E fu così che si ritrovò dietro una scrivania per la prima volta in vita sua, con una segretaria personale e alle spalle un grande quadro dei Padri della Patria durante qualche famosa battaglia. Pedro Terzo García guardava dalla finestra con sbarre del suo lussuoso ufficio e poteva vedere solo un minuscolo quadrilatero di cielo grigio. Non era una carica formale. Lavorava dalle sette del mattino sino a notte e infine era così stanco, che non se la sentiva di strappare neppure un accordo dalla sua chitarra e, ancora meno, di amare Blanca con la solita passione. Quando potevano darsi appuntamento, superando i soliti ostacoli di Blanca, più i nuovi che gli imponeva il suo lavoro, si ritrovavano tra le lenzuola più con angoscia che con desiderio. Facevano l'amore stanchi, interrotti dal telefono, ossessionati dal tempo, che non bastava mai. Blanca smise d'indossare la sua biancheria da sgualdrina, perché le sembrava una provocazione inutile che li metteva in ridicolo. Alla fine s'incontravano per riposare abbracciati, come una coppia di nonni, e per discutere amabilmente dei loro problemi quotidiani e dei gravi fatti che scuotevano la nazione. Un giorno Pedro Terzo si accorse che da quasi un mese non facevano l'amore e, cosa che gli parve ancora peggio, che nessuno dei due sentiva il desiderio di farlo. Ebbe un sobbalzo. Calcolò che alla sua età non c'erano cause d'impotenza e attribuì la cosa alla vita che faceva e alle manie da scapolo che aveva sviluppato. Suppose che se avesse condotto una vita normale con Blanca, in cui lei l'avesse aspettato ogni giorno nella pace del focolare, le cose sarebbero state diverse. Le intimò di sposarlo una volta per tutte perché era ormai stufo di quegli amori furtivi e non aveva più l'età per vivere così. Blanca gli diede la stessa risposta che gli aveva già dato spesso prima.
– Devo pensarci, amore mio.
Era nuda, seduta sull'angusto letto di Pedro Terzo. Lui la guardò senza pietà e vide che il tempo cominciava a devastarla con i suoi danni, che era più grassa, più triste, che aveva le mani deformate dai reumatismi e che quei meravigliosi seni, che un tempo gli toglievano il sonno, stavano trasformandosi nell'ampio grembo di una pingue matrona in piena maturità. Tuttavia, la ricordava bella come durante la sua giovinezza, quando si amavano tra le canne del fiume alle Tre Marie, e proprio per questo gli dispiaceva che la stanchezza fosse più forte della passione.
– Ci hai pensato per quasi mezzo secolo. Basta. Adesso o mai più – concluse.
Blanca non si turbò, perché non era la prima volta che lui la spingeva a prendere una decisione. Ogni volta che rompeva con una delle sue giovani amanti e tornava da lei le imponeva il matrimonio, in una ricerca disperata di trattenere l'amore e di farsi perdonare. Quando si era trattato di lasciare il quartiere operaio dove era stato felice per molti anni e di sistemarsi in un appartamento di classe media, le aveva detto le stesse parole.
– O ti sposi con me adesso o non ci vediamo più.
Blanca non capì che in quell'occasione la decisione di Pedro Terzo era irrevocabile.
Si separarono adirati. Lei si vestì, raccogliendo in fretta i suoi indumenti sparsi sul pavimento e si arrotolò i capelli sulla nuca fermandoli con qualche forcina che aveva rintracciato nel disordine del letto. Pedro Terzo si accese una sigaretta e non le tolse lo sguardo di dosso mentre lei si vestiva. Blanca s'infilò le scarpe, prese la sua borsa e dalla porta gli fece un cenno di saluto. Era sicura che il giorno dopo lui l'avrebbe chiamata per una delle sue spettacolari riconciliazioni. Pedro Terzo si girò verso la parete. Una smorfia amara gli aveva trasformato la bocca in una linea stretta. Non si sarebbero rivisti per due anni.
Nei giorni successivi, Blanca attese che si mettesse in comunicazione con lei, secondo uno schema che si ripeteva sempre. Mai le era mancato, nemmeno quando lei si era sposata e avevano trascorso un anno separati. Anche in quella circostanza era stato lui a cercarla. Ma al terzo giorno senza notizie, cominciò ad allarmarsi. Si rigirava nel letto, tormentata da un'insonnia perenne, raddoppiò la dose di tranquillanti, si rifugiò di nuovo nei suoi mal di testa e nelle sue nevralgie, si stordì nel laboratorio mettendo e togliendo dal forno centinaia di mostri per il presepe, nello sforzo di mantenersi occupata e di non pensare, ma non riuscì a soffocare la sua impazienza. Infine gli telefonò al Ministero. Una voce femminile le rispose che il compagno García era in riunione e che non poteva essere interrotto. Il giorno dopo, Blanca ritelefonò e continuò a farlo per il resto della settimana, finché non si convinse che non l'avrebbe raggiunto con quel mezzo. Fece uno sforzo per vincere l'enorme orgoglio che aveva ereditato da suo padre, si mise il suo vestito migliore, il suo reggicalze da scanfarda e andò a cercarlo nel suo appartamento. La sua chiave non entrò nella serratura e dovette suonare il campanello. Le aprì la porta un omaccione baffuto con occhi da educanda.
– Il compagno García non c'è – disse senza invitarla a entrare.
Allora capì di averlo perso. Ebbe la visione fugace del suo futuro, vide se stessa in un vasto deserto, a consumarsi in occupazioni senza senso per impiegare il tempo, senza l'unico uomo che aveva amato in tutta la vita e lontana da quelle braccia fra cui aveva dormito dai giorni immemorabili della sua prima adolescenza. Si sedette sulla scala e ruppe in pianto. L'uomo dai baffi chiuse la porta senza rumore.
Non disse a nessuno quanto era successo. Alba le chiese di Pedro Terzo e lei le rispose evasivamente, dicendole che il nuovo incarico nel governo lo teneva molto occupato. Continuò a dare lezioni alle signorine scioperate e ai bambini mongoloidi e inoltre cominciò a insegnare ceramica nei quartieri periferici, dove le donne si erano organizzate per imparare nuovi mestieri e partecipare, per la prima volta, all'attività politica e sociale del paese. L'organizzazione era necessaria perché "la strada verso il socialismo" si trasformò ben presto in un campo di battaglia. Mentre il popolo festeggiava la vittoria lasciandosi crescere i capelli e la barba, chiamandosi l'un l'altro compagno, riesumando il folclore dimenticato e l'artigianato popolare ed esercitando il suo nuovo potere in eterne e inutili riunioni di lavoratori, dove tutti parlavano nello stesso tempo e non arrivavano mai ad alcun accordo, la destra compiva una serie di azioni strategiche destinate a frantumare l'economia e a togliere prestigio al governo. Aveva fra le mani i mezzi di diffusione più potenti, contava su risorse economiche quasi illimitate e sull'aiuto dei nordamericani, che avevano destinato fondi segreti per il piano di sabotaggio. Di lì a pochi mesi si potevano già apprezzare i risultati. Il popolo si ritrovò per la prima volta con denaro sufficiente per esaudire le sue necessità di base e comprare qualcosa che aveva sempre desiderato, ma non poteva farlo, perché i negozi erano quasi vuoti. Era cominciata la destabilizzazione, che divenne a poco a poco un incubo collettivo. Le donne si alzavano all'alba per fare code interminabili dove potevano impossessarsi di un misero pollo, mezza dozzina di pannolini o carta igienica. Il lucido per le scarpe, gli aghi e il caffè divennero articoli di lusso che venivano regalati avvolti in carta fantasia durante i compleanni. Si scatenò l'angoscia della scarsità, il paese era scosso da ondate di voci contraddittorie che tenevano all'erta la popolazione sui prodotti che sarebbero venuti meno e la gente comprava quello che c'era, senza misura, per assicurarsi il futuro. Si mettevano in coda senza sapere quello che si stava vendendo, solo per non perdere l'occasione di comprare qualcosa, anche se non ne avevano bisogno. Sorsero professionisti delle code, che per una somma ragionevole tenevano il posto ad altri, i venditori di dolciumi che approfittavano della ressa per piazzare le loro ghiottonerie e quelli che affittavano coperte per le code notturne. S'impose il mercato nero. La polizia cercò d'impedirlo, ma era come una peste che s'infilava ovunque e per tanto che perquisissero le auto e fermassero chi trasportava fagotti sospetti non riuscirono a evitarlo. Persino i bambini trafficavano nei cortili delle scuole. Nella fretta di accaparrare prodotti, nasceva confusione e chi non aveva mai fumato finiva per pagare qualunque cifra per un pacchetto di sigarette, e chi non aveva bambini litigava per un barattolo di cibo per lattanti. Scomparvero i pezzi di ricambio delle cucine, delle macchine industriali, dei veicoli. Razionarono la benzina e le file di automobili potevano durare due giorni e una notte, bloccando la città come un gigantesco boa immobile che si scaldava al sole. Non c'era tempo per tante code e gli impiegati dovevano spostarsi a piedi o in bicicletta. Le strade si riempirono di ciclisti ansimanti e questo sembrava un delirio di olandesi. Così stavano le cose quando i camionisti si misero in sciopero. La seconda settimana fu chiaro che non era un fatto sindacale, bensì politico, e che non pensavano di tornare al lavoro. L'esercito volle occuparsi del problema, perché gli ortaggi stavano marcendo nei campi e nei mercati non c'era niente da vendere alle donne di casa, ma si trovò che gli autisti avevano messo fuori uso i motori ed era impossibile far muovere le migliaia di camion che occupavano le strade come carcasse fossilizzate. Il Presidente si mostrò in televisione chiedendo pazienza. Avvertì il paese che i camionisti erano pagati dall'imperialismo e che sarebbero rimasti in sciopero indefinitamente, sicché era meglio coltivare le proprie verdure nei cortili e sui balconi, almeno fintanto che non si fosse trovata un'altra soluzione. Il popolo che era abituato alla povertà e che aveva mangiato pollo solo nelle feste nazionali e a Natale, non perse l'euforia del primo giorno, al contrario, si organizzò come per una guerra, deciso a non permettere che il sabotaggio economico gli amareggiasse il trionfo. Continuò a tripudiare con spirito festoso e a cantare per le strade che el pueblo unido jamás será vencido, sebbene il ritornello riecheggiasse sempre più stonato, perché la divisione e l'odio si diffondevano inesorabilmente.
Anche la vita del senatore Trueba, come quella di tutti gli altri, cambiò. L'entusiasmo per la lotta che aveva intrapreso gli restituì le forze di un tempo e alleviò un poco il dolore delle sue povere ossa. Lavorava come nei suoi tempi migliori. Faceva numerosi viaggi di cospirazione all'estero e percorreva infaticabilmente le province del paese, da Nord a Sud, in aereo, in automobile e in treno, su cui era finito il privilegio della prima classe. Reggeva le truculente cene con le quali lo accoglievano i suoi seguaci in ogni città, paese o villaggio che visitava, simulando l'appetito di un carcerato, nonostante le sue budella di anziano non fossero più fatte per questi trambusti. Viveva fra un conciliabolo e l'altro. All'inizio il lungo esercizio della democrazia lo limitava nella sua capacità di tendere insidie al governo, ma ben presto abbandonò l'idea di infastidirlo nell'ambito della legge e accettò il fatto che l'unico modo per vincerlo era impiegando risorse proibite. Fu il primo a osar dire in pubblico che per fermare l'avanzata del marxismo sarebbe stato utile soltanto un golpe militare, perché il popolo non avrebbe rinunciato al potere che aveva aspettato con ansia durante mezzo secolo, perché mancavano i polli.
– Smettetela con le cretinate e impugnate le armi! – diceva quando udiva parlare di sabotaggio.
Le sue idee non erano affatto un segreto, le diffondeva ai quattro venti e, non contento di questo, andava di tanto in tanto a tirare granoturco ai cadetti della Scuola Militare e a gridare contro di loro che erano delle galline. Dovette cercarsi un paio di bravacci che lo proteggessero durante i suoi stessi eccessi. Spesso dimenticava che li aveva assunti lui stesso e sentendosi sorvegliato soffriva di attacchi di malumore, li insultava, li minacciava col bastone e in genere finiva soffocato dalla tachicardia. Era sicuro che, se qualcuno aveva intenzione di assassinarlo, quei due imbecilli grandi e grossi non sarebbero riusciti a evitarlo, ma aveva fiducia che la loro presenza potesse almeno intimorire gli insolenti spontanei. Cercò anche di far vigilare sua nipote, perché pensava che si muoveva in un antro di comunisti dove da un momento all'altro qualcuno poteva mancarle di rispetto per colpa della parentela con lui, ma Alba non volle sentir parlare della faccenda. "Un bravaccio a pagamento è come una confessione di colpa. Io non ho niente da temere", aggiunse. Lui non osò insistere, perché era ormai stanco di litigare con tutti i membri della sua famiglia e, dopotutto, sua nipote era l'unica persona al mondo con cui divideva la sua tenerezza e lo faceva ridere.
Intanto, Blanca aveva organizzato una catena di approvvigionamento tramite il mercato nero e i suoi agganci nei quartieri operai dove andava a insegnare ceramica alle donne. Subiva molte angosce e molte fatiche per trafugare un sacco di zucchero o una cassa di sapone. Mise in atto un'astuzia di cui non si credeva capace, per immagazzinare in una delle stanze vuote della casa ogni sorta di cose, talune decisamente inutili, come due barili di salsa di soia che comprò da certi cinesi. Sbarrò la finestra della stanza, mise un lucchetto alla porta e andava in giro con le chiavi appese alla cintura, senza togliersele neppure per fare il bagno, perché non si fidava di nessuno, compresi Jaime e la sua stessa figlia. Non le mancavano motivi. "Sembri un carceriere, mamma", diceva Alba, allarmata da quella mania di prevenire il futuro a costo di amareggiarsi il presente. Alba era del parere che se non c'era carne, si mangiavano patate, e se non c'erano scarpe, si usavano pantofole di corda, ma Blanca, inorridita dal semplicismo di sua figlia, sosteneva la teoria secondo cui, succeda quello che deve succedere, non bisogna calare di livello, e così giustificava il tempo perso nelle sue astuzie da contrabbandiere. In realtà non avevano mai vissuto meglio dopo la morte di Clara, perché per la prima volta c'era qualcuno in casa che si preoccupava dell'organizzazione domestica e predisponeva quanto andava a finire nella pentola. Dalle Tre Marie arrivavano regolarmente casse di provviste che Blanca nascondeva. La prima volta marcì quasi tutto e la puzza dilagò oltre le stanze chiuse, invase la casa e si diffuse nel quartiere. Jaime suggerì a sua sorella di regalare, cambiare o vendere i prodotti deperibili, ma Blanca si rifiutò di spartire i suoi tesori. Allora Alba capì che sua madre, che sino a quel momento era sembrata la persona più equilibrata della famiglia, aveva anche lei le sue personali follie. Aprì una breccia nel muro della dispensa, dalla quale prelevava nella stessa misura in cui Blanca immagazzinava. Imparò a farlo con tanta attenzione affinché non si notasse, rubando lo zucchero, il riso e la farina a tazze, rompendo i formaggi e spargendo la frutta secca in modo che sembrasse opera dei topi, che a Blanca ci vollero più di quattro mesi per nutrire sospetti. Allora fece un inventario scritto di quanto aveva nel magazzino e segnava con una crocetta quanto prelevava per l'uso di casa, convinta che così avrebbe scoperto il ladro. Ma Alba approfittava della minima distrazione di sua madre per farle crocette nella lista, sicché alla fine Blanca era così confusa da non sapere se si era sbagliata nel tenere la contabilità, se in casa mangiavano tre volte più di quello che lei calcolava o se era vero che in quel maledetto casermone circolavano ancora spiriti errabondi.
Il prodotto dei furti di Alba andava a finire in mano a Miguel, che lo divideva tra la gente povera e nelle fabbriche insieme ai suoi scritti rivoluzionari che incitavano alla lotta armata per sconfiggere l'oligarchia. Ma nessuno gli dava retta. Erano convinti che, se erano arrivati al potere per via legale e democratica, nessuno glielo poteva togliere, almeno fino alle prossime elezioni presidenziali.
– Sono degli imbecilli, non si rendono conto che la destra sta armandosi! – disse Miguel ad Alba.
Alba gli credette. Aveva visto scaricare in piena notte grandi casse di legno nel cortile di casa sua, e poi, in gran segreto, il carico era stato immagazzinato, dietro ordine di Trueba, in una delle stanze vuote. Suo nonno, come sua madre, aveva messo un lucchetto alla porta e girava con la chiave appesa al collo nella stessa borsina di camoscio in cui portava sempre i denti di Clara. Alba lo raccontò a suo zio Jaime, che, dopo avere stipulato una tregua con suo padre, aveva fatto ritorno a casa. "Sono quasi sicura che siano armi", gli aveva confidato. Jaime che in quel periodo aveva la testa fra le nuvole, e continuò ad averla fino al giorno in cui lo ammazzarono, non riusciva a crederci, ma sua nipote insistette tanto, che convenne di parlarne col padre all'ora di pranzo. I dubbi che nutriva gli svanirono davanti alla risposta del vecchio.
– In casa mia faccio quello che mi pare e porto tutte le casse che voglio! Non ficcate più il naso nei miei affari! – ruggì il senatore Trueba dando un pugno sul tavolo che fece tremare i bicchieri e interruppe di brutto la conversazione.
Quella notte Alba andò a trovare suo zio nel tunnel dei libri e gli propose di adottare con le armi del nonno lo stesso sistema di cui si serviva con le vettovaglie di sua madre. E così fecero. Impiegarono il resto della notte ad aprire un buco nella parete della stanza attigua all'arsenale, che dissimularono da una parte con un armadio e dall'altra con le stesse casse proibite. Di lì riuscirono a infilarsi nella stanza chiusa dal nonno, provvisti di martello e di piede di porco. Alba, che aveva già esperienza di quel lavoro, suggerì di aprire le casse più in basso. Trovarono un armamento da battaglia che li lasciò a bocca aperta, perché non sapevano che esistessero strumenti tanto perfetti per ammazzare. Nei giorni successivi rubarono tutto quello che poterono, lasciando le casse vuote sotto le altre e riempiendole di pietre perché non se ne accorgessero nel sollevarle. Insieme tirarono fuori pistole da combattimento, mitra, fucili e bombe a mano, che nascosero nel tunnel di Jaime finché Alba non riuscì a portarle, nascoste nella custodia del suo violoncello, in un luogo sicuro. Il senatore Trueba vedeva passare sua nipote trascinando la pesante custodia senza sospettare che nell'interno foderato di panno rotolavano le pallottole che gli era tanto costato far passare per la frontiera e nascondere in casa sua. Alba aveva avuto l'idea di consegnare le armi confiscate a Miguel. Ma suo zio Jaime l'aveva convinta che Miguel non era meno terrorista del nonno e che era meglio disporne in modo che non potessero far del male a nessuno. Esaminarono diverse alternative, da quella di gettarle nel fiume fino a quella di bruciarle in un falò e infine decisero che era più conveniente sotterrarle in sacchi di plastica in qualche posto sicuro e segreto, qualora un giorno potessero servire per una causa più giusta. Il senatore Trueba si stupì alla vista di suo figlio e di sua nipote che organizzavano una gita in montagna, perché né Jaime né Alba avevano più praticato sport dai tempi del collegio inglese e non avevano mai manifestato alcuna inclinazione per i disagi dell'alpinismo. Un sabato mattina partirono su una jeep presa in prestito, provvisti di una tenda, una cesta di cibarie e una misteriosa valigia che dovettero sollevare in due, perché pesava come piombo. Dentro c'erano le armi da guerra che avevano rubato al nonno. Se ne andarono entusiasti verso la montagna fin dove riuscirono ad arrivare seguendo la strada e poi proseguirono attraverso i campi, cercando un posto tranquillo fra la vegetazione tormentata dal vento e dal freddo. Lì deposero i loro arnesi e montarono senza alcuna perizia la piccola tenda, scavarono le buche e sotterrarono i sacchi, segnando ogni posto con un monticello di pietre. Il resto del fine settimana lo trascorsero pescando trote nel fiume e arrostendole sul fuoco di sterpi, andando per le montagne come piccoli esploratori e raccontandosi il passato. Di notte scaldarono vino rosso con cannella e zucchero e avvolti nelle loro sciarpe brindarono alla faccia che avrebbe fatto il nonno quando si fosse accorto che lo avevano derubato, ridendo sino alle lacrime.
– Se non fossi mio zio, mi sposerei con te! – scherzò Alba.
– E Miguel?
– Sarebbe il mio amante.
A Jaime non sembrò divertente e per il resto della gita fu scontroso. Quella notte s'infilarono ciascuno nel proprio sacco a pelo, spensero la lampada a paraffina e rimasero in silenzio. Alba si addormentò in fretta, ma Jaime rimase fino all'alba con gli occhi aperti nel buio. Gli piaceva dire che Alba era come sua figlia, ma quella notte si sorprese a desiderare di non essere suo padre e suo zio, ma di essere semplicemente Miguel. Pensò ad Amanda e rimpianse che ormai non riusciva più a commuoverlo, cercò nella memoria la cenere di quella passione smisurata che una volta aveva provato per lei, ma non la trovò. Si era trasformato in un solitario. Dapprima era stato molto vicino ad Amanda, perché si era assunto l'impegno della sua guarigione e la vedeva quasi ogni giorno. L'ammalata aveva trascorso diverse settimane di agonia, finché non era riuscita a fare a meno della droga. Aveva smesso anche di fumare e di bere e aveva cominciato a fare una vita sana e ordinata, era aumentata un po' di peso, si era tagliata i capelli e aveva ripreso a truccarsi i suoi grandi occhi scuri e a mettersi collane e braccialetti tintinnanti, in un patetico sforzo di recuperare la sbiadita immagine che serbava di se stessa. Era innamorata. Dopo la depressione era passata a uno stato di euforia permanente e Jaime era il centro della sua fissazione. L'enorme sforzo di volontà che aveva compiuto per liberarsi delle sue numerose dosi di droga, l'aveva offerto a lui come prova d'amore. Non appena gli era stato possibile aveva tentato di ristabilire le distanze, con la scusa di essere uno scapolo senza più speranze per l'amore. Gli bastavano gli incontri furtivi con qualche infermiera compiacente dell'ospedale o le tristi visite ai bordelli, per soddisfare le sue urgenze più pressanti, nei rari momenti liberi che il lavoro gli lasciava. Contro la sua volontà, si era trovato invischiato in un rapporto con Amanda che da giovane aveva desiderato con disperazione, ma che ormai non lo commuoveva né si sentiva capace di conservare. Gli ispirava solo un sentimento di compassione, ma questa era una delle emozioni più forti che poteva sentire. Dopo tutta una vita di convivenza con la miseria e il dolore, non gli si era indurita l'anima, bensì, al contrario, era sempre più vulnerabile alla pietà. Il giorno in cui Amanda gli aveva gettato le braccia al collo e gli aveva detto che lo amava, l'aveva abbracciata macchinalmente e l'aveva baciata con una finta passione, affinché lei non percepisse che non la desiderava. Così si era visto catturato in un rapporto assorbente a un'età in cui si credeva incapace di amori tumultuosi. "Non sono più fatto per queste cose", pensava dopo quegli sfibranti incontri durante i quali Amanda, pur affascinandolo, ricorreva a ricercate manifestazioni amorose che li lasciavano entrambi annichiliti.
Il suo rapporto con Amanda e l'insistenza di Alba l'avevano posto spesso a contatto con Miguel. Non poteva evitare d'incontrarlo in molte occasioni. Aveva fatto il possibile per restare indifferente, ma Miguel aveva finito per catturarlo. Era maturato e non era più un giovane esaltato, ma non si era discostato affatto dalla sua linea politica e continuava a pensare che senza una rivoluzione violenta sarebbe stato impossibile vincere la destra. Jaime non era d'accordo, ma lo apprezzava e ammirava il suo carattere coraggioso. Tuttavia, lo considerava uno di quegli uomini fatali, posseduti da un idealismo pericoloso e da una purezza intransigente, che quanto toccano tingono di disgrazia, specialmente le donne che hanno la cattiva sorte di amarli. Non gli piaceva neppure la sua posizione ideologica, perché era convinto che gli estremisti di sinistra come Miguel facevano più danno al Presidente che quelli di destra. Ma nulla di tutto ciò gli impediva di nutrire simpatia per lui e di chinarsi dinanzi alla forza delle sue convinzioni, alla sua allegria istintiva, alla sua tendenza alla tenerezza e alla generosità per cui era disposto a dare la vita in nome d'ideali che Jaime condivideva, ma che non aveva il coraggio di spingere sino alle ultime conseguenze.
Quella notte Jaime si addormentò oppresso e inquieto, scomodo nel suo sacco a pelo, ascoltando vicinissimo il respiro di sua nipote. Quando si svegliò, lei si era alzata e stava scaldando il caffè per la colazione. Tirava una brezza fredda e il sole illuminava con riflessi dorati le cime delle montagne. Alba gettò le braccia al collo di suo zio e lo baciò, ma lui tenne le mani nelle tasche e non restituì la carezza. Era turbato.
