi e poi a raccontare un po’ di cazzate a una psicologa, un modo come un altro per passare il tempo. Prima della chiusura delle celle rientrò accompagnato da una guardia. Don Ciro dormiva sulla branda di sotto, un pisolino a metà pomeriggio, teneva gli anni e cominciava a stancarsi presto.

Michele salì sul letto di sopra, deciso a farsi una mezz’oretta di riposo prima che il portavitto arrivasse con il carrello della cena. Si allungò sul vecchio materasso e si ritrovò il libro in mezzo alla schiena.

E che cazz…

Don Ciro doveva averlo poggiato lì per sbaglio. O forse gli voleva fare un regalo. Michele se lo passò fra le mani, era rovinato, la copertina piegata e ingiallita, le pagine segnate da mille pieghe. Veniva dalla biblioteca del carcere, teneva il bollino davanti e il timbro sulla prima pagina.

L’uomo che ride di Victor Hugo.

E questo mi ci mancava, uno che mi piglia per il culo.

Michele sorrise e aprì la prima pagina.

Erano passati quindici anni.

Il libro era sempre lo stesso, solo un po’ più consumato. E anche Michele si sentiva così: acciaccato, piegato e segnato dagli anni. Ma lui, almeno lui, al contrario del libro era cambiato. Se nel bene o nel male non ne aveva idea, e non gliene importava, quella era roba da psicologi del carcere, sapeva solo che quel guaglione di tanti anni prima, arrogante e spavaldo, ormai non lo conosceva più, e non ci teneva a rincontrarlo.

Buttò il libro sul tavolo del soggiorno, fra i centrini ingialliti e il portafrutta scheggiato, prese i suoi quattro stracci infilandoli nei borsoni di tela e si lasciò alle spalle quella casa.

Le scale erano un impiastro di polvere, intonaco e sangue. Aprì il portone e una zaffata di fumo e fuliggine lo avvolse.

Gli venne da sorridere. Doveva aspettarselo.

Le buone abitudini si tramandano di padre in figlio.

Quella notte qualcuno aveva dato alle fiamme il portone di casa sua. Era bruciato come un cerino. Un lavoro pulito e serio, una bottiglia di benzina, niente di più, non si era accorto di nulla. Un incarico semplice per un guaglione di belle speranze che voleva farsi notare. L’odore acre di bruciato aveva invaso la strada riempiendo gli anfratti dei vicoli. Un avvertimento chiaro per tutti. Un avvertimento per lui.

La strada era sgombra, qualcuno aveva portato via la Mercedes e i corpi dei due ragazzi senza rispetto. Nessuno, però, aveva tenuto le palle per venirlo a salutare dopo tanti anni, guaglioni deficienti a parte. Nemmeno quei vicini di casa che lo avevano visto crescere o che avevano conosciuto i suoi genitori, nessuno voleva mettersi in mezzo.

Si guardò intorno. Portoni e finestre sbarrati, occhi chiusi affilati uno dietro l’altro. Non vedere, non sentire, non parlare, come scimmiette ammaestrate. Ma nonostante quell’assordante solitudine, Michele sapeva di essere osservato da qualche zelante suddito che da dietro una persiana era pronto a riferire ogni suo movimento, ne sentiva gli sguardi addosso. Mormorii e sussurri accesero la fantasia invadendogli la mente. Scosse con forza la testa scacciando quei pensieri. Diede un ultimo sguardo alla strada per non dimenticare quelle finestre sbarrate. Per imprimersele nella mente una a una.

Chiuse il portone bruciato e andò via.

3.

La città era sempre uguale a se stessa. Erano cambiati i motorini e le macchine, le vetrine dei negozi e i vestiti dei ragazzi, ma le facce no. Le facce erano sempre quelle. Michele le fissava stupito. Erano i volti della sua giovinezza e dei suoi ricordi, le facce della sua gente. A ogni passo aveva l’impressione di riconoscere qualcuno, un vecchio compagno di scuola, per quel poco che c’era andato, un amico di quando a dodici anni faceva il cameriere in pizzeria, un altro di quando faceva la sentinella per lo spaccio, o qualcuno del periodo della bella vita nei locali. Ma erano passati vent’anni, e quelle facce, in realtà, erano solo degli sconosciuti. I volti dei suoi ricordi, quelli veri, stavano da un’altra parte, i più fortunati in galera, gli altri al cimitero. Sparati o drogati non importava, la strada se li era portati via e li aveva condotti sempre allo stesso posto, sotto terra.

Michele camminava lento, sapeva che qualcuno sui tetti lo controllava e non voleva rendergli il lavoro troppo difficile, non ancora. Al clan di sicuro non era piaciuta la sua risposta all’invito del giorno precedente. Ma lui si sentiva tranquillo, era troppo presto perché prendessero una decisione, lui era conosciuto e prima di emettere la condanna a morte avrebbero dovuto riunirsi per decidere, il che gli dava almeno un paio di giorni di tempo.

Si rese conto che continuava a fissare le persone che incrociava, cercò di smettere ma non ci riusciva, era più forte di lui. Tutta quella gente, diversa, nuova, sconosciuta. I rumori della città, i colori delle vetrine, gli odori penetranti e densi, ogni cosa turbinava nella sua mente, tutto troppo veloce e confuso perché potesse capirci qualcosa.

Solo il giorno prima si sentiva stanco e scombinato, sorpreso e incazzato, come se tutto stesse accadendo a un’altra persona e lui fosse solo uno spettatore della sua vita. Immagini sfocate di un film già visto, dalle porte del carcere che si aprivano al sangue dei due guaglioni sulle scale di casa sua. Si era mosso come un automa, aveva fatto le cose che bisognava fare, cercando di non pensare. Ma adesso era diverso, adesso cominciava a capire che quello che camminava libero per le vie del suo quartiere era proprio lui. Aveva aspettato quel momento per tanto tempo, ci aveva fantasticato sopra nel cortile di passeggio durante le ore d’aria, oppure steso sulla branda della cella, e negli ultimi anni era arrivato sempre alla stessa conclusione, prendendo ogni volta la stessa identica decisione. Ma un conto era pensare e decidere fra le mura di una cella, con le sbarre alle finestre e la vita programmata, e un conto era farlo da uomo libero e senza futuro.

Si accese una sigaretta, fra il clacson delle macchine e il viavai delle persone. Cercava un po’ di conforto nei gesti conosciuti, chiuse gli occhi ascoltando il fumo caldo in bocca, l’odore acre del proprio corpo e il lamento dello stomaco affamato. Forse non era il posto migliore per riflettere sull’esistenza, ma non ne aveva altri. Quel metro quadro di marciapiede, fra pedoni frettolosi e scarichi delle macchine, era quello che gli aveva riservato la vita, e lui se lo doveva far bastare. Cercò dentro di sé il significato di tante cose: la libertà, il passato, il presente, i peccati, il perdono. Come al solito non trovò nulla e capì che forse l’unica cosa che gli restava era farsi trascinare di nuovo. Riprendere a guardare la sua vita come fosse il finale di un brutto film, le ultime scene di una storia senza senso, dalla trama confusa e dal finale segnato, aspettando solo i titoli di coda. Non aveva più senso cambiare le carte in tavola, aveva cominciato una partita e tanto valeva finirla. E se avesse perso non sarebbe stato un problema.

Gettò la sigaretta a terra e alzò la testa al cielo. Non vide nessuno che lo osservava da sopra i tetti, ma erano lì. Sapeva cosa fare, lo aveva deciso anni prima, e adesso era arrivato il momento.

Si mosse rapido infilandosi nel mercatino del Rione Berlingeri, un quadrato cittadino brulicante di folla, fra le bancarelle di vestiti griffati e CD taroccati, fra le urla dei commercianti e il divertito chiacchiericcio delle donne in cerca dell’ultima occasione. Lo attraversò per intero, confondendosi fra i bianchi teloni dei banchi, cambiando spesso direzione, tornando sui propri passi, andando avanti, accelerando all’improvviso e fermandosi per guardarsi attorno. Sorrise alle donne che lo osservavano come un matto mentre si tiravano dietro il carrellino per la spesa.

Uscì dal mercato e proseguì per le vie della città, salendo e scendendo a caso dagli autobus, entrando nei cortili e uscendo dalle porte di servizio, rubò un maglione e un cappello da un negozio di abbigliamento, gettò i suoi in un vicolo, mangiò qualcosa e si prese un caffè con i pochi soldi che gli avevano dato in carcere. Si trascinava dietro una delle borse di tela, ma era mezza vuota, ci teneva solo lo stretto indispensabile e presto avrebbe buttato anche quella.

Attraversò strade e vicoli, diretto là dove era cominciata la sua fortuna. Dove Peppe ’o Cardinale non lo avrebbe mai cercato.

Nel suo regno.

Le vele di Scampia erano visibili in lontananza e Michele ebbe un vago senso di stordimento, un déjà-vu doloroso che gli fece rimpiangere il carcere. Avevano la forma di una piramide bianca che dal cielo scendeva verso terra in tanti lunghi gradoni, che affondavano le loro fondamenta nella merda e nel sangue. Erano un alveare di centinaia di appartamenti incastrati gli uni negli altri, con lunghi corridoi e ballatoi, balconi e scalinate, un’opera architettonica ardita e innovatrice che si era trasformata nella più grande piazza di spaccio d’Europa. Un fortino inespugnabile fatto di vedette sui tetti e inferriate negli androni, appartamenti bunker e monnezza ovunque, con nascondigli per droga e armi, e una fila ininterrotta di tossici che arrivavano da tutta la città per bussare alle porte blindate con la certezza di poter trovare qualsiasi cosa. Ogni tanto la polizia irrompeva, faceva i suoi arresti, sequestrava qualcosa, mentre i vigili del fuoco tagliavano cancelli e grate con la fiamma ossidrica, ma la sera stessa cancellate e portoni venivano sostituiti e nuovi spacciatori reclutati. Era una gigantesca tela di Penelope che si disfaceva di giorno per poi ricomporsi di notte, e poi ancora, e ancora, e ancora.

