Quella notte non riuscii a dormire. Nella mia mente si confondevano i due amori della mia vita, Rosa, quella dai capelli verdi, e Clara chiaroveggente, le due sorelle che avevo amato tanto. Al mattino decisi che se non le avevo avute in vita mi avrebbero almeno fatto compagnia nella morte, sicché tirai fuori dalla scrivania dei fogli di carta e mi misi a disegnare il mausoleo più bello e lussuoso, di marmo italiano color salmone, con statue dello stesso materiale che rappresentavano Rosa e Clara con ali d'angelo, perché angeli erano state e angeli continuavano a essere. Lì, fra di loro, un giorno sarei stato rinchiuso.

Desideravo morire il più presto possibile, perché la vita senza mia moglie non aveva senso per me. Non sapevo di avere ancora molto da fare in questo mondo. Per fortuna Clara è tornata, o forse non se n'era mai andata del tutto. Talvolta penso che la vecchiaia mi abbia confuso il cervello e che non si può ignorare che l'ho sepolta vent'anni fa. Ho il sospetto di avere delle visioni, come un vecchio matto. Ma quei dubbi svaniscono quando me la vedo passare accanto e sento la sua risata sulla terrazza, so che mi fa compagnia, che mi ha perdonato tutte le violenze passate e che mi è più vicina di quanto non lo sia mai stata prima. È sempre viva e sta con me, Clara chiarissima...

La morte di Clara trasformò completamente la vita nella grande casa dell'angolo. I tempi erano mutati. Con lei se n'erano andati gli spiriti, gli ospiti e quella luminosa allegria che era sempre presente, perché lei non credeva che il mondo fosse una Valle di lacrime, ma al contrario una burla di Dio, sicché era stupido prenderlo sul serio, se Lui stesso non lo faceva. Alba notò il deterioramento sin dai primi giorni. Lo vide avanzare lento ma inesorabile. Lo percepì prima di tutto dai fiori che marcivano nei vasi, impregnando l'aria di un odore dolciastro e nauseabondo, e lì rimasero sino a diventare secchi, persero le foglie, caddero e sopravvisse solo qualche gambo triste che nessuno tolse fino a molto tempo dopo. Alba non tagliò più fiori per rabbellire la casa. Poi morirono le piante perché nessuno si ricordava di annaffiarle né di parlar loro, come faceva Clara. I gatti se ne andarono in silenzio, così com'erano arrivati o erano nati negli interstizi del tetto. Esteban Trueba si vestì di nero e passò in una notte dalla sua vigorosa maturità di uomo pieno di salute a un'incipiente vecchiaia striminzita e balbettante, che non ebbe, tuttavia, il potere di quietargli l'ira. Portò il suo lutto stretto per il resto della vita, anche quando la cosa era passata di moda e nessuno vi badava più, tranne i poveri, che si legavano una fascia nera sulla manica in segno di dolore. Si appese al collo un sacchettino di camoscio attaccato a una catena d'oro, sotto la camicia, sopra il petto. Erano i denti posticci di sua moglie, che per lui avevano un significato di buona fortuna e di espiazione. Tutti in famiglia sentirono che senza Clara avevano perso la ragione di stare insieme: non avevano quasi nulla da dirsi. Trueba si rese conto che l'unica cosa a trattenerlo in casa era la presenza di sua nipote.

Col passare degli anni la casa si trasformò in una rovina. Nessuno si occupò più del giardino, di annaffiarlo o di pulirlo, finché non sembrò ingoiato dall'oblio, dagli uccelli e dalla malerba. Quel parco geometrico che Trueba aveva fatto costruire, sui disegni dei giardini dei palazzi francesi, e la zona incantata dove regnava Clara nel disordine e nell'abbondanza, nella lussuria dei fiori e nel caos dei filodendri, cominciarono a seccarsi, a marcire, a inselvatichirsi. Le statue cieche e le fontane canterine si coprirono di foglie secche, di escrementi d'uccelli e di muschio. Le pergole, rotte e sudicie, si trasformarono in un rifugio per gli insetti e in un immondezzaio per i vicini. Il parco divenne una fitta boscaglia da villaggio abbandonato, dove non si poteva passare senza doversi aprire il cammino a colpi di roncola. Il bosso, che prima veniva potato con pretese barocche, finì tristemente, contratto e tormentato dalle lumache e dai parassiti. Nelle sale, a poco a poco le tende si staccarono dai loro ganci e rimasero ciondolanti come sottovesti di vecchia, polverose e stinte. I mobili, calpestati da Alba che vi giocava per costruirsi rifugi e trincee, si trasformarono in cadaveri con le gambe all'aria e il grande arazzo del salotto perse la sua bellissima alterigia di scena bucolica alla Versailles e venne usato come bersaglio delle frecce di Nicolás e di sua nipote. La cucina si coprì di unto e di fuliggine, si riempì di vasi vuoti e di pile di giornali e smise di produrre le grandi terrine di marmellata di latte e gli stufati profumati di un tempo. Gli abitanti della casa si rassegnarono a mangiare ceci e riso e latte quasi ogni giorno, perché nessuno osava affrontare la sequela di cuoche piene di verruche, adirate e dispotiche che regnarono a turno tra le casseruole annerite dal cattivo uso. I terremoti, gli sbatacchi e il bastone di Esteban Trueba aprirono crepe nei muri e scheggiarono le porte, le persiane si sganciarono dai cardini e nessuno prese l'iniziativa di ripararle. Cominciarono a gocciolare i rubinetti, i tubi dell'acqua a perdere, le tegole a rompersi, macchie verdastre ad apparire sui muri. Solo la stanza tappezzata d'azzurro di Clara si mantenne intatta. Dentro rimasero i mobili di legno chiaro, due vestiti di cotone bianco, la gabbia vuota del canarino, il cesto con i lavori a maglia incompiuti, le sue carte magiche, il tavolino a tre gambe e la pila di quaderni in cui aveva annotato la vita per cinquant'anni e che molto tempo dopo, nella solitudine della casa vuota e nel silenzio dei morti e degli scomparsi, io riordinai e lessi con raccoglimento per ricostruire questa storia.