Le Tre Marie fu una delle ultime tenute che la riforma agraria espropriò nel Sud. Gli stessi contadini che erano nati e avevano lavorato per generazioni in quella terra formarono una cooperativa e s'impadronirono della proprietà, perché da tre anni e cinque mesi non vedevano il loro padrone e si erano dimenticati l'uragano delle sue ire. L'amministratore, intimorito dal verso che prendevano gli eventi e dal tono esaltato delle riunioni dei mezzadri nella scuola, radunò le sue cose e prese il largo senza salutare nessuno e senza avvisare il senatore Trueba, perché non desiderava affrontare la sua furia e perché pensava di avere compiuto il suo dovere avendolo avvisato più volte. Con la sua partenza, le Tre Marie rimasero per un certo tempo alla deriva. Non c'era chi desse ordini né chi fosse disposto a eseguirli, in quanto i contadini assaporavano per la prima volta in vita loro il gusto della libertà e di essere padroni di se stessi. Si spartirono equamente i campi e ciascuno coltivò quello che aveva voglia, finché il governo non mandò un tecnico agrario che diede loro sementi a credito e li aggiornò sulle richieste del mercato, sulle difficoltà del trasporto per i prodotti e sui vantaggi dei fertilizzanti e dei disinfestanti. I contadini non diedero molto retta al tecnico perché sembrava un damerino di città ed era chiaro che non aveva mai tenuto in mano un aratro, ma festeggiarono comunque la sua visita aprendo i sacri magazzini dell'antico padrone, saccheggiando i suoi vini di un tempo, e sacrificando i tori da riproduzione per mangiarne le animelle con cipolla e coriandolo. Dopo la partenza del tecnico mangiarono anche le mucche importate e le galline da uova. Esteban Trueba venne a sapere che aveva perso la terra, quando gli notificarono che gliel'avrebbero pagata con buoni dello stato, a rate trentennali e allo stesso prezzo che lui aveva fissato nella sua dichiarazione dei redditi. Perse il controllo. Tirò fuori dal suo arsenale un mitra che non sapeva usare e ordinò al suo autista di portarlo in un'unica tappa fino alle Tre Marie, senza avvisare nessuno, neppure la sua guardia del corpo. Viaggiò per molte ore, cieco di rabbia, senza alcun piano concreto in mente.
All'arrivo dovettero fermare di colpo l'automobile, perché un grosso palo al cancello sbarrava il passaggio. Uno dei mezzadri montava la guardia armato di un bastone e di un fucile da caccia senza cartucce. Trueba scese dal veicolo. Alla vista del padrone, il pover'uomo si attaccò freneticamente alla campana della scuola che avevano installato lì vicino per dare l'allarme, e si gettò subito a pancia a terra. La raffica di pallottole gli passò sopra la testa e si conficcò negli alberi vicini. Trueba non si fermò a guardare se l'aveva ammazzato. Con un'agilità inattesa per la sua età, s'infilò nella strada della tenuta senza guardare da nessuna parte, sicché il colpo alla nuca lo colse di sorpresa e lo buttò a carponi nella polvere prima che si potesse rendere conto di quello che era successo. Si svegliò nella sala da pranzo della casa padronale, disteso sulla tavola, con le mani legate e un guanciale sotto la testa. Una donna gli stava applicando pezze bagnate sulla fronte e intorno a lui c'erano quasi tutti i mezzadri che lo guardavano con curiosità.
– Come si sente, compagno? – domandarono.
– Figli di puttana! Non sono il compagno di nessuno io! – ruggì il vecchio cercando di alzarsi.
Tanto si dibatté e gridò, che gli sciolsero i lacci e lo aiutarono a drizzarsi, ma quando volle uscire vide che le finestre erano sprangate dall'esterno e la porta chiusa a chiave. Cercarono di spiegargli che le cose erano cambiate e che ormai non era più il padrone, ma non volle ascoltare nessuno. Vomitava schiuma dalla bocca e il cuore minacciava di scoppiargli, lanciava improperi come un demente, minacciando castighi e vendette tali, che gli altri finirono per mettersi a ridere. Infine, stufi, lo lasciarono solo chiuso nella sala da pranzo. Esteban Trueba si lasciò cadere su una seggiola, spossato dallo sforzo tremendo. Ore dopo venne a sapere che si era trasformato in un ostaggio e che la televisione voleva filmarlo. Avvertiti dall'autista, le sue due guardie del corpo e qualche giovanotto esaltato del suo partito avevano fatto il viaggio fino alle Tre Marie, armati di bastoni, tirapugni e catene, per riscattarlo, ma avevano trovato una guardia raddoppiata al cancello, armata dello stesso mitra che il senatore Trueba aveva fornito.
– Il compagno ostaggio non se lo prende nessuno – dissero i contadini, e per dare enfasi alle loro parole li fecero correre a suon di spari.
Arrivò un camion della televisione per filmare l'incidente e i mezzadri, che non avevano mai visto nulla di simile, lo lasciarono entrare e posarono per le telecamere con i loro più ampi sorrisi, stando intorno al prigioniero. Quella notte tutto il paese poté vedere sui suoi schermi il massimo rappresentante dell'opposizione legato, che vomitava schiuma di rabbia e che ruggiva parolacce tali che dovette intervenire la censura. Anche il Presidente lo vide e il fatto non lo divertì, perché comprese che poteva essere la miccia che avrebbe potuto far saltare in aria la polveriera su cui il governo stava seduto in equilibrio precario. Inviò carabinieri a liberare il senatore. Quando questi arrivarono alla tenuta, i contadini, incoraggiati dall'appoggio della stampa, non li lasciarono entrare. Esigevano un'ordinanza giudiziaria. Il giudice della provincia, vedendo che avrebbe potuto cacciarsi in un pasticcio e apparire anche lui alla televisione vilipeso dai giornalisti della sinistra, se ne andò con molta prudenza a pescare. I carabinieri dovettero limitarsi ad aspettare oltre il cancello delle Tre Marie, finché non fu inviato l'ordine dalla capitale.
Blanca e Alba ne vennero informate, come tutti, perché lo videro durante il telegiornale. Blanca rimase sino al giorno dopo senza fare commenti, ma, vedendo che neppure i carabinieri erano riusciti a riscattare il nonno, decise che era giunto il momento di cercare di nuovo Pedro Terzo García.
– Togliti quei pantaloni schifosi e mettiti un abito decente ordinò ad Alba.
Si presentarono entrambe al Ministero senza avere chiesto un appuntamento. Un segretario cercò di trattenerle nell'anticamera, ma Blanca lo scansò con una spinta e avanzò con passo deciso trascinando sua figlia a rimorchio. Aprì la porta senza bussare e irruppe nell'ufficio di Pedro Terzo, che non vedeva da due anni. Fu sul punto di retrocedere, credendo di essersi sbagliata. In così breve tempo, l'uomo della sua vita era dimagrito e invecchiato, sembrava molto stanco e triste, aveva ancora i capelli neri, ma più radi e corti, si era tagliato la sua bella barba e indossava un abito grigio da funzionario e un'ammuffita cravatta dello stesso colore. Solo dallo sguardo dei suoi antichi occhi neri Blanca lo riconobbe.
– Gesù! Come sei cambiato!... – balbettò.
A Pedro Terzo, invece, lei sembrò più bella di quanto ricordava, come se l'assenza l'avesse ringiovanita. In quel frattempo, lui aveva avuto il tempo di pentirsi della sua decisione e di scoprire che senza Blanca aveva perduto anche il gusto per le ragazze che prima lo entusiasmavano. Del resto, seduto a quella scrivania, lavorando dodici ore al giorno, lontano dalla sua chitarra e dall'ispirazione della gente, aveva ben poche possibilità di sentirsi felice. A mano a mano che il tempo passava riusciva a reprimere sempre meno l'amore tranquillo e sereno per Blanca. Non appena la vide entrare con gesti decisi e accompagnata da Alba, capì che non era venuta a vederlo per ragioni sentimentali e indovinò che la causa era lo scandalo del senatore Trueba.
– Vengo a chiederti che ci accompagni – gli disse Blanca senza preamboli. – Io e tua figlia andiamo a prendere il vecchio alle Tre Marie.
Fu così che Alba venne a sapere che suo padre era Pedro Terzo García.
– Va bene. Passeremo da casa mia a prendere la chitarra rispose lui alzandosi.
Uscirono dal Ministero su un'automobile nera come un carro funebre con le insegne ufficiali. Blanca e Alba aspettarono in strada mentre lui saliva nell'appartamento. Quando tornò aveva riacquistato qualcosa del suo antico fascino. Si era cambiato l'abito grigio con la tuta e il poncho di una volta, aveva ai piedi sandali di corda e portava la chitarra a tracolla. Blanca gli sorrise per la prima volta e lui si chinò e la baciò brevemente sulla bocca. Il viaggio fu silenzioso per i primi cento chilometri, finché Alba non riuscì a riprendersi dalla sorpresa e tirò fuori un filo di voce tremante per chiedere come mai non le avevano detto prima che Pedro Terzo era suo padre, così si sarebbe risparmiata tutti quegli incubi a causa di un conte vestito di bianco, morto di febbre nel deserto.
– È meglio un padre morto che un padre assente – rispose enigmaticamente Blanca, e non parlò più della faccenda.
Arrivarono alle Tre Marie all'imbrunire e trovarono al cancello della tenuta una folla in amichevoli conversari intorno a un fuoco su cui si arrostiva un maiale. Erano i carabinieri, i giornalisti e i contadini che stavano dando fondo alle ultime bottiglie della cantina del senatore. Alcuni cani e molti bambini giocavano illuminati dal fuoco, in attesa che il roseo e lustro maialino terminasse di cucinarsi. Pedro Terzo García fu immediatamente riconosciuto da quelli della stampa, perché l'avevano spesso intervistato, dai carabinieri per il suo inconfondibile aspetto di cantante popolare, dai contadini perché l'avevano visto nascere in quella terra. Lo accolsero con affetto.
– Cosa ti porta qui, compagno? – chiesero i contadini.
– Vengo a vedere il vecchio – sorrise Pedro Terzo.
– Lei può entrare, compagno, ma solo. Donna Blanca e la piccola Alba accetteranno un bicchiere di vino – dissero.
Le due donne si sedettero intorno al fuoco insieme agli altri e l'odore avvolgente della carne bruciacchiata fece loro ricordare che non avevano mangiato dalla mattina. Blanca conosceva tutti i mezzadri e a molti aveva insegnato a leggere nella piccola scuola delle Tre Marie, sicché si misero a ricordare i tempi trascorsi, quando i fratelli Sánchez imponevano la loro legge in tutta la regione, quando il vecchio Pedro García aveva messo fine alla piaga delle formiche e quando il Presidente era un eterno candidato, che si fermava nelle stazioni per arringarli dal treno delle sue sconfitte.
– Chi l'avrebbe mai pensato che un giorno sarebbe diventato Presidente! – disse uno.
– E che un giorno il padrone avrebbe comandato meno di noi alle Tre Marie! – scoppiarono a ridere gli altri.
Condussero Pedro Terzo García in casa, direttamente nella cucina. Lì c'erano i mezzadri più vecchi intenti a sorvegliare la porta della sala da pranzo dove tenevano prigioniero l'antico padrone. Non avevano più visto Pedro Terzo da anni, ma tutti lo ricordavano. Si sedettero a tavola a bere vino e a ricordare il passato remoto, i tempi in cui Pedro Terzo non era una leggenda nella memoria della gente di campagna, ma solo un ragazzo ribelle innamorato della figlia del padrone. Poi Pedro Terzo prese la chitarra, se la sistemò su una gamba, chiuse gli occhi e cominciò a cantare con la sua voce di velluto la storia delle galline e delle volpi, seguito in coro da tutti i vecchi.
– Mi porterò via il padrone, compagni – disse dolcemente Pedro Terzo in una pausa.
– Non sognartelo neppure, figliolo – gli replicarono.
– Domani verranno i carabinieri con l'ordine giudiziario e se lo porteranno via come un eroe. Meglio che me lo porti via io con la coda tra le gambe – disse Pedro Terzo.
Discussero la cosa per un certo tempo e infine lo condussero nella sala da pranzo e lo lasciarono solo con l'ostaggio. Era la prima volta che si trovavano l'uno di fronte all'altro dal giorno in cui Trueba gli aveva fatto pagare la verginità di sua figlia con un colpo d'ascia. Pedro Terzo se lo ricordava come un gigante furibondo armato di una frusta di pelle di serpente e un bastone d'argento, al cui passo i mezzadri tremavano e la natura si alterava udendone il vocione da tuono e la prepotenza da gran signore. Si sorprese che il suo rancore, accumulato durante un tempo così lungo, si sgonfiasse in presenza di quel vecchio curvo e rimpicciolito che lo guardava spaventato. Il senatore Trueba aveva esaurito la sua rabbia e la notte che aveva trascorso seduto su una seggiola con le mani legate gli aveva ammaccato tutte le ossa e schiacciato una stanchezza di mille anni sulle spalle. All'inizio stentò a riconoscerlo, perché non l'aveva più rivisto da un quarto di secolo, ma, notando che gli mancavano tre dita della mano destra, capì che quello era il culmine dell'incubo in cui si trovava immerso. Si osservarono in silenzio per lunghi secondi, ciascuno pensando che l'altro incarnava la cosa più odiosa del mondo, ma senza trovare il fuoco dell'odio antico nei loro cuori.
– Vengo a portarla via di qui – disse Pedro Terzo.
– Perché? – chiese il vecchio.
– Perché Alba me l'ha chiesto – rispose Pedro Terzo.
– Vada al diavolo – balbettò Trueba senza convinzione.
– Bene, ci andremo. Lei viene con me.
Pedro Terzo cominciò a sciogliergli le corde, che gli avevano rimesso ai polsi per evitare che desse pugni contro la porta. Trueba distolse lo sguardo per non vedere la mano mutilata dell'altro.
– Mi porti via di qui senza che mi vedano. Non voglio che lo sappiano i giornalisti – disse il senatore Trueba.
– La porterò via di qui dalla stessa parte da cui è entrato, dalla porta principale – disse Pedro Terzo, e si avviò.
Trueba lo seguì a testa bassa, aveva gli occhi arrossati e per la prima volta da quando poteva ricordare si sentiva sconfitto. Passarono per la cucina senza che il vecchio alzasse lo sguardo, attraversarono tutta la casa e ripercorsero il cammino dalla casa padronale sino al cancello d'entrata, accompagnati da un gruppo di bambini irrequieti che gli saltellavano intorno e un seguito di contadini silenziosi che gli camminavano dietro. Blanca e Alba stavano sedute tra i giornalisti e i carabinieri, mangiando maiale arrosto con le mani e bevendo grandi sorsate di vino rosso dal collo della bottiglia che circolava di mano in mano. Alla vista del nonno, Alba si commosse, perché non l'aveva mai notato così abbattuto dopo la morte di Clara. Inghiottì quanto aveva in bocca e gli corse incontro. Si abbracciarono stretti e lei gli sussurrò qualcosa all'orecchio. Allora il senatore Trueba riuscì a recuperare la sua dignità, alzò la testa e sorrise con la sua antica superbia ai flash delle macchine fotografiche. I giornalisti lo ripresero mentre saliva su un'auto nera con le insegne ufficiali e l'opinione pubblica si chiese per settimane cosa significava quella buffonata, finché altri fatti molto più gravi non cancellarono il ricordo dell'incidente.
Quella notte il Presidente, che aveva preso l'abitudine d'ingannare l'insonnia giocando a scacchi con Jaime, commentò il fatto tra una partita e l'altra, mentre spiava con i suoi occhi astuti, nascosti dietro le spesse lenti dalla montatura scura, qualche segno di disagio nel suo amico, ma Jaime continuò a muovere le pedine sulla scacchiera senza aggiungere parola.
– Il vecchio Trueba ha un bel paio di coglioni – disse il Presidente. – Meriterebbe di stare dalla nostra parte.
– Tocca a lei, Presidente – rispose Jaime indicando il gioco.
Nei mesi successivi la situazione peggiorò molto, sembrava di vivere in un paese in guerra. Gli animi erano molto esaltati, specialmente tra le donne dell'opposizione, che sfilavano lungo le strade picchiando sulle pentole in segno di protesta per il mancato approvvigionamento. Metà della popolazione faceva in modo da abbattere il governo e l'altra metà lo difendeva, senza che a nessuno restasse il tempo per occuparsi del lavoro. Una notte Alba si stupì al vedere le strade del centro buie e vuote. Non era stata raccolta l'immondizia per tutta la settimana e i cani randagi scavavano nei mucchi di rifiuti. I lampioni erano coperti di propaganda stampata, che la pioggia dell'inverno aveva scolorito, e su ogni spazio libero erano scritte le frasi di ogni fazione. Metà dei lampioni era stata presa a sassate e negli edifici non c'erano finestre illuminate, la luce proveniva da qualche falò triste, alimentato da giornali e assi, intorno al quale si riscaldavano piccoli gruppi che montavano la guardia davanti al Ministero, alle Banche, agli uffici, dandosi il turno per impedire che le bande di estrema destra li prendessero d'assalto di notte. Alba vide un camioncino fermarsi di fronte a un edificio pubblico. Scesero molti giovani con caschi bianchi, barattoli di pittura e pennelli e ricoprirono le pareti di un colore bianco come base. Poi disegnarono grandi colombe multicolori, farfalle e fiori insanguinati, versi del Poeta e inviti all'unità del popolo. Erano le brigate giovanili che credevano di salvare la rivoluzione con dei murales patriottici e volantini. Alba si avvicinò e indicò il murale che c'era dall'altra parte della strada. Era macchiato di pittura rossa e vi stava scritta una sola parola in caratteri enormi: Giakarta.
– Che cosa significa questo nome, compagni? – domandò.
– Non lo sappiamo – risposero.
Nessuno sapeva perché l'opposizione pitturava quella parola asiatica sui muri, mai avevano sentito parlare delle montagne di morti nelle strade di quella lontana città. Alba salì sulla sua bicicletta e pedalò verso casa. Da quando c'era il razionamento della benzina e lo sciopero dei pubblici trasporti, aveva dissotterrato dalla cantina il vecchio giocattolo della sua infanzia per potersi muovere. Avanzava pensando a Miguel e un oscuro presentimento le chiudeva la gola.
Era da parecchio che non andava a lezione e cominciava ad avere troppo tempo libero. I professori avevano proclamato uno sciopero indefinito e gli studenti si erano presi gli edifici delle facoltà. Stufa di studiare il violoncello a casa sua, approfittava dei momenti in cui non ruzzava con Miguel, passeggiava con Miguel o discuteva con Miguel per andare all'ospedale della Misericordia ad aiutare suo zio Jaime e qualche altro medico, che continuavano a esercitare nonostante l'ordine del Collegio Medico di non lavorare per sabotare il governo. Era una fatica sovrumana. I corridoi erano pieni di pazienti che aspettavano per giorni interi di essere assistiti, come un gregge gemente. Gli infermieri non riuscivano a soddisfare le richieste. Jaime si addormentava col bisturi in mano, così occupato che spesso si dimenticava di mangiare. Dimagrì ed era molto emaciato. Faceva turni di diciotto ore e quando si gettava sulla sua branda non riusciva a prendere sonno, pensando agli ammalati che stavano aspettando e che non c'erano anestetici né siringhe, né cotone, e che, se lui si fosse anche moltiplicato per mille, non sarebbe stato comunque sufficiente, perché era come voler fermare un treno con la mano. Anche Amanda lavorava nell'ospedale come volontaria per stare vicino a Jaime e tenersi occupata. Durante quelle giornate estenuanti, occupata a curare malati sconosciuti, aveva riacquistato la luce che la illuminava da dentro nella sua gioventù e, per un certo tempo, ebbe l'illusione di essere felice. Indossava un grembiule azzurro e scarpe di gomma, ma a Jaime pareva che quando gli passava vicino tintinnassero le sue conterie di un tempo. Si sentiva in compagnia e avrebbe desiderato amarla. Il Presidente appariva in televisione quasi tutte le sere per denunciare la lotta senza quartiere dell'opposizione. Era molto stanco e spesso gli s'incrinava la voce. Dissero che era ubriaco e che passava le notti in un'orgia di mulatte portate per via aerea dal tropico per scaldargli le ossa. Avvisò che i camionisti in sciopero percepivano cinquanta dollari al giorno dall'estero per mantenere il paese bloccato. Risposero che gli mandavano gelati di cocco e armi sovietiche nelle valigie diplomatiche. Disse che i suoi nemici complottavano con i militari per organizzare un colpo di stato, perché preferivano vedere la democrazia morta piuttosto che governata da lui. Lo accusarono d'inventare panzane da paranoico e di rubare le opere del Museo Nazionale per metterle nella camera da letto della sua amante. Avvertì con anticipo che la destra era armata e decisa a vendere la patria all'imperialismo e gli risposero che aveva la dispensa piena di petti di pollo mentre il popolo faceva la coda per il collo e le ali di quello stesso uccello.
Il giorno che Luisa Mora suonò il campanello della grande casa dell'angolo, il senatore Trueba era nella sua biblioteca a fare conti. Era l'ultima delle sorelle Mora ancora rimasta al mondo, ridotta alle dimensioni di un angelo errante e completamente lucido, in pieno possesso della sua indistruttibile energia spirituale. Trueba non l'aveva più vista dopo la morte di Clara, ma la riconobbe dalla voce che era sempre squillante come un flauto magico e dal profumo di violetta silvestre che il tempo aveva reso più dolce, ma che era ancora percepibile a distanza. Entrando nella stanza portò con sé la presenza alata di Clara, che rimase fluttuante nell'aria davanti agli occhi innamorati del marito che non la vedeva da molti giorni.
– Vengo ad annunciarle disgrazie, Esteban – disse Luisa Mora dopo essersi seduta su una poltrona.
– Ah, cara Luisa! Ne ho già avute fin troppe... – sospirò lui.
Luisa raccontò quanto aveva scoperto nei pianeti. Dovette spiegare il metodo scientifico che aveva usato, per vincere la pragmatica resistenza del senatore. Disse che aveva trascorso gli ultimi dieci mesi a studiare la carta astrale di ogni persona importante del governo e dell'opposizione, compreso lo stesso Trueba. Il confronto delle carte rifletteva che in quel preciso momento storico sarebbero successi fatti di sangue, di dolore e di morte.
– Non ho il minimo dubbio, Esteban – concluse. – Si avvicinano tempi atroci. Ci saranno così tanti morti che non si potrà contarli. Lei sarà dalla parte dei vincitori, ma il trionfo le porterà solo sofferenza e solitudine.
Esteban Trueba si sentì a disagio davanti a quella pitonessa che sovvertiva la pace della sua biblioteca e disturbava il suo fegato con vaneggiamenti astrologici, ma non ebbe il coraggio di accomiatarla, per via di Clara, che stava guardando con la coda dell'occhio dal suo angolo.
– Ma non sono venuta a disturbarla con notizie che sfuggono al suo controllo, Esteban. Sono venuta a parlare con sua nipote Alba, perché ho un messaggio per lei da parte di sua nonna.
Il senatore chiamò Alba. La giovane non aveva più visto Luisa Mora da quando aveva sette anni, ma si ricordava perfettamente di lei. L'abbracciò con delicatezza, per non spezzare il suo fragile scheletro d'avorio e aspirò con trepidazione una boccata di quel profumo inconfondibile.
– Sono venuta a dirti di stare attenta, figliola – disse Luisa Mora dopo che si fu asciugata il pianto per l'emozione. – La morte ti sta alle calcagna. Tua nonna Clara ti protegge dall'Aldilà, ma mi ha incaricata di dirti che gli spiriti protettori sono inefficaci nelle catastrofi più grosse. Sarebbe bene che tu facessi un viaggio, che te ne andassi dall'altra parte del mare, dove saresti in salvo.
A questo punto della conversazione, il senatore Trueba aveva perso la pazienza ed era certo di trovarsi di fronte a una vecchia pazza. Dieci mesi e undici giorni più tardi, avrebbe ricordato la profezia di Luisa Mora, mentre si portavano via Alba, durante il coprifuoco.
13. IL TERRORE
Il giorno del golpe militare spuntò con un sole splendente, poco comune nella timida primavera che iniziava. Jaime aveva lavorato quasi tutta la notte e alle sette del mattino aveva in corpo solo due ore di sonno. Lo svegliò lo squillo del telefono e infine una segretaria, con la voce leggermente alterata, gli tolse di dosso ogni torpore. Lo chiamavano dal Palazzo per informarlo che doveva presentarsi nell'ufficio del compagno Presidente il più presto possibile, no, il compagno Presidente non era malato, no, non sapeva quello che stava succedendo, lei aveva l'ordine di chiamare tutti i medici della Presidenza. Jaime si vestì come un sonnambulo e prese la sua automobile, contento che la sua professione gli conferisse il diritto a una quota settimanale di benzina, perché altrimenti, avrebbe dovuto raggiungere il centro in bicicletta. Arrivò al Palazzo alle otto e si stupì di vedere la piazza vuota e un forte distaccamento di soldati ai portoni della sede del governo, tutti vestiti con indumenti da battaglia, caschi e armamento da guerra. Jaime parcheggiò l'automobile nella piazza solitaria, senza badare ai gesti che gli facevano i soldati perché non si fermasse. Scese e subito lo circondarono puntandogli contro le armi.