In galera Michele aveva letto da qualche parte delle piramidi dei Maya alla cui sommità si commettevano i sacrifici umani dei nemici catturati in battaglia, con corpi, teste e sangue che rotolavano giù per i gradoni. Adesso, a distanza di anni, non poteva non ripensare a quella immagine. Fissava la sommità delle Vele aspettando che, da un momento all’altro, facesse capolino uno stregone vestito di piume pronto a ucciderlo per placare l’ira di un dio folle, o per semplice sete di vendetta.

Si allontanò dalle Vele sapendo che per lui sarebbe stato impossibile entrare, lo avrebbero riconosciuto e segnalato ancor prima di metterci piede. Evitò con cura tutte le zone conosciute e le piazze di spaccio più frequentate, quello che cercava era altrove. Lo trovò esattamente dove sapeva che sarebbe stato, appoggiato all’ultimo pilone del cavalcavia, fra un paio di copertoni bruciati e un divano sfondato.

Il ragazzo si guardava attorno tranquillo come se quello dello spacciatore fosse il mestiere più normale del mondo, e di certo per lui era così. Aveva un’aria vagamente scocciata, come se si fosse stancato di stare lì ad aspettare l’ennesimo tossico.

Michele si avvicinò calandosi con forza il cappello in testa, e strascicando leggermente i piedi. I vestiti sgualciti e l’aspetto trascurato gli davano l’aria di chi aveva un gran bisogno di farsi.

Il ragazzo lo fissò mentre si avvicinava.

«Che vuo’?» chiese.

Michele alzò la testa. «Tu che dici?».

La faccia del ragazzo si trasformò in pochi istanti. Prima fu lo stupore, poi un sorriso di meraviglia e infine una smorfia di preoccupazione.

«O Zì Miche’, ma sì proprie tu?».

«E cert’, guaglio’, e chi vuol essere».

Il ragazzo prese a guardarsi attorno nervoso. Michele capì subito. «Guaglio’, perché non ci spostiamo da in mezzo alla via?».

Quello annuì e i due si tolsero dalla strada, scansando i copertoni e il divano sfondato. Attraversarono e si diressero a passo svelto verso un casermone abbandonato, una struttura di cemento grezzo con le pareti tappezzate di graffiti, monnezza e calcinacci ovunque, senza portone e con delle scale semidistrutte che scendevano verso il basso. Michele capì subito che doveva essere “l’appoggio”, il posto dove il ragazzo nascondeva la droga. Prima regola: mai avere la roba addosso, il tossico paga, tu ti allontani e dopo poco gli porti la dose. Soldi e droga mai nello stesso posto.

Il ragazzo si chiamava Sabatino, detto Pepè per la voce a trombetta che faceva schiattare dalle risate. Era un bravo figliolo, cresciuto in mezzo alla droga e che non aveva mai pensato di fare altro nella vita se non lo spacciatore, ma s’era tenuto lontano dai clan e dalla violenza. Quella non era cosa per lui. Spacciava lontano dalle zone delle varie famiglie, veniva tollerato perché versava la quota dei proventi e non dava fastidio, al massimo gli tiravano qualche calcio in culo di tanto in tanto e lo cacciavano via, ma lui si pigliava in silenzio le botte e continuava il suo lavoro sotto i piloni della tangenziale, e ci campava la madre e tre fratelli piccoli. Del padre nessuna traccia. Non pervenuto.

S’era fatto un po’ di galera, non troppa, il giusto, ma se l’era fatta malamente, s’era messo contro il capo degli albanesi per una stronzata. Roba di sigarette e sopravitto. E al terzo o quarto incidente che capitava al ragazzo sotto le docce, lungo le scale o ai passeggi, Michele era dovuto intervenire, aveva detto una parolina all’orecchio dell’albanese per fargli capire che poteva bastare: il ragazzo era giovane e aveva capito la lezione. Ma sarà stata la mancanza d’aria nelle celle, o le difficoltà con la lingua, sta di fatto che l’albanese non aveva capito, e per una breve e inutile frazione della sua vita aveva pensato di poter trattare lo Zio Michele allo stesso modo. Era finita con il piccolo boss dell’Est in infermeria a farsi ricucire la faccia, una lametta insanguinata buttata dalla finestra della saletta socialità e nessuno che aveva visto niente.

«Lo Zì, come stai?».

La voce di Pepè era sempre uguale e a Michele venne da sorridere.

«Sto bene, Sabatì. Sto bene. E tu?».

Il ragazzo fece una mezza smorfia che Michele non capì e poi cambiò velocemente discorso.

«Lo Zì, ti stanno a cercare».

Il vecchio camorrista annuì mentre il giovane spacciatore continuava imperterrito. «Si dice che Peppe ’o Cardinale sia incazzato come una bestia, uno di quelli che hai massacrato era un suo figlioccio e così gli hai fatto fare una figura di merda davanti a tutto il quartiere. Dicono che il Direttorio si riunirà oggi stesso e che la sentenza sia cosa fatta, devono solo decidere chi farà il lavoro».

Niente che Michele non immaginasse già, ma il ragazzo sembrava preoccupato. «Lo Zì, qua tira una brutta aria per te. Si dice che ’o Cardinale ce l’ha cu’ te, e non stava aspettando altro che uscivi di galera perché la voleva risolvere faccia a faccia, e poi…».

«E poi? Continua, guaglio’, che non mi metto paura».

«E poi, lo Zì, ci sta la faccenda del cimitero. Qua nessuno parla d’altro. Al cimitero di San Giuliano Campano hanno messo sei o sette lapidi. Nun o sacc’ di preciso. E dicono che una è pe’ te».

Michele sorrise.

«Nessuno sa chi è stato. Nessuno conosce ’o Schiattamuorto che s’è preso la briga di portare le lastre di marmo e di scrivere i nomi. Ma… ma… non ridere, lo Zì, per piacere, po’ sembrà ’na strunzat’, ma è ’na cosa seria, hanno trovato Vittoriano ’o Maresciall con la gola tagliata e si dice che Giovanni ’o Falzone stanotte è stato impiccato a casa sua».

Michele si fece una risata. «E io ca pensav’ che nun era ’na bella jurnata…».

«Lo Zì, non scherzare, ti prego».

«Guaglio’, qua non scherza nessuno». La voce era cambiata in un istante, era diventata dura e secca, stava dando ordini. «E comunque una cosa alla volta. Primo: a me di quello che pensa, dice e fa Peppe ’o Cardinale non me ne frega niente, se teneva qualche problema con me doveva fare l’uomo e venire pett’ a pett’ a guardarmi in faccia, e non mandare due ragazzini che non sapevano manco quello che stavano a fa’. E se poi teneva questioni veramente serie, e soprattutto se tenev’ i pall’, la cosa la poteva risolvere pure in galera, ma a lui stava bene che io mi facevo la galera e lui se ne stava qua fuori a parlare e a fare u guapp’ ’e cartone».

Pepè sbiancò e si guardò attorno preoccupato. Quelle erano frasi che era meglio non pronunciare ad alta voce, mai e per nessun motivo, a meno che uno non avesse voglia di mettersi pure lui in fila per il cimitero. Ma a quanto pareva lo Zio Michele se ne fotteva allegramente.

«Secondo: Radio Carcere funziona che è una bellezza. Poche ore dopo che hanno messo su le lapidi la voce era già in galera, l’ha portata una telefonata ai familiari e poi l’hanno confermata ai colloqui visivi, anche lì non s’è parlato d’altro, e il fatto che una delle lapidi è per me, fidati che lo sapevo già. È cosa sicura».

Ci fu un momento di silenzio in cui Michele parve perdersi nei suoi pensieri, mentre il ragazzo lo fissava.

Tiradritto sorrise. «Statti tranquillo, guaglio’, non è la prima volta che mi vogliono ammazzare. E comunque fidati, io sono l’ultimo della lista, ho tutto il tempo di scoprire chi mi vuole mandare al camposanto a fare compagnia a Vittoriano ’o Maresciall. Ma adesso tengo cose più importanti a cui pensare, devo partire per un viaggio e lì dove vado ’o Schiattamuorto non mi seguirà».

«Ma perché? Chi è che sta a fa’ tutto questo?».

Michele scrollò le spalle, come a dire che non ne sapeva nulla e forse in fondo non gliene fotteva più di tanto. «E che vuoi che ne sappia io. Sono uscito ieri di galera e ancora non ci sto capendo un cazzo, e poi, guaglio’, tu fai troppe domande. Non è una cosa intelligente. Non vedere, non sentire, non parlare. Tre regole per campare tranquillo. Ricordale sempre».

Il ragazzo rimase in silenzio in segno di rispetto.

«Piuttosto, tu che mi racconti?» continuò Michele in tono più conciliante. «Sei uscito da tre anni e ti ritrovo nello stesso posto a fare la stessa cosa. Ma non parlavi di smetterla con ’sta schifezza? Non mi avevi detto che volevi trovarti un lavoro e andartene via di qua?».

«Lo Zì, che vuoi che ti dica? Il lavoro non ci sta e io devo portare i soldi a casa. Ma non pensare che mi piace quello che faccio o dove vivo, o quello che succede, o traffica’ ’sta merda di roba, o averci a che fare co’ ’ste persone. Lo Zì, credimi, non ce la faccio più, a volte vorrei sparire, non morire e scappare, semplicemente sparire, come se non fossi mai esistito, come se non fosse mai successo nulla, come se non fossi mai nato». La voce a trombetta del ragazzo si era fatta tremolante e carica di dolore. Michele capì subito che diceva la verità.

«Guaglio’, che è successo?» chiese secco il boss.

«Niente, lo Zì. Niente».

«Non mi prendere in giro, io ti conosco. Dimmi subito che è successo». Voce secca, ordine diretto, risposta immediata.