Jaime e Nicolás persero lo scarso interesse che nutrivano per la famiglia e non ebbero compassione per il padre, che nella sua solitudine aveva cercato inutilmente d'instaurare con loro un'amicizia che colmasse il vuoto lasciato da una vita di cattivi rapporti. Abitavano in casa perché non avevano un posto più comodo dove mangiare e dormire, ma passavano come ombre indifferenti, senza soffermarsi a guardare lo sfacelo. Jaime esercitava la sua professione ispirato come un apostolo e, con la stessa tenacia con cui suo padre aveva sottratto all'abbandono le Tre Marie e aveva accumulato una fortuna, logorava le sue forze lavorando all'ospedale e curando i poveri gratuitamente durante le ore libere.

Lei è un perdente senza scampo, figliolo sospirava Esteban Trueba. Non ha il senso della realtà. Non si è ancora reso conto di com'è fatto il mondo. Punta su valori utopici che non esistono.

Aiutare il prossimo è un valore che esiste, papà.

No, la carità, come il suo socialismo, è un'invenzione dei deboli per piegare e utilizzare i forti.

Non credo nella sua teoria dei forti e dei deboli replicava Jaime.

In natura è sempre così. Viviamo nella giungla.

Sì, perché quelli che stabiliscono le regole la pensano come lei, ma non sarà sempre così.

Lo sarà, perché siamo dei trionfatori. Sappiamo sbrigarcela nel mondo ed esercitare il potere. Mi dia retta, figliolo, rinsavisca e metta su una clinica privata, io l'aiuterò. Ma la finisca con le sue stravaganze socialiste! predicava Esteban Trueba senza alcun risultato.

Dopo la scomparsa di Amanda dalla sua vita, Nicolás sembrò essersi stabilizzato emozionalmente. Le sue esperienze in India gli avevano lasciato il gusto delle imprese spirituali. Aveva abbandonato le sue fantasiose avventure commerciali che gli avevano sconvolto l'immaginazione durante i primi anni della sua giovinezza, così come il desiderio di possedere tutte le donne che gli passavano davanti, e si era consacrato all'ansia che aveva sempre avuto di trovare Dio seguendo strade meno convenzionali. Lo stesso fascino, che prima aveva usato nella ricerca di alunne per il suo ballo flamengo, gli servì per radunare intorno a sé un numero crescente di adepti. Erano in genere giovani annoiati di vivere bene, che giravano come lui in cerca di una filosofia che permettesse loro di esistere senza essere coinvolti dai turbamenti terreni. Si formò un gruppo desideroso di assimilare le millenarie conoscenze che Nicolás aveva acquisito in Oriente. In quel periodo, si riunirono nelle stanze posteriori della parte abbandonata della casa, dove Alba distribuiva noci e serviva infusi di erbe, mentre loro meditavano con le gambe incrociate. Quando Esteban Trueba si rese conto che alle sue spalle circolavano i coetanei e gli eponimi intenti a respirare con l'ombelico e a togliersi i vestiti al minimo invito, perse la pazienza e li cacciò via minacciandoli col bastone e con la polizia. Allora Nicolás capì che senza denaro non poteva continuare a insegnare la Verità, sicché cominciò a farsi pagare modesti onorari per i suoi insegnamenti. Grazie a questi riuscì ad affittare una casa dove installò la sua accademia d'illuminati. Per esigenze legali e per la necessità di avere un nome giuridico, la chiamò Istituto di Unione col Nulla, IDUN. Ma suo padre non era disposto a lasciarlo in pace, perché i seguaci di Nicolás cominciarono a comparire fotografati sui giornali, con la testa rasata, con perizoma indecenti e con un'espressione beata, mettendo in ridicolo il nome dei Trueba. Non appena si seppe che il profeta dell'IDUN era figlio del senatore Trueba, l'opposizione sfruttò la cosa per metterlo in ridicolo, usando la ricerca spirituale del figlio come un'arma politica contro il padre. Trueba sopportò stoicamente fino al giorno in cui vide sua nipote Alba con la testa rapata come una palla da biliardo che ripeteva instancabilmente la parola sacra Om. Ebbe uno dei più terribili accessi d'ira. Entrò d'improvviso nell'istituto di suo figlio, insieme a due bravacci assunti a tal fine, che distrussero a pugni lo scarso mobilio e per poco non fecero lo stesso con i pacifici coetanei, finché il vecchio, comprendendo che una volta ancora aveva passato la misura, non ordinò loro d'interrompere lo scempio e di aspettarlo fuori. Da solo con suo figlio, riuscì a dominare il tremito furibondo che si era impossessato di lui, per masticargli con voce trattenuta che era ormai stufo delle sue buffonate.