– Cosa succede, compagni? Siamo in guerra con i cinesi? sorrise Jaime.
– Vada via, non può fermarsi qui! Il traffico è interrotto! – ordinò un ufficiale.
– Mi spiace, ma mi hanno chiamato dalla Presidenza – aggiunse Jaime mostrando i suoi documenti. – Sono medico.
Lo accompagnarono sino alle pesanti porte di legno del Palazzo, dove un gruppo di carabinieri montava la guardia. Lo lasciarono entrare. Dentro l'edificio regnava un'agitazione da naufragio, gli impiegati correvano per le scale come topi storditi. e la guardia privata del Presidente stava ammassando i mobili contro le finestre e distribuendo pistole tra i più vicini. Il Presidente gli andò incontro. Si era infilato un casco da combattimento, che appariva incongruente con i suoi leggeri abiti sportivi e le sue scarpe italiane. Allora Jaime capì che qualcosa di grave stava accadendo.
– Si è sollevata la Marina, dottore – spiegò brevemente. – È arrivato il momento di lottare.
Jaime prese il telefono e chiamò Alba per dirle che non si muovesse da casa e per chiederle di avvisare Amanda. Non parlò mai più con lei, perché gli eventi si susseguirono vertiginosamente. Durante l'ora successiva arrivarono alcuni ministri e dirigenti politici del governo e cominciarono i negoziati telefonici con gli insorti per misurare l'ampiezza della rivolta e cercare una soluzione pacifica. Ma alle nove e mezzo del mattino le unità armate del paese erano al comando dei militari golpisti. Nelle caserme era cominciata la purga di quanti restavano fedeli alla costituzione. Il generale dei carabinieri ordinò alla guardia del palazzo di uscire, perché anche la polizia aveva appena accettato il golpe.
– Potete andarvene, compagni, ma lasciate le armi – disse il Presidente.
I carabinieri erano confusi e vergognosi, ma l'ordine del generale era deciso. Nessuno osò sfidare lo sguardo del Capo dello Stato, deposero le armi nel cortile e uscirono in fila, a testa bassa. Sulla soglia uno si voltò.
– Io mi fermo con lei, compagno Presidente – disse.
A metà mattina fu chiaro che la situazione non si sarebbe aggiustata col dialogo e cominciarono ad andarsene quasi tutti. Rimasero solo gli amici più vicini e la guardia privata. Le figlie del Presidente furono costrette dal padre a uscire. Dovettero tirarle fuori con la forza e dalla strada si potevano udire le loro grida che lo chiamavano. Dentro l'edificio rimasero circa trenta persone trincerate nel salone del secondo piano, tra cui si trovava Jaime. Credeva di vivere un'incubo. Si sedette su una poltrona di velluto rosso, con una pistola in mano, guardandola come un idiota. Non sapeva usarla. Gli sembrò che il tempo trascorresse molto lentamente, sul suo orologio erano passate solo tre ore dopo quel brutto sogno. Udì la voce del Presidente che parlava per radio al paese. Era il suo commiato.
"Mi rivolgo a quelli che saranno perseguitati, per dir loro che io non rinuncerò: pagherò con la mia vita la lealtà del popolo. Starò sempre vicino a voi. Ho fiducia nella patria e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento e più presto che tardi si apriranno i grandi viali attraverso i quali passerà l'uomo libero, per costruire una società migliore. Viva il popolo! Viva i lavoratori! Queste saranno le mie ultime parole. Ho la certezza che il mio sacrificio non sarà vano."
Il cielo cominciò a rannuvolarsi. Si udivano alcuni spari isolati e lontani. In quel momento il Presidente stava parlando al telefono col capo dei rivoltosi, che gli offrì un aereo militare per uscire dal paese con tutta la sua famiglia. Ma lui non era disposto ad andare in esilio in alcun posto lontano dove avrebbe potuto passare il resto della sua vita vegetando con altri comandanti domi, che erano usciti dalla loro patria in un'ora indebita.
– Vi siete sbagliati sul mio conto, traditori. Qui mi ha messo il popolo e ne uscirò soltanto morto – rispose serenamente.
Allora si udì il ruggito degli aeroplani e cominciò il bombardamento. Jaime si gettò a terra con gli altri, senza riuscire a credere a quanto stava vivendo, perché fino al giorno prima era convinto che nel suo paese non succedesse mai nulla e che persino i militari rispettassero la legge. Solo il Presidente rimase in piedi, si avvicinò a una finestra con un bazooka tra le braccia e sparò verso i carri armati in strada. Jaime si trascinò fino a lui e lo afferrò ai polpacci per costringerlo a chinarsi, ma l'altro gli mollò una parolaccia e rimase in piedi. Quindici minuti dopo tutto l'edificio bruciava e dentro non si poteva respirare per le bombe e il fumo. Jaime si muoveva a carponi tra i mobili rotti e i pezzi di soffitto che gli cadevano intorno, come una pioggia mortifera, cercando di prestare aiuto ai feriti, ma poteva solo offrire consolazione e chiudere gli occhi ai morti. In un'improvvisa pausa della sparatoria, il Presidente riunì i sopravvissuti e disse loro di andarsene, perché non voleva martiri né sacrifici inutili, tutti avevano una famiglia e dovevano portare a termine un importante compito a venire. "Chiederò una tregua affinché possiate uscire", aggiunse. Ma nessuno se ne andò. Qualcuno tremava, ma tutti erano in apparente possesso della loro dignità. Il bombardamento fu breve, ma ridusse il Palazzo in una rovina. Alle due del pomeriggio l'incendio aveva divorato gli antichi saloni che erano serviti fin dai tempi coloniali, e rimaneva solo un pugno di uomini intorno al Presidente. I militari entrarono nell'edificio e occuparono tutto quanto restava del pianoterra. Al di sopra del fragore udirono la voce isterica di un ufficiale che ordinava loro di arrendersi e di scendere in fila indiana e con le braccia in alto. Il Presidente strinse la mano a ciascuno. "Io scenderò per ultimo", disse. Non lo rividero mai più.
Jaime scese con gli altri. Su ogni scalino dell'ampia scala di pietra c'erano soldati appostati. Sembravano impazziti. Prendevano a pedate e colpivano col calcio del fucile chi scendeva, con un odio nuovo, recentemente inventato, che era sbocciato in loro nel giro di poche ore. Taluni facevano esplodere le loro armi sopra la testa degli arresi. Jaime ricevette un colpo nel ventre che lo piegò in due e quando riuscì a rialzarsi, aveva gli occhi pieni di lacrime e i pantaloni tiepidi di merda. Continuarono a colpirli fino in strada e lì ordinarono loro di gettarsi a bocconi in terra, li calpestarono, li insultarono finché non ebbero esaurito gli insulti in spagnolo e allora fecero un segnale a un carro armato. I prigionieri lo udirono avvicinarsi, mentre l'asfalto tremava sotto il suo peso di pachiderma inarrestabile.
– Fate largo, che passeremo col carro armato sopra questi coglioni! – gridò il colonnello.
Jaime osservò da terra e credette di riconoscerlo, perché gli ricordava un ragazzo col quale giocava alle Tre Marie quando lui era giovane. Il carro passò ansando a dieci centimetri dalla sua testa tra le sghignazzate dei soldati e l'ululato delle sirene dei pompieri. Di lontano si sentiva il rumore degli aerei da guerra. Dopo un bel po' separarono in gruppi i prigionieri, secondo la loro colpa e Jaime lo portarono al Ministero della difesa, che era stato trasformato in caserma. Lo costrinsero ad avanzare chino, come se fosse stato in una trincea, lo guidarono attraverso una grande sala, piena di uomini nudi, legati in file di dieci, con le mani avvinte dietro la schiena, così malmenati che qualcuno non poteva reggersi in piedi e il sangue scorreva a rivoli sul marmo del pavimento. Condussero Jaime nella stanza delle caldaie, dove c'erano altre persone in piedi contro la parete, sorvegliate da un soldato livido che andava avanti e indietro puntando contro di loro il mitra. Lì rimase a lungo immobile, in piedi, reggendosi come un sonnambulo, senza riuscir a capire quello che stava succedendo, tormentato dalle grida che si sentivano attraverso il muro. Notò che il soldato lo osservava. Subito abbassò l'arma e gli si avvicinò.
– Si sieda e riposi un po', dottore, ma se io l'avviso, si tiri su immediatamente – disse in un sussurro, passandogli una sigaretta accesa. – Lei ha operato mia madre e le ha salvato la vita.
Jaime non fumava, ma assaporò quella sigaretta aspirando lentamente. Il suo orologio era rotto, ma dalla fame e dalla sete, calcolò che doveva già essere notte. Era così stanco e a disagio nei suoi pantaloni macchiati, che non si chiedeva cosa gli sarebbe successo. Cominciava a ciondolargli la testa quando il soldato gli si avvicinò.
– Si alzi, dottore – gli sussurrò. – Vengono a prenderla. Buona fortuna!
Un istante dopo entrarono due uomini, gli misero le manette e lo condussero da un ufficiale che aveva l'incarico d'interrogare i prigionieri. Jaime l'aveva visto qualche volta in compagnia del Presidente.
– Sappiamo che lei non ha nulla a che vedere con tutto questo, dottore – disse. – Vogliamo solo che compaia in televisione e che dica che il Presidente era ubriaco e che si è suicidato. Dopo la lascerò andare a casa sua.
– Faccia quella dichiarazione lei stesso. Non contate su di me – rispose.
Lo tennero fermo per le braccia. Il primo colpo lo raggiunse allo stomaco. Poi lo sollevarono, lo distesero sul tavolo e sentì che gli toglievano gli indumenti. Parecchio tempo dopo lo fecero uscire dal Ministero della difesa privo di sensi. Aveva cominciato a piovere e la freschezza dell'acqua e dell'aria lo rianimò. Si svegliò quando lo issarono su un mezzo dell'esercito e lo depositarono sul sedile posteriore. Attraverso il vetro osservò la notte e, quando il veicolo si mise in moto, poté vedere le strade vuote e gli edifici imbandierati. Capì che i nemici avevano vinto e probabilmente pensò a Miguel. Il mezzo si fermò nel cortile di un reggimento, e lo fecero scendere. C'erano altri prigionieri malridotti come lui. Gli legarono i piedi e le mani con filo spinato e lo gettarono a bocconi nelle mangiatoie. Lì Jaime e gli altri trascorsero due giorni senz'acqua e senza mangiare, marcendo nei loro stessi escrementi, nel loro sangue e nel loro terrore, al termine dei quali li trasportarono tutti in camion fin nelle vicinanze dell'aeroporto. In un campo di rifiuti li fucilarono distesi per terra, perché non si reggevano in piedi, e poi fecero esplodere i corpi con la dinamite. Lo spavento dell'esplosione e il fetore delle spoglie fluttuò a lungo nell'aria.
Nella grande casa dell'angolo, il senatore Trueba aprì una bottiglia di champagne francese per festeggiare il crollo del regime contro cui aveva lottato tanto ferocemente, senza sospettare che in quello stesso momento stavano bruciando i testicoli a suo figlio Jaime con una sigaretta d'importazione. Il vecchio mise la bandiera davanti all'entrata della casa e non uscì a ballare in strada perché era zoppo e perché c'era il coprifuoco, ma la voglia non gli mancava, come annunciò giubilante a sua figlia e a sua nipote. Intanto Alba, appiccicata al telefono, cercava di ottenere notizie della gente che la preoccupava: Miguel, Pedro Terzo, lo zio Jaime, Amanda, Sebastián Gómez e tanti altri.
– Ora la pagheranno! – esclamò il senatore Trueba sollevando la coppa.
Alba gliela tolse di mano con uno strattone e la gettò contro la parete, mandandola in frantumi. Blanca, che non aveva mai avuto il coraggio di tenere testa a suo padre, sorrise di nascosto.
– Non festeggeremo la morte del Presidente né di nessun altro, nonno! – disse Alba.
Nelle belle case del Quartiere Alto stapparono le bottiglie che erano rimaste in attesa per tre anni e brindarono al nuovo ordine. Sui quartieri operai volarono per tutta la notte gli elicotteri, ronzando come mosche dell'altro mondo.
Molto tardi, quasi all'alba squillò il telefono e Alba, che non era andata a letto, corse a rispondere. Sollevata udì la voce di Miguel.
– È arrivato il momento, amore mio. Non cercarmi e non aspettarmi. Ti amo – disse.
– Miguel! Voglio venire con te – singhiozzò Alba.
– Non parlare a nessuno di me, Alba. Non cercare di vedere gli amici. Distruggi le agende, le carte, tutto quello che può condurre a me. Ti amerò sempre, ricordatelo, amore mio – disse Miguel e interruppe la comunicazione.
Il coprifuoco durò due giorni. Per Alba furono un'eternità. Le radio trasmettevano ininterrottamente inni di guerra e la televisione mostrava solo paesaggi del territorio nazionale e cartoni animati. Più volte al giorno apparivano sugli schermi i quattro generali della Giunta, seduti tra lo scudo e la bandiera, per promulgare i loro bandi: erano i nuovi eroi della patria. Malgrado l'ordine di sparare contro chiunque si affacciasse fuori di casa, il senatore Trueba attraversò la strada per andare a far festa a casa di un vicino. La gazzarra della riunione non richiamò l'attenzione delle pattuglie che circolavano per strada, perché quello era un quartiere dove non si aspettavano di trovare opposizione. Blanca annunciò che aveva il peggiore mal di testa della sua vita e si chiuse nella sua camera. Durante la notte Alba la sentì girare in cucina e immaginò che la fame fosse stata più forte del mal di testa. Lei passò due giorni rigirandosi per casa in stato di disperazione, controllando i libri del tunnel di Jaime e la sua scrivania, per distruggere quanto considerava compromettente. Le sembrava di commettere un sacrilegio, era sicura che quando suo zio fosse tornato sarebbe andato su tutte le furie e non avrebbe più avuto fiducia in lei. Distrusse anche le agende dove erano segnati i numeri di telefono degli amici, le sue più preziose lettere d'amore e persino le foto di Miguel. La servitù di casa, indifferente e annoiata, s'intrattenne durante il coprifuoco a preparare polpette, meno la cuoca, che piangeva senza mai smettere e aspettava con ansia il momento di raggiungere suo marito, col quale non aveva potuto mettersi in contatto.
Quando venne tolto per qualche ora il divieto di uscire, affinché la popolazione avesse la possibilità di comprare viveri, Blanca constatò meravigliata che i negozi erano zeppi di quei prodotti che per tre anni erano scarseggiati e che sembravano essere spuntati nelle vetrine per opera di magia. Vide cataste di polli d'allevamento e poté comprare tutto quello che voleva, nonostante costasse il triplo, perché era stata decretata la libertà di prezzo. Notò che molte persone osservavano i polli con curiosità, come se non li avessero mai visti, ma che pochi li compravano, perché non potevano pagare. Tre giorni dopo, l'odore della carne putrefatta appestava i negozi della città.
I soldati pattugliavano nervosamente le strade, applauditi da molta gente che aveva desiderato il crollo del governo. Taluni, resi spavaldi dalla violenza di quei giorni, arrestavano gli uomini con i capelli lunghi o con la barba, segni inequivocabili del loro spirito ribelle, e fermavano in strada le donne che portavano pantaloni e glieli tagliavano a forbiciate, perché si sentivano responsabili d'imporre l'ordine, la morale, la decenza. Le nuove autorità dissero che non avevano nulla a che vedere con quelle azioni, non avevano mai dato ordine di tagliare barbe o pantaloni, probabilmente si trattava di comunisti travestiti da soldati per screditare le Forze Armate e renderle odiose agli occhi della cittadinanza, che non erano proibite le barbe e i pantaloni, ma, certamente, preferivano che gli uomini fossero sbarbati e con i capelli corti, e le donne con le gonne.
Corse voce che il Presidente fosse morto e nessuno credette alla versione ufficiale che si era suicidato.
Aspettai che la situazione si normalizzasse un po'. Tre giorni dopo il Pronunciamento Militare, mi diressi con l'automobile del Congresso al Ministero della difesa, stupito che non mi avessero cercato per invitarmi a prendere parte al nuovo governo. Tutti sanno che sono stato il principale nemico dei marxisti, il primo ad opporsi alla dittatura comunista e a osar dire in pubblico che solo i militari potevano impedire che il paese cadesse nelle grinfie della sinistra. Inoltre sono stato io ad allacciare quasi tutti i contatti con l'alto comando militare, a fungere da aggancio con i gringos e a impegnare il mio nome e il mio denaro nell'acquisto delle armi. In una parola, mi ero esposto più di tutti. Alla mia età il potere politico non m'interessa affatto. Ma sono uno dei pochi che avrebbero potuto consigliarli, perché da molto tempo occupo certe posizioni e so meglio di tutti cosa conviene a questo paese. Senza consiglieri leali, onesti e capaci, che possono fare pochi colonnelli improvvisati? Solo corbellerie, o lasciarsi ingannare dai furbastri che approfittano delle circostanze per arricchirsi, come di fatto sta succedendo. In quel momento nessuno sapeva che le cose sarebbero andate come sono andate. Pensavamo che l'intervento militare fosse un passo necessario per la svolta verso la democrazia sana, sicché mi sembrava tanto importante collaborare con le autorità.
Quando arrivai al Ministero della difesa mi sorprese vedere l'edificio trasformato in un immondezzaio. I soldati di ordinanza lavavano i pavimenti con stracci, vidi qualche parete sbrecciata dai proiettili e dappertutto i militari correvano chini, come se fossero davvero in mezzo a un campo di battaglia, o si aspettassero che i nemici piombassero giù dal tetto. Dovetti aspettare quasi tre ore perché mi ricevesse un ufficiale. Dapprima credetti che in quel caos non mi avessero riconosciuto e perciò mi trattavano con così poca deferenza, ma poi mi resi conto di come stavano le cose. L'ufficiale mi ricevette con gli stivali sulla scrivania, masticando un panino unto, sbarbato male e con la giubba sbottonata. Non mi diede tempo di chiedere di mio figlio Jaime, né di congratularmi per la coraggiosa azione dei soldati che avevano salvato la patria, bensì cominciò col chiedermi le chiavi dell'automobile con la scusa che il Congresso era stato chiuso, e, quindi, erano finite anche le prebende dei congressisti. Ebbi un sussulto. Era evidente, allora, che non avevano alcuna intenzione di riaprire le porte del Congresso, come tutti speravamo. Mi chiese, no, mi ordinò di presentarmi il giorno dopo nella cattedrale, alle undici del mattino, per assistere al Te Deum con cui la patria avrebbe ringraziato Dio per la vittoria sul comunismo.
– È vero che il Presidente si è suicidato? – chiesi.
– Se n'è andato – mi rispose.
– Se n'è andato? Dove?
– Se n'è andato in sangue! – rise l'altro.
Uscii in strada sconcertato, appoggiato al braccio del mio autista. Non avevamo modo di rincasare, perché non circolavano né taxi, né autobus e io non ho l'età per camminare. Fortunatamente passò una jeep di carabinieri e mi riconobbero. Era facile individuarmi, come dice mia nipote Alba, perché ho un aspetto inconfondibile da vecchio corvo arrabbiato e vado sempre in giro vestito a lutto, col mio bastone d'argento.
– Salga, senatore – disse un tenente.
Ci aiutarono ad arrampicarci sul veicolo. I carabinieri avevano l'aria stanca e mi sembrò evidente che non avevano dormito. Mi confermarono che da tre giorni stavano pattugliando la città, tenendosi svegli con caffè forte e pastiglie.
– Avete trovato resistenza nei quartieri o nei cordoni industriali? – chiesi.
– Ben poca. La gente è tranquilla – disse il tenente. – Spero che la situazione si normalizzi presto, senatore. Non sono cose che ci piacciono, è un lavoro sporco.
– Non dica così, accidenti. Se voi non li aveste vinti sul tempo, i comunisti avrebbero fatto il golpe e a quest'ora lei, io e altre cinquantamila persone saremmo morti. Lo sapeva che avevano un piano per imporre la dittatura?
– Così ci hanno detto. Ma nel quartiere dove abito io ci sono molti prigionieri. I miei vicini mi guardano con sospetto. Qui ai ragazzi succede la stessa cosa. Ma bisogna eseguire gli ordini. La patria è la prima cosa, vero?
– Appunto. Anch'io soffro per quello che sta succedendo, tenente. Ma non c'era altra soluzione. Il regime era marcio. Cosa ne sarebbe stato di questo paese se voi non aveste impugnato le armi?
In fondo, tuttavia, non ne ero così certo. Avevo il presentimento che le cose non andavano come avevamo pianificato e che la situazione stava sfuggendoci di mano, ma in quel momento misi a tacere le mie inquietudini col ragionamento che tre giorni sono molto pochi per mettere ordine in un paese e che probabilmente il grossolano ufficiale che mi aveva ricevuto al Ministero della difesa rappresentava una minoranza insignificante delle Forze Armate. La maggioranza era come quel tenente scrupoloso che mi aveva riportato a casa. Supposi che di lì a poco l'ordine si sarebbe ristabilito e che, allentandosi la tensione dei primi giorni, mi sarei messo in contatto con qualche personaggio importante della gerarchia militare. Mi pentii di non essermi rivolto al generale Hurtado, non l'avevo fatto per rispetto e anche, lo ammetto, per orgoglio, perché era più corretto che lui cercasse me e non io lui.
Venni a conoscenza della morte di mio figlio Jaime solo due settimane dopo, quando ci era passata l'euforia del trionfo vedendo tutti che stavano contando i morti e gli scomparsi. Una domenica si presentò a casa un soldato guardingo e riferì a Blanca in cucina quanto aveva visto al Ministero della difesa e quanto sapeva dei corpi fatti esplodere con la dinamite.
– Il dottor del Valle aveva salvato la vita a mia madre – disse il soldato guardando a terra, con l'elmetto in mano. – Per questo sono venuto a dirvi come l'hanno ammazzato.
Blanca mi chiamò perché ascoltassi quello che diceva il soldato, ma mi rifiutai di crederci. Dissi che l'uomo si era confuso, che non era Jaime, ma un'altra persona quella che aveva visto nella sala delle caldaie, perché Jaime non aveva niente a che vedere col Palazzo Presidenziale il giorno del Pronunciamento Militare. Ero sicuro che mio figlio era scappato all'estero attraverso qualche valico della frontiera o che aveva trovato asilo presso qualche ambasciata, ammesso che stessero perseguitandolo. Del resto, il suo nome non compariva in alcuna lista di gente ricercata dalle autorità, sicché dedussi che Jaime non aveva nulla da temere.
Doveva passare molto tempo, diversi mesi perché io comprendessi che il soldato aveva detto la verità. Nel delirio della solitudine aspettavo mio figlio seduto nella poltrona della biblioteca con gli occhi sulla soglia della sala, chiamandolo col pensiero, proprio come chiamavo Clara. Lo chiamai tanto che finalmente riuscii a vederlo, ma mi apparve coperto di sangue secco e di stracci, trascinando una scia di filo spinato sul pavimento incerato. Così seppi che era morto, proprio come ce l'aveva raccontato il soldato. Solo allora cominciai a parlare della tirannia. Mia nipote Alba, invece, aveva visto profilarsi il dittatore molto prima di me. Lo vide emergere tra i generali e la gente di guerra. Lo riconobbe perfettamente perché lei aveva ereditato l'intuizione di Clara. È un uomo duro e di aspetto semplice, di poche parole come un contadino. Sembrava modesto e pochi erano riusciti a indovinare che un bel giorno l'avrebbero visto avvolto in un mantello da imperatore, con le braccia in alto, a zittire le folle stipate sui camion per acclamarlo, con quegli augusti baffi tremanti di vanità, all'inaugurazione del monumento alle Quattro Spade, dalla cui cima una torcia eterna avrebbe illuminato i destini della patria, ma dove, per un errore dei tecnici stranieri, non si levò mai alcuna fiamma, bensì un denso fumo da cucina che galleggiò nell'aria come una perenne tormenta di altri climi.
Cominciai a pensare che mi ero sbagliato nel procedimento e che forse non era quella la migliore soluzione per abbattere il marxismo. Mi sentivo sempre più solo, perché ormai nessuno aveva bisogno di me, non avevo i miei figli e Clara, con la sua mania del mutismo e della distrazione, sembrava un fantasma. Persino Alba si allontanava sempre più. In casa la vedevo appena. Mi passava accanto come una raffica, con le sue orrende gonne lunghe di cotone stropicciato e i suoi incredibili capelli verdi, come quelli di Rosa, occupata in faccende misteriose che portava a termine con la complicità di sua nonna. Sono sicuro che loro due tramavano cose segrete alle mie spalle. Mia nipote andava in giro turbata, come Clara ai tempi del tifo, quando si era caricata sulle spalle il fardello del dolore altrui.