«La solita merda, Lo Zì. Tre mesi fa è venuta da me una donna, la madre di uno a cui vendo la roba, un tossico di merda, uno zombie. Mi ha chiesto di non dare più niente a suo figlio, di mandarlo via. Io le ho risposto di no. Che tanto, se non gliela vendevo io, l’avrebbe fatto qualcun altro, ma lei non lo voleva capire, non ne sapeva niente di queste cose, continuava a pregarmi, si è messa pure in ginocchio, e allora per togliermela dai coglioni le ho detto che ci avrei pensato. La sera stessa è arrivato il figlio, stava una merda, pallido, sudato, in piena crisi di astinenza, e io l’ho cacciato a calci in culo dicendogli che i soldi non bastavano, che i prezzi erano aumentati e che se ne doveva andare affanculo. Dopo tre ore è tornato tutto sorridente, bianco come un cadavere, sudava e tremava perché stava a ruota e si doveva fare, ma continuava a sorridere come un cretino. M’ha messo in mano trecento euro chiedendomi la roba. Sai cos’era successo nel frattempo? Era tornato a casa, aveva preso un bastone e…».

La voce del ragazzo si era incrinata e per un momento gli erano mancate le parole. Michele ascoltava in silenzio.

«Lo Zì, l’ha ammazzata come un cane. Ha ucciso la madre a bastonate perché non gli voleva dare i soldi. L’ha fatta morire sul pavimento della cucina ed è venuto da me tutto sorridente per comprarsi l’eroina».

Il ragazzo aveva gli occhi lucidi. Abbassò la testa e si mise frenetico a cercare qualcosa nelle tasche del giubbotto. La mani gli tremavano. Michele capì e gli offrì una delle sue sigarette. Lui se la accese, tirò una boccata rabbiosa e poi espirò cercando di calmarsi.

«Lo Zì, la donna era tale e quale a mamma mia. Stessa faccia, stesse mani, stesso modo di vestire, pure i capelli ci assomigliavano».

Il ragazzo prese a guardarsi attorno, con gli occhi persi tra la monnezza e i graffiti di quel casermone abbandonato.

Michele ruppe il silenzio che era sceso.

«Guaglio’, io devo sparire. Devo sparire subito. Prima che arrivi Peppe ’o Cardinale, prima che arrivi la polizia e prima che arrivi ’o Schiattamuorto».

Il ragazzo annuì tirando su col naso.

«Che ti serve, lo Zì?».

«Soldi, guaglio’. Soldi e una macchina».

Sabatino non disse nulla e si allontanò di qualche passo verso il gabbiotto dei contatori: era chiuso con un lucchetto, e quella era l’unica cosa nuova in mezzo allo sfacelo. Tirò fuori dal collo della maglietta la catenina d’oro con la Madonna, il crocifisso e una piccola chiave. Usò la chiave per aprire. Un piccolo fagotto appallottolato in una busta di plastica era incastrato tra i contatori. Lo cacciò e poi prese dalle tasche gli ultimi soldi assieme alle chiavi di una macchina. Si voltò e diede tutto a Michele.

«E tu, guaglio’?».

Il ragazzo alzò le spalle ma continuava a stare zitto. Michele capì che era stanco, di una stanchezza che non si poteva risolvere con una bella dormita; era una di quelle che non si risolvono, punto e basta.

«La macchina dove sta?».

«Dietro all’ultimo pilone del cavalcavia. È una Fiesta blu con la portiera ammaccata, ma il motore sta bene e benzina ce ne sta».

Michele prese i soldi e le chiavi.

«Se vuoi, lo Zì, ti posso dare anche la roba, ce n’ho parecchia, magari te la vendi. Sono tanti soldi».

«No, quella non mi interessa». Michele buttò la busta con i soldi dentro la borsa di tela, si infilò le chiavi in tasca e tornò a fissare Sabatino. Teneva una faccia da fantasma, occhiaie nere e labbra tirate come lame, ma cercò ugualmente di sorridere.

Lo Zio pensò che quel guaglione era arrivato alla fine e che da un momento all’altro sarebbe crollato per non rialzarsi mai più. «Ti fidi di me?» gli disse.

«Sempre, lo Zì».

Michele lo centrò con un pugno in piena faccia. Un colpo secco e deciso, ma senza cattiveria. Vide la sua testa piegarsi di lato e sbattere contro il muro. Un rantolo di dolore uscì dalla sua gola.

«Mah… lo Zì…» provò a protestare.

«Statti, guaglio’» fu l’unico commento di Michele mentre continuava a picchiarlo. Un altro colpo al viso, vicino alla bocca, e poi al naso, ma senza affondare. Sentì comunque lo schiocco di qualcosa che si rompeva, poi il sangue scese copioso sulla bocca di Sabatino. Il ragazzo non reagì, rimase immobile come un sacco da pugilato. Resistette in piedi sino al terzo pugno, ma al quarto cadde a terra e una lunga ferita si aprì sull’arcata sopraccigliare. Era in ginocchio e fissava lo Zio con gli occhi spalancati aspettando il KO. Michele caricò con forza il braccio, dall’alto verso il basso, ma all’ultimo istante si fermò. Poteva bastare. In poco tempo la faccia del ragazzo si sarebbe gonfiata e il giorno dopo sarebbe stata completamente tumefatta, l’occhio si sarebbe chiuso e le ecchimosi viola lo avrebbero colorato come un pupazzo. Tutta apparenza e poca sostanza, nessun danno grave, ma sarebbe sembrato vittima di un pestaggio terribile. Tiradritto era soddisfatto, aveva fatto un buon lavoro, da professionista qual era.

Sabatino continuava a fissarlo, mentre sputava una poltiglia rossa. Michele si accucciò accanto a lui mettendogli una mano dietro la nuca e avvicinando il suo volto.

«Guaglio’, la storia è questa qua: io ti sono venuto a cercare e ti ho rapinato, tu hai provato a reagire ma io t’ho abboffato di mazzate. T’ho rubato la macchina, i soldi e la droga. Non sai da dove sono venuto e non sai dove sono andato. Tu non sai niente, sei solo un povero cristo che c’è capitato in mezzo per sbaglio, è successo a te come poteva succedere a un altro».

Quello annuì in silenzio mentre Michele continuava: «Fottiti la droga e vattene. Loro penseranno che ce l’ho io e verranno a cercare me. Vendila piano piano e metti via i soldi, poi piglia a mammeta, i fratelli e via. Andatevene da qua. Non salutare nessuno, non avvisare nessuno, non dire dove vai e con chi vai. Niente. Sparisci e basta, dall’oggi al domani. Sali su un treno e vattenne, in un posto che non ti saresti mai immaginato, in Italia, all’estero, dove vuoi, basta che sia lontano. Fujtevenne. Qua nun è cosa pe’ te. Mi hai capito?».

Sabatino detto Pepè aveva capito perfettamente.

Michele si rialzò, si diede una pulita alla mano sporca di sangue, recuperò le borse con la sua roba e i soldi del ragazzo, poi si avviò verso l’uscita del casermone.

«E tu, lo Zì, che farai?» biascicò il ragazzo con le labbra gonfie e rotte.

Michele si voltò sorridendo. «Non ti preoccupare, io lo so quello che devo fare».

E scomparì dietro i piloni della tangenziale.

4.

L’ispettore Lopresti stava seriamente prendendo in considerazione l’idea di sparare al collega. Erano in macchina da quasi un’ora e c’era stato un solo argomento di conversazione: la pensione.

Corrieri gli aveva ripetuto almeno sette volte che gli mancavano venti mesi, perché considerando l’anno di militare, i tre in fabbrica prima di arruolarsi e gli anni di abbuono, i contributi e la riforma, il piano pensionistico e l’animaccia sua, et voilà, il gioco era fatto: ancora un paio di inverni e poi sarebbe potuto rimanersene beatamente a panza all’aria.

Lopresti aveva annuito a monosillabi, mani strette sul volante e occhi fissi sulla strada, cercando di non recepire le parole del collega, quasi fossero una musica di sottofondo, un’interferenza nella sua testa. Ma era tutto inutile. Corrieri era talmente preso dal prossimo futuro fatto di grigliate con gli amici, battute di pesca e vacanze con la moglie, da non accorgersi minimamente della vena che continuava a gonfiarsi sul collo del collega.

Lopresti ripensò allo sguardo del capo della Mobile e alla figura di merda che aveva rimediato nel suo ufficio, decise perciò di mantenere la calma, allentò la presa sul volante, tirò un lungo sospiro per snebbiarsi la mente e si rivolse a Corrieri cercando di interrompere gli sproloqui pensionistici.

«Tu che idea ti sei fatto di tutta questa storia?».

Fu un clamoroso buco nell’acqua.

«… per la pensione di anzianità devi maturare i requisiti, che sono 57 anni e 3 mesi di età e 35 anni di anzianità contributiva, oppure 53 anni e 3 mesi e la massima anzianità contributiva, che poi il diritto al trattamento decorre dopo dodici mesi dalla maturazione dei requisiti e…».

Lopresti tirò il secondo lungo sospiro in meno di dieci secondi, si sforzò di non pensare all’eventualità di utilizzare l’arma di servizio, e alzò la voce.

«Tu che idea ti sei fatto di tutta questa storia?».

Corrieri si bloccò e la sua disamina rimase sospesa a mezz’aria. Ci pensò per un instante, fissando un riflesso del parabrezza.

«A me sembra un’enorme stronzata» disse.

«Ecco, almeno su questo siamo d’accordo». Lopresti apprezzò la capacità di sintesi del collega. «A ’sto punto però dimmi la tua».

Corrieri mise da parte i programmi per il futuro e decise di fare lo sbirro almeno per cinque minuti.

«Non lo so. Questa sceneggiata delle lapidi non mi convince. Durante la Faida, all’inizio facevano dei lavori puliti, un colpo di pistola e basta, perché era una questione di soldi, poi dopo i primi morti le cose si complicarono, divenne una questione personale e arrivarono le vendette, i messaggi di sangue e gli omicidi efferati. Qua invece hanno cominciato subito col botto. Prima Esposito sgozzato al cimitero e poi quell’altro stronzo incaprettato al lampadario di casa sua. Hanno voluto ammazzare ma anche dire qualcosa. Secondo me non si tratta di affari, questa è roba personale, vogliono uccidere, ma anche mettere paura. Vogliono che chi muore sappia il perché».