Non voglio rivederla più finché non saranno ricresciuti i capelli a mia nipote! aggiunse prima di andarsene con un ultimo sbatacchio di porta.

Il giorno dopo Nicolás reagì. Dapprima sbarazzò i rottami che avevano lasciato i bravacci di suo padre e ripulì il locale, mentre respirava ritmicamente per eliminare dal suo intimo ogni traccia di collera e purificare il suo spirito. Poi, con i suoi discepoli coperti dai loro perizoma e reggendo cartelloni sui quali esigevano libertà di culto e rispetto per i loro diritti di cittadini, marciarono fino alle cancellate del Congresso. Lì estrassero fischietti di legno, campanelli e piccoli gong improvvisati, con i quali fecero una gazzarra che bloccò il traffico. Quando si fu riunito un pubblico sufficiente, Nicolás cominciò a togliersi tutti gli indumenti e, nudo come un neonato, si sdraiò in mezzo alla strada con le braccia aperte in croce. Ci fu una tale confusione di frenate, clacson, strilli e fischi, che l'allarme raggiunse l'interno dell'edificio. Nel senato fu interrotta la seduta in cui si discuteva il diritto dei proprietari terrieri di recingere con filo spinato le strade vicinali, e i congressisti uscirono sul balcone a godersi l'inusitato spettacolo del figlio del senatore Trueba che cantava salmi asiatici completamente nudo. Esteban Trueba scese di corsa per le ampie scalinate del Congresso e si scagliò in strada pronto ad ammazzare suo figlio, ma non riuscì ad attraversare l'inferriata perché sentì che il cuore gli esplodeva in petto e un velo rosso gli annebbiava la vista. Cadde a terra.

Nicolás se lo portò via il furgone dei carabinieri e la Croce Rossa si portò via su un'ambulanza il senatore Trueba. Il malore di Trueba durò tre settimane e per poco non lo spedì all'altro mondo. Quando riuscì a scendere dal letto, afferrò suo figlio Nicolás per il collo, lo cacciò su un aereo e lo mandò all'estero, con l'ordine di non ricomparirgli davanti agli occhi per il resto della sua vita. Gli diede, tuttavia, abbastanza denaro perché potesse sistemarsi e sopravvivere a lungo, dato che, come aveva spiegato a Jaime, questo era l'unico modo per evitargli di fare altre follie che potessero minare il suo prestigio anche all'estero.

Negli anni successivi Esteban Trueba veniva informato sulla pecora nera della famiglia attraverso la sporadica corrispondenza che Blanca intratteneva con lui. Venne così a sapere che Nicolás aveva formato in Nordamerica un'altra accademia per unirsi al nulla, con tale successo da raggiungere la ricchezza che non aveva ottenuto sollevandosi in pallone o confezionando tramezzini. Faceva lavacri insieme ai suoi discepoli in una piscina personale di porcellana rosa, tra il rispetto della cittadinanza, combinando, senza esserselo proposto, la ricerca di Dio con la buona fortuna negli affari. Esteban Trueba, naturalmente, non vi credette mai.