Alba ebbe ben poco tempo per piangere la morte di suo zio Jaime, perché le urgenze di chi aveva bisogno l'assorbirono subito sicché dovette immagazzinare il suo dolore per smaltirlo più tardi. Non rivide Miguel sino a due mesi dopo il golpe militare ed era arrivata a pensare che anche lui fosse morto. Tuttavia, non lo cercò perché in questo senso aveva istruzioni ben precise da parte sua e inoltre aveva sentito che era ricercato nelle liste di quelli che dovevano presentarsi davanti alle autorità. Questo le aveva dato speranza. "Finché lo cercano, è vivo", dedusse. Si tormentava all'idea che potevano prenderlo vivo e invocava sua nonna per chiederle che la cosa non accadesse. "Preferisco mille volte vederlo morto, nonna", supplicava. Lei sapeva quello che stava succedendo nel paese, per questo aveva notte e giorno lo stomaco oppresso, le tremavano le mani e, quando veniva a sapere della sorte di qualche prigioniero, si riempiva di orticaria da capo a piedi, come un appestato. Ma non poteva parlarne con nessuno, tantomeno con suo nonno, perché la gente preferiva non sapere niente.
Dopo quel martedì terribile, il mondo cambiò in modo brutale per Alba. Dovette addormentare i propri sensi per continuare a vivere. Fu costretta ad adattarsi all'idea che non avrebbe mai più rivisto chi più aveva amato, suo zio Jaime, Miguel e molti altri. Incolpava suo nonno di quanto era successo, ma poi, vedendolo rattrappito nella sua poltrona, che invocava Clara e suo figlio in un mormorio interminabile, le tornava tutto l'amore per il vecchio e correva ad abbracciarlo, e passargli le dita nella bianca chioma, a consolarlo. Alba sentiva che le cose erano di vetro, fragili come sospiri, e che le mitraglie e le bombe di quel martedì indimenticabile avevano annientato buona parte di coloro che conosceva, e il resto era ridotto in frantumi e schizzato di sangue. Col passare dei giorni, delle settimane, dei mesi, pure quello che dapprima sembrava essersi preservato dalla distruzione cominciò a mostrare segni di deterioramento. Notò che gli amici e i parenti la evitavano, che qualcuno attraversava la strada per non salutarla o voltava la faccia quando si avvicinava. Pensò che fosse corsa la voce che aiutava i perseguitati.
Era così. Fin dai primi giorni l'urgenza maggiore era stata quella di dare asilo a chi si trovava in pericolo di morte. Dapprima ad Alba era sembrata un'occupazione quasi divertente, che permetteva di occupare la mente con altre cose e non pensare a Miguel, ma si era subito resa conto che non era un gioco. I bandi avvertirono i cittadini che dovevano denunciare i marxisti e consegnare i fuggiaschi, altrimenti sarebbero stati considerati traditori della patria e giudicati come tali. Alba recuperò miracolosamente l'automobile di Jaime, che era scampata al bombardamento ed era rimasta una settimana parcheggiata nella stessa piazza dove lui l'aveva lasciata, finché Alba non l'aveva saputo ed era andata a prenderla. Le dipinse due grandi girasoli sulle portiere di un giallo intenso, perché si distinguesse dalle altre macchine e facilitasse così il suo nuovo compito. Dovette imparare a memoria l'indirizzo di tutte le ambasciate, i turni dei carabinieri che le vigilavano, l'altezza dei muri, la larghezza delle porte. L'avviso che c'era qualcuno da nascondere le arrivava di sorpresa, spesso attraverso uno sconosciuto che l'abbordava per strada o che supponeva fosse stato inviato da Miguel. Si recava al luogo dell'appuntamento in piena luce del giorno, e quando vedeva qualcuno che faceva segni, avvisato dai fiori gialli dipinti sulla sua automobile, si fermava brevemente affinché salisse in fretta e furia. Per strada non parlavano, perché lei preferiva non sapere nemmeno il suo nome. Talvolta doveva passare tutto il giorno con lui, compreso il fatto di nasconderlo per una o due notti, prima di trovare il momento propizio per introdurlo in un'ambasciata raggiungibile, scavalcando un muro alle spalle delle guardie. Questo sistema si rivelava più spedito delle pratiche con i timorosi ambasciatori delle democrazie straniere. Non veniva a sapere mai più nulla del rifugiato, ma conservava per sempre la sua gratitudine tremante e, quando tutto finiva, respirava sollevata perché per quella volta si era salvato. In certi casi dovette farlo con donne che non volevano separarsi dai propri figli. Nonostante Alba promettesse di farle poi raggiungere dalla creatura attraverso la porta principale, visto che nemmeno il più timoroso ambasciatore si sarebbe rifiutato di accettarlo, le madri non volevano lasciarseli indietro, sicché alla fine bisognava far passare anche i bambini sopra i muri o calarli dalle inferriate. Poco dopo tutte le ambasciate erano circondate da filo spinato e mitragliatrici e divenne impossibile continuare a prenderle d'assalto, ma altri bisogni la tennero occupata.
Fu Amanda a metterla in contatto con i preti. Le due amiche s'incontravano per parlare fra sussurri di Miguel, che nessuna aveva più rivisto, e per ricordare Jaime con una nostalgia senza lacrime, perché non c'era la prova ufficiale della sua morte e il desiderio che entrambe avevano di rivederlo era più forte del racconto del soldato. Amanda aveva ripreso a fumare freneticamente, le tremavano molto le mani e il suo sguardo si smarriva. Talvolta aveva le pupille dilatate e si muoveva con torpore, ma continuava a lavorare in ospedale. Le raccontò che soccorreva di continuo gente che le portavano in deliquio per la fame.
– Le famiglie dei prigionieri, degli scomparsi e dei morti non hanno niente da mangiare. I disoccupati neppure. Appena un piatto di minestra ogni due giorni. I bambini si addormentano a scuola, sono denutriti.
Aggiunse che il bicchiere di latte e i biscotti che prima tutti gli scolari ricevevano ogni giorno erano stati soppressi e che le madri placavano la fame dei figli con un po' di tè.
– Gli unici che fanno qualcosa per aiutare sono i preti – spiegò Amanda. – La gente non vuole sapere la verità. La Chiesa ha organizzato refettori per dare tutti i giorni un piatto di cibo sei volte alla settimana ai minori di sette anni. Non basta, certo. Per ogni bambino che mangia una volta al giorno un piatto di lenticchie o di patate, ce ne sono cinque che rimangono fuori a guardare, visto che non ce n'è a sufficienza per tutti.
Alba capì che erano retrocessi a tempi antichi, quando sua nonna Clara andava al Quartiere della Misericordia a sostituire la giustizia con la carità. Solo che adesso la carità era mal vista. Constatò che quando andava in casa dei suoi amici a chiedere un pacchetto di riso o un barattolo di latte in polvere, la prima volta non osavano rifiutarglielo, ma poi le dicevano di no. Dapprima Blanca l'aiutò. Alba non ebbe difficoltà a ottenere la chiave della dispensa di sua madre, spiegando che non aveva bisogno di accaparrare farina comune e fagioli da poveri, se si potevano mangiare granchi del mar Baltico e cioccolato svizzero, sicché riuscì a rifornire i refettori dei preti per un periodo di tempo che, comunque, le parve molto breve. Un giorno portò sua madre in uno di quei refettori. Alla vista del lungo tavolaccio di legno non lucidato, dove una doppia fila di bambini con occhi supplichevoli aspettava la loro razione, Blanca si mise a piangere e rimase a letto per due giorni col mal di testa. Avrebbe continuato a lamentarsi se sua figlia non l'avesse costretta a vestirsi, a dimenticarsi di se stessa e a cercare soccorsi, a costo di rubare al nonno dal bilancio familiare. Il senatore Trueba non volle sentir parlare della cosa, così come faceva la gente della sua classe, e negò la fame con la stessa tenacia con cui negava i prigionieri e i torturati, sicché Alba non poté contare su di lui e in seguito, quando non poté contare nemmeno più su sua madre, dovette ricorrere a metodi più drastici. Il luogo più lontano cui arrivava il nonno era il club. Non girava per il centro e ancora meno si avvicinava alla periferia della città o ai quartieri più marginali. Non fece alcuna fatica a credere che le miserie che raccontava sua nipote erano frottole dei marxisti.
– Preti comunisti! – esclamò. – Era l'ultima cosa che dovevo ancora sentire!
Ma quando cominciarono ad arrivare a tutte le ore, i bambini e le donne che chiedevano l'elemosina davanti alle porte delle case non diede l'ordine di chiudere le inferriate e le persiane per non vederli, come fecero gli altri, bensì aumentò il mensile a Blanca e disse che tenessero sempre un po' di cibo caldo da dare a quei poveracci.
– È una situazione passeggera – assicurò. – Non appena i militari avranno riordinato il caos in cui il marxismo ha lasciato il paese, questo problema sarà risolto.
I giornali dicevano che i mendicanti per strada, che non si erano più visti da molti anni, erano inviati dal comunismo internazionale per togliere prestigio alla giunta militare e sabotare l'ordine e il progresso. Misero staccionate per chiudere i quartieri periferici, nascondendoli agli occhi dei turisti e di chi non voleva vedere. In una notte sorsero per incanto giardini rasati e cespugli di fiori nei viali, piantati dai disoccupati per creare la fantasia di una pacifica primavera. Diedero il bianco per cancellare i murales con le colombe libertarie e togliere per sempre dalla vista i manifesti politici. Qualsiasi tentativo di scrivere messaggi politici sulla pubblica via era punito con una raffica di mitra sul posto. Le strade pulite, ordinate e silenziose si aprirono al commercio. Poco dopo scomparvero i bambini mendicanti e Alba notò che non c'erano neppure cani randagi né bidoni d'immondizia. Il mercato nero finì nello stesso istante in cui bombardarono il Palazzo Presidenziale, perché gli speculatori erano stati minacciati di legge marziale e fucilazione. Nei negozi si cominciarono a vedere cose che non si conoscevano nemmeno di nome, e altre che prima trovavano solo i ricchi mediante il contrabbando. La città non era mai stata più bella. Mai l'alta borghesia era stata più felice: poteva comprare whisky senza restrizioni e automobili a credito.
Nell'euforia patriottica dei primi giorni, le donne regalavano i loro gioielli nelle caserme, per la ricostruzione nazionale, anche le loro fedi matrimoniali, che venivano sostituite da anelli di rame con l'emblema della patria. Blanca dovette nascondere il calzerotto di lana con i gioielli che Clara le aveva lasciato, perché il senatore Trueba non li consegnasse alle autorità. Videro nascere una nuova e superba classe sociale. Nobili signore, vestite con abiti di altri luoghi, esotiche e splendenti come lucciole nella notte, si pavoneggiavano nei posti di ritrovo al braccio dei nuovi e superbi padroni dell'economia. Sorse una casta di militari che occupò rapidamente i punti chiave. Le famiglie che prima avevano considerato una disgrazia avere un militare tra i loro membri si contendevano le raccomandazioni per sistemare i figli nelle accademie di guerra e offrivano le loro figlie ai soldati. Il paese si riempì di gente in uniforme, di macchine belliche, di bandiere, di inni e di sfilate perché i militari sapevano che la popolazione aveva bisogno dei suoi simboli e dei suoi riti. Il senatore Trueba, che per principio detestava queste cose, comprese quello che avevano voluto dire i suoi amici del club, quando assicuravano che il marxismo non aveva la minima possibilità in America Latina, perché non contemplava il lato magico delle cose. "Pane, circo e qualcosa da venerare è tutto ciò di cui hanno bisogno", concluse il senatore, deplorando comunque nel suo intimo che mancasse il pane.
Si orchestrò una campagna destinata a cancellare dalla faccia della terra il buon nome dell'ex Presidente, nella speranza che il popolo la smettesse di piangerlo. Aprirono la sua casa e invitarono il pubblico a visitare quello che chiamavano "il palazzo del dittatore". Si poteva guardare dentro i suoi armadi e meravigliarsi del numero e della qualità delle sue giacche di camoscio, controllare i suoi cassetti, frugare nella dispensa, per vedere il rum cubano e il sacco di zucchero imboscato. Circolavano fotografie rozzamente truccate che lo mostravano vestito da Bacco, con una ghirlanda di grappoli d'uva sulla testa, ruzzando con matrone opulente e con atleti del suo stesso sesso, in un'orgia perpetua che nessuno, neppure lo stesso senatore Trueba, credette fossero autentiche. "Questo è troppo, stanno superando i limiti", biascicò quando venne a saperlo.
Con un colpo di spugna, i militari cambiarono la storia universale, cancellando gli episodi, le ideologie e i personaggi che il regime disapprovava. Risistemarono le carte geografiche, perché non c'era alcun motivo di mettere il Nord sopra, così lontano dalla benemerita patria, se si poteva metterlo in basso, dove ne traeva maggiori benefici e, di passaggio, dipinsero con blu di Prussia vasti limiti di acque territoriali sino ai confini dell'Asia e dell'Africa e s'impadronirono dei libri di geografia di terre lontane, spostando le frontiere con assoluta impunità, finché i paesi fratelli persero la pazienza, lanciarono un grido alle Nazioni Unite e minacciarono di mandare contro di loro i carri armati e gli aerei da caccia. La censura, che dapprima aveva controllato solo i mezzi di comunicazione, si estese in fretta ai testi scolastici, alle parole delle canzoni, ai soggetti dei film e alle conversazioni private. C'erano parole proibite per bando militare, come la parola "compagno", e altre che non si dicevano per precauzione, anche se nessun bando le aveva eliminate dal dizionario, come libertà, giustizia, sindacato. Alba si chiedeva come avessero potuto spuntare tanti fascisti da un momento all'altro, perché, nella lunga traiettoria democratica del suo paese, non se n'erano mai visti, tranne alcuni esaltati durante la guerra, che per mania di scimmiottare si mettevano camicie nere e sfilavano col braccio alzato, in mezzo alle sghignazzate e ai fischi dei passanti, senza che avessero avuto alcun ruolo importante nella vita nazionale. Non si spiegava neppure l'atteggiamento delle Forze Armate, che per la maggior parte provenivano dalla classe media e dalla classe operaia e che storicamente erano state più vicine alla sinistra che all'estrema destra. Non capì lo stato di guerra interna, né si rese conto che la guerra è l'opera d'arte dei militari, il culmine della loro preparazione, il distintivo dorato della loro professione. Non sono fatti per brillare durante la pace. Il golpe aveva dato loro l'opportunità di mettere in pratica quanto avevano imparato nelle caserme, l'obbedienza cieca, il maneggio delle armi e altre arti che i soldati possono dominare quando mettano a tacere gli scrupoli del cuore.
Alba abbandonò gli studi, perché la facoltà di filosofia, come molte altre che aprono le porte al pensiero, venne chiusa. E neppure andò più avanti con la musica, perché il violoncello le sembrava una frivolezza in quelle circostanze. Molti professori furono mandati via, arrestati o sparirono in accordo a una lista nera, opera della polizia politica. Sebastián Gómez lo ammazzarono alla prima ondata, denunciato dai suoi stessi alunni. L'università si riempì di spie.
L'alta borghesia e la destra economica, che avevano reso possibile il sollevamento, erano euforiche. All'inizio si spaventarono un po', vedendo le conseguenze della loro azione, perché non era mai accaduto che vivessero in una dittatura e quindi non la conoscevano. Pensarono che la perdita della democrazia sarebbe stata transitoria e che si poteva vivere per un certo tempo senza libertà imprenditoriale. E neppure importò loro la perdita di prestigio internazionale, che li aveva collocati nella stessa categoria di altre tirannie regionali, perché l'avevano considerato un prezzo conveniente per la sconfitta del marxismo. Quando arrivarono capitali stranieri per fare investimenti bancari nel paese, lo attribuirono, naturalmente, alla stabilità del nuovo regime, sorvolando sul fatto che per ogni peso che entrava se ne portavano via due d'interessi. Quando di lì a poco cominciarono a chiudersi quasi tutte le industrie nazionali e i commercianti cominciarono a fallire, battuti dall'importazione massiccia di beni di consumo, dissero che le cucine brasiliane, le stoffe di Taiwan e le motociclette giapponesi erano molto migliori di qualunque cosa fosse mai stata fabbricata nel paese. Solo quando restituirono le concessioni delle miniere alle compagnie nordamericane, dopo tre anni di nazionalizzazione, qualche voce suggerì che era come regalare la patria avvolta in un foglio di cellofan. Ma quando cominciarono a restituire agli antichi padroni le terre che la riforma agraria aveva distribuito, si tranquillizzarono: erano tornati i bei tempi. Videro che solo una dittatura poteva agire col peso della forza e senza rendere conto a nessuno, per garantire i loro privilegi, sicché smisero di parlare di politica e accettarono l'idea che avrebbero avuto il potere economico, ma che i militari avrebbero governato. L'unica fatica della destra fu quella di associarli all'elaborazione dei nuovi decreti e delle nuove leggi. In pochi giorni eliminarono i sindacati, i dirigenti operai erano prigionieri o morti, i partiti politici dichiarati in cessazione indefinita e tutte le organizzazioni di lavoratori e di studenti, e perfino le scuole professionali, smantellate. Era proibito raggrupparsi. L'unico posto dove la gente poteva riunirsi era la chiesa, di modo che in poco tempo la religione divenne di moda e i preti e le monache dovettero rinviare i loro travagli spirituali per soccorrere i bisogni terreni di quel gregge smarrito. Il governo e gli imprenditori cominciarono a vederli come nemici potenziali e qualcuno risolse il problema col revolver assassinando il cardinale, dato che il papa, da Roma, si era rifiutato di toglierlo dal suo posto e mandarlo in un ricovero per frati alienati.
Una gran parte della classe media si rallegrò del golpe militare, perché significava il ritorno all'ordine, all'austerità dei costumi, le gonne alle donne e i capelli corti agli uomini, ma ben presto cominciò a soffrire il tormento dei prezzi alti e la mancanza di lavoro. Lo stipendio non bastava per mangiare. In ogni famiglia c'era qualcuno da compiangere e non potevano dire più, come all'inizio, che se era prigioniero, morto o in esilio, era perché se lo meritava. Non poterono neppure continuar a negare la tortura.
Mentre prosperavano i negozi di lusso, le agenzie miracolose, i ristoranti esotici e le ditte d'importazione, ai cancelli delle fabbriche facevano la coda i disoccupati in attesa di trovare lavoro per una paga giornaliera minima. La mano d'opera scese a livelli di schiavitù e i proprietari poterono, per la prima volta dopo molti decenni, licenziare i lavoratori a loro piacimento, senza pagar loro indennità, e farli arrestare alla minima protesta.
Nei primi mesi, il senatore Trueba seguì l'opportunismo di quelli della sua classe. Era convinto che fosse necessario un periodo di dittatura perché il paese tornasse all'ovile dal quale non avrebbe mai dovuto uscire. Fu uno dei primi proprietari terrieri a tornare in possesso delle sue terre. Gli restituirono la tenuta delle Tre Marie in rovina, ma integra sino all'ultimo metro quadro. Erano quasi due anni che stava aspettando quel momento, ruminando la sua rabbia. Senza pensarci due volte, se ne andò in campagna con una mezza dozzina di bravacci a pagamento e poté vendicarsi a suo piacimento dei contadini che avevano osato sfidarlo e togliergli il suo. Arrivarono in un luminoso mattino di domenica, poco prima di Natale. Entrarono nella tenuta con uno schiamazzo da pirati. I bravacci s'infilarono in ogni dove, sospingendo la gente con grida, percosse e calci, riunirono nel cortile gli uomini e le bestie, e poi irrorarono di benzina le casette di mattoni, che prima erano state l'orgoglio di Trueba, e vi appiccarono il fuoco con tutto quello che contenevano. Ammazzarono le bestie a colpi d'arma. Bruciarono i campi arati, i pollai, le biciclette e persino le culle dei neonati, in una tregenda di mezzogiorno che per poco non fece crepare di gioia il vecchio Trueba. Licenziò tutti i mezzadri con l'avviso che, se li avesse rivisti a gironzolare per la proprietà, avrebbero subìto la stessa sorte degli animali. Li vide partire più poveri di quanto non fossero mai stati, in una lunga e triste processione, portandosi appresso i loro bambini, i loro vecchi, i pochi cani che erano sopravvissuti al massacro, qualche gallina salvata dall'inferno, strascicando i piedi nella strada di polvere che li allontanava dalla terra dove avevano vissuto per generazioni. Davanti alle Tre Marie c'era un gruppo di gente miserabile che aspettava con occhi ansiosi. Erano altri contadini disoccupati, cacciati da altre tenute, che arrivavano umili, come i loro antenati un secolo prima, a pregare il padrone perché desse loro lavoro per il prossimo raccolto.
Quella notte Esteban Trueba dormì nel letto di ferro che era stato dei suoi genitori, nella vecchia casa padronale dove non era più stato da molto tempo. Era stanco e aveva appiccicato al naso l'odore dell'incendio e dei corpi degli animali che avevano dovuto bruciare, affinché la putredine non infettasse l'aria. I resti delle casette di mattoni ardevano ancora e intorno a lui tutto era distruzione e morte. Ma lui sapeva che poteva rimettere in sesto la campagna, proprio come aveva fatto una volta, dato che i campi erano intatti e le sue forze anche. Nonostante il piacere della sua vendetta, non riuscì a dormire. Si sentiva come un padre che avesse punito i suoi figli con eccessiva severità. Per tutta la notte continuò a vedere i volti dei contadini, che aveva visto nascere nella sua proprietà, allontanarsi lungo la strada. Maledisse il suo pessimo carattere. E non riuscì a dormire neppure per il resto della settimana e, quando ci riuscì, sognò Rosa. Decise di non raccontare a nessuno quello che aveva fatto e giurò a se stesso che le Tre Marie sarebbero tornate a essere la tenuta modello che erano state una volta. Fece correre voce che era disposto a riaccettare i mezzadri a certe condizioni evidentemente, ma nessuno tornò. Si erano dispersi per i campi, per le colline, lungo la costa, qualcuno era arrivato a piedi sino alle miniere, altri nelle isole del Sud, cercando ciascuno il pane per la propria famiglia con qualsiasi attività. Deluso il padrone tornò alla capitale, sentendosi più vecchio che mai. Gli pesava l'anima.
Il Poeta agonizzò nella sua casa vicino al mare. Era malato e gli eventi degli ultimi tempi esaurirono il suo desiderio di vivere. La truppa gli aveva violato la casa. Avevano rovistato tra le sue collezioni di conchiglie, di chiocciole, tra le sue farfalle, le sue bottiglie e le sue polene riscattate da tanti mari, tra i suoi libri, tra i suoi quadri, tra i suoi versi inconclusi, cercando armi sovversive e comunisti nascosti, finché il suo vecchio cuore di bardo non aveva cominciato a vacillare. Lo portarono alla capitale. Morì quattro giorni dopo e le ultime parole dell'uomo che aveva cantato alla vita furono: Li fucilarono! Li fucileranno! Nessuno dei suoi amici poté stargli vicino nell'ora della morte, perché erano fuorilegge, profughi, esiliati o morti. La sua casa azzurra in collina era semirovinata, il pavimento bruciato e i vetri rotti, non si sapeva se fosse opera dei militari, come dicevano i vicini, o dei vicini come dicevano i militari. Lì lo vegliarono quei pochi che osarono recarvicisi e giornalisti alla notizia del suo funerale. Il senatore Trueba era suo nemico ideologico, ma l'aveva avuto spesso in casa sua e conosceva a memoria i suoi versi. Si presentò alla veglia funebre vestito di nero, con sua nipote Alba. Entrambi montarono la guardia accanto alla semplice bara di legno e lo accompagnarono sino al cimitero nella sventurata mattina. Alba teneva in mano un mazzo dei primi garofani della stagione, rossi come il sangue. Il piccolo corteo percorse a piedi, lentamente, la strada del camposanto, tra due file di soldati che facevano cordone nelle strade.
La gente camminava in silenzio. D'improvviso qualcuno gridò rocamente il nome del Poeta e una sola voce a piena gola rispose Presente! Ora e sempre! Fu come se avessero aperto una valvola e tutto il dolore, la paura e la rabbia di quei giorni fossero usciti dai petti e circondassero la strada e salissero in un terribile clamore fino ai neri nuvoloni del cielo. Un altro gridò: Compagno Presidente! E tutti risposero in un unico lamento, pianto di uomo: Presidente! A poco a poco il funerale del Poeta si tramutò nell'atto simbolico di seppellire la libertà.