Lopresti rimase sinceramente impressionato. Il ragionamento non faceva una grinza e lui distolse lo sguardo dalla strada per dare un’occhiata al collega. Forse il dottor Taglieri non aveva tutti i torti, Corrieri non era un coglione completo. Si rilassò allentando di nuovo la presa sul volante.

«Allora, ripetimi, com’era sta questione dell’INPS?».

Corrieri riprese soddisfatto il suo sproloquio pensionistico.

Il locale stava nel quartiere San Pietro a Patierno, nella parte nord della città, a debita distanza dall’aeroporto di Capodichino, all’ingresso di un reticolo di strade sconnesse e sterpaglie incolte, fra officine meccaniche e fabbriche abbandonate. Dall’esterno l’edificio sembrava un capannone malmesso che tuttavia si sforzava di somigliare a un hangar, qualcuno si era persino preso la briga di dipingere due eliche giganti sulla facciata. Ma con il tempo e le intemperie i muri si erano scrostati e la vernice sbiadita; adesso sembravano solo uno scarabocchio senza senso. Di insegne e nomi nessuna traccia.

I due poliziotti arrivarono dopo altri venti minuti di chiacchiere monotematiche e parcheggiarono sul retro, di fianco ai bidoni dell’immondizia stracolmi. Un paio di ragazzi scaricavano casse di superalcolici da un furgone bianco e si infilavano nell’uscita di sicurezza socchiusa senza degnarli di uno sguardo.

«E qua dove siamo?» chiese Corrieri.

«È il locale di uno che conosco. Forse può darci una mano a capirci qualcosa in questa storia».

«Una delle tue famose fonti confidenziali?».

Lopresti trattenne una smorfia e per un attimo ebbe quasi la tentazione di chiedere scusa al collega per aver dubitato di lui, ma lasciò perdere. Non lo conosceva ancora abbastanza per ammettere che si era sbagliato, e poi Corrieri, pure se ogni tanto ragionava bene, teneva sempre la faccia da lecchino imboscato. Si limitò quindi a una lieve scrollata di spalle.

«Cos’è, una discoteca?».

«Più o meno».

«In che senso? Non ti seguo, collega».

«Nel senso che se serve una discoteca, diventa discoteca. Se serve un night si trasforma in night con tanto di lap dance e mignotte moldave. Questo posto può essere quello che ti pare: un magazzino sicuro per tenere qualcosa con portoni blindati e telecamere di sicurezza, una bisca… ma se vuoi ci puoi fare anche la festa di compleanno per tua figlia, basta che paghi».

«Mmh…». Corrieri sembrava perplesso. In fondo, pensò Lopresti, era sempre uno sbirro da ufficio e molte cose della strada non le poteva conoscere. «Credo di aver capito. E il proprietario è amico tuo?».

«Più o meno».

«Sempre più o meno» sbuffò ironico Corrieri.

«Colle’, le cose non sono mai bianche o nere, qua da noi il colore predominante è il grigio, capisci a me. Come è vero che le persone non sono mai totalmente buone o cattive, sono persone punto e basta. Quindi, se mi chiedi se il proprietario è amico mio ti rispondo di nuovo: più o meno».

«Stavolta ho capito».

Lopresti annuì soddisfatto. «Entriamo, dài».

Il locale visto da fuori era una schifezza, con i muri coperti di graffiti e i vetri del piano di sopra spaccati a sassate, ma entrando la musica cambiava radicalmente. Tutto era avvolto dalla penombra, ciononostante si distinguevano chiaramente i divanetti di pelle rossa addossati ai muri, agli angoli della pista da ballo spiccavano i pali da lap dance, sul soffitto era un tripudio di faretti e luci stroboscopiche che al momento opportuno potevano trasformare quel posto in un gigantesco albero di Natale. In fondo alla sala, un palco destinato al DJ, ai vocalist o a chi cazzo conduceva le serate. Corrieri non dubitò che da qualche parte ci fossero anche gli opportuni séparé per i clienti VIP, dei posticini discreti per fare i propri comodi in tutta tranquillità. Sulla sinistra c’era un lungo bancone con delle luci azzurre che rompevano l’oscurità e lo rendevano simile alla plancia di comando di una nave. Dietro il bancone i due ragazzi del furgone svuotavano gli scatoloni riempiendo i frigo di decine di bottiglie: gin, rum, Martini, Bacardi, Curaçao Blu, Campari. Anche adesso continuarono a non degnarli di uno sguardo.

I due sbirri si guardarono intorno cercando di orientarsi. Una voce risuonò nella sala.

«Siamo chiusi! Apriamo dopo le undici! Stasera serata Burlesque con Tamara de Glichy. Uomini 20 euro compresa la prima consumazione, donne ingresso gratuito. Non potete assolutamente mancare». L’uomo si avvicinò attraversando la penombra della grande pista centrale.

«E io che pensavo che per me la prima consumazione fosse gratuita» disse Lopresti.

L’uomo avanzò con un sorriso di circostanza dipinto sul volto, gli occhi si spalancarono nel riconoscere il poliziotto, ma il sorriso rimase freddo e falso.

«Carmine, ma sei tu?».

L’ispettore annuì sfoggiando una cordialità non meno fasulla. Sembravano due pescecani prima di azzannarsi.

«Ma che saranno… tre anni, che non ci vediamo?» chiese l’uomo.

«Almeno».

«E come hai fatto a trovarmi? ’Sto posto sta in piedi da sei mesi».

«E che vuoi che ti dica. Mi tengo aggiornato su quello che fanno gli amici».

«E mi sembra giusto» ammise l’altro tirando di nuovo il suo sorriso pubblicitario. «Ma dài, amico mio, vieni qui».

I due si abbracciarono con relative pacche sulla schiena e ulteriori convenevoli su che fine avesse fatto l’uno o l’altro dei loro vecchi conoscenti, sul fatto che si trovavano in gran forma e via a seguire.

Dopo qualche istante Lopresti si decise a interrompere il flusso di cazzate.

«Ti voglio presentare il mio collega, l’ispettore capo Nicola Corrieri».

Al sentire la parola “ispettore”, l’uomo riuscì a non tradire alcuna emozione, anche se l’utilizzo della qualifica professionale era il segnale definitivo che non si trattava di una visita di cortesia, cosa che, peraltro, non aveva mai creduto.

«Caro collega, quello che hai di fronte è nientepopodimenoché il grande Gennaro Battiston, detto Genny B, animatore delle notti napoletane, gestore di questo locale e di tanti altri prima di questo, e rinomato tombeur de femmes».

«Esagerato. Comunque, piacere, Genny» disse allungando una mano arricchita di anelli e bracciali d’oro.

«Lieto, Corrieri».

L’ispettore lo squadrò da capo a piedi, felice che nel locale non ci fosse una gran luce. L’uomo davanti a lui sembrava uscito da uno di quei film da quattro soldi sui gangster italoamericani. Indossava un completo nero con camicia bianca aperta fino al petto, e un’intera gioielleria disseminata tra dita, braccia e collo. Aveva stazza da buttafuori e pancia da bevitore. I capelli lunghi e ricci erano tirati indietro, ingellati e schiacciati sulla testa. Le tempie erano ingrigite, il viso aveva profonde occhiaie e rughe, accentuate da un’abbronzatura da centro estetico.

Nonostante Corrieri fosse uno sbirro da scrivania, notò subito il naso leggermente ritirato all’indietro e le grosse vene sul collo. Per il primo era facile: cocaina; per le seconde aveva qualche dubbio ma era propenso a pensare, viste le spalle, che fossero steroidi.

I due si strinsero la mano e Corrieri non riuscì a trattenersi.

«… Battiston?».

Genny B stavolta sorrise con sincerità, era abituato a quella domanda.

«Papà era veneto e mamma di Salerno. Alla fine per il nome l’ha spuntata lei, e ha fatto bene perché io sono napoletano al cento per cento».

Corrieri annuì soddisfatto.

«E adesso veniamo alle cose importanti. Cosa vi posso offrire da bere?» disse Genny B infilandosi dietro il bancone del bar.

«Un’acqua tonica» rispose Lopresti.

Quello lo fissò stupito alzando un sopracciglio.

«Un’acqua tonica» confermò l’ispettore.

«Una anche per me» disse Corrieri.

«E acqua tonica sia» si rassegnò il gestore.

I tre uomini svuotarono i loro bicchieri consapevoli che quella era l’ultima formalità prevista dal protocollo.

«Allora, a cosa devo il piacere delle vostra visita?».

Lopresti decise di essere chiaro e diretto, non era tipo da giri di parole e si stava già scassando la minchia di averci davanti Gennaro. «Tu cosa sai delle lapidi del cimitero di San Giuliano Campano?».

Genny B sgranò gli occhi ma non distolse lo sguardo da quello dell’ispettore. «Guaglio’, ci sta da spostare il furgone» disse poi.

I due ragazzi interruppero il loro lavoro e uscirono rapidi e silenziosi dal locale chiudendosi dietro la porta di sicurezza. Battiston si accese una sigaretta, lunga e sottile, una Davidoff.

«So quello che sanno tutti. Niente».

«Genna’, per piacere, non mi prendere per il culo, lo so chi frequenta il tuo locale, e sono sicuro che in questi giorni qua dentro non s’è parlato d’altro. Mi vuoi far credere che uno come te stavolta non sa niente?». Lopresti era ancora calmo, occorreva fare prima un po’ di manfrina e lui ne era consapevole.

«Carmine, stavolta non so niente veramente. Se qua dentro si sono fatte chiacchiere, sono state chiacchiere da bar e a me non me può fregare di meno. Quindi se non c’è altro…». Fece per spostarsi dal bancone.

«E no, guaglio’, a te te ne deve fregare di quello che ti chiedo. Perché se io t’ho fatto dei piaceri in passato, se t’ho tirato fuori dalla merda con quegli albanesi che ti volevano rompere le braccia, tu adesso non devi fare lo stronzo e ti devi sdebitare». Il tono dell’ispettore era diventato improvvisamente minaccioso.