Il senatore aspettò che i capelli di sua nipote crescessero un po' perché non si pensasse che aveva la rogna, e andò di persona a iscriverla in un collegio inglese per signorine, perché continuava a credere che quella era la migliore educazione, nonostante i risultati contraddittori che aveva ottenuto con i suoi due figli. Blanca si era mostrata d'accordo, perché aveva capito che non era sufficiente una buona congiunzione di pianeti nella sua carta astrale, perché Alba riuscisse nella vita. Al collegio Alba imparò a mangiare verdure bollite e riso tostato, a sopportare il freddo del cortile, a cantare inni e a rinunciare a tutte le vanità del mondo, tranne quelle di genere sportivo. Le insegnarono a leggere la Bibbia, a giocare a tennis e a scrivere a macchina. Quest'ultima fu l'unica cosa utile che le lasciarono quei lunghi anni in terra straniera. Per Alba che aveva vissuto fino ad allora senza avere sentito parlare di peccato né di buone maniere da signorina, ignorando il limite tra l'umano e il divino, il possibile e l'impossibile, vedendo passare per i corridoi uno zio nudo che faceva esercizi di karate e un altro sepolto sotto una montagna di libri, suo nonno che distruggeva a bastonate i telefoni e i vasi della terrazza, sua madre che se la squagliava con la sua valigetta da pagliaccio e sua nonna che muoveva il tavolino a tre gambe e suonava Chopin senza aprire il piano, la vita del collegio era sembrata insopportabile. Durante le lezioni si annoiava. A ricreazione si sedeva nell'angolo più lontano e discreto del cortile, per non essere vista, tremando dal desiderio che la invitassero a giocare e pregando al tempo stesso che nessuno la notasse. Sua madre l'aveva avvisata di non provare a spiegare alle sue compagne quello che aveva visto sulla natura umana nei libri di medicina di suo zio Jaime, e di non parlare nemmeno alle maestre dei vantaggi dell'esperanto sulla lingua inglese. Malgrado queste cautele, la direttrice del collegio non ebbe difficoltà a scoprire, sin dai primi giorni, le stravaganze della nuova alunna. La osservò per un paio di settimane e, quando fu sicura della diagnosi, chiamò Blanca Trueba nel suo ufficio e le spiegò, nel modo più cortese possibile, che la bambina sfuggiva completamente ai limiti abituali della formazione britannica e le suggerì di metterla in un collegio di suore spagnole, dove avrebbero forse potuto dominare la sua immaginazione lunatica e correggere la sua pessima educazione. Ma il senatore Trueba non era disposto a farsi confondere da una miss Saint John qualunque, e fece valere tutto il peso della sua influenza affinché la nipote non venisse espulsa. Voleva ad ogni costo che imparasse l'inglese. Era convinto della superiorità dell'inglese sullo spagnolo, che considerava una lingua di second'ordine, adatta agli usi domestici e alla magia, alle passioni incontrollate e alle imprese utili, ma inadeguata al mondo della scienza e della tecnica, in cui sperava di veder trionfare Alba. Aveva finito per accettare vinto dalla ventata dei tempi nuovi che talune donne non erano del tutto idiote e pensava che Alba, troppo insignificante per trovare un marito di buona posizione, avrebbe potuto imparare un mestiere e guadagnarsi la vita come un uomo. Su questo punto Blanca aveva appoggiato suo padre, perché aveva sperimentato sulla sua pelle i risultati di una cattiva preparazione scolastica per affrontare la vita.

Non voglio che tu sia povera come me, né che tu debba dipendere da un uomo per farti mantenere diceva a sua figlia ogni volta che la vedeva piangere perché non voleva andare a scuola.

Non la tolsero dal collegio e dovette sopportarlo per dieci anni consecutivi.

Per Alba, l'unica persona stabile, in quella nave alla deriva in cui si era trasformata la grande casa dell'angolo dopo la morte di Clara era sua madre. Blanca lottava contro lo sfacelo e la decadenza con la ferocia di una leonessa, ma era evidente che avrebbe perso la lotta contro l'avanzata del deteriore. Solo lei cercava di dare al casermone l'aspetto di un focolare. Il senatore Trueba continuava ad abitare lì, ma aveva smesso d'invitare i suoi amici, e le relazioni politiche, avevano chiuso il salotto, occupava solo la biblioteca e la sua camera. Era cieco e sordo ai bisogni della casa. Molto preso dalla politica e dagli affari, viaggiava di continuo, sovvenzionava nuove campagne elettorali, comprava terre e trattori, allevava cavalli da corsa, speculava sul prezzo dell'oro, dello zucchero e della carta. Non si rendeva conto che le pareti della sua casa avevano bisogno di una mano di pittura, che i mobili erano sgangherati e la cucina trasformata in un letamaio e non vedeva nemmeno i maglioni di lana infeltrita di sua nipote né i vestiti antiquati di sua figlia o le sue mani distrutte dal lavoro domestico e dall'argilla. Non si comportava così per avarizia; la sua famiglia aveva semplicemente smesso di interessargli. Talvolta si scrollava la distrazione di dosso e arrivava con qualche regalo sproporzionato e meraviglioso per sua nipote, che si limitava ad aumentare il contrasto tra la ricchezza invisibile dei conti in banca e l'austerità della casa. Dava a Blanca somme variabili, ma mai sufficienti, destinate a tenere in piedi quel casermone sconquassato e buio, quasi vuoto e attraversato da correnti d'aria, in cui era degenerata la dimora di un tempo. A Blanca non bastava mai il denaro per le spese e viveva chiedendo prestiti a Jaime, e per quanto limitasse il bilancio da una parte e lo rimpannucciasse dall'altra, a fine mese aveva sempre un fascio di conti insoluti che si andavano accumulando, finché non prendeva la decisione di andare nel quartiere dei gioiellieri ebrei a vendere qualcuno dei preziosi, che un quarto di secolo prima erano stati comprati proprio lì e che Clara aveva riposto in un calzerotto di lana.