Molto vicino ad Alba e a suo nonno, i cameramen della televisione svedese filmavano per inviare al gelido paese del Nobel la visione spaventosa delle mitragliatrici appostate ai due lati della strada, le facce della gente, la bara coperta di fiori, il gruppo di donne silenziose che si accalcavano alle porte dell'obitorio, a due isolati dal cimitero, per leggere la lista dei morti. La voce di tutti si levò in un canto e l'aria si riempì delle frasi proibite, gridando che el pueblo unido jamás será vencido, fronteggiando le armi che tremavano nelle mani dei soldati. Il corteo passò davanti a una costruzione e gli operai, gettando a terra i loro strumenti, si tolsero il casco e formarono una fila a testa bassa. Un uomo marciava con la camicia lacera ai polsini, senza gilé e con le scarpe rotte, recitando i versi più rivoluzionari del Poeta, con le lacrime che gli scendevano sulla faccia. Lo seguiva lo sguardo attonito del senatore Trueba, che camminava al suo fianco.
– Peccato che fosse comunista! – disse il senatore a sua nipote. – Un così bravo poeta e con le idee tanto confuse! Se fosse morto prima del Pronunciamento Militare, immagino che avrebbe ricevuto un omaggio nazionale!
– Ha saputo morire come aveva saputo vivere, nonno – replicò Alba.
Era convinta che era morto a tempo debito, perché nessuna cerimonia avrebbe potuto essere più grande di quella modesta sfilata di pochi uomini e donne che lo seppellirono in una tomba prestata, gridando per l'ultima volta i suoi versi di giustizia e di libertà. Due giorni dopo apparve sui giornali un annuncio della Giunta Militare che decretava lutto nazionale per il Poeta e autorizzava a mettere bandiere a mezz'asta nelle case private che lo desiderassero. L'autorizzazione aveva la durata dal giorno della sua morte sino al giorno in cui era apparso l'annuncio.
Così come non aveva potuto sedersi a piangere la morte di suo zio Jaime, Alba non poté perdere la testa pensando a Miguel o compiangendo il Poeta. Sempre intenta a indagare sugli scomparsi, a consolare i torturati che tornavano con le spalle in carne viva e gli occhi stravolti, e a cercare cibo per le mense dei preti. Tuttavia, nel silenzio della notte, quando la città perdeva la sua utilità strumentale e la sua pace da operetta, lei si sentiva braccata dai pensieri tormentosi che aveva messo a tacere durante il giorno. A quell'ora solo i furgoni pieni di cadaveri e di arrestati e le auto della polizia circolavano per le strade, come lupi sperduti ululanti nell'oscurità del coprifuoco. Alba tremava nel suo letto. Le apparivano i fantasmi straziati di tanti morti sconosciuti, udiva la grande casa respirare con un ansito da vecchia, aguzzava l'udito e sentiva nelle ossa i rumori temuti: una frenata lontana, uno sbattere di porta, i passi degli stivali, un grido sordo. Poi tornava il lungo silenzio che durava sino all'alba, quando la città riviveva e il sole sembrava cancellare i terrori della notte. Non era l'unica a non dormire nella casa. Spesso incontrava suo nonno in camicia da notte e pantofole, più vecchio e più triste che di giorno, intento a scaldarsi una tazza di brodo, masticando bestemmie da filibustiere, perché gli facevano male le ossa e l'anima. Anche sua madre trafficava in cucina o girava come un fantasma di mezzanotte attraverso le stanze vuote.
Così trascorsero i mesi e divenne chiaro per tutti anche per il senatore Trueba, che i militari si erano presi il potere per tenerselo e non per consegnare il governo ai politici di destra che avevano favorito il golpe. Erano di una razza a parte, fratelli tra di loro, che parlavano un linguaggio diverso da quello dei civili e con i quali il dialogo era come una conversazione tra sordi, perché il minimo dissenso era considerato tradimento secondo il loro rigido codice d'onore. Trueba vide che avevano piani messianici che non includevano i politici. Un giorno discusse della situazione con Blanca e con Alba. Si lamentò che l'azione dei militari, il cui proposito era di scongiurare il pericolo di una dittatura marxista, avesse condannato il paese a una dittatura molto più severa, e da quanto si poteva vedere, destinata a durare un secolo. Per la prima volta in vita sua, il senatore Trueba ammise di essersi sbagliato. Sprofondato nella sua poltrona, come un vecchio finito, lo videro piangere silenziosamente. Non piangeva per la perdita del potere. Stava piangendo per la sua patria.
Allora Blanca s'inginocchiò al suo fianco, gli prese la mano e confessò che Pedro Terzo García viveva come un anacoreta nascosto in una delle stanze abbandonate che Clara aveva fatto costruire all'epoca degli spiriti. Il giorno successivo al golpe erano state pubblicate liste delle persone che dovevano presentarsi davanti alle autorità. Il nome di Pedro Terzo García era tra quelle. Qualcuno che continuava a pensare che in quel paese non succedeva mai nulla, era andato spontaneamente a consegnarsi al Ministero della difesa e aveva pagato con la sua vita. Ma Pedro Terzo aveva avuto prima degli altri il presentimento della ferocia del nuovo regime, forse perché durante quei tre anni aveva imparato a conoscere le Forze Armate e non credeva che fossero diverse da quelle di altri posti. Quella stessa notte, durante il coprifuoco, si era trascinato fino alla grande casa dell'angolo e aveva chiamato Blanca dalla finestra. Quando lei si era affacciata, con la vista annebbiata dal mal di testa, non l'aveva riconosciuto, perché si era tagliata la barba e portava gli occhiali.
– Hanno ammazzato il Presidente – disse Pedro Terzo.
Lei lo nascose nelle stanze vuote. Sistemò un rifugio d'emergenza, senza sospettare che avrebbe dovuto tenerlo nascosto per diversi mesi, mentre i soldati setacciavano il paese per trovarlo.
Blanca aveva pensato che a nessuno sarebbe venuto in mente che Pedro Terzo García si trovasse in casa del senatore Trueba, che, a sua volta, se ne stava ad ascoltare in piedi il Te Deum nella cattedrale. Per Blanca fu il periodo più felice della sua vita.
Per lui, tuttavia, le ore trascorrevano con la stessa lentezza che se fosse stato arrestato. Passava la giornata tra quattro pareti, con la porta chiusa a chiave, perché a nessuno venisse in mente di entrare a far pulizia, e la finestra con le persiane chiuse e le tende tirate. Non entrava la luce del giorno, ma poteva immaginarla dal tenue mutamento delle fessure delle persiane. Di notte spalancava la finestra per far cambiare l'aria alla stanza – dove teneva un recipiente coperto per fare i suoi bisogni – e per respirare a pieni polmoni l'aria della libertà. Occupava il tempo leggendo i libri di Jaime, che a poco a poco Blanca gli portava di nascosto, ascoltando i rumori della strada, i sussurri della radio accesa al volume più basso. Blanca gli procurò una chitarra alla quale mise stracci di lana sotto le corde, perché nessuno lo sentisse comporre in sordina le sue canzoni sulle vedove, sugli orfani, sui prigionieri e sugli scomparsi. Fece in modo di organizzare un orario sistematico per riempire il giorno, faceva ginnastica, leggeva, studiava inglese, faceva la siesta, scriveva musica e faceva di nuovo ginnastica, ma con tutto questo gli rimanevano interminabili ore di ozio, finché non sentiva la chiave nella serratura della porta e vedeva entrare Blanca, che gli portava i giornali, il cibo, l'acqua pulita per lavarsi. Facevano l'amore con disperazione, inventando nuove formule proibite che la paura e la passione trasformavano in viaggi allucinati alle stelle. Blanca si era già rassegnata alla castità, alla maturità e ai suoi svariati acciacchi, ma il sussulto dell'amore le diede un'altra giovinezza. Si accentuò la luce della sua pelle, il ritmo del suo passo, e il tono della sua voce. Sorrideva dentro e si muoveva come addormentata. Non era mai stata così bella. Perfino suo padre se n'era accorto e l'aveva attribuito alla pace dell'abbondanza. "Da quando Blanca non deve più fare la coda, sembra come nuova", diceva il senatore Trueba. Anche Alba l'aveva notato. Osservava sua madre. Il suo strano sonnambulismo le sembrava sospetto, così come la sua nuova mania di portarsi da mangiare in camera. Più volte aveva pensato di spiarla di notte, ma la stanchezza delle sue molteplici incombenze assistenziali la vinceva e, quando soffriva d'insonnia, aveva paura di avventurarsi per le stanze vuote dove sussurravano i fantasmi.
Pedro Terzo dimagrì e perse il buon umore e la dolcezza che l'avevano caratterizzato fino ad allora. Si annoiava, malediceva la sua prigionia volontaria e ardeva d'impazienza per avere notizie dei suoi amici. Solo la presenza di Blanca lo acquietava. Quando lei entrava nella stanza, si lanciava ad abbracciarla come un pazzo, per calmare i terrori del giorno e il tedio delle settimane. Cominciò a essere ossessionato dall'idea di essere un vigliacco e un traditore, perché non aveva condiviso la sorte di tanti altri e gli sembrava che la cosa più onorevole sarebbe stata quella di consegnarsi e di affrontare il suo destino. Blanca cercava di dissuaderlo con i suoi migliori argomenti, ma lui pareva non ascoltarla. Cercava di trattenerlo con la forza dell'amore recuperato, gli dava da mangiare imboccandolo, gli faceva il bagno sfregandolo con un panno umido e incipriandolo come un bambino, gli tagliava i capelli, le unghie, gli faceva la barba. Infine, però, dovette cominciare a mettergli pastiglie tranquillanti nel cibo e sonniferi nell'acqua, per immergerlo in un sonno profondo e tormentato, dal quale si svegliava con la bocca secca e il cuore più triste. Dopo pochi mesi Blanca si era accorta che non avrebbe potuto tenerlo sempre prigioniero e abbandonò i suoi piani di ridurgli lo spirito, per trasformarlo nel suo amante perpetuo. Capì che stava morendo vivo perché la libertà era per lui più importante dell'amore, e che non ci sarebbero state pillole miracolose capaci di fargli cambiare pensiero.
– Aiutami, papà! – supplicò Blanca. – Devo farlo uscire dal paese.
Il vecchio rimase paralizzato dallo stupore e comprese fino a che punto era ridotto, cercando la sua rabbia e il suo odio e non trovandoli da alcuna parte. Pensò a quel contadino che aveva spartito un amore di mezzo secolo con sua figlia e non riuscì a trovare motivo per detestarlo, neppure il suo mantello, la sua barba da socialista, la sua tenacia, o le sue maledette galline perseguitate dalle volpi.
– Accidenti! Dovremo cercargli asilo politico, perché se lo trovano in questa casa, ci fregano tutti – fu l'unica cosa che gli venne da dire.
Blanca gli gettò le braccia al collo e lo coprì di baci, piangendo come una bambina. Era la prima carezza spontanea che faceva a suo padre dalla più remota infanzia.
– Io posso farlo entrare in un'ambasciata – disse Alba. – Ma dobbiamo aspettare il momento propizio e dovrà scavalcare il muro.
– Non sarà necessario, figliola – replicò il senatore Trueba. – Ho ancora amici influenti in questo paese.
Quarantott'ore dopo si aprì la porta di Pedro Terzo García, ma invece di Blanca, sulla soglia apparve il senatore Trueba. Il fuggiasco pensò che era infine giunta la sua ora e, in un certo qual modo, se ne rallegrò.
– Vengo a portarla via di qui – disse Trueba.
– Perché? – chiese Pedro Terzo.
– Perché Blanca me l'ha chiesto – rispose l'altro.
– Vada al diavolo – balbettò Pedro Terzo.
– Bene, ci andremo. Lei viene con me.
I due sorrisero simultaneamente. Nel cortile della casa stava aspettando la limousine argentata di un ambasciatore del Nord. Misero Pedro Terzo nel baule posteriore del veicolo, rattrappito come un fagotto, e lo coprirono con sacchetti del mercato pieni di verdura. Sui sedili si sistemarono Blanca, Alba e il senatore Trueba e il suo amico, l'ambasciatore. L'autista li portò alla Nunziatura Apostolica, passando davanti a una barriera di carabinieri, senza che nessuno li fermasse. Al cancello della Nunziatura c'era doppia vigilanza, ma riconoscendo il senatore Trueba e vedendo l'emblema diplomatico dell'automobile li lasciarono passare con un saluto. Oltre il cancello, in salvo nella sede del Vaticano, tirarono fuori Pedro Terzo recuperandolo da sotto una montagna di foglie di lattuga e di pomodori schiacciati. Lo condussero nell'ufficio del Nunzio, che li aspettava vestito con l'abito vescovile e provvisto di un fiammante salvacondotto per mandarlo all'estero insieme a Blanca, che aveva deciso di vivere nell'esilio l'amore procrastinato della sua infanzia. Il Nunzio gli diede il benvenuto. Era un ammiratore di Pedro Terzo García e possedeva tutti i suoi dischi.
Mentre il sacerdote e l'ambasciatore del Nord discutevano della situazione internazionale, la famiglia si accomiatò. Blanca e Alba piangevano sconsolatamente. Non erano state mai separate. Esteban Trueba abbracciò a lungo sua figlia, senza lacrime, ma con le labbra strette, tremante, sforzandosi di trattenere i singhiozzi.
– Non sono stato un buon padre per lei, figlia – disse. – Crede che potrà perdonarmi e dimenticare il passato?
– Le voglio molto bene, papà – pianse Blanca gettandogli le braccia al collo, serrandolo con disperazione, coprendolo di baci.
Poi il vecchio si volse verso Pedro Terzo e lo guardò negli occhi. Gli tese la mano, ma non poté stringere quella dell'altro perché gli mancava qualche dito. Allora aprì le braccia e i due uomini in una stretta muta si salutarono, finalmente liberi dagli odi e dai rancori che per tanti anni avevano macchiato la loro coscienza.
– Baderò a sua figlia e farò in modo di renderla felice, signore – disse Pedro Terzo García con voce rotta.
– Non ne dubito. Andatevene in pace, figlioli – mormorò il vecchio.
Il senatore Trueba rimase solo nella casa con sua nipote e qualche servitore. Almeno così credeva. Ma Alba aveva deciso di adottare l'idea di sua madre e usava la parte abbandonata della casa per nascondere gente per una o due notti, fino a trovare un altro posto più sicuro o il modo di farli uscire dal paese. Aiutava quelli che vivevano nell'ombra, fuggendo di giorno, mescolati alla confusione della città, ma che, al cadere della notte, dovevano stare nascosti, ogni volta in un posto diverso. Le ore più pericolose erano quelle del coprifuoco, quando i fuggiaschi non potevano uscire in strada e la polizia poteva dar loro la caccia a suo piacimento. Alba pensava che la casa di suo nonno era l'ultimo posto che avrebbe cercato. A poco a poco trasformò le stanze vuote in un labirinto di angoli segreti dove nascondeva i suoi protetti, talvolta famiglie complete. Il senatore Trueba occupava solo la biblioteca, il bagno e la sua camera da letto. Lì viveva circondato dai suoi mobili di mogano, le sue vetrine vittoriane, i suoi tappeti persiani. Anche per un uomo così poco propenso ai presentimenti come lui, quella dimora ombrosa era inquietante: sembrava racchiudere un mostro occulto. Trueba non capiva la causa della sua inquietudine, perché lui sapeva che i rumori strani, che i servitori dicevano di udire, provenivano da Clara che vagava per la casa in compagnia dei suoi spiriti amici. Aveva sorpreso spesso sua moglie scivolare per i saloni con la sua bianca tunica e la sua risata da ragazza. Fingeva di non vederla, restava immobile e smetteva perfino di respirare, per non spaventarla. Se chiudeva gli occhi facendo finta di dormire, poteva sentire la carezza tenue delle sue dita sulla fronte, il suo fiato fresco passare come un soffio, il solletico dei suoi capelli a portata di mano. Non aveva motivo di sospettare qualcosa di anormale, tuttavia faceva in modo da non avventurarsi nella regione incantata che era il regno di sua moglie e il punto più lontano in cui si spingeva era la zona neutrale della cucina. La sua antica cuoca se n'era andata perché in una sparatoria avevano ammazzato per sbaglio suo marito, e il suo unico figlio, che stava facendo il servizio militare in un villaggio del Sud, era stato impiccato a un palo con le budella arrotolate intorno al collo, come vendetta della popolazione per aver eseguito gli ordini dei suoi superiori. La povera donna aveva perso la ragione e poco dopo Trueba aveva perso la pazienza, stufo di trovare nel cibo i capelli che lei si strappava per la disperazione. Per un certo tempo Alba aveva cercato di sostituirla servendosi di un libro di ricette, ma, nonostante la sua buona volontà, Trueba si era infine risolto a cenare quasi tutte le sere al club, per fare almeno una volta al giorno un pasto decente. Alba ebbe così maggiore libertà per il suo traffico di fuggiaschi e maggior sicurezza per far entrare e uscire gente dalla casa prima del coprifuoco, senza che suo nonno nutrisse sospetti.
Un giorno comparve Miguel. Lei stava entrando in casa, nella piena luce della siesta quando lui le andò incontro. Era rimasto ad aspettarla nascosto tra i cespugli del giardino. Si era tinto i capelli di un pallido colore giallo e indossava un abito blu a doppio petto. Sembrava un comune impiegato di banca, ma Alba lo riconobbe perfettamente e non poté trattenere un grido di gioia che le era salito dalle viscere. Si abbracciarono nel giardino, davanti alla gente che passava e a chi voleva guardare, finché la paura non tornò in loro e capirono il pericolo. Alba lo guidò dentro la casa, nella sua camera. Caddero sul letto in un nodo di braccia e di gambe, chiamandosi l'un l'altro con i nomi segreti che usavano ai tempi della cantina, si amarono con disperazione, finché non sentirono che la vita sfuggiva e che l'anima scoppiava, e dovettero rimanere quieti, ascoltando gli strepitosi battiti dei loro cuori, per tranquillizzarsi un po'. Allora Alba lo guardò per la prima volta e vide che aveva ruzzato con un perfetto sconosciuto, che non solo aveva capelli da vichingo, ma che non aveva neppure la barba di Miguel, né i suoi piccoli occhiali da precettore e sembrava molto più magro. Sei orribile! gli soffiò all'orecchio. Miguel era diventato uno dei capi della guerriglia, seguendo così il destino che si era preparato fin dall'adolescenza. Per scoprire dove si nascondeva, avevano interrogato molti uomini e molte donne, cosa che pesava ad Alba come una pietra da mulino sul suo spirito, ma per lui era solo una parte dell'orrore della guerra, ed era disposto a correre la stessa sorte quando fosse giunto il momento di proteggere gli altri. Intanto lottava nella clandestinità, fedele alla sua teoria secondo cui alla violenza dei ricchi bisogna opporre la violenza del popolo. Alba, che l'aveva immaginato mille volte arrestato o ucciso in qualche modo orribile, piangeva di gioia assaporando il suo odore, la sua pelle, la sua voce, il suo calore, la carezza delle sue mani callose per l'uso delle armi e l'abitudine di strisciare, pregando e maledicendo e baciandolo e odiandolo per tante sofferenze accumulate e desiderando morire in quello stesso momento, per non dover soffrire più a causa della sua assenza.
– Avevi ragione, Miguel. È successo tutto quello che dicevi che sarebbe successo – ammise Alba singhiozzando sulla sua spalla.
Poi gli raccontò delle armi che aveva rubato a suo nonno e che aveva nascosto con suo zio Jaime e si offrì di accompagnarlo a prenderle. Le sarebbe piaciuto dargli anche quelle che non erano riusciti a rubare e che erano rimaste nel ripostiglio della casa, ma pochi giorni dopo il golpe militare avevano ordinato alla popolazione di consegnare tutto quanto poteva essere considerato un'arma, persino i coltelli dei giovani esploratori e i temperini dei piccoli. La gente lasciava i suoi pacchetti avvolti in carta di giornale dinanzi alle porte delle chiese, perché non osava portarli nelle caserme, ma il senatore Trueba, che possedeva armamenti da guerra, non ebbe alcun timore, perché le sue erano destinate ad ammazzare comunisti, come tutti sapevano. Telefonò a un suo amico, il generale Hurtado, e questi mandò un camion dell'esercito a ritirarle. Trueba condusse i soldati nella stanza delle armi e lì poté constatare, muto per la sorpresa, che metà delle casse erano piene di pietre e di paglia, ma capì che se avesse ammesso la perdita avrebbe compromesso qualcuno della sua famiglia o si sarebbe cacciato lui stesso in un pasticcio. Presentò scuse che nessuno gli stava chiedendo, visto che i soldati non potevano sapere il numero delle armi che aveva comprato. Sospettava di Blanca e di Pedro Terzo García, ma anche le guance imporporate di sua nipote lo fecero dubitare. Dopo che i soldati si furono portati via le casse, firmandogli una ricevuta, prese Alba per le braccia e la scosse come non aveva mai fatto, perché confessasse se sapeva qualcosa dei mitra e dei fucili mancanti: "Non mi chiedere quello che non vuoi che ti risponda, nonno", aveva risposto Alba guardandolo negli occhi. Non riparlarono mai più della cosa.
– Tuo nonno è un disgraziato, Alba. Qualcuno lo ammazzerà come merita – disse Miguel.
– Morirà nel suo letto. È già molto vecchio – disse Alba.
– Chi di spada ferisce di spada perisce. Può darsi che un giorno lo ammazzi io stesso.
– Che Iddio non voglia, Miguel, perché mi costringeresti a fare lo stesso con te – rispose Alba ferocemente.
Miguel le spiegò che non avrebbero potuto vedersi per molto tempo, forse mai più. Cercò di razionalizzare con lei il pericolo che comportava essere la compagna di un guerrigliero, benché fosse protetta dal cognome del nonno, ma lei pianse tanto e lo abbracciò con tanta angoscia, che dovette prometterle che anche a rischio della vita avrebbe cercato l'occasione per vederla, qualche volta. Miguel acconsentì pure a recarsi con lei a cercare le armi e le munizioni sotterrate in montagna, perché era quello di cui aveva più bisogno nella sua lotta temeraria.
– Spero che non siano diventate ferro vecchio – mormorò Alba. – E che io riesca a ricordare il posto esatto, perché è passato più di un anno.
Due settimane dopo, Alba organizzò una gita con i bambini della sua mensa popolare su un furgone che le avevano prestato i preti della parrocchia. Portava ceste con la merenda, un sacchetto di arance, palle e una chitarra. Nessuno dei bambini badò al fatto che raccolse per strada un uomo biondo. Alba guidò il pesante furgone col suo carico di bambini, lungo la stessa strada che precedentemente aveva percorso con suo zio Jaime. La fermarono due pattuglie e dovette aprire le ceste delle provviste, ma l'allegria contagiosa dei bambini e l'innocente contenuto delle borse allontanarono qualsiasi sospetto dei soldati. Poterono arrivare tranquillamente al posto dove erano nascoste le armi. I bambini giocarono a prendersi e a nascondino. Miguel organizzò con loro una partita di pallone, li fece sedere in cerchio e raccontò loro alcune storie e poi cantarono tutti fino a sgolarsi. Infine disegnò una pianta del posto per tornare sul luogo con i suoi compagni protetti dalle ombre della notte. Fu una felice giornata di campagna in cui per qualche ora dimenticarono la tensione dello stato di guerra e godettero del tiepido sole della montagna, ascoltando il vociare dei bambini che correvano tra i sassi con lo stomaco pieno per la prima volta dopo molti mesi.
– Miguel, ho paura – disse Alba. – Non potremo mai fare una vita normale? Perché non ce ne andiamo all'estero? Perché non scappiamo adesso, che siamo ancora in tempo?
Miguel indicò i bambini e Alba capì.
– Allora lasciami venire con te! – supplicò, come aveva fatto tante volte.
– Non possiamo tenere con noi una persona che non sia addestrata in questo momento. Tanto meno una donna innamorata – sorrise Miguel. – È meglio che tu continui così. Bisogna aiutare questi poveri bambini finché non verranno tempi migliori.
– Dimmi almeno come posso trovarti!
– Se ti prendesse la polizia, è meglio che tu non sappia niente – rispose Miguel.
Lei tremò.
Nei mesi successivi Alba cominciò a trafficare con i mobili della casa. Dapprima osò portare fuori solo le cose delle stanze abbandonate e della cantina, ma quando ebbe venduto tutto, cominciò a portare via le seggiole del salotto a una a una, i supporti barocchi, i bauli coloniali, i paraventi intagliati e persino le tovaglie della sala da pranzo. Trueba se ne accorse, ma non disse niente. Supponeva che sua nipote stesse distribuendo denaro a fini proibiti, come aveva fatto con le armi che gli aveva rubato, ma preferì non saperlo, per poter continuare a mantenersi in stabilità precaria in un mondo che andava in frantumi. Sentiva che gli eventi sfuggivano al suo controllo. Comprese che l'unica cosa che gli importava era di non perdere sua nipote, perché lei era l'ultimo legame che lo univa alla vita. Perciò, non disse niente neppure quando cominciò a togliere dalle pareti tutti i quadri e gli arazzi antichi per venderli ai nuovi ricchi. Si sentiva molto vecchio e molto stanco, senza forze per lottare. Ormai non aveva più le idee tanto chiare e non individuava più la frontiera tra quello che gli pareva bene e quello che considerava male. Di notte, quando il sonno lo coglieva, aveva gli incubi delle casette di mattoni incendiate. Pensò che, se la sua unica erede aveva deciso di mandare in rovina la casa, lui non l'avrebbe evitato, perché gli mancava ben poco per finire nella tomba, dove si sarebbe portato solo il drappo funebre. Alba volle parlare con lui, ma il vecchio si rifiutò di ascoltare la storia dei bambini affamati che ricevevano un piatto in elemosina col ricavato del suo gobelin di Aubisson, o dei disoccupati che tiravano avanti un'altra settimana col suo drago cinese in pietra dura. La cosa, continuava a sostenere, era un grosso imbroglio del comunismo internazionale, ma, nel caso remoto che fosse vero, non spettava ad Alba prendersi sulle spalle quella responsabilità, bensì al governo, o in ultima istanza alla Chiesa. Tuttavia, il giorno in cui arrivò a casa sua e non vide il ritratto di Clara appeso nell'entrata, considerò che il fatto superava i limiti della sua pazienza e affrontò la nipote.