«Mi dispiace, Carmine…». Genny B stavolta distolse lo sguardo e cominciò a sentirsi a disagio.

«E no. Non ci siamo proprio» incalzò Lopresti scuotendo la testa. «Tu non mi devi fare lo stronzo!». L’ispettore afferrò il bicchiere vuoto e glielo scagliò contro. Gli sfiorò la tempia e andrò a fracassarsi sulla specchiera alle sue spalle. I vetri schizzarono ovunque in un frastuono.

Genny B si allontanò di scatto alzando i palmi delle mani. «E che cazz…».

Corrieri intervenne rapido poggiando una mano sull’avambraccio del collega, quanto bastava per fermarlo, poi aggiunse con tono calmo: «Facciamo a capirci, signor Battiston, se lei non ci dice quello che vogliamo, ’sto locale diventa ’nu burdelle. Ogni sera mettiamo delle pattuglie qua fuori a controllare quelli che entrano ed escono, le mandiamo visite un giorno sì e l’altro pure, vigili del fuoco, ASL, ufficio di igiene, agenzia delle entrate, tutti verranno a farsi i cazzi suoi. Mio cognato poi è colonnello della finanza e posso ordinare tanti di quegli accertamenti che alla fine qualcosa la trovano di sicuro. Tempo due settimane e il locale andrà sotto sequestro, e si fidi che se ne apre un altro, lei o uno dei suoi prestanome, veniamo anche lì e ricominciamo da capo. Due settimane e chiude di nuovo. Quindi, se non vuole finire a vendere noccioline e lupini davanti al San Paolo, è meglio che collabora».

Lopresti rimase in ammirato silenzio mentre Genny B sbiancò in un attimo. Il tritacarne della burocrazia lo spaventava molto più di una bicchierata in faccia. Fissava muto il fondo del locale valutando i pro e i contro di ciò che avrebbe potuto dire, poi si accese un’altra sigaretta e cominciò.

«Innanzitutto ci tengo a precisare che sono solo voci. Chiacchiere da bar, letteralmente. Pare che non ci stanno questioni aperte, nessuno sgarro fra le famiglie, né di spaccio, né di zone, né di estorsioni varie. Nessuno sa di preciso cosa sta succedendo, ma i nomi che stanno sulle lapidi non tengono problemi fra di loro, anzi in passato hanno fatto spesso affari insieme. Adesso però stanno tutti con la paranoia addosso. Non sanno da che parte arriva il cetriolo e tengono paura di pigliarlo in culo. Dopo che hanno scannato a Vittoriano c’era tensione, ma dopo che stanotte hanno ammazzato Bebè s’è scatenato il panico. Continuano a non capirci un cazzo, perciò hanno paura. Non solo quelli delle lapidi, anche tanti altri, perché quando si gioca con la merda ci si sporca».

Lopresti ammirò la finezza delle metafore del suo informatore. «E quelli delle lapidi?».

«E quelli mi sa che non cacano più, tanto gli si sarà stretto il culo». Rise Genny B versandosi un mezzo rum. Lo bevve facendo schioccare la lingua e continuò: «Si dice che i fratelli Surace se ne sono andati fuori Napoli perché dovevano curare degli affari nella zona di Salerno, ma in realtà sono andati dalle parti di Terracina. Loro si occupano della coca che arriva nella capitale e usano i mercati ortofrutticoli del basso Lazio come copertura, quindi là c’hanno diversi amici che gli possono dare una mano. I nomi non li so, è inutile che me li chiedete. Se ne stanno in un posto sicuro ad aspettare che la situazione si calmi e ci si capisca qualcosa, o magari che la polizia arresti i colpevoli».

Battiston regalò ai due poliziotti un sorrisino del cazzo, con una faccetta ammiccante che meritava la seconda bicchierata. Lopresti resistette all’impulso, Corrieri si fece scivolare tutto addosso come sempre.

«Peppe ’o Cardinale sta nervoso. Non esce più di casa, ma lui non se può fujre, e che figura ci farebbe davanti alla gente? Ha mandato un’ambasciata a Michele Tiradritto, che è appena uscito di galera, ma è finita a schifio».

«In che senso?» intervenne Corrieri.

«Nel senso che i due guaglioni che dovevano portare il messaggio sono all’ospedale, e sono messi pure male. Ossa rotte, commozione cerebrale, e non so quanti punti in faccia e sulla testa».

«E Michele?».

«E che ne so io. Non credo che starà a casa ad aspettare lo Schiattamuorto».

«Veniamo da lì. Il portone è stato bruciato, la chiave spezzata nella serratura, e di lui nessuna traccia».

«Se n’è fujte pure lui, se è una persona intelligente. E fidatevi che Michele Vigilante è una persona intelligente». L’uomo calcò con forza le parole per ribadire la sua convinzione. «Nun ’o trova cchiù nisciun».

I due poliziotti si guardarono in silenzio. La questione si stava complicando sempre di più. Non solo dovevano trovare lo Schiattamuorto che andava riempiendo i cimiteri, ma adesso era diventato un problema anche trovare le future salme. Chi scappava a destra, chi a sinistra, chi si rinchiudeva in un bunker.

«Qua l’unico che sta tranquillo è Gennaro Rizzo. Quello se n’è scappato tanti anni fa e adesso fa la bella vita, tranquillo e beato».

Lopresti ci provò, nonostante sapesse che avrebbe fatto un buco nell’acqua. «E dove s’è rintanato?».

Genny B gli rise in faccia cercando di nuovo la bottiglia di rum. «E questo, fidati, non lo sa nessuno. Se n’è fujte una quindicina d’anni fa, e da allora nessuno sa dove sta, o meglio tutti lo sanno, ma è sempre un posto diverso. Alcuni dicono che sta in Sudamerica e collabora con i colombiani e i Calabresi per far arrivare i container con la droga. Altri dicono che sta in Germania e controlla le pasticche e le droghe sintetiche del nord Europa. Altri ancora che se ne sta in Spagna anche lì per i container della cocaina, altri che è morto da anni e sta sepolto, sotto falso nome, al Cimitero di San Giuliano Campano».

Gli sbirri drizzarono le orecchie.

«Lui è originario di quel paesino. Non lo sapevate? Poi è stato fuori, non so dove, emigrato con la famiglia, finché non se n’è tornato qua a comandare. Ma comunque quella che è morto è una stronzata, questo ve lo posso assicurare, perché continua a comandare anche da fuori. Prima coi pizzini portati a mano dai corrieri, adesso con qualche diavoleria elettronica, tipo mail che non si possono rintracciare o che se le rintracci ti portano a un computer che sta dentro un armadio di una cantina di Cuba, mentre tu invece te ne stai in Svezia a contare i pinguini».

Corrieri si trattenne dal dirgli che in Svezia pinguini non ce n’erano, al massimo qualche renna col raffreddore. Genny B adesso stava andando bene, e lui non voleva interromperlo. Ma a quanto pareva gli si era di nuovo seccata la gola.

«Io di più non vi posso dire, anche perché non c’è altro. Nessuno sa niente e chi sapeva se n’è fujte. Ecco, questo è tutto».

«E pensi che ci bastano quattro stronzate?» disse rabbioso Lopresti.

«Non lo so se vi bastano, ma io di più non ne tengo. A meno che non vuoi che mi metto a inventarmi delle storie per farti stare contento». Stavolta era sincero e l’ispettore capì che sarebbe stato inutile insistere.

«Facciamo così» intervenne, sempre calmo e impassibile, Corrieri, «lei fa qualche domanda con discrezione, o almeno drizza le orecchie e sente quello che si racconta, e in un paio di giorni ci fa una bella telefonata e ci riferisce le nuove chiacchiere da bar che avrà sentito. E mi raccomando, al massimo due giorni, perché io al terzo chiamo mio cognato della finanza». Corrieri scrisse un numero di telefono su uno dei tovagliolini di carta e lo passò a Battiston, che senza guardarlo lo fece sparire in una tasca della giacca.

I due poliziotti erano pronti ad andare via, ma Genny B voleva recuperare un po’ di punti persi, certe amicizie a un uomo come lui servono sempre.

«Cercherò di fare quello che posso. Ma tu, Carmine, per piacere non fare quella faccia e non avercela con me. Ci conosciamo da troppo tempo, e quante ne abbiamo combinate insieme? Ti ricordi che serate, e che femmine? E quella tipa alta con la coda di cavallo, com’è che si chiamava? Martina. A Martina la vedi più? Un periodo stavate culo e camicia».

Lopresti fece finta di niente e si limitò a scuotere la testa con le labbra strette. Erano tornati alle frasi di circostanza e lui non teneva voglia di confidarsi. Battiston non aspettò la risposta e uscì da dietro il bancone per accompagnarli fuori dal locale. Sorrideva e faceva il gioviale, come il più navigato dei venditori di automobili, un vero e proprio piazzista della cazzata che cercava di allisciarseli per bene, prima di mandarli affanculo fuori dalla porta.

Arrivati al parcheggio, l’uomo strinse la mano a Corrieri assicurandogli la massima collaborazione, manco stessero a parlare tra colleghi, e abbracciò con fare fraterno Lopresti, che rimase freddo e rigido. L’ispettore sentì una mano leggera ed esperta scivolare rapida nella tasca del suo giubbotto, una sensazione lieve e impalpabile, ma lui sapeva bene cosa significava.

Salirono in macchina e andarono via.

Stavolta al volante s’era piazzato Corrieri e sembrava che la chiacchierata con Genny B lo avesse messo di buon umore, sciogliendogli la lingua.

«Be’, non è andata poi tanto male, sono sicuro che quello lì ci ricontatta per dirci qualcosa. Poca roba, per carità, ma qualcosa ancora ci dice di sicuro. Dobbiamo aggiornare il dottor Taglieri, e poi direi che potremmo contattare i colleghi di Terracina per vedere se riusciamo a rintracciare i Surace. Per Vigilante mi sa tanto che dobbiamo smuovere ancora un po’ le acque, anche se io sono sempre più convinto che si tratta di una cosa personale e pure vecchia. Se è vero che Rizzo è sparito da quindici anni, è chiaro che di qualsiasi cosa si tratti risale a prima».