In casa, Blanca girava con grembiule e pantofole di corda, confondendosi con la scarsa servitù che rimaneva, e per uscire usava lo stesso tailleur nero stirato e ristirato, con la sua blusa di seta bianca. Dopo che suo nonno era rimasto vedovo e aveva smesso di occuparsi di lei, Alba si vestiva con quello che ereditava da qualche cugina lontana, che era più grande o più piccola di lei, sicché i cappotti le stavano come cappotti militari e i vestiti corti e stretti. Jaime avrebbe voluto fare qualcosa per lei, ma la sua coscienza gli suggeriva che era meglio spendere le sue entrate dando da mangiare agli affamati, piuttosto che lusso alla sorella e alla nipote.

Dopo la morte di sua nonna, Alba cominciò ad avere degli incubi che la risvegliavano urlante e febbricitante. Sognava che morivano tutti i membri della sua famiglia e che lei rimaneva a vagare da sola nella grande casa, senz'altra compagnia che i tenui fantasmi scoloriti che giravano lungo i corridoi. Jaime suggerì di trasferirla nella stanza di Blanca, affinché stesse più tranquilla. Da quando cominciò a dividere la camera da letto con sua madre, aspettava con segreta impazienza il momento di andare a letto. Rannicchiata fra le lenzuola, la seguiva nei suoi movimenti di fine giornata finché non s'infilava a letto. Blanca si puliva la faccia con Crema dell'Harem, un grasso roseo dal profumo di rosa, che aveva fama di fare miracoli per la pelle femminile, e si spazzolava cento volte i suoi lunghi capelli castani che cominciavano ad avere qualche filo bianco invisibile a tutti ma non a lei. Era sensibile ai raffreddori, perciò d'inverno e d'estate dormiva con camiciole di lana che lei stessa confezionava a maglia nei momenti liberi. Quando pioveva si copriva le mani con guanti, per mitigare il freddo polare che le si era infilato nelle ossa per via dell'umidità dell'argilla e che tutte le iniezioni di Jaime e l'agopuntura di Nicolás non erano servite a guarire. Alba l'osservava andare e venire per la stanza, col suo camicione da novizia che le fluttuava intorno al corpo, i capelli sciolti dalla crocchia, avvolta nella dolce fragranza dei suoi indumenti puliti e della Crema dell'Harem, smarrita in un monologo incoerente in cui si mescolavano le lagnanze per il prezzo della verdura, il resoconto dei suoi molteplici malesseri, la stanchezza di reggere sulle spalle il peso della casa, e le sue fantasie poetiche con Pedro Terzo García, che immaginava tra le nuvole della sera o ricordava tra i dorati campi di grano delle Tre Marie. Terminato il suo rituale, Blanca s'infilava nel letto e spegneva la luce. Attraverso lo stretto spazio che le separava, prendeva la mano di sua figlia e le raccontava le storie dei libri magici dei bauli incantati del prozio Marcos, ma che la sua cattiva memoria trasformava in nuovi racconti. Così Alba venne a conoscenza di un principe che aveva dormito cent'anni, di damigelle che lottavano a corpo a corpo con i draghi, di un lupo perduto nel bosco al quale una bambina aprì la pancia senza motivo. Quando Alba voleva sentire di nuovo quelle truculenze, Blanca non poteva ripeterle, perché le aveva dimenticate, sicché la piccola aveva preso l'abitudine di scriverle. Annotava poi anche le cose che le sembravano importanti, così come aveva fatto sua nonna Clara.

I lavori del mausoleo cominciarono poco dopo la morte di Clara, ma durarono quasi due anni, perché vi andavo aggiungendo nuovi e costosi particolari: lapidi dai caratteri gotici in oro, una cupola di vetro perché vi entrasse il sole e un ingegnoso meccanismo copiato dalle fontane romane, che permetteva d'irrigare in modo costante e misurato un minuscolo giardino interno, dove feci piantare rose e camelie, i fiori preferiti dalle sorelle che mi avevano preso il cuore. Le statue furono un problema. Rifiutai vari disegni, perché non volevo degli angeli cretini, bensì i ritratti di Rosa e Clara, con i loro volti, le loro mani, la loro grandezza reale. Uno scultore uruguayano riuscì a soddisfarmi e le statue divennero infine come io le volevo. Quando fu pronto, m'imbattei in un ostacolo imprevisto: non riuscii a trasferire Rosa nel nuovo mausoleo, perché la famiglia del Valle si opponeva. Cercai di convincerli con ogni sorta di argomenti, facendo pesare anche il potere politico, ma fu tutto inutile. I miei cognati si mantennero inflessibili. Credo che fossero venuti a sapere della testa di Nivea ed erano offesi con me, che l'avevo tenuta in cantina per tutto quel tempo. Di fronte alla loro cocciutaggine, chiamai Jaime e gli dissi di prepararsi ad accompagnarmi al cimitero per rubare il cadavere di Rosa. Non mostrò alcuna sorpresa.

Se non è con le buone, sarà con le cattive spiegai a mio figlio.