– Dove diavolo è andato a finire il quadro di tua nonna? ruggì.
– L'ho venduto al console inglese, nonno. Mi ha detto che l'avrebbe messo in un museo di Londra.
– Ti proibisco di togliere ancora qualcosa da questa casa! Da domani avrai un conto in banca, per le tue spese – replicò.
D'improvviso Esteban Trueba vide che Alba era la donna più cara della sua vita e che un harem di cortigiane non gli sarebbe costato come quella nipote dai capelli verdi. Non la rimproverò perché erano tornati i tempi della buona fortuna e più spendeva più guadagnava. Da quando aveva cessato l'attività politica, gli rimaneva più tempo per i suoi affari e aveva calcolato che, contro tutti i suoi pronostici, sarebbe morto molto ricco. Collocava il suo denaro nelle nuove agenzie che offrivano a chi lo investiva di moltiplicarlo dal giorno alla notte in maniera stupefacente. Scoprì che la ricchezza gli procurava un immenso disagio, perché gli era facile guadagnare denaro, senza che trovasse un grande incentivo nello spenderlo e neppure il prodigioso talento per lo sperpero di sua nipote riusciva a intaccare le sue grandi disponibilità. Con entusiasmo ricostruì e migliorò le Tre Marie, ma poi perse interesse per qualsiasi altra impresa, in quanto aveva notato che, grazie al nuovo sistema economico, non era necessario sforzarsi e produrre, dato che il denaro chiamava altro denaro e senza alcuna sua partecipazione diretta i conti in banca si rimpinguavano di giorno in giorno. Così, tirando le somme, aveva fatto un passo che mai si era immaginato di fare in vita sua: mandava ogni mese un assegno a Pedro Terzo García, che viveva con Blanca in esilio in Canada. Lì entrambi si sentivano pienamente realizzati nella pace dell'amore soddisfatto. Lui scriveva canzoni rivoluzionarie per i lavoratori, per gli studenti e, soprattutto, per l'alta borghesia, che, tradotte in inglese e francese con grande successo, le aveva adottate come una moda nonostante le galline e le volpi siano creature sottosviluppate, prive dello splendore zoologico delle aquile e dei lupi di quel gelido paese del Nord. Blanca, intanto, placida e felice, godeva per la prima volta nella sua esistenza di una salute di ferro. Aveva installato un grande forno in casa per cuocere i suoi presepi di mostri che si vendevano molto bene ed erano considerati artigianato indigeno, proprio come aveva pronosticato Jean de Satigny venticinque anni prima, quando aveva voluto esportarli. Grazie a questi affari, agli assegni del padre e agli aiuti canadesi, ne avevano abbastanza, e Blanca, per precauzione, aveva nascosto nell'angolo più segreto il calzerotto di lana con gli inestimabili gioielli di Clara. Confidava di non doverli vendere mai, affinché un giorno Alba potesse sfoggiarli.
Esteban Trueba non seppe che la polizia sorvegliava la sua casa fino alla notte in cui si portarono via Alba. Stavano dormendo e, per caso, non c'era nessuno nascosto nel labirinto delle stanze abbandonate. I colpi del calcio dei fucili contro la porta strapparono il vecchio dal sonno col nitido presentimento della fatalità. Ma Alba si era svegliata prima, quando aveva udito le frenate delle automobili, il rumore dei passi, gli ordini a bassa voce, e aveva cominciato a vestirsi, perché non aveva dubitato che fosse giunta la sua ora.
In quei mesi il senatore Trueba aveva imparato che neppure la sua limpida traiettoria di golpista era una garanzia contro il terrore. Non aveva mai immaginato, tuttavia, che avrebbe visto irrompere in casa sua, protetta dal coprifuoco, una dozzina di uomini in divisa, armati sino ai denti, che lo buttarono fuori del letto senza complimenti, e lo trascinarono a braccia fin al salone, senza permettergli d'infilarsi le pantofole o avvolgersi in uno scialle. Ne vide altri che aprivano con un calcio la porta della stanza di Alba ed entrarono con i mitra spianati, vide sua nipote completamente vestita, pallida ma serena, che li guardava dall'alto in basso, li vide portarla fuori a spintoni e spingerla con i fucili puntati nel salone, dove le ordinarono di mettersi accanto al vecchio e di non fare il minimo gesto. Lei ubbidì senza pronunciare una sola parola, estranea alla rabbia di suo nonno e alla violenza degli uomini che percorrevano la casa rompendo le porte, vuotando gli armadi col calcio delle armi, gettando a terra i mobili, sviscerando i materassi, rivoltando il contenuto dei cassettoni, picchiando contro i muri e gridando ordini, in cerca di guerriglieri nascosti, di armi clandestine e di altri oggetti rivelatori. Tirarono fuori dai loro letti le serve e le chiusero in una stanza sorvegliate da un uomo armato. Rovesciarono i ripiani della biblioteca e i soprammobili e le opere d'arte del senatore rotolarono in terra con strepito. I volumi del tunnel di Jaime vennero gettati nel cortile, dove li accatastarono, li cosparsero di benzina e li bruciarono in un rogo infame, che continuavano ad alimentare con i libri di magia dei bauli incantati del prozio Marcos, con l'edizione esoterica di Nicolás, con le opere di Marx rilegate in cuoio e anche con gli spartiti delle opere del nonno, in un falò scandaloso che riempì di fumo tutto il quartiere e che in tempi normali avrebbe richiesto l'intervento dei pompieri.
– Consegnate tutte le agende, i libretti degli indirizzi, i blocchetti degli assegni, tutti i documenti personali che avete! – ordinò quello che sembrava il capo.
– Sono il senatore Trueba! Non mi riconoscete, in nome di Dio? – strillò il nonno con disperazione. – Non potete farmi questo! è un sopruso! Sono amico del generale Hurtado!
– Taci, vecchio di merda! Finché io non ti autorizzo, non hai il diritto di aprire la bocca! – rispose l'altro con brutalità.
Lo costrinsero a consegnare il contenuto della sua scrivania e cacciarono in una borsa tutto quello che sembrò loro interessante. Mentre un gruppo finiva di perquisire la casa, un altro continuava a gettare libri dalla finestra. Nel salone rimasero solo quattro uomini sorridenti, beffardi, minacciosi, che posarono i piedi sopra i mobili, bevvero il whisky scozzese dalla bottiglia e ruppero a uno a uno i dischi della collezione dei classici del senatore Trueba. Alba calcolò che erano trascorse almeno due ore. Stava tremando, ma non di freddo, bensì di paura. Aveva immaginato che quel momento sarebbe arrivato un giorno o l'altro, ma aveva sempre nutrito la speranza irrazionale che l'influenza di suo nonno avrebbe potuto proteggerla. Ma vedendolo rattrappito sul divano, piccolo e miserabile come un vecchio malato, capì che non poteva aspettarsi aiuto.
– Firma qui – ordinò il capo a Trueba, mettendogli sotto il naso un foglio.
– È la dichiarazione che siamo entrati con un ordine giudiziario, che ti abbiamo mostrato i nostri documenti, che tutto è in regola, che abbiamo proceduto con rispetto e buona educazione, che non hai niente di cui lagnarti. Firmalo!
– Non lo firmerò mai! – esclamò il vecchio furioso.
L'uomo si voltò rapidamente e diede uno schiaffo ad Alba. Il colpo la scagliò a terra. Il senatore Trueba rimase paralizzato dalla sorpresa e dalla paura, comprendendo infine che era giunta l'ora della verità, dopo quasi novant'anni vissuti sotto la sua unica legge.
– Sapevi che tua nipote è la puttana di un guerrigliero? – disse l'uomo.
Vinto, il senatore Trueba firmò il foglio. Poi si avvicinò faticosamente a sua nipote e l'abbracciò, accarezzandole i capelli con una tenerezza sconosciuta in lui.
– Non preoccuparti, figliola. Tutto si sistemerà, non possono farti niente, è un errore, sta' tranquilla – mormorava.
Ma l'uomo lo spinse via brutalmente e gridò agli altri che bisognava andarsene. Due bravacci si portarono via Alba per le braccia, quasi sospesa. L'ultima cosa che vide fu la figura patetica del nonno, pallido come la cera, tremante, in camicia da notte e scalzo, che dalla soglia della porta le assicurava che il giorno dopo si sarebbe recato a liberarla, che avrebbe parlato direttamente col generale Hurtado, che sarebbe andato con i suoi avvocati a cercarla ovunque fosse stata, per riportarla a casa.
La issarono su un furgone accanto all'uomo che l'aveva percossa e a un altro che guidava fischiettando. Prima che le mettessero strisce di carta gommata sulle palpebre, guardò per l'ultima volta la strada vuota e silenziosa, stupita che, nonostante il fracasso e i libri bruciati, nessun vicino si fosse affacciato a guardare. Suppose che, proprio come spesso aveva fatto lei stessa, sbirciassero fra le fessure delle persiane o fra le pieghe delle tende, o che si fossero tappati la testa con un guanciale per non sapere. Il furgone si mise in moto e lei, cieca, per la prima volta perdette la nozione dello spazio e del tempo. Sentì una mano umida e grande sulla sua gamba, che la palpava, che la pizzicava, che saliva, che esplorava, un alito pesante sulla sua faccia che sussurrava ti scaldo io puttana, adesso vedi, e altre voci e risate, mentre il veicolo girava e rigirava in quello che le parve un viaggio interminabile. Non seppe dove la portavano finché non udì il rumore dell'acqua e sentì le ruote del furgone passare su del legno. Allora indovinò il suo destino. Invocò gli spiriti dei tempi del tavolino a tre gambe e dell'inquieta saliera della nonna, i fantasmi capaci di frastornare il corso degli eventi, ma loro sembravano averla abbandonata, perché il furgone continuò lungo la stessa strada. Sentì una frenata, udì le pesanti porte di un edificio che si aprivano stridendo e che si richiudevano dopo la sua entrata. Allora Alba entrò in un incubo, quello che avevano visto sua nonna sulla carta astrologica alla sua nascita e Luisa Mora in un istante di premonizione. Gli uomini l'aiutarono a scendere. Non riuscì a fare due passi. Ricevette il primo colpo alle costole e cadde in ginocchio, senza fiato. La sollevarono in due per le ascelle e la trascinarono per un lungo tratto. Sentì i piedi sulla terra e poi sopra una ruvida superficie di cemento. Si fermarono.
– Questa è la nipote del senatore Trueba, colonnello – sentì dire.
– Lo vedo – rispose un'altra voce.
Alba riconobbe senza esitazione la voce di Esteban García e in quell'istante capì che l'aveva aspettata fin dal giorno remoto in cui l'aveva fatta sedere sulle sue ginocchia, quando lei era una bambina.
14. L'ORA DELLA VERITÀ
Alba stava raggomitolata nell'oscurità. Le avevano tolto con uno strappo la carta gommata dagli occhi che avevano sostituito con una benda stretta. Aveva paura. Ricordò l'allenamento di suo zio Nicolás quando la preveniva contro il pericolo di avere paura della paura, e si concentrò per vincere il tremito del suo corpo e chiudere le orecchie agli spaventosi rumori che le giungevano da fuori. Cercò di evocare i momenti felici con Miguel, cercando aiuto per ingannare il tempo e trovare le forze per quanto le sarebbe successo, dicendosi che doveva passare qualche ora senza che i nervi la tradissero, finché suo nonno non fosse riuscito a mettere in moto la pesante macchina del suo potere e delle sue influenze, per toglierla di lì. Cercò nella memoria una passeggiata con Miguel sulla costa, d'autunno, molto prima che l'uragano degli eventi capovolgesse il mondo, nell'epoca in cui le cose si chiamavano ancora con nomi noti e le parole avevano un unico significato, quando popolo, libertà e compagno erano solo quello, popolo, libertà e compagno, e non erano ancora contrassegni. Cercò di rivivere quel momento, la terra rossa e umida, l'intenso odore dei boschi di pini e di eucalipti, dove il tappeto di foglie secche si macerava, dopo la lunga e calda estate, e dove la luce ramata del sole filtrava tra le fronde degli alberi. Cercò di ricordare il freddo, il silenzio e quella preziosa sensazione di essere i padroni della terra, di avere vent'anni e la vita davanti, di amarsi tranquilli, ebbri dell'odore di bosco e di amore, privi di passato, senza pensare al futuro, con l'unica, incredibile ricchezza di quell'istante presente in cui si guardavano, si odoravano, si baciavano, si esploravano, avvolti nel mormorio del vento tra gli alberi e del rumore vicino delle onde che si frangevano contro le rocce a picco della scogliera, esplodendo in un fragore di schiuma profumata, e loro due, abbracciati sotto la stessa coperta, come fratelli siamesi in una stessa pelle, ridendo e giurando che sarebbe stato per sempre, convinti di essere gli unici in tutto l'universo ad avere scoperto l'amore.
Alba udiva le grida, i lunghi gemiti e la radio a pieno volume. Il bosco, Miguel, l'amore si persero nel tunnel profondo del suo terrore e si rassegnò ad affrontare il suo destino senza sotterfugi.
Calcolò che era passata tutta la notte e una buona parte del giorno successivo, quando si aprì la porta per la prima volta e due uomini la tirarono fuori della sua cella. La condussero tra insulti e minacce in presenza del colonnello García, che lei poteva riconoscere senza vedere, a causa della sua malvagità, ancora prima di udirne la voce. Sentì le sue mani che le toccavano il viso, le sue dita grosse sul collo e sulle orecchie.
– Adesso ci dirai dove si trova il tuo amante – le disse. – Così eviterai molti fastidi a tutt'e due.
Alba respirò sollevata. Allora non avevano arrestato Miguel!
– Voglio andare al gabinetto – rispose Alba con la voce più ferma che riuscì ad articolare.
– Vedo che non vuoi collaborare, Alba. È un peccato sospirò García. – I ragazzi dovranno fare il loro dovere, io non posso impedirlo.
Ci fu un breve silenzio intorno a lei e Alba fece uno sforzo immenso per ricordare il bosco di pini e l'amore di Miguel, ma le s'ingarbugliarono le idee e non seppe più se stava sognando, né da dove proveniva quella puzza di sudore, di escrementi, di sangue e di orina, e la voce di quel cronista della partita di calcio che annunciava le reti finlandesi che non avevano niente a che vedere con lei, tra altri gemiti vicini e precisi. Una sberla brutale la gettò a terra, mani violente la rimisero in piedi, dita feroci s'incrostarono ai suoi seni triturandole i capezzoli e la paura la vinse del tutto. Voci sconosciute la serravano, sentiva il nome di Miguel, ma non sapeva quello che le chiedevano e ripeteva solo un no enorme mentre la picchiavano, la spintonavano, le strappavano la camicetta, e lei ormai non riusciva più a pensare, solo a ripetere no e no e no, calcolando quanto avrebbe potuto resistere prima che le venissero meno le forze, senza sapere che quello era solo l'inizio, finché non si sentì svenire e gli uomini la lasciarono tranquilla, distesa a terra, per un tempo che le parve molto breve.
Subito udì di nuovo la voce di García e indovinò che erano le sue mani che l'aiutavano a sollevarsi, guidandola verso una seggiola, accomodandole gli abiti, infilandole la camicetta.
– Mio Dio! – disse. – Guarda come ti hanno conciata. Ti avevo avvertita, Alba. Adesso cerca di tranquillizzarti, ti darò una tazza di caffè.
Alba scoppiò in lacrime. Il liquido tiepido la rianimò, ma non ne sentì il sapore, perché lo ingoiava mescolato al sangue. García le reggeva la tazza avvicinandogliela con cura, come un infermiere.
– Vuoi fumare?
– Voglio andare al gabinetto – disse, pronunciando ogni parola con difficoltà attraverso le labbra gonfie.
– Certamente, Alba. Ti porteranno al gabinetto e poi potrai riposare. Io sono tuo amico, capisco benissimo la situazione. Sei innamorata e per questo lo proteggi. Io so che non hai niente a che vedere con la guerriglia. Ma i ragazzi non mi credono quando glielo dico, non si daranno pace finché non dirai loro dove si trova Miguel. In realtà l'hanno già circondato, sanno dov'è, lo prenderanno, ma vogliono essere sicuri che tu non hai niente a che vedere con la guerriglia, capisci? Se lo proteggi, se ti rifiuti di parlare, loro continueranno a sospettare di te. Digli quello che vogliono sapere e allora io stesso ti riporterò a casa. Glielo dirai, vero?
– Voglio andare al gabinetto – ripeté Alba.
– Vedo che sei testarda, come tuo nonno. E va bene. Andrai al gabinetto. Ti voglio dare l'occasione di pensare un po' – disse García.
La portarono al gabinetto e dovette far finta d'ignorare l'uomo che le stava vicino tenendola per un braccio. Poi la ricondussero in cella. Nel piccolo cubo solitario della sua prigione cercò di chiarirsi le idee, ma era tormentata dal dolore delle botte, dalla sete, dalla benda stretta sulle tempie, dallo strepito della radio, dal terrore dei passi che si avvicinavano e dal sollievo quando si allontanavano, dalle grida e dagli ordini. Si accoccolò per terra come un feto e si abbandonò alle sue molteplici sofferenze. Rimase così molte ore, forse giorni. Due volte venne un uomo a prenderla e la condusse in una fetida latrina, dove non poté lavarsi, perché non c'era acqua. Le dava un minuto di tempo e la metteva a sedere sul cesso con un'altra persona silenziosa e maldestra come lei. Non poteva capire se era un'altra donna o un uomo. Dapprima pianse, rimpiangendo che suo zio Nicolás non l'avesse addestrata soprattutto a sopportare l'umiliazione, che le pareva peggio del dolore, ma infine si rassegnò alla propria miseria e smise di pensare all'insopportabile necessità di lavarsi. Le diedero da mangiare granoturco tenero, un pezzettino di pollo e un po' di gelato che lei indovinò dal gusto, dall'odore e dalla temperatura, e divorò velocemente con la mano, stupita di quella cena di lusso, inattesa in quel luogo. Poi venne a sapere che il cibo per i prigionieri di quel luogo di tortura proveniva dalla nuova sede del governo, la quale era stata installata in un edificio improvvisato, perché l'antico Palazzo dei Presidenti era ormai un cumulo di macerie.
Cercò di fare il conto dei giorni trascorsi dal suo arresto, ma il buio, la solitudine e la paura le aggrovigliarono il tempo e la dislocarono nello spazio, credeva di vedere caverne popolate da mostri, immaginava che l'avessero drogata e che per questo sentisse tutte le ossa molli e le idee impazzite, si riprometteva di non mangiare e di non bere, ma la fame e la sete erano più forti della sua decisione. Si chiedeva perché suo nonno non fosse ancora venuto a liberarla. Nei momenti di lucidità riusciva a capire che non era un brutto sogno e che non era lì per sbaglio. Si prefisse di dimenticare persino il nome di Miguel.
La terza volta che la portarono da Esteban García Alba era più preparata, perché attraverso la parete della sua cella poteva udire quanto succedeva nella stanza accanto, dove interrogavano altri prigionieri, e non si era fatta illusioni. Non cercò nemmeno di evocare i boschi dei suoi amori.
– Hai avuto tempo per pensare, Alba. Adesso parleremo noi due tranquillamente e mi dirai dov'è Miguel, così usciremo da questo frangente – disse García.
– Voglio andare al gabinetto – rispose Alba.
– Vedo che stai prendendoti gioco di me, Alba – disse lui. – Mi dispiace molto, ma qui non possiamo perdere tempo.
Alba non rispose.
– Togliti i vestiti! – ordinò García con un'altra voce.
Lei non ubbidì. La spogliarono con violenza, strappandole i pantaloni nonostante i suoi calci. Il ricordo preciso della sua adolescenza e del bacio di García in giardino le diedero la forza dell'odio. Lottò contro di lui, gridò per lui, pianse, orinò e vomitò per lui, finché non si stancarono di picchiarla e le concessero una breve tregua, di cui approfittò per invocare gli spiriti comprensivi di sua nonna, affinché l'aiutassero a morire. Ma nessuno venne in suo soccorso. Due mani la sollevarono, quattro la deposero su una branda metallica, gelida, dura, piena di molle che le ferivano le spalle, e le legarono le caviglie e i polsi con cinghie di cuoio.
– Per l'ultima volta, Alba. Dov'è Miguel? – chiese García.
Lei fece silenziosamente segno di no. Le avevano immobilizzato la testa con un'altra cinghia.
– Quando sarai disposta a parlare, alza un dito – disse lui.
Alba udì un'altra voce.
– Mi occupo io della macchina – disse.
E allora lei sentì quel dolore atroce che le percorse il corpo e che la occupò completamente e che mai, nel corso della sua vita, sarebbe riuscita a dimenticare. Sprofondò nell'oscurità.
– Vi ho detto di starci attenti con lei, cornuti! – Udì la voce di Esteban García che le arrivava da molto lontano, sentì che le aprivano le palpebre, ma vide solo un diffuso chiarore, poi sentì una puntura nel braccio e di nuovo perse conoscenza.
Un secolo dopo, Alba si svegliò bagnata e nuda. Non sapeva se era coperta di sudore, di acqua o d'orina, non riusciva a muoversi, non ricordava niente, non sapeva dove si trovava, né quale era la causa di quel malessere intenso che l'aveva ridotta in un carname. Sentì la sete del Sahara e chiese dell'acqua.
– Sopporta, compagna – disse qualcuno lì vicino. – Sopporta fino a domani. Se bevi, ti vengono le convulsioni e puoi morire.
Aprì gli occhi. Non li aveva bendati. Un volto vagamente familiare era chino su di lei, due mani la coprivano con delle coperte.
– Ti ricordi di me? Sono Ana Díaz. Siamo state compagne all'università. Non mi riconosci?
Alba fece segno di no con la testa, chiuse gli occhi e si abbandonò alla dolce illusione della morte. Ma dopo qualche ora si svegliò e muovendosi sentì che le faceva male persino l'ultima fibra del corpo.
– Presto ti sentirai meglio – disse una donna che stava accarezzandole il viso e scostandole alcune ciocche di capelli umidi che le coprivano gli occhi. – Non muoverti e cerca di rilassarti. Io ti starò vicina, riposa.
– Cos'è successo? – balbettò Alba.
– Ti hanno picchiata forte, compagna – disse l'altra con tristezza.
– Chi sei? – domandò Alba.
– Ana Díaz. Sono qui da una settimana. Anche il mio compagno l'hanno preso, ma è ancora vivo. Una volta al giorno lo vedo passare, quando lo portano al gabinetto.
– Ana Díaz? – mormorò Alba.
– Già. Non eravamo molto amiche all'università, ma non è mai troppo tardi per cominciare. Il fatto è che l'ultima persona che pensavo di trovare qui eri tu, contessa – disse con dolcezza la donna. – Non parlare, cerca di dormire, affinché il tempo ti sembri più breve. A poco a poco ti tornerà la memoria, non preoccuparti. È colpa dell'elettricità.
Ma Alba non riuscì a dormire, perché si aprì la porta della cella, entrò un uomo.
– Mettile la benda – ordinò ad Ana Díaz.
– Per favore...! Non vede che è molto debole? La lasci riposare un poco...
– Fa' quello che ti dico!
Ana si chinò sulla branda e le mise la benda sugli occhi. Poi le tolse la coperta e cercò di vestirla, ma la guardia la spinse da parte, sollevò la prigioniera per le braccia e la mise a sedere. Un altro entrò ad aiutarlo e in due la portarono via di peso, perché non riusciva a camminare. Alba era sicura che stava morendo, a meno che non fosse già morta. Udì che avanzava in un corridoio dove il rumore dei passi veniva raddoppiato dall'eco. Sentì una mano sul suo viso che le sollevava la testa.
– Potete darle dell'acqua. Lavatela e fatele un'altra iniezione. Vedete se può ingoiare un po' di caffè e portatemela – disse García.
– La vestiamo, colonnello?
– No.