«Io non mi fido di Gennaro» disse Lopresti lapidario.

«Ma se è vero che è amico tuo…».

«Amico mio un cazzo, Nico’. Battiston è solo una vecchia zoccola, che come se l’è cantata con noi, se la canterà con tutti, l’importante è che possa averci il suo tornaconto». L’ispettore aveva quasi urlato e ora fissava dritto la strada con i pugni chiusi e la mascella contratta. «È uno stronzo. E come tutti gli stronzi resta sempre a galla. Adesso, se non ti dispiace, fermati da qualche parte che devo pisciare».

Corrieri guidò lento per qualche altro minuto e poi accostò davanti a un bar. Era ammutolito. Non riusciva a capire la rabbia del collega. Un conto era recitare la parte del poliziotto buono e del poliziotto cattivo per far cantare Battiston, un altro era alzare la voce tra loro, non aveva senso. Lopresti uscì sbattendo lo sportello, si infilò nel bar e senza chiedere niente a nessuno si precipitò nel bagno in fondo e chiuse a chiave. Corrieri entrò e ordinò un caffè fissando la porta chiusa.

Lopresti se ne stava davanti allo specchio a testa bassa, con le mani avvinghiate al lavandino sporco. Teneva il fiatone ed era incazzato. Incazzato come una bestia. Per quello che non aveva detto Gennaro, per quello che aveva fatto senza che Corrieri se ne accorgesse, ma soprattutto per quell’idea del cazzo che adesso gli frullava in testa. Un’idea che era partita da lontano, una scintilla inaspettata e luminosa. E proprio per questo l’aveva preso alla sprovvista, l’aveva colpito con la guardia abbassata senza che lui potesse difendersi, allontanarsi, schivarla. L’aveva colpito. Punto e basta. E adesso occupava la sua mente, un tarlo che se lo mangiava vivo, che gli aveva sparso un velo di sudore sul volto.

Si drizzò dal lavandino e infilò una mano nella tasca del giubbotto. La tirò fuori e vide la pallina di cellophane. Tonda e bianca. Almeno due grammi. Il regalo di Genny B per mantenere buoni i rapporti, il presentino per scusarsi di aver fatto lo stronzo. Proprio come ai vecchi tempi.

Se la rigirò fra le mani pensando a quanto tempo era passato dall’ultima volta. Quasi un anno. Era stata dura ma ce l’aveva fatta. Senza clamori e senza chiacchiere in questura. Certo, qualcuno aveva sospettato qualcosa sulle sue serate, su certe frequentazioni non ufficiali, ma erano rimasti solo dubbi e dicerie. Era riuscito a dire basta, anche se c’era voluto un po’, anche se gli era costato Martina. Che se n’era andata senza dire una parola, dopo l’ennesima serata al massacro, lasciando a casa sua la vecchia borsa della palestra e uno spazzolino usato. Aveva minimizzato, l’aveva mandata affanculo, convincendosi che era una stronza che non lo meritava, e poi s’era sfondato in una notte di cui non ricordava praticamente nulla. Ma adesso, dopo tutto quel tempo tornava a pensare a lei, per colpa o per merito di Genny B, però tornava a pensare a lei.

Fissava la pallina di cellophane, indeciso sul da farsi, indeciso se farsi oppure no, quando bussarono alla porta del bagno. «Carmine, tutto a posto? Ti senti male?». Corrieri aveva la voce preoccupata ed era passato al tu.

«No, sto bene. Un attimo ed esco. Ordinami un caffè che m’è venuta voglia».

«Va bene».

Lopresti tirò un lungo sospiro, si girò verso la tazza del cesso e lanciò la pallina di droga facendo centro nel piscio. Tirò l’acqua attento a mandare giù nelle fogne la coca, Genny B e pure Martina.

Si pulì veloce la faccia sentendosi meglio, si asciugò le mani sui jeans e uscì. Prese il caffè al volo, senza zucchero e senza aspettare che si freddasse, lasciò un euro sul bancone e raggiunse il collega all’esterno. Aveva una voglia tremenda di andarsene da lì. Sedette in macchina in silenzio mentre Corrieri faceva manovra e si immetteva nel traffico.

Capì che doveva dire qualcosa per spezzare quella tensione. «Veramente tuo cognato è colonnello della finanza?».

«Ma quando mai… Mio cognato tiene un banchetto del pesce ai mercati generali».

Lopresti se la rise di gusto, sentendosi meno solo.

«Ehi, Nico’, per l’altro giorno nell’ufficio di Taglieri, quando ho fatto lo stronzo con la storia del modus operandi… Be’, ecco, scusami».

Corrieri gli sorrise mentre metteva la freccia per girare a destra.

«Tutto a posto».

5.

Michele era pensieroso. La Ford Fiesta di Pepè era una schifezza, un vero catorcio con il motore sfiatato, la frizione lenta e il cambio che grattava. Incredibile. Chillu scem’ era l’unico spacciatore che non riusciva a fare i soldi, quel mondo non era proprio cosa per lui.

Michele scuoteva la testa mentre l’asfalto dell’autostrada scorreva fluido sotto le ruote della macchina. Velocità costante e regolare. Rispettando rigorosamente i limiti, anzi meglio qualche chilometro al di sotto, tanto per essere sicuri di non avere scocciature. Se qualcuno lo avesse fermato, hai voglia a spiegare chi era e cosa ci faceva con quell’auto. Prima di tutto perché Michele non aveva documenti, o meglio ce li aveva ma erano scaduti da parecchi anni, patente compresa. E poi perché l’assicurazione era falsa, la solita fotocopia a colori per fregare i fessi; quasi sicuramente la macchina era rubata, o era di qualche tossico che l’aveva data a Pepè in cambio di una piccola fornitura di eroina. L’unico documento valido che aveva era una certificazione dell’ufficio matricola del carcere, un foglio A4 con quattro firme, due timbri, e una foto di una vita fa, piegato, ripiegato e infilato nella tasca di dietro dei jeans. Non l’aveva buttato via solo perché sarebbe potuto tornargli utile. Insomma, se lo fermavano avrebbe dovuto spiegare un bel po’ di cose, decisamente troppe, e da qualche parte doveva pur cominciare.

Ma per il momento preferiva non pensare alle spiegazioni da dare. Era impegnato a guidare. Dopo vent’anni rimettersi al volante non era stato semplice, soprattutto con quel ferrovecchio, e dopo averlo fatto spegnere a quasi tutti gli stop e ai semafori, adesso aveva finalmente cominciato a riprenderci la mano. Si era fermato in un autogrill a mangiare qualcosa e a bere un dignitoso caffè, a cui aveva fatto seguire un ancor più dignitosa sigaretta. Non aveva una gran dimestichezza con gli euro, e così c’aveva perso qualche secondo a fissare le monete per capire quanto dovesse pagare. La ragazza dietro la cassa, con cappellino rosso e occhi velati, aveva sorriso pensando che fosse la stanchezza di un lungo viaggio. E forse, in fondo, era veramente così.

Procedeva lungo l’autostrada del Sole da più di due ore, s’era lasciato dietro la capitale diretto verso nord. Per qualche istante gli era frullata in testa l’idea di fermarsi a Roma, qualcuno che gli poteva dare una mano lo conosceva anche lì, qualche vecchio compagno di galera della sua breve permanenza a Rebibbia. Una cosa da poco, sei mesi prima di essere trasferito per i soliti problemi di “gestione della rabbia”: un’espressione che aveva imparato dai vari psicologi che gli volevano insegnare a vivere, e a essere sincero gli piaceva abbastanza, perché gli dava un’impressione di animale in gabbia, di bestia pericolosa. Era una specie di avvertimento, “maneggiare con cura”.

Quel deficiente di Vittoriano Esposito che s’era fatto scannare al cimitero, pace all’anima sua, diceva sempre che lui teneva la miccia corta. Che nun teneva pacienza. Che se qualcuno gli scassava le palle, era un attimo che scoppiava il casino. O almeno era così all’inizio, quando si sentivano giovani e forti.

Ci pensò ancora una volta. L’ultima. E poi scartò l’idea di fermarsi a Roma. Troppo vicina. Una scelta prevedibile. Il primo posto dove lo avrebbero cercato. Voleva andare più lontano, dove aveva ancora qualcosa da fare. Seguiva il conteggio del contachilometri che procedeva passo dopo passo, un numero dopo l’altro, e l’idea di abbandonare la sua terra gli dava una sottile euforia, un brivido freddo dietro la schiena, come se avesse potuto lasciarsi alle spalle anche il passato. Sapeva che non era così, anche se adesso voleva godersi quell’illusione. Ma era inutile. Il passato non era disposto a dimenticarsi di lui. E così, mentre si allontanava, si ritrovò a pensare a Napoli. Alla sua Napoli di tanti anni prima, che da città dimenticata era diventata il centro del mondo. La Napoli degli anni Ottanta, che non era “da bere” come Milano, ma a loro non gliene fotteva un cazzo perché loro tenevano Maradona. Si ricordava ancora il suo arrivo, i cori in un San Paolo gremito ed entusiasta, le sfilate di macchine dipinte d’azzurro, le statuette del presepe a immagine e somiglianza di Diego. Il primo scudetto. L’apoteosi e la follia nelle strade, la bella vita che impazzava nei locali, l’assurda convinzione che potevano avere tutto e subito, che finalmente dopo tanti anni era arrivato il loro momento. Quello fu l’inizio. L’inizio del periodo più frenetico e sconvolgente della sua città e della sua vita. La sua vita che era cominciata troppo presto.