Come succede in questi casi, andammo di notte e corrompemmo il guardiano, così come avevo fatto molto tempo prima, per rimanere con Rosa la prima notte che lei trascorse lì. Entrammo con i nostri attrezzi per il viale dei cipressi, cercammo la tomba della famiglia del Valle e ci impegnammo nella lugubre fatica di aprirla. Smuovemmo con attenzione la lapide che proteggeva il riposo di Rosa e togliemmo dalla nicchia la bianca bara, che era molto più pesante di quello che avevamo pensato, sicché fummo costretti a chiedere al guardiano di aiutarci. Lavorammo scomodi nello stretto spazio, intralciandoci reciprocamente con gli attrezzi, male illuminati da una lampada ad acetilene. Poi ricollocammo la lapide nella nicchia, affinché nessuno sospettasse che era vuota. Alla fine sudavamo. Jaime aveva avuto la precauzione di portare una borraccia con dell'acquavite e ne bevemmo un sorso per farci coraggio. Anche se nessuno di noi due era superstizioso, quella necropoli di croci, cupole e lapidi ci innervosiva. Io mi sedetti sulla soglia della tomba per riprendere fiato e pensai che ormai non ero più giovane se muovere una cassa mi faceva perdere il ritmo del cuore e vedere puntini che brillavano nel buio. Chiusi gli occhi e mi ricordai di Rosa, del suo viso perfetto e della sua pelle di latte, dei suoi capelli da sirena dell'oceano, dei suoi occhi di miele che suscitavano tumulti, delle sue mani intrecciate al rosario di madreperla, della sua corona da sposa. Sospirai evocando quella vergine bellissima che mi era sfuggita di mano e che era rimasta lì, in tutti quegli anni, ad attendere che io andassi a prenderla e a portarla nel posto dove doveva stare.

Figlio, apriamola. Voglio vedere Rosa dissi a Jaime.

Non tentò di dissuadermi, perché conosceva il mio tono quando la decisione era irrevocabile. Sistemammo la luce della lampada, lui tolse con pazienza le viti di bronzo che il tempo aveva annerito e riuscimmo a sollevare il coperchio, che pesava come fosse stato di piombo. Alla bianca luce dell'acetilene vidi Rosa, la bella, con le sue zagare da sposa, i suoi capelli verdi, la sua imperturbabile bellezza, così come avrei potuto vederla anni prima, distesa nel suo feretro bianco, sul tavolo della sala da pranzo dei miei suoceri. Rimasi a guardarla affascinato, senza stupirmi che il tempo non l'avesse toccata, perché era la stessa dei miei sogni. Mi chinai e deposi attraverso il vetro che copriva il suo volto, un bacio sulle labbra pallide dell'infinitamente amata. In quel momento un soffio di vento avanzò strisciando tra i cipressi, entrò a tradimento in qualche fessura della bara che fino ad allora era rimasta ermeticamente chiusa e in un attimo la fidanzata immutabile si disfece come d'incanto, si disintegrò in una polverina tenue e grigia. Quando alzai la testa e aprii gli occhi, col bacio freddo ancora sulle labbra, Rosa, la bella, non c'era più. Al suo posto c'era un teschio con le orbite vuote, qualche striscia di pelle color avorio attaccata agli zigomi e qualche ciocca di crine ammuffito sul cranio.

Jaime e il guardiano chiusero il coperchio precipitosamente, misero Rosa su un carretto e la portarono nel posto che le era riservato vicino a Clara nel mausoleo color salmone. Rimasi seduto su una tomba nel viale dei cipressi, a guardare la luna.

Férula aveva ragione pensai. Sono rimasto solo e mi si stanno rimpicciolendo il corpo e l'anima. Mi manca solo di morire come un cane.

 

Il senatore Trueba lottava contro i suoi nemici politici, che ogni giorno avanzavano sempre più verso la conquista del potere. Mentre altri dirigenti del Partito Conservatore ingrassavano, invecchiavano e sprecavano il tempo fra interminabili discussioni bizantine, lui s'impegnava a lavorare, a studiare e a percorrere il paese da Nord a Sud, in una campagna personale che non finiva mai, senza preoccuparsi affatto dei suoi anni né del sordo rumore delle sue ossa. Lo rieleggevano senatore a ogni elezione parlamentare. Ma non era interessato al potere, alla ricchezza o al prestigio. La sua ossessione era distruggere quanto chiamava "il cancro marxista", che stava infiltrandosi a poco a poco nel popolo.

Basta sollevare una pietra e spunta un comunista diceva.

Nessuno più credeva in lui. Neppure gli stessi comunisti. Lo schernivano un po', per i suoi scoppi di cattivo umore, il suo aspetto da corvo a lutto, il suo bastone anacronistico e le sue previsioni apocalittiche. Quando sbandierava sotto il loro naso le statistiche e i risultati reali delle ultime votazioni, i suoi correligionari temevano che fossero ciance da vecchio.

Il giorno in cui non potremo più mettere le mani sulle urne prima che contino i voti, finiremo a remengo! sosteneva Trueba.

Da nessuna parte i marxisti hanno vinto alle votazioni popolari. Ci vuole almeno una rivoluzione e in questo paese simili cose non succedono gli spiegavano.

Finché un giorno non succederanno aggiungeva Trueba frenetico.

Calmati, per Dio. Non permetteremo mai che succeda lo consolavano. Il marxismo non ha la minima possibilità in America Latina. Non vedi che non contempla il lato magico delle cose? è una dottrina atea, pratica e funzionale. Qui non può avere successo.