Alba rimase a lungo in mano di García. Dopo pochi giorni lui si rese conto di essere stato riconosciuto, ma non abbandonò la precauzione di tenerla con gli occhi bendati, anche quand'erano soli. Ogni giorno conducevano e portavano via nuovi prigionieri. Alba sentiva i veicoli, le grida, il portone che si chiudeva, e cercava di fare il conto dei detenuti, ma era quasi impossibile. Ana Díaz calcolava che ce n'erano circa duecento. García era molto occupato, ma non lasciò passare un giorno senza vedere Alba, alternando la violenza sfrenata alla commedia del buon amico. Talvolta sembrava veramente commosso e con le sue stesse mani le dava cucchiaiate di minestra, ma il giorno in cui le affondò la testa in un bugliolo pieno di escrementi, finché lei non svenne dallo schifo, Alba capì che non cercava di scoprire il rifugio di Miguel, bensì di vendicarsi di tutti gli affronti che gli avevano inflitto dalla sua nascita, e che niente che avesse potuto confessare avrebbe modificato la sua sorte di prigioniera privata del colonnello García. Allora riuscì a poco a poco a uscire dal cerchio privato del suo terrore e la sua paura cominciò a calare e poté provare compassione per gli altri, quelli che erano appesi per le braccia, quelli che erano appena arrivati, quell'uomo al quale erano passati col furgone sui piedi incatenati. Avevano radunato tutti i prigionieri nel cortile, di prima mattina, e li avevano costretti a guardare, perché anche quello era un fatto personale tra il colonnello e il suo prigioniero. Era la prima volta che Alba apriva gli occhi fuori della penombra della sua cella, e il tenero chiarore del mattino e la brina che brillava fra le pietre, dove si erano accumulate le gocce di pioggia della notte, le erano sembrati insopportabilmente luminosi. Avevano trascinato l'uomo, che non aveva opposto resistenza, ma che neppure poteva reggersi in piedi, e l'avevano lasciato in mezzo al cortile. Le guardie avevano la faccia coperta da fazzoletti, per non essere mai riconosciute nel caso improbabile che le circostanze cambiassero. Alba aveva chiuso gli occhi udendo il motore del furgone, ma non era riuscita a chiudere le orecchie all'urlo, che era rimasto vibrante per sempre nel suo ricordo.
Ana Díaz l'aiutò a resistere per tutto il tempo in cui rimasero insieme. Era una donna molto forte. Aveva sopportato ogni brutalità, l'avevano violentata davanti al suo compagno, li avevano torturati insieme, ma lei non aveva perso la capacità di sorridere e di sperare. Non la perse nemmeno quando la portarono in una clinica segreta della polizia, perché a causa di una bastonata aveva perso il bambino che aspettava e aveva cominciato a dissanguarsi.
– Non importa, un giorno ne avrò un altro – disse ad Alba quando tornò nella sua cella.
Quella notte Alba la udì piangere per la prima volta, coprendosi la faccia con un lenzuolo per soffocare la tristezza. Le si avvicinò, l'abbracciò, la cullò, le asciugò le lacrime, le disse tutte le parole tenere che riuscì a ricordare, ma quella notte non c'era conforto per Ana Díaz, sicché Alba si limitò a ninnarla tra le braccia, vezzeggiandola come una bambina e desiderando di poter lei stessa caricarsi sulle spalle quel terribile dolore per alleviarlo. Il mattino le sorprese che dormivano strette come piccoli animali. Di giorno aspettavano ansiosamente il momento in cui passava la lunga fila di uomini avviati al gabinetto. Avanzavano con gli occhi bendati, e per guidarsi, ciascuno teneva la mano sulla spalla di chi lo precedeva, sorvegliati dalle guardie armate. Tra di loro c'era Andrés. Attraverso la minuscola finestra con sbarre della cella, loro potevano vederli così da vicino che se avessero potuto allungare la mano li avrebbero toccati. Ogni volta che passavano, Ana e Alba cantavano con la forza della disperazione e anche dalle altre celle si levavano voci femminili. Allora, i prigionieri si drizzavano, sollevavano le spalle, giravano la testa nella loro direzione e Andrés sorrideva. Aveva la camicia lacera e macchiata di sangue secco.
Una guardia si lasciò commuovere dall'inno delle donne. Una notte portò loro tre garofani in un barattolo con un po' d'acqua, per rabbellire la finestra. Un'altra volta andò a dire ad Ana Díaz che aveva bisogno di una volontaria per lavare la biancheria di un prigioniero e pulire la sua cella. La condusse da Andrés e li lasciò soli per alcuni minuti. Quando Ana Díaz tornò era trasfigurata e Alba non osò parlarle per non interrompere la sua felicità.
Un giorno il colonnello García si sorprese ad accarezzare Alba come un innamorato e a parlarle della sua infanzia in campagna, quando la vedeva passare da lontano, per mano al nonno, con i suoi grembiulini inamidati e l'alone verde delle sue trecce, mentre lui, scalzo nel fango, giurava a se stesso che un giorno le avrebbe fatto pagare cara la sua arroganza e si sarebbe vendicato del suo maledetto destino di bastardo. Rigida e assente, nuda e tremante di ripugnanza e di freddo, Alba non lo ascoltava né lo udiva, ma quell'incrinatura nella sua ansia di tormentarla risuonò per il colonnello come un campanello d'allarme. Ordinò che gettassero Alba nella cella d'isolamento e si dispose, furibondo, a dimenticarla.
La nuova cella era piccola ed ermetica come una tomba, senz'aria, scura e gelida. In tutto ce n'erano sei, costruite come luogo di punizione, in un deposito per l'acqua vuoto. Venivano occupate per periodi più o meno brevi, in quanto nessuno vi resisteva a lungo, al massimo qualche giorno, prima di cominciare a delirare e perdere la nozione delle cose, il significato delle parole, l'angoscia del tempo o, semplicemente, a cominciare a morire. Dapprima, accoccolata nella sua fossa, senza potersi sedere né allungare nonostante le sue scarse dimensioni, Alba si difese dalla follia. Nella solitudine capì quanto avesse bisogno di Ana Díaz. Credeva di udire battiti impercettibili e lontani, come se le avessero inviato messaggi in chiave da altre celle, ma poi smise subito di prestarvi attenzione, perché si era resa conto che qualsiasi forma di comunicazione era inutile. Si abbandonò, decisa a por fine al suo supplizio una volta per tutte, smise di mangiare e solo quando la vinceva la sua stessa debolezza beveva un sorso d'acqua. Cercò di non respirare, di non muoversi, e si mise ad aspettare la morte con impazienza. Rimase così molto tempo. Aveva quasi raggiunto il suo intento, quando le apparve sua nonna Clara, che aveva invocato tante volte perché l'aiutasse a morire, pur essendo consapevole che la grazia non era morire, dato che succede comunque, bensì sopravvivere, che era un miracolo. La vide come l'aveva sempre vista durante l'infanzia, con la sua bianca vestaglia di lino, i suoi guanti invernali, il suo dolcissimo sorriso da sdentata e il brillio obliquo dei suoi occhi nocciola. Clara recò l'idea salvatrice di scrivere col pensiero, senza matita né carta, per mantenere la mente occupata, evadere dal caos e vivere. Le suggerì, inoltre, di scrivere una testimonianza che un giorno potesse servire per portare alla luce il terribile segreto che stava vivendo, affinché il mondo venisse al corrente dell'orrore che avveniva parallelamente all'esistenza pacifica e ordinata di quelli che non volevano sapere, di quelli che non potevano restare ancorati all'illusione di una vita normale, di quelli che non potevano negare, di quelli che stavano a galla sopra un mare di gemiti, ignorando, contro ogni evidenza, che a pochi isolati dal loro mondo felice c'erano gli altri, quelli che sopravvivono o muoiono dalla parte buia. "Hai molto da fare, sicché smettila di compiacerti, bevi l'acqua e comincia a scrivere", disse Clara a sua nipote, prima di sparire così com'era arrivata.
Alba tentò di ubbidire a sua nonna, ma nel momento stesso in cui cominciò a prendere appunti col pensiero, la cella d'isolamento si riempì dei personaggi della sua storia, che entrarono incespicando l'uno nell'altro, e la avvolsero nei loro aneddoti, nei loro vizi e nelle loro virtù, schiacciando i suoi propositi documentari e gettando a terra la sua testimonianza, asfissiandola, comandandola, mettendole premura, e lei annotava in tutta fretta, disperata, perché, a mano a mano che scriveva una nuova pagina, le si cancellava la prima. Questa attività la teneva occupata. Al principio perdeva il filo con facilità e dimenticava nella stessa misura in cui ricordava fatti nuovi. La minima distrazione o un po' più di paura o di dolore ingarbugliavano la sua storia come un gomitolo. Ma poi inventò una chiave per ricordare con ordine, e allora riuscì a immergersi nel suo stesso racconto così profondamente, che smise di mangiare, di grattarsi, di odorarsi, di lamentarsi, e giunse a vincere, uno per uno, i suoi innumerevoli dolori.
Corse la voce che stava agonizzando. Le guardie aprirono la botola della cella d'isolamento e la portarono via senza sforzo, perché era molto leggera. La ricondussero dal colonnello García, che in quei giorni aveva rinnovato il suo odio, ma Alba non lo riconobbe. Era al di là del suo potere.
Da fuori, l'albergo Cristoforo Colombo aveva lo stesso aspetto impersonale di una scuola elementare, così come io lo ricordavo. Avevo perso il conto degli anni che erano trascorsi dall'ultima volta che ero stato lì e cercai d'illudermi che avrebbe potuto ricevermi lo stesso Mustafà di un tempo, quel negro blu, vestito come un fantasma orientale con la sua doppia fila di denti di piombo e la sua cortesia da visir, l'unico negro autentico del paese, tutti gli altri erano tinti, come mi aveva assicurato Tránsito Soto. Ma non fu così. Un portiere mi condusse in un corridoio molto piccolo, mi indicò un sedile e mi fece cenno di aspettare. Poco dopo apparve, invece dello spettacolare Mustafà, una signora dall'aria triste e compunta di una provinciale, in divisa blu con colletto bianco inamidato, che vedendomi così anziano e accasciato esalò un lieve sospiro. Teneva in mano una rosa rossa.
– Il signore è solo? – chiese.
– Certo che sono solo! – esclamai.
La donna mi porse la rosa e mi chiese quale stanza preferivo.
– È lo stesso – risposi.
– Sono libere la Stalla, il Tempio e le Mille e una notte. Quale vuole?
– Le Mille e una notte – dissi sbadatamente.
Mi accompagnò per un lungo corridoio segnato da luci verdi e frecce rosse. Appoggiato al mio bastone, strascicando i piedi, la seguii con difficoltà. Arrivammo in un piccolo cortile dove si levava una moschea in miniatura provvista di assurde ogive di vetro colorato.
– È qui. Se desidera bere qualcosa, lo ordini per telefono – indicò.
– Voglio parlare con Tránsito Soto. Sono venuto per questo – dissi.
– Mi dispiace, ma la signora non tratta con privati. Solamente con fornitori.
– Devo parlare con lei! Le dica che sono il senatore Trueba. Mi conosce.
– Non riceve nessuno, gliel'ho detto – replicò la donna incrociando le braccia.
Sollevai il bastone e le annunciai che, se in dieci minuti non fosse apparsa Tránsito Soto in persona, le avrei rotto i vetri e tutto quello che stava dentro quel vaso di Pandora. La donna in divisa indietreggiò spaventata. Aprì la porta della moschea e mi trovai dentro un'Alhambra di paccottiglia. Una breve scala di piastrelle, coperta di falsi tappeti persiani, portava in una stanza esagonale con una cupola per soffitto, dove qualcuno aveva messo tutto quello che pensava esistesse in un harem d'Arabia, senza esservi mai stato: cuscini di damasco, bruciaprofumi di vetro, campane e ogni sorta di cianfrusaglie da bazar. Tra le colonne, moltiplicate all'infinito dalla saggia disposizione degli specchi, vidi un bagno di mosaico blu, più grande della camera, con una grande vasca dove calcolai che poteva lavarsi una mucca e, a maggior ragione, potevano ruzzare due amanti giocherelloni. Non somigliava per nulla al Cristoforo Colombo che io avevo conosciuto. Mi sedetti faticosamente sul letto rotondo, sentendomi d'improvviso molto stanco. Le mie vecchie ossa mi dolevano. Alzai lo sguardo e uno specchio sul soffitto mi restituì la mia immagine: un povero corpo rimpicciolito, un volto triste da patriarca biblico, solcato da rughe amare, e i residui di una bianca chioma. "Com'è passato il tempo!", sospirai.
Tránsito Soto entrò senza bussare.
– Felice di vederla, padrone – salutò come sempre.
Si era trasformata in una signora matura, magra, con una crocchia severa, con un vestito di lana nera e due giri di perle superbe al collo, maestosa e serena, con un aspetto più da concertista di pianoforte che di padrona di un postribolo. Mi costò fatica rapportarla alla donna di un tempo, che aveva un serpente tatuato intorno all'ombelico. Mi alzai per salutarla e non riuscii a darle del tu come una volta.
– La vedo in ottima forma, Tránsito – dissi, calcolando che doveva avere passato i sessantacinque anni.
– Mi è andata bene, padrone. Si ricorda che quando ci siamo conosciuti le avevo detto che un giorno sarei stata ricca? – sorrise lei.
– Sono contento che ci sia riuscita.
Ci sedemmo vicini sul letto rotondo. Tránsito servì un cognac per ciascuno e mi raccontò che la cooperativa di puttane e finocchi era stato un affare stupendo per dieci lunghi anni, ma che i tempi erano cambiati e avevano dovuto darle una nuova immagine, perché a causa della libertà di costumi, dell'amore libero, della pillola e di altre innovazioni, nessuno aveva più bisogno di prostitute, tranne i marinai e i vecchi. "Le ragazze per bene vanno a letto gratis, s'immagini la concorrenza", disse. Mi spiegò che la cooperativa aveva cominciato a declinare e le socie avevano dovuto accettare altri lavori più remunerativi e persino Mustafà se n'era tornato al suo paese. Allora le era venuto in mente che quanto ci voleva era un albergo a ore, un posto gradevole dove le coppie clandestine avrebbero potuto fare l'amore e dove un uomo non si sarebbe vergognato di condurvi la fidanzata per la prima volta. Niente donne, quelle le porta il cliente. Lei stessa l'aveva arredato, seguendo gli impulsi della sua fantasia e tenendo in considerazione il gusto della clientela e così, grazie alla sua visione commerciale, che l'aveva spinta a creare un ambiente diverso in ogni angolo possibile, l'albergo Cristoforo Colombo si era trasformato nel paradiso delle anime perdute e degli amanti furtivi. Tránsito Soto aveva disposto saloni francesi con mobili capitonné, presepi con fieno fresco e cavalli di cartongesso che osservavano gli innamorati con i loro immutabili occhi di vetro colorato, caverne preistoriche, con stalattiti e telefoni foderati di pelle di puma.
– Visto che non è venuto per fare l'amore, padrone, andiamo a parlare nel mio ufficio, così questa stanza rimane libera – disse Tránsito Soto.
Per strada mi raccontò che dopo il golpe la polizia aveva invaso l'albergo un paio di volte, ma ogni volta che tiravano fuori le coppie dai letti e le spingevano con le pistole spianate nel salone principale, trovavano che c'erano uno o due generali tra i clienti, sicché avevano smesso di dar fastidio. Aveva molti buoni rapporti col nuovo governo, così come li aveva avuti con i governi precedenti. Mi disse che il Cristoforo Colombo era un affare fiorente e che ogni anno lei rinnovava qualche arredamento, cambiando naufragi nelle isole della Polinesia con severi chiostri di monache o altalene barocche con macchine di tortura, a seconda della moda, riuscendo a introdurre tante cose in un luogo di proporzioni relativamente normali, grazie all'artificio degli specchi e delle luci, che potevano moltiplicare lo spazio, ingannare il clima, creare l'infinito e sospendere il tempo.
Arrivammo nell'ufficio, arredato come una cabina d'aeroplano dal quale dirigeva la sua incredibile organizzazione con l'efficienza di un bancario. Mi raccontò quante lenzuola si lavavano, quanta carta igienica si consumava, quanti liquori si bevevano, quante uova di quaglia si cucinavano al giorno – sono afrodisiache – quanto personale occorreva e a quanto ammontava il conto della luce, dell'acqua e del telefono, per tenere a galla quel monumentale capannone degli amori proibiti.
– E adesso, padrone, mi dica cosa posso fare per lei – disse infine Tránsito Soto, sistemandosi sulla sua seggiola inclinabile da pilota aereo, mentre giocherellava con le perle della collana. – Suppongo che sia venuto perché le renda il favore che le devo da ormai mezzo secolo, vero?
E allora io, che stavo aspettando che lei me lo chiedesse, diedi stura alle mie ansie e le raccontai tutto, senza tacere niente, senza una sola pausa, dal principio alla fine. Le dissi che Alba era la mia unica nipote, che a poco a poco ero rimasto solo a questo mondo, che mi si erano ristretti il corpo e l'anima, come Férula aveva predetto maledicendomi, e l'unica cosa che mi manca è di morire come un cane, che quella nipote con i capelli verdi è l'unica cosa che mi rimane, l'unico essere di cui realmente m'importa, che per disgrazia era venuta fuori idealista, un male di famiglia, è una di quelle persone destinate a cacciarsi nei guai e a far soffrire chi le sta vicino, le era venuta la mania di cercare asilo politico nelle ambasciate per i fuggiaschi, lo faceva senza pensarci, ne sono sicuro, senza rendersi conto che il paese è in guerra, guerra contro il comunismo internazionale o contro il popolo, ormai non si sa più ma sempre guerra, e che quelle cose sono punibili per legge, ma Alba è sempre fra le nuvole e non si rende conto del pericolo, non lo fa per cattiveria, tutto il contrario, lo fa perché ha il cuore grande, come ce l'aveva sua nonna, che ancora aiuta i poveri alle mie spalle nelle stanze abbandonate della casa, la mia Clara chiaroveggente, e chiunque si presentasse da Alba, raccontando la storia che lo perseguitavano, otteneva che lei rischiasse la pelle per aiutarlo, anche se era un perfetto sconosciuto, io gliel'ho detto, l'ho avvisata spesso che potevano tenderle un trabocchetto e un giorno poteva venir fuori che il supposto marxista era un agente della polizia, ma lei non mi ha dato retta, non mi ha mai dato retta in vita sua, è più testarda di me, ma fosse anche così, dare asilo a un povero diavolo ogni tanto non è una cattiva azione, non è così grave da meritare che l'arrestino, senza considerare che è mia nipote, la nipote di un senatore della repubblica, noto membro del Partito Conservatore, non possono fare questo a qualcuno della mia famiglia, nella mia casa, perché allora cosa rimane per gli altri, se la gente come me viene arrestata, vuol dire che nessuno si salva, che non sono serviti a niente più di vent'anni al Congresso e avere tutte le relazioni che ho, io conosco tutti in questo paese, o almeno tutta la gente importante, compreso il generale Hurtado, che è mio amico personale, ma in questo caso non mi è servito a niente, e neppure il cardinale mi ha potuto aiutare a sapere dove si trova mia nipote, non è possibile che scompaia come per opera di magia, che se la portino via una notte e che io non venga a sapere niente di lei, ho passato un mese a cercarla e la situazione sta già facendomi diventare pazzo, queste sono cose che fanno perdere prestigio alla giunta militare all'estero e danno esca perché alle Nazioni Unite comincino a rompere le scatole con la storia dei diritti umani, io al principio non volevo sentir parlare di morti, di torturati, di scomparsi, ma adesso non posso continuare a pensare che sono menzogne dei comunisti, se persino gli stessi gringos, che sono stati i primi ad aiutare i militari e hanno mandato i loro piloti da guerra a bombardare il Palazzo del Presidente, adesso sono scandalizzati dal massacro, e non è che sia contrario alla repressione, capisco che al principio è necessario avere fermezza per imporre l'ordine, ma si son lasciati prendere la mano, stanno esagerando e con la scusa della sicurezza interna, e che bisogna eliminare i nemici ideologici, stanno ammazzando tutti, nessuno può essere d'accordo con questo programma, neppure io, che sono stato il primo a tirare piume di gallina ai cadetti e a propiziare il golpe, prima che gli altri avessero l'idea nella testa, sono stato il primo ad applaudirlo, sono stato presente al Te Deum nella cattedrale, e per lo stesso motivo non posso accettare che stiano succedendo queste cose nella mia patria, che scompaia la gente, che tirino fuori a viva forza mia nipote dalla casa e io non possa impedirlo, non erano mai successe cose simili qui, per questo, proprio per questo, ho dovuto venire a parlare con lei, Tránsito, non mi ero mai immaginato cinquant'anni fa, quando lei era una ragazzina rachitica al Lampioncino Rosso, che un giorno avrei dovuto venire a supplicarla in ginocchio che mi faccia questo favore, che mi aiuti a trovare mia nipote, oso chiederglielo perché so che ha buoni rapporti col governo, mi hanno parlato di lei, sono sicuro che nessuno conosce meglio le persone importanti delle Forze Armate, so che lei organizza le loro feste e può arrivare dove io non avrei mai accesso, per questo le chiedo che faccia qualcosa per mia nipote, prima che sia troppo tardi, perché sono settimane che non dormo, sono andato in tutti gli uffici, in tutti i ministeri, da tutti i vecchi amici, senza che nessuno abbia potuto aiutarmi, ormai non mi vogliono più ricevere, mi costringono a fare anticamera per ore, a me, che ho fatto tanti favori a quella stessa gente, per favore, Tránsito, mi chieda quello che vuole, sono ancora un uomo ricco, anche se ai tempi del comunismo le cose si sono messe male per me, mi hanno espropriato la terra, senza dubbio l'ha saputo, deve averlo visto alla televisione e sui giornali, è stato uno scandalo, quei contadini ignoranti si erano mangiati i miei tori da riproduzione e avevano messo i miei puledri da corsa a tirare l'aratro e in meno di un anno le Tre Marie erano in rovina, ma adesso io ho riempito la tenuta di trattori e sto risollevandola, come ho già fatto una volta, quando ero giovane, e allo stesso modo sto facendolo adesso che sono vecchio, ma non finito, mentre quegli infelici che avevano titolo di proprietà della mia proprietà, la mia, stanno morendo di fame, come una banda di pelagatti, cercando qualche miserabile lavoretto per sopravvivere, povera gente, loro non avevano colpa, si sono lasciati ingannare dalla maledetta riforma agraria, in fondo li ho perdonati e mi piacerebbe che tornassero alle Tre Marie, ho anche messo annunci sui giornali per chiamarli, un giorno torneranno e dovrò solo tendere loro una mano, sono come bambini, bene, ma non è di questo che sono venuto a parlarle, Tránsito, non voglio rubarle tempo, l'importante è che ho una buona sistemazione e i miei affari vanno col vento in poppa, sicché posso darle qualunque cosa, purché mi trovi mia nipote Alba prima che un demente continui a inviarmi dita tagliate o cominci a mandarmi orecchie e finisca per farmi diventare pazzo o morire d'infarto, mi scusi se sono così, mi tremano le mani, sono molto nervoso, non posso spiegare quello che è successo, un pacchetto postale e dentro solo tre dita umane, bellamente amputate, uno scherzo macabro che mi fa rivivere certi ricordi, ma quei ricordi non hanno niente a che vedere con mia nipote Alba, mia nipote non era neppure nata allora, senza dubbio io ho molti nemici, tutti gli uomini politici hanno nemici, non sarebbe strano che ci fosse un anormale disposto a fregarmi mandandomi dita per posta proprio nel momento in cui sono disperato per la detenzione di Alba, e così ficcarmi idee atroci in testa, non fosse che sono al limite delle mie forze, e che ho esaurito tutti i mezzi che avevo, non sarei venuto a dare fastidio a lei, per favore, Tránsito, in nome della nostra vecchia amicizia, abbia pietà di me, sono un povero vecchio distrutto, abbia pietà e cerchi mia nipote Alba prima che comincino a mandarmela a pezzi per posta, singhiozzai.
Tránsito Soto è arrivata a occupare la posizione che occupa, tra le altre cose, perché sa pagare i suoi debiti. Immagino che abbia usato la conoscenza del lato più segreto degli uomini che sono al potere, per restituirmi i cinquanta pesos che una volta le avevo prestato.
Due giorni dopo mi chiamò per telefono:
– Sono Tránsito Soto, padrone. Missione compiuta! – disse.
EPILOGO
La notte scorsa è morto mio nonno. Non è morto come un cane come temeva, ma tranquillamente fra le mie braccia, confondendomi con Clara e a tratti con Rosa, senza dolore, senza ansia, cosciente e sereno, più lucido che mai, felice. Ora è disteso nel veliero dell'acqua quieta, sorridente e calmo, mentre io scrivo sul tavolo di legno rosso che era di mia nonna. Ho aperto le tende di seta azzurra, affinché entri il mattino e rallegri la stanza. Nella gabbia antica, vicino alla finestra, c'è un nuovo canarino che canta e in mezzo alla camera mi guardano gli occhi di vetro di Barrabás. Mio nonno mi aveva raccontato che Clara era svenuta il giorno che lui, per farle una sorpresa, le aveva sistemato la pelle dell'animale come tappeto. Avevamo riso fino alle lacrime e avevamo deciso di andar a cercare in cantina le spoglie del povero Barrabás, superbo nella sua indefinibile costituzione biologica, nonostante il passare del tempo e l'abbandono, e di metterlo nello stesso posto dove mezzo secolo prima l'aveva messo mio nonno in omaggio alla donna che più aveva amato nella sua vita.