A tredici anni era sui tetti. Faceva la vedetta per gli affari del clan: chi entra e chi esce dal quartiere, guardie, infami, nemici. Un urlo gettato fra i tetti e poi un altro e un altro, la voce passava di bocca in bocca, senza bisogno di telefonini e cazzate varie, e chi doveva scappare scappava, quello che doveva essere nascosto veniva nascosto, e gli sbirri se ne tornavano affanculo senza niente. Quando non era nell’alto dei cieli a controllare gli ingressi, si occupava di rifornire gli spacciatori. Scorrazzava sul suo motorino truccato, si fermava il tempo necessario a consegnare il carico e poi ripartiva, cocaina, hascisc, eroina, qualche volta una pistola. Quello che gli davano lui consegnava, preciso, silenzioso e puntuale. Sfruttava il fatto che pure se lo prendevano non aveva ancora quattordici anni, e nessuno poteva fargli niente. Una pacchia. Il motorino, i soldi in tasca e l’impunità. Ma poi era cresciuto e, ancora una volta, aveva saputo dimostrare quanto valeva. A quindici anni sapeva essere un uomo. L’avevano messo a capo di un gruppo, poca cosa, tutti fra i quattordici e i diciassette anni, quella che i telegiornali avrebbero chiamato una baby gang, anche se a lui, se qualcuno lo chiamava baby, come minimo gli sparava in faccia. Il loro compito era semplice, fare il giro dei negozi del quartiere e riscuotere; con le buone o con le cattive, ma comunque riscuotere. Gli sbirri la chiamavano “estorsione”, loro la chiamavano “protezione”. Il necessario contributo alla tranquillità del quartiere, una piccola tassa per stare sereni. Se facevi il commerciante e non pagavi la luce o l’acqua, te le tagliavano, se non pagavi le tasse lo Stato ti mandava gli esattori; se non pagavi la protezione il clan ti mandava Michele.

Semplice.

Qualcuno all’inizio aveva sorriso nel vedere un ragazzino alto e magro, quasi scheletrico, che si presentava a riscuotere per conto della famiglia. Ma Michele sapeva essere preciso e puntuale anche nel suo nuovo lavoro. Aveva fatto capire con voce ferma e sguardo duro che lui non era lì per sé, ma rappresentava qualcuno, e mancare di rispetto a lui voleva dire mancare di rispetto a tutta l’organizzazione.

Di solito non c’erano problemi, i sorrisi degli increduli si gelavano di colpo quando capivano che quel ragazzino senza un filo di barba era disposto a ucciderli per diecimila lire in meno. Era una questione di principio. Ma a volte qualcuno non capiva e continuava a sorridere di lui, e questa non era cosa buona. Qualcuno provò persino a ridergli in faccia cacciandolo via dal suo negozio di alimentari. Michele non si fece problemi, mantenne la calma e andò via promettendo che sarebbe tornato a trovarlo. E così fece…

Era un vecchio di sessant’anni e passa con le testa pelata e il fiato corto, uno che da giovane aveva fatto la guerra in Africa, e forse per questo si credeva più forte e più in gamba di loro. I fratelli Surace lo tenevano per le braccia e Michele lo picchiava. Nel frattempo Peppe ’o Cardinale, che allora era solo Peppe e teneva paura pure dell’ombra sua, se la rideva e spaccava quello che c’era da spaccare in negozio, vetri, mobili, bottiglie, tutto. Gli altri erano fuori per essere sicuri che nessuno li disturbasse, ma era una precauzione inutile. Le persone avevano capito cosa stava succedendo e non avevano la minima intenzione di mettersi in mezzo. Si allontanavano in fretta come formichine impaurite.

Michele invece se la prese con calma, era uno scrupoloso, ci teneva a fare le cose per bene. Col vecchio ci andò giù pesante. Colpì allo stomaco e ai reni, per spezzare fiato e proteste, ma quello era un cretino e continuava a parlare, a insultare, ma soprattutto a ridere. A ridere di lui. Una cosa che non poteva accettare. E così lo fece smettere. Prese un barattolo di conserve da uno degli scaffali. Se lo rigirò fra le mani, pesante, di ferro e con il bordo tagliente. Perfetto. I fratelli Surace avevano capito e se la ridevano di gusto, stesero il vecchio su una delle casse tirandogli indietro la testa. Anche il vecchio aveva capito perché di colpo aveva smesso di ridere. Michele lo colpì dall’alto verso il basso, con il bordo rinforzato della scatola di pelati. Sentì subito il rumore dei denti che si rompevano, uno scricchiolio doloroso che si mischiava alle urla dell’uomo. Quello cercava di girare la testa, di chiudere la bocca. Peggio per lui. Oltre ai denti gli avrebbe rotto anche la mascella e strappato via la pelle del viso. E così fece. Colpo dopo colpo. Sino a scavargli una caverna in mezzo alla faccia, sino a fargli sputare i denti sul pavimento del negozio. Il vecchio svenne e lo lasciarono lì, affinché tutti lo vedessero. Ognuno di loro raccolse un dente come ricordo dell’impresa. Peppino pisciò in un angolo del negozio e se ne uscirono soddisfatti, consapevoli di aver fatto un buon lavoro. Da quella volta non ebbero più nessun problema a riscuotere la protezione dai commercianti.

Il vecchio Michele stava per arrivare dalle parti di Firenze. Strinse i pugni sul volante della macchina scassata. Vide le mani segnate e scorticate. Erano due giorni che menava alla gente, prima quei due stupidi guaglioni, poi quel fesso di Sabatino, e adesso erano indolenzite. Gli sembrava di essere tornato ragazzo.

Voleva smettere di ricordare e concentrarsi solo sulla strada, ma ormai la testa andava per conto suo. Una pallina da flipper che corre impazzita fra luci e suoni, presente e passato. Ancora un bagliore, una scheggia della sua vita. E poi ancora, e ancora. Sempre più rapido, sempre più veloce…

Si ricordava perfettamente la prima volta che aveva ucciso. Aveva diciassette anni, l’anno dello scudetto del Napoli. Era stata quella l’occasione in cui si era guadagnato il soprannome di Tiradritto. Non fu una rapina, non fu un conflitto a fuoco… fu una cosa di giustizia.

Ci stava un ragazzino. Un piccolo spacciatore. ’Nu ’uaglione ’e merd’. Si era messo a trafficare per conto suo, aveva fatto la cresta sugli affari del clan… e chi si credeva di essere. L’avevano preso dentro un bar mentre tutti facevano finta di non vedere e se l’erano portato in una cava fuori città. Una di quelle dove si scarica la monnezza chimica. Una puzza che non ti dico. L’avevano fatto inginocchiare in mezzo ai bidoni sfondati e arrugginiti. Piangeva come un capretto, gli colava il naso e chiedeva pietà. Ma a Michele onestamente non gliene fregava un cazzo delle sue scuse. Gli avevano detto di fare un lavoro e lui si voleva sbrigare che teneva impegni per la serata. Gli altri erano indecisi e si guardavano in faccia l’un l’altro.

Anche per loro era la prima volta e stavano là a perdere tempo, e quello cominciava pure a sperarci di tornare a casa vivo. Michele si era stufato, aveva tirato fuori la pistola dal dietro dei pantaloni e gli aveva sparato in faccia. Un boato assordante aveva riempito le pareti della cava. Il corpo a terra fra la monnezza. L’avevano lasciato là, che nessuno ci teneva voglia di scavare una fossa.

Quella sera si sentiva su di giri, aveva festeggiato con due botte di coca e una mezza puttana di Mergellina. Mezza perché non lo faceva per soldi, ma per farsi vedere con lui. Il nuovo piccolo boss. Uno che merita rispetto. E solo per questo pensava di meritarsi rispetto anche lei. E femmene.

Dopo quella volta le cose andarono sempre meglio. Sempre più veloci. Aveva spacciato e rapinato. Picchiato e sfregiato. Una tappa dopo l’altra, con gioioso impegno e la voglia di diventare adulti, importanti, potenti. Soldi sempre in tasca. Macchina come si deve. Tutto scorreva alla grande e lui si sentiva al centro del quartiere, del suo mondo. Al night si sputtanava in una notte la mesata di un operaio. Cambiava auto, donna e pistola ogni volta che voleva. Solo la coca rimaneva sempre quella. Una lunga striscia bianca che lo portava ogni giorno più in alto. La tirava e la spacciava. La respirava e la vendeva. La mangiava e l’amava. Dalle piccole dosi da spacciatore ai viaggi come cavallo, dagli ovuli di qualche disperato ai pacchi da un chilo, sino al salto di qualità… sino al grande passo che gli avrebbe cambiato la vita.

Il carico dal Sudamerica.

L’inizio della fine.

Stavolta Michele ne aveva abbastanza del passato. Aveva bisogno di respirare. A fondo, sempre più a fondo, riempiendosi i polmoni fino a scoppiare. In quell’auto aveva l’impressione di soffocare, di sprofondare, di affogare. Gli mancava l’aria e l’abitacolo era sempre più piccolo, minuscolo, opprimente. Sentiva che la mente si annebbiava, fra stanchezza e tensione, ed era un lusso che non poteva permettersi, doveva rimanere lucido. Fino alla fine.

Si fermò di nuovo in autogrill per un altro caffè, per comprare le sigarette e prendere una boccata d’ossigeno. Era scesa la sera e i fari delle auto erano lampi che scomparivano nel buio dell’autostrada lasciando dietro di loro la flebile traccia di due luci rosse che si andavano spegnendo. Si sorprese a fissare il viavai delle auto, imbambolato e immobile come un bambino. Quelle luci che non conosceva erano un po’ come le luci delle case che vedeva dal carcere: altre vite, altre storie, altri mondi. Estranei che vivevano una vita diversa dalla sua, lontana e incomprensibile. Una vita che non gli era mai appartenuta.

Finì la prima sigaretta con tre lunghe boccate, la buttò a terra, lì nel parcheggio della stazione di servizio, fra camionisti rumeni dalla faccia stanca e sconosciuti in viaggio che non lo degnavano di uno sguardo. Essere anonimo era una nuova sensazione che non gli dispiaceva affatto. Sentì che si andava calmando, che risaliva lungo il pozzo nero in cui era caduto. Si accese un’altra sigaretta, tanto per non farsi mancare nulla. Si guardò le mani dopo il secondo tiro. Erano ancora gonfie e segnate, tremavano leggermente, ma era cosa da nulla. Per un attimo pensò a tutto ciò che quelle mani avevano fatto. A tutto quello che lui aveva fatto. E che non era ancora finita.