Neppure lo stesso colonnello Hurtado, che vedeva nemici della patria dovunque, considerava i comunisti un pericolo. Gli aveva fatto vedere più di una volta che il Partito Comunista era composto da quattro pelagatti che non significavano statisticamente niente e che si reggevano grazie all'appoggio di Mosca con un'incoscienza degna di miglior causa.

Mosca si trova in capo al mondo, Esteban. Non hanno idea di quello che capita in questo paese diceva il colonnello Hurtado. Non tengono conto delle condizioni del nostro paese, la prova è che sono più sperduti di Cappuccetto Rosso. Poco tempo fa hanno pubblicato un manifesto chiamando i contadini, i marinai e gli indigeni a far parte del primo soviet nazionale, cosa che, sotto ogni punto di vista, è una pagliacciata. Come fanno a sapere i contadini cos'è un soviet! E i marinai stanno sempre in alto mare e sono più interessati ai bordelli degli altri porti che alla politica. E gli indigeni! Non ne rimangono duecento in tutto. Non credo che siano sopravvissuti al massacro del secolo scorso, ma se vogliono formare un soviet nelle loro riserve, lo facciano pure scherzava il colonnello.

Sì, ma oltre ai comunisti ci sono i socialisti, i radicali e altri gruppuscoli! Sono tutti più o meno la stessa cosa rispondeva Trueba.

Per il senatore Trueba ogni partito politico, tranne il suo, era potenzialmente marxista e non poteva distinguere chiaramente l'ideologia degli uni e degli altri. Non esitava a esporre la sua posizione in pubblico ogni volta che ne aveva l'occasione, sicché per tutti, meno che per i suoi partigiani, il senatore Trueba divenne una specie di pazzo reazionario e oligarca, molto pittoresco. Il Partito Conservatore doveva frenarlo, affinché non dicesse spropositi e li mettesse tutti alla berlina. Era il paladino furibondo disposto a dar battaglia nei fori, tra le rotative della stampa, nelle università; dove nessuno osava più mostrare la faccia, lì c'era l'imperturbabile nel suo vestito nero, con la sua chioma leonina e il suo bastone d'argento. Era il bersaglio dei caricaturisti, che a forza di burlarsi di lui l'avevano reso popolare e in tutte le elezioni faceva incetta dei voti dei conservatori. Era fanatico, violento, antiquato, ma rappresentava meglio di chiunque altro i valori della famiglia, della tradizione, della proprietà e dell'ordine. Tutti lo riconoscevano per strada, inventavano barzellette su di lui e correvano di bocca in bocca gli aneddoti che gli attribuivano. Dicevano che, durante il suo attacco cardiaco, quando suo figlio si era spogliato davanti alle porte del Congresso, il Presidente della repubblica l'aveva chiamato nel suo ufficio per offrirgli l'ambasciata in Svizzera, dove avrebbe potuto avere un incarico adatto ai suoi anni che gli avrebbe permesso di rimettersi in sesto. Dicevano che il senatore Trueba aveva risposto con un pugno sulla scrivania della prima autorità, rovesciando la bandiera nazionale e il busto del Padre della Patria.

Di qui non me ne vado neanche morto, eccellenza! aveva ruggito. Perché se non ci sto attento io i marxisti le toglieranno la seggiola su cui sta seduto!

Ebbe l'intuito di essere il primo a chiamare la sinistra "nemica della democrazia", senza sospettare che anni dopo quello sarebbe stato il lemma della dittatura. Occupava quasi tutto il suo tempo e una buona parte della sua fortuna nella lotta politica. Notò che, sebbene stesse organizzando sempre nuovi affari, questa sembrava andar calando dopo la morte di Clara, ma non si allarmò perché aveva pensato che nell'ordine naturale delle cose stava il fatto irrefutabile che lei era stata un soffio di buona fortuna, ma che poteva goderne ancora dopo la sua morte. Inoltre aveva calcolato che con quanto possedeva poteva vivere come un uomo ricco per tutto il tempo che gli restava in questo mondo. Si sentiva vecchio, riteneva che nessuno dei suoi tre figli meritasse di avere la sua eredità e che sua nipote sarebbe stata al sicuro con le Tre Marie, sebbene i campi non fossero più così prosperi come prima. Grazie alle nuove strade e alle automobili, quando prima era un safari in treno, il percorso si era ridotto a sole sei ore di viaggio dalla capitale alle Tre Marie, ma lui era sempre occupato e non trovava mai un momento per recarvisi. Di tanto in tanto chiamava l'amministratore per farsi esporre i conti, ma queste visite lo lasciavano con una risacca di malumore per diversi giorni. Il suo amministratore era un uomo sconfitto dal suo stesso pessimismo. Le sue notizie erano una serie d'infortuni casuali: le fragole erano gelate, le galline avevano un'epidemia di pipita, aveva grandinato sull'uva. Così la campagna, che era stata fonte della sua ricchezza, si era trasformata in un peso e il senatore Trueba doveva di continuo sottrarre denaro da altri affari per puntellare quella terra insaziabile che sembrava avere voglia di tornare ai tempi dell'abbandono, prima che lui l'avesse riscattata dalla miseria.