– Lo lasceremo qui, dove avrebbe dovuto sempre stare – aveva detto.
Arrivai a casa in una luminosa mattina invernale su una carretta tirata da un cavallo magro. La strada, con la sua duplice fila di castani centenari e le sue dimore signorili, sembrava uno scenario non consono a quel veicolo modesto, ma, quando si fu fermato davanti alla casa di mio nonno, s'incastonava perfettamente allo stile. La grande casa dell'angolo era più triste e più vecchia di quanto io ricordassi, assurda nelle sue eccentricità architettoniche e nelle sue pretese di stile francese, con la facciata coperta di edera malata. Il giardino era un viluppo di cespugli e quasi tutte le imposte pendevano dai cardini. Il cancello era aperto, come sempre. Suonai il campanello e un momento dopo udii delle pantofole che si avvicinavano e una serva sconosciuta mi aprì la porta. Mi guardò senza conoscermi e io sentii nelle narici il meraviglioso odore di legno e di chiuso della casa dov'ero nata. Mi si riempirono gli occhi di lacrime. Corsi in biblioteca, col presentimento che il nonno stesse aspettandomi dove stava sempre seduto, ed era lì, rannicchiato nella poltrona. Mi sorpresi vedendolo così vecchio, così minuscolo e tremante, e che del passato conservava solo la sua bianca chioma leonina e il suo pesante bastone d'argento. Ci abbracciammo strettamente molto a lungo, sussurrando nonno, Alba, Alba, nonno, ci baciammo e quando lui vide la mia mano si mise a piangere e a maledire e a dare bastonate sui mobili, come faceva prima, e io mi misi a ridere, perché non era così vecchio e così finito come mi era sembrato poco prima.
Quello stesso giorno il nonno volle che ce ne andassimo dal paese. Aveva paura per me. Ma io gli spiegai che non me ne potevo andare, perché lontano da questa terra sarei stata come gli alberi che tagliano a Natale, quei poveri pini senza radici che durano un po' di tempo e poi muoiono.
– Non sono stupido, Alba – disse guardandomi fissamente. – La vera ragione perché vuoi fermarti è Miguel, vero?
Trasalii. Non gli avevo mai parlato di Miguel.
– Da quando l'ho conosciuto, ho saputo che non avrei potuto portarti via di qui, figliola – disse con tristezza.
– L'hai conosciuto? è vivo, nonno? – lo scossi afferrandolo per il vestito.
– Lo era la settimana scorsa, quando ci siamo visti l'ultima volta – disse.
Mi raccontò che dopo il mio arresto una notte era apparso Miguel nella grande casa dell'angolo. Per poco non gli era venuto un colpo dallo spavento, ma dopo qualche minuto aveva capito che entrambi avevano un interesse comune: liberarmi. Poi Miguel era tornato spesso a trovarlo, gli faceva compagnia e univano gli sforzi per cercarmi. Era stato Miguel che aveva avuto l'idea di andare da Tránsito Soto, al nonno non era mai venuto in mente.
– Mi dia retta, signore. Io so chi ha potere in questo paese. La mia gente è infiltrata in tutti i posti. Se c'è qualcuno che può aiutare Alba in questo momento, quella persona è Tránsito Soto – gli aveva assicurato.
– Se riusciamo a toglierla dalle grinfie della polizia politica figliolo, dovrà andarsene di qui. Andatevene insieme. Posso procurarvi salvacondotti e non vi mancherà denaro – aveva offerto il nonno.
Ma Miguel l'aveva guardato come se fosse stato un vecchietto rimbambito e aveva cominciato a spiegargli che lui ha una missione da compiere e che non può scapparsene via.
– Ho dovuto rassegnarmi all'idea che resterai qui, nonostante tutto – disse il nonno abbracciandomi. – Adesso raccontami tutto. Voglio sapere fino all'ultimo particolare.
Sicché glielo raccontai. Gli dissi che dopo che mi si era infettata la mano, mi avevano portata in una clinica segreta dove mandavano i prigionieri che non hanno interesse a lasciar morire. Lì mi aveva curato un medico alto, dai lineamenti eleganti, che sembrava odiarmi quanto il colonnello García e che si rifiutava di darmi dei calmanti. Approfittava di ogni medicazione per espormi la sua teoria personale rispetto al modo di liquidare il comunismo nel paese e, se possibile, nel mondo. Ma, a parte questo, mi lasciava in pace. Per la prima volta dopo molte settimane avevo lenzuola pulite, cibo a sufficienza e luce naturale. Si occupava di me Rojas, un infermiere dal corpo massiccio e dalla faccia tonda, vestito con un camice celeste sempre sporco e dotato di grande bontà. M'imboccava, mi raccontava interminabili storie di remote partite di calcio disputate tra squadre che io non avevo mai sentito nominare e si procurava dei calmanti per iniettarmeli di nascosto, finché non riuscì a frenare il mio delirio. Rojas aveva curato in quella clinica una fila interminabile di disgraziati. Aveva appurato che nella maggioranza non erano assassini né traditori della patria, per questo era ben disposto verso i prigionieri. Come finiva di rammendare qualcuno, subito gliene portavano uno nuovo. "È come gettare sabbia nel mare", diceva con tristezza. Avevo saputo che qualcuno gli aveva chiesto di aiutarlo a morire e, almeno in un caso, credo che l'avesse fatto. Rojas teneva un conto rigoroso di quelli che entravano e uscivano e poteva ricordare senza incertezze i nomi, le date e le circostanze. Mi giurò che non aveva mai sentito parlare di Miguel e ciò mi restituì il coraggio di continuare a vivere, sebbene talvolta cadessi in un nero abisso di depressione e cominciassi a recitare la cantilena del voglio morire. Lui mi raccontò di Amanda. L'avevano arrestata nella mia stessa epoca. Quando l'avevano portata da Rojas, ormai non c'era più niente da fare. Era morta senza denunciare suo fratello, mantenendo la promessa che gli aveva fatto molto tempo prima, il giorno in cui l'aveva portato per la prima volta a scuola. L'unica consolazione è che era capitato molto più in fretta di quanto avrebbero desiderato perché il suo organismo era molto infiacchito dalla droga e dall'immensa desolazione in cui l'aveva lasciata la morte di Jaime. Rojas mi curò finché non mi calò la febbre, cominciò a cicatrizzarmisi la mano e a tornarmi il coraggio, e allora non ebbe più pretesti per continuare a trattenermi; ma non mi rimandarono in mano a Esteban García, come temevo. Immagino che in quel momento fosse intervenuta l'influenza benefica della donna dalla collana di perle, che siamo poi andati a trovare col nonno per ringraziarla di avermi salvato la vita. Quattro uomini vennero a prelevarmi di notte. Rojas mi svegliò, mi aiutò a vestirmi e mi augurò buona fortuna. Lo baciai riconoscente.
– Addio, ragazzina,. si cambi le fasciature, non se le bagni e se le torna la febbre, è perché si è di nuovo infettata – mi disse dalla soglia.
Mi condussero in una cella stretta dove trascorsi il resto della notte seduta su una seggiola. Il giorno dopo mi portarono in un campo di concentramento per donne. Non potrò mai dimenticare quando mi tolsero la benda dagli occhi e mi ritrovai in un cortile quadrato e luminoso, circondata da donne che cantavano per me l'Inno dell'Allegria. La mia amica Ana Díaz era tra loro e corse ad abbracciarmi. Mi sistemarono in fretta su una lettiga e mi fecero conoscere le regole della comunità e le mie responsabilità.
– Finché non sei guarita non devi né lavare né cucire, ma devi badare ai bambini – dissero.
Io avevo resistito all'inferno con una certa fermezza, ma quando mi sentii in compagnia, mi spezzai. La minima parola affettuosa mi provocava una crisi di pianto, passavo la notte con gli occhi aperti nel buio, in mezzo alla promiscuità delle donne, che si davano il turno per vegliarmi e non mi lasciavano mai sola. Mi aiutavano quando cominciavano a tormentarmi i brutti ricordi o mi appariva il colonnello García a immergermi nel terrore, o Miguel mi rimaneva stretto in un singhiozzo.
– Non pensare a Miguel – mi dicevano, insistevano. – Non bisogna pensare alle persone amate né al mondo che c'è dall'altra parte di queste mura. È l'unico modo per sopravvivere.
Ana Díaz trovò un quaderno da scuola e me lo regalò.
– Perché tu scriva, vediamo un po' se riesci a tirare fuori da dentro quello che sta facendoti marcire, a guarire una volta per tutte e a cantare con noi e ad aiutarci a cucire – mi disse.
Le mostrai la mia mano e feci segno di no con la testa, ma lei mi mise la matita nell'altra e mi disse di scrivere con la sinistra. A poco a poco cominciai a farlo. Cercai di mettere in ordine la storia che avevo cominciato nella cella d'isolamento. Le mie compagne mi aiutavano quando perdevo la pazienza e la matita mi tremava in mano. Certe volte gettavo via tutto, ma subito raccoglievo il quaderno, lo lisciavo amorosamente, pentita perché non sapevo quando avrei potuto procurarmene un altro. Altre volte mi svegliavo triste e piena di presentimenti, mi voltavo verso la parete e non volevo parlare con nessuno, ma loro non mi lasciavano, mi costringevano a lavorare, a raccontare storie ai bambini. Mi cambiavano le fasciature con cura e mi mettevano davanti il quaderno.
"Se vuoi ti racconto la mia storia perché tu la scriva", mi dicevano, ridevano, mi prendevano in giro aggiungendo che tutte le storie erano uguali e che era meglio scrivere racconti d'amore, perché piacciono a tutti. Mi costringevano anche a mangiare. Spartivamo le porzioni con molta giustizia, a ciascuna secondo le sue necessità e a me ne davano un po' di più, perché dicevano che ero pelle e ossa e così nemmeno l'uomo più arrapato si sarebbe ficcato con me. Mi spaventavo, ma Ana Díaz mi ricordava che io non ero l'unica donna violentata e che questo, come molte altre cose, bisognava dimenticarselo. Le donne passavano la giornata cantando a squarciagola. I carabinieri picchiavano contro il muro.
– Zitte, puttane!
– Fateci stare zitte, se ne siete capaci, cornuti, vediamo se ne avete il coraggio! – e continuavano a cantare più forte e loro non entravano, perché avevano imparato che non si può evitare l'inevitabile.
Cercai di scrivere i piccoli avvenimenti della sezione delle donne, che avevano arrestato la sorella del Presidente, che ci avevano tolto le sigarette, che erano arrivate nuove prigioniere, che Adriana aveva avuto un altro dei suoi attacchi e si era scagliata sui suoi figli per ammazzarli, glieli avevamo dovuti togliere dalle mani e che io mi ero seduta con un bambino su ogni braccio, per raccontargli i racconti magici dei bauli incantati dello zio Marcos, finché non si erano addormentati, mentre io pensavo al destino di quelle creature che crescevano in quel luogo, con la madre impazzita, accuditi da altre madri sconosciute che non avevano perso la voce per una ninna nanna, né il gesto per un conforto, e mi chiedevo, scrivevo, in che modo i figli di Adriana avrebbero potuto restituire la canzone e il gesto ai figli o ai nipoti di quelle stesse donne che li coccolavano.
Rimasi nel campo di concentramento pochi giorni. Un mercoledì sera vennero a prendermi i carabinieri. Ebbi un momento di panico, pensando che mi avrebbero portata da Esteban García, ma le mie compagne mi dissero che se indossavano la divisa, non erano della polizia politica e questo mi tranquillizzò un po'. Lasciai a loro il mio gilé di lana, perché lo disfacessero e potessero farne qualcosa di pesante per i bambini di Adriana, e tutto il denaro che possedevo quando mi avevano arrestata e che, con la scrupolosa onestà che hanno i militari per le cose futili, mi avevano restituito. M'infilai il quaderno nei pantaloni e le abbracciai tutte, una per una. L'ultima cosa che udii allontanandomi fu il coro delle compagne che cantavano per farmi coraggio, proprio come facevano con tutte le prigioniere che arrivavano o se ne andavano dall'accampamento. Io piangevo. Lì ero stata felice.
Raccontai al nonno che mi avevano portata in un furgone, con gli occhi bendati, durante il coprifuoco. Tremavo tanto, che udivo il battere dei miei denti. Uno degli uomini che stava con me nella parte posteriore del veicolo mi mise una caramella in mano e mi diede una pacca affettuosa sulla spalla.
– Non si preoccupi, signorina. Non le succederà niente. Stiamo per liberarla e tra qualche ora starà con la sua famiglia – disse in un sussurro.
Mi lasciarono presso un immondezzaio vicino al Quartiere della Misericordia.
Lo stesso che mi aveva dato la caramella mi aiutò a scendere.
– Attenta al coprifuoco – mi soffiò all'orecchio. – Non si muova fino all'alba.
Udii il motore e pensai che mi avrebbero schiacciata e che poi sulla stampa sarebbe apparso che ero morta vittima di un incidente stradale, ma il veicolo si allontanò senza toccarmi. Aspettai un po', paralizzata dal freddo e dalla paura, finché non mi decisi a togliermi la benda per vedere dove mi trovavo. Mi guardai intorno. Era un posto vuoto, un campo pieno d'immondizia dove alcuni topi correvano in mezzo ai rifiuti. Brillava una luna tenue che mi permise di vedere da lontano il profilo di una miserabile borgata di cartoni, lamiere e assi. Capii che dovevo osservare la raccomandazione della guardia e rimanere lì finché non sarebbe stato chiaro. Avrei trascorso la notte nell'immondezzaio, se non fosse arrivato un ragazzino chino fra le ombre a farmi cenni segreti. Dato che non avevo niente da perdere, cominciai ad andare verso di lui, barcollando. Avvicinandomi vidi il suo faccino ansioso. Mi gettò una coperta sulle spalle, mi prese per mano e mi portò al paese senza dire una parola. Camminammo rannicchiati, evitando la strada e i pochi lampioni che erano accesi, alcuni cani facevano rumore con i loro latrati, ma nessuno sporse la testa per indagare. Attraversammo un cortile di terra dove pendevano come stendardi da un fil di ferro pochi indumenti ed entrammo in una baracca sconquassata come tutte le altre da quelle parti. Dentro c'era una sola lampadina che illuminava tristemente l'interno. Mi commosse l'estrema povertà: gli unici mobili erano un tavolo di pino, due seggiole rozze e un letto dove dormivano diversi bambini ammucchiati. Mi venne incontro una donna bassa, dalla pelle scura, con le gambe segnate da vene e gli occhi buoni, sprofondati in una rete di rughe, che non riuscivano a darle l'aspetto di una vecchia. Sorrise e vidi che le mancava qualche dente. Si avvicinò e mi sistemò la coperta, con un gesto brusco e timido che sostituì l'abbraccio che non osò darmi.
– Le preparerò un tè. Non ho zucchero, ma le farà bene bere qualcosa di caldo – disse.
Mi raccontò che avevano sentito il furgone e sapevano cosa significava un veicolo che circoli durante il coprifuoco in quei paraggi. Avevano aspettato finché non erano stati sicuri che se ne fossero andati e poi il bambino si era recato a vedere cos'avevano lasciato. Pensavano di trovare un morto.
– Talvolta vengono a gettarci qualche fucilato, per incutere rispetto alla gente – mi spiegò.
Rimanemmo a parlare il resto della notte. Era una di quelle donne stoiche e pratiche del nostro paese, che con qualunque uomo che passa nella loro vita hanno un figlio e inoltre accolgono in casa i bambini che gli altri abbandonano, i parenti più poveri e chiunque abbia bisogno di una madre, una sorella, una zia, donne che sono il pilastro centrale di molte vite estranee, che allevano figli perché anche loro se ne vadano e che vedono andarsene i loro uomini senza un rimprovero, perché hanno altre urgenze maggiori di cui occuparsi. Mi sembrò uguale a tante altre che avevo conosciuto nelle mense popolari, nell'ospedale di mio zio Jaime, al Vicariato dove andavano a indagare per i loro scomparsi, all'obitorio, dove andavano a cercare i loro morti. Le dissi che aveva corso un bel rischio ad aiutarmi e lei sorrise. Allora capii che il colonnello García e altri come lui hanno i giorni contati, perché non hanno potuto distruggere lo spirito di quelle donne.
Al mattino mi accompagnò da un compare che aveva una carretta tirata da un cavallo. Gli chiese che mi portasse a casa, sicché sono arrivata qui. Per strada ho visto la città nel suo terribile contrasto, le baracche circondate da palizzate per dare l'illusione che non esistano, il centro agglomerato e grigio, e il Quartiere Alto, con i suoi giardini all'inglese, i suoi parchi, i suoi grattacieli di vetro e i suoi bambini biondi che passeggiavano in bicicletta. Persino i cani mi sembravano felici, tutto in ordine, tutto pulito, tutto tranquillo, e quella solida pace della coscienza senza memoria. Questo quartiere è come un altro paese.
Il nonno mi ascoltò tristemente. Stavano sgretolandosi gli ultimi pezzi del mondo che lui aveva creduto buono.
– Visto che ci fermeremo qui per aspettare Miguel, mettiamo un po' a posto questa casa – disse infine.
E così abbiamo fatto. All'inizio passavamo la giornata in biblioteca, inquieti pensando che avrebbero potuto tornare per portarmi un'altra volta da García, ma poi abbiamo deciso che la cosa peggiore è avere paura della paura, come diceva mio zio Nicolás, e che bisognava occupare completamente la casa e cominciare a condurre una vita normale. Mio nonno ha ingaggiato un'impresa specializzata che l'ha percorsa dal tetto fino alla cantina facendovi passare macchine pulitrici, nettando vetri, pitturando e disinfettando, finché non è tornata abitabile. Mezza dozzina di giardinieri e un trattore hanno liquidato i cespugli, hanno portato erba arrotolata come un tappeto, un'invenzione prodigiosa dei gringos, e in meno di una settimana avevamo persino betulle cresciute, era tornata a zampillare l'acqua dalle fontane canterine e di nuovo si levavano arroganti le statue dell'Olimpo, infine pulite da tanta cacca di colombo e da tanto oblio. Siamo andati insieme a comprare uccelli per le gabbie che erano vuote dopo che mia nonna, presentendo la morte, aveva aperto loro gli sportelli. Ho messo fiori freschi nei vasi e piatti con frutta sul tavolo, come ai tempi degli spiriti, e l'aria si è impregnata del loro aroma. Poi ci siamo presi a braccetto, io e mio nonno, e abbiamo visitato la casa, fermandoci in ogni punto per ricordare il passato e salutare gli impercettibili fantasmi di altri tempi, che nonostante tanti alti e bassi continuano a stare ai loro posti.
Mio nonno ha avuto l'idea di scrivere questa storia.
– Così potrai portare via con te le tue radici se un giorno dovrai andartene di qui, figliola – ha detto.
Abbiamo dissotterrato dagli angoli segreti e dimenticati i vecchi album ed ho qui, sul tavolo di mia nonna, una montagna di ritratti: la bella Rosa accanto a un'altalena scolorita, mia madre e Pedro Terzo García a quattro anni, mentre danno il granoturco alle galline nel cortile delle Tre Marie, mio nonno quand'era giovane ed era alto un metro e ottanta, prova irrefutabile che si era compiuta la maledizione di Férula e gli si era rimpicciolito il corpo nella misura in cui gli si era ristretta l'anima, i miei zii Jaime e Nicolás l'uno taciturno e serio, gigantesco e vulnerabile, e l'altro asciutto e grazioso, volatile e sorridente, anche la Nana e i bisnonni del Valle, prima che si ammazzassero in un incidente, insomma, tutti meno il nobile Jean de Satigny, del quale non rimane alcuna testimonianza scientifica e sono arrivata a dubitare della sua esistenza.
Ho cominciato a scrivere con l'aiuto di mio nonno, la cui memoria è rimasta intatta sino all'ultimo istante dei suoi novant'anni. Di suo pugno ha scritto diverse pagine e quando ha ritenuto di avere detto tutto, si è steso nel letto di Clara. Io mi sono seduta al suo fianco ad aspettare con lui e la morte non ha tardato ad arrivare, tranquillamente, cogliendolo nel sonno. Forse sognava che fosse sua moglie quella che gli accarezzava la mano e lo baciava sulla fronte, perché negli ultimi giorni lei non l'aveva abbandonato neppure per un istante, lo seguiva per casa, lo spiava da sopra la spalla quando leggeva in biblioteca e andava a letto con lui la sera, con la sua bella testa coronata di riccioli appoggiata alla sua spalla. Dapprima era un alone misterioso, ma a mano a mano che mio nonno andava perdendo definitivamente la rabbia che l'aveva tormentato per tutta la sua esistenza, lei era apparsa così com'era nei suoi tempi migliori, ridendo con tutti i suoi denti e sconvolgendo gli spiriti col suo volo fugace. Ci ha anche aiutati a scrivere e, grazie alla sua presenza, Esteban Trueba ha potuto morire felice mormorando il suo nome Clara, chiarissima, chiaroveggente.
Nella cella d'isolamento avevo scritto col pensiero che un giorno avrei avuto davanti a me il colonnello García vinto e avrei potuto vendicare tutti quelli che devono essere vendicati. Ma ora, dubito del mio odio. In poche settimane da quando sto in questa casa, sembra che sia svanito, che abbia perso i suoi nitidi contorni. Sospetto che tutto quanto è successo non sia stato fortuito, ma che corrisponda a un destino disegnato prima della mia nascita ed Esteban García è parte di questo disegno. È un tratto rozzo e contorto, ma nessuna pennellata è inutile. Il giorno in cui mio nonno gettò a terra tra le erbacce del fiume sua nonna, Pancha García, aggiunse un altro anello a una catena di eventi che dovevano compiersi. Poi il nipote della donna violentata ripeté il gesto con la nipote del violentatore e tra quarant'anni può darsi che mio nipote getti a terra fra i cespugli del fiume la sua e così via, per i secoli a venire, in una storia interminabile di dolore, di sangue e di amore. Nella cella d'isolamento mi era parso di combinare un rompicapo in cui ogni pezzo ha un posto preciso. Prima di sistemarli tutti, mi sembrava incomprensibile, ma ero sicura che, se riuscivo a finirlo, avrei dato un senso a ciascuno e il risultato sarebbe stato armonioso. Ogni pezzo ha una ragione di essere così com'è, compreso il colonnello García. Ogni tanto ho la sensazione che questo l'ho già vissuto e che ho già scritto queste stesse parole, ma capisco che non sono io, bensì un'altra donna, che aveva preso appunti sui quaderni affinché io me ne servissi. Scrivo, lei ha scritto, che la memoria è fragile e il corso di una vita è molto breve e tutto avviene così in fretta, che non riusciamo a vedere il rapporto tra gli eventi, non possiamo misurare le conseguenze delle azioni, crediamo nella finzione del tempo, nel presente, nel passato, nel futuro, ma può anche darsi che tutto succeda simultaneamente, come dicevano le tre sorelle Mora, che erano capaci di vedere nello spazio gli spiriti di ogni epoca. Per questo mia nonna Clara scriveva nei suoi quaderni, per vedere le cose nella loro dimensione reale e per schernire la cattiva memoria. E adesso io cerco il mio odio e non riesco a trovarlo. Sento che si spegne a mano a mano che mi spiego l'esistenza del colonnello García e di altri come lui, che capisco mio nonno e vengo a conoscenza delle cose attraverso i quaderni di Clara, le lettere di mia madre, i libri contabili delle Tre Marie, e tanti altri documenti che ora stanno sul tavolo a portata di mano. Mi sarà molto difficile vendicare tutti quelli che devono essere vendicati, perché la mia vendetta sarebbe solo l'altra parte dello stesso rito inesorabile. Voglio limitarmi a pensare che il mio mestiere è la vita e che la mia missione non è protrarre l'odio, bensì unicamente riempire queste pagine mentre aspetto il ritorno di Miguel, mentre sotterro mio nonno che ora riposa vicino a me in questa stanza, mentre attendo che arrivino tempi migliori, tenendo in gestazione la creatura che ho nel ventre, figlia di tante violenze, o forse figlia di Miguel, ma soprattutto figlia mia.
Mia nonna aveva scritto per cinquant'anni sui quaderni in cui annotava la vita. Trafugati da qualche spirito complice, si sono miracolosamente salvati dal rogo infame, in cui sono perite tante altre carte della famiglia. Li ho qui, ai miei piedi, stretti da nastri colorati, separati per fatti e non per ordine cronologico, così come lei li ha lasciati prima di andarsene. Clara li ha scritti perché mi servissero ora per riscattare le cose del passato e sopravvivere al mio stesso terrore. Il primo è un quaderno di scuola di venti pagine, scritto con una delicata calligrafia infantile. Comincia così: "Barrabás arrivò in famiglia per via mare..."
FINE