Gli tornò in mente la storia di Lady Macbeth, che impazzì dopo avere ucciso suo marito e che continuava a vedere le proprie mani sporche di sangue. Pinochet adorava Shakespeare e gli aveva raccontato la storia passo dopo passo.

Si rimise in viaggio. I fari della sua auto si mischiarono a migliaia di altri. In testa le parole e la voce del suo vecchio compagno di cella.

«Miche’, hai visto il mio libro di Shakespeare?».

«Ch’agg vist?».

«Il libro, Miche’, quello con la copertina nera».

«Quello scritto strano?».

«Non è scritto “strano”, è un testo teatrale. Una tragedia, una delle più grandi che siano mai state pensate».

«E noi già stiamo in galera e pure le tragedie ci dobbiamo tenere?».

Don Ciro sorrise. «E non tieni tutti i torti, guaglio’. Comunque dove sta?».

Michele se ne stava sdraiato sulla branda a fissare il soffitto. «L’ho messo dentro al vostro armadietto, ché prima ho dato una rassettata alla stanza».

«E brav’ a ’stu guaglione, che non legge ancora, ma almeno è diventato uno preciso» disse Don Ciro recuperando il volume dall’armadietto.

Non fece in tempo a buttarsi nelle pagine della tragedia che se ne presentò una tutta sua.

L’appuntato della sezione si affacciò alle sbarre del cancello. «Squillante, alzati che tieni una telefonata».

Don Ciro lo guardò sorpreso. «Superio’, ma io aggio telefonato a casa ieri, la prossima è tra una settimana, e non ho fatto la domandina».

«Squillante, non sei tu che devi telefonare. La telefonata è per te».

Michele si mise a sedere di scatto sulla sua branda, mentre Don Ciro si alzava lentamente dallo sgabello. Ricevere una chiamata in galera è praticamente impossibile, è il detenuto che telefona dopo aver avuto l’autorizzazione dall’autorità giudiziaria o dal direttore, a seconda della sua posizione. Due o quattro volte al mese, per non più di dieci minuti, solo ai familiari, con numero controllato e verificato, e solo dopo specifica richiesta vidimata dal direttore. Se Don Ciro riceveva una telefonata poteva essere solo dal figlio maggiore, che stava detenuto in un altro carcere del Nord Italia, e anche in questo caso le chiamate erano concordate fra gli istituti e comunicate con ampio preavviso. Se arrivava una telefonata in questo modo, poteva essere solo una cosa straordinaria, e le cose straordinarie in carcere non sono mai cosa buona.

Il vecchio camorrista si avviò lungo il corridoio della sezione fino al telefono appeso al muro a fianco della rotonda. Per la prima volta Michele lo vide sperso, preoccupato. Allungò un braccio attraverso le sbarre del cancello della sua cella impugnando uno specchietto, per vedere cosa stesse succedendo, ma non c’era niente da vedere, solo Don Ciro in piedi contro il muro con la cornetta all’orecchio. Si rimise sulla sua branda e accese un’altra sigaretta.

Don Ciro tornò dopo dieci minuti esatti. Viso impassibile, pietrificato. Spalle abbassate e piedi che strascicavano sul pavimento. Era assente, completamente. Lui e la sua testa erano da un’altra parte, oltre le sbarre e i cancelli della prigione.

«Don Ciro, tutto a posto?» chiese Michele, ma non ebbe risposta. L’agente di sezione chiuse il cancello della cella e il vecchio si allungò sul suo letto. «Don Ciro, è successo qualcosa? State bene?».

«Non adesso, guaglio’. Non adesso. Devo riposare».

Il vecchio camorrista si infilò sotto le coperte girando la faccia contro il muro di cemento armato. Erano solo le sei, ma se Don Ciro voleva riposare non sarebbe stato certo lui a impedirglielo. L’uomo non ritirò il vitto serale, rimase lì in silenzio, ma Michele capiva dal respiro che non stava dormendo. Era solo lì, immobile.

La mattina dopo Michele lo fissò incuriosito, ma Pinochet non disse una parola, si alzò come ogni giorno alle sette, fece colazione, la barba, perfetta, inappuntabile, e poi si tolse la vecchia tuta del Napoli che utilizzava per stare più comodo, cercò nel suo armadietto altri indumenti e si vestì. Di nero. Pantaloni, maglia, scarpe, calzini. Quando fu ora, chiese all’appuntato della sezione di poter andare nella saletta socialità e poi al passeggio. Camminò in mezzo agli altri detenuti senza aprire bocca, molti si voltarono a guardarlo, non era da lui mischiarsi alla marmaglia, di solito se ne stava per conto suo o in cella a leggere. Ma stavolta camminò avanti e indietro perché tutti lo vedessero. E lo stesso fece nei tre giorni successivi.

Con Michele non disse nulla, si limitò alle frasi di circostanza che la convivenza forzata imponeva, e il ragazzo non chiese. Sapeva quando era il momento di stare zitto e aspettare. Al quarto giorno seppe. La notizia fu portata, come al solito, da Radio Carcere, una lettera di un familiare a un altro detenuto, che esplose come una bomba nell’intera sezione.

Il figlio maggiore di Don Ciro Squillante si era pentito.

Il ragazzo era diventato un collaboratore di giustizia.

Tanti non avrebbero dormito quella notte. Salvatore Squillante, il figlio di Don Ciro, era un capo, aveva retto le sorti della famiglia quando il padre stava al 41 bis, sapeva molte cose, conosceva tutti. Poteva fare danni seri se parlava. Si stava facendo la sua galera al Nord, ma le condanne si accumulavano una dietro l’altra e il fine pena si allontanava sempre di più; alla fine non aveva retto, e questo era un problema.

Don Ciro non commentò, non fece un fiato, sostenne gli sguardi perplessi e incazzati degli altri, ma non aprì bocca sulla questione, il messaggio che aveva lanciato subito dopo la notizia era stato chiaro e chi doveva capire avrebbe capito. Si era vestito di nero perché era a lutto, perché per lui suo figlio era morto. E se qualcuno lo avesse ucciso, lui non avrebbe avuto nulla da recriminare, nulla di cui vendicarsi. Era il suo personale lasciapassare.

Gli altri commentarono con un brusio ammirato… Don Ciro sapeva fare l’omme. Ma gli altri erano dei poveri imbecilli, capivano solo le quattro mura in cui erano rinchiusi. Di questo Michele era sicuro, perché lui era l’unico che conosceva veramente a Pinochet. Per lui era diventato come un padre, e come tale lo trattava. Non avevano mai affrontato direttamente l’argomento, non ce n’era bisogno, tuttavia Michele sapeva che per Don Ciro la vita fuori, gli affari, la droga, l’organizzazione e tutte quelle tarantelle, erano cosa passata. Un’ossessione e una febbre che lo avevano bruciato e consumato per anni, che gli avevano dato tanto e tolto di più, decimato la famiglia e ucciso il futuro. Ma lì, in quella cella di cemento, giorno dopo giorno, si erano allontanate da lui facendosi indistinte, sfuocate, tremolanti. La scimmia era scesa dalla sua schiena e lui non voleva tornare indietro, non voleva ritrovarsi ancora fra sangue e morti ammazzati, merda e droga. Era vecchio e dalla vita non voleva più nulla, aveva sbagliato e stava pagando, perché così doveva essere. Non aveva da recriminare contro i giudici o contro quei poliziotti vestiti di blu che lo tenevano lì dentro, facevano solo il loro lavoro. E se si era vestito di nero, non era per Salvatore, era sempre suo figlio e come tale lo amava. Era stato per Federico, l’altro figlio, il minore, quello che non s’era mischiato con quel mondo.

Don Ciro gliene aveva parlato così tante volte che a Michele sembrava di conoscerlo. Ventitré anni, nu brave guaglione, faceva l’università, si sarebbe presto laureato in Architettura. L’unico della famiglia che non c’entrava niente, il vecchio boss l’aveva mandato fuori a studiare per tenerlo lontano dagli affari del clan. Voleva che lui, almeno lui, avesse una vita normale, senza pistole e senza sangue, senza droga e senza morti. Con un lavoro, una famiglia, un futuro normale, fatto di piccole e grandi preoccupazioni.

Michele aveva capito Don Ciro. Aveva capito che con quell’abito nero, con quel silenzioso lasciapassare il vecchio voleva che tutti quelli che facevano parte del suo passato si concentrassero su Salvatore, che sarebbe stato protetto dallo Stato, che sarebbe stato un’ombra sfuggente, difficile non solo da catturare, ma anche da inseguire. Mentre invece Federico sarebbe stato solo… una facile preda.

Ma non andò così.

Uccisero Federico tre mesi dopo. A Bologna, davanti al portone del suo appartamento da studente fuorisede. Gli spararono tre colpi alla schiena, un’esecuzione veloce e pulita, senza infierire. Un’ultima forma di rispetto per Don Ciro.

Il vecchio non disse nulla. Non c’era niente da dire. La morte del figlio fu l’inizio della fine di Don Ciro Squillante, detto Pinochet. Michele lo vide spegnersi, trasformarsi in un guscio vuoto che risuonava delle voci altrui, ogni giorno più fragile. Impalpabile. Pronto ad andare in pezzi.

Michele sentì una lieve nostalgia ripensando all’uomo che aveva cambiato per sempre la sua vita. Si passò una mano sul viso, mentre guidava nel buio dell’autostrada. Un sapore amaro gli impastava la bocca, era stanco e aveva bisogno dell’ennesimo caffè. Decise di fermarsi alla prossima stazione di servizio, l’ultima. Il suo viaggio era quasi finito.

Meno di un’ora e avrebbe abbandonato in una strada secondaria quel cesso di macchina.

Meno di un’ora e avrebbe cominciato una nuova tappa.

Meno di un’ora e sarebbe arrivato a Milano.