Devo andare a fare ordine. Laggiù manca l'occhio del padrone mormorava.

Le cose sono molto cambiate in campagna, padrone l'aveva spesso avvertito l'amministratore. I contadini hanno molte pretese. Ogni giorno esigono nuove cose. Si direbbe che vogliono vivere come i padroni. È meglio vendere la proprietà.

Ma Trueba non voleva sentir parlare di vendere. "La terra è l'unica cosa che rimane quando tutto finisce", ripeteva allo stesso modo di quando aveva venticinque anni e sua madre e sua sorella premevano su di lui per lo stesso motivo. Ma, col peso degli anni e del lavoro politico, le Tre Marie, come molte altre cose che prima gli sembravano fondamentali, avevano smesso d'interessargli. Avevano solo un valore simbolico per lui.

L'amministratore aveva ragione: le cose erano molto cambiate in quegli anni. Così andava predicando la voce di velluto di Pedro Terzo García, che grazie al miracolo della radio arrivava nei più reconditi angoli del paese. A trenta e più anni continuava ad avere l'aspetto di un rude contadino, per un fatto di stile, visto che l'esperienza della vita e il successo gli avevano smussato le asprezze e raffinato le idee. Portava una barba da montanaro e una chioma da profeta che lui stesso si recideva, quando se ne ricordava, con un rasoio che era appartenuto a suo padre, anticipando di vari anni la moda che fece poi furore tra i cantanti di protesta. Si vestiva con pantaloni di tela grezza, sandali di corda artigianali e d'inverno si gettava addosso una mantella di lana ruvida. Era la sua tenuta da battaglia. Così si presentava sulle scene e così appariva ritratto sulle copertine dei dischi. Deluso dalle organizzazioni politiche, finì per distillare tre o quattro idee fondamentali su cui fondò la sua filosofia. Era un anarchico. Dopo le galline e le volpi si era messo a cantare la vita, l'amicizia, l'amore e anche la rivoluzione. La sua musica era molto popolare e solo qualcuno, testardo come il senatore Trueba, riuscì a ignorarne l'esistenza. Il vecchio aveva proibito la radio in casa sua, per evitare che sua nipote ascoltasse le commedie e i romanzi d'appendice in cui le madri perdono i figli e li ritrovano anni dopo, e per evitare anche l'eventualità che le canzoni sovversive del suo nemico gli rovinassero la digestione. Aveva una radio moderna nella sua stanza, ma ascoltava solo i notiziari. Non sospettava che Pedro Terzo García fosse il miglior amico di suo figlio Jaime, né che si vedesse con Blanca ogni volta che lei usciva con la sua valigia da pagliaccio balbettando scuse. E non sapeva neppure che durante qualche domenica soleggiata portava Alba ad arrampicarsi sulle colline, si sedeva con lei in cima a osservare la città e a mangiare pane e formaggio, e prima di lasciarsi cadere rotolando lungo le pendici, scoppiando di risate come cuccioli felici, le parlava dei poveri, degli oppressi, dei disperati e di altre cose che Trueba avrebbe preferito che sua nipote ignorasse.

Pedro Terzo vedeva crescere Alba e faceva in modo di starle vicino, ma non era mai riuscito a considerarla realmente sua figlia perché Blanca su questo punto era stata inflessibile. Diceva che Alba aveva dovuto sopportare molte scosse e che era un miracolo che fosse una creatura relativamente normale, sicché non era il caso di aggiungerle altri motivi di confusione riguardo alla sua origine. Era meglio che crescesse seguendo la versione ufficiale e, d'altra parte, non voleva correre il rischio che parlasse della faccenda con suo nonno, provocando una catastrofe. Comunque, lo spirito libero e contestatario della bambina piaceva a Pedro Terzo.

Se non è figlia mia, merita di esserlo diceva orgoglioso.

In tutti quegli anni, Pedro Terzo non riuscì mai ad abituarsi alla sua vita di scapolo, nonostante il suo successo con le donne, specialmente le splendide adolescenti in cui i lamenti della sua chitarra suscitavano amore. Alcune s'introducevano a viva forza nella sua vita. Lui aveva bisogno della freschezza di quegli amori. Cercava di farle felici per un tempo brevissimo, ma dopo il primo momento d'illusione, cominciava ad allontanarle, finché, alla fine, non le abbandonava con delicatezza. Spesso, quando ne aveva nel letto una che sospirava nel sonno al suo lato, chiudeva gli occhi e pensava a Blanca, al suo ampio corpo maturo, ai suoi seni abbondanti e tiepidi, alle rughe sottili della sua bocca, all'ombra dei suoi occhi arabi e sentiva un grido opprimergli il petto. Cercò di rimanere insieme ad altre donne, percorse molte strade e molti corpi per allontanarsi da lei, ma nel momento più intimo, nel punto preciso della solitudine e del presagio della morte, era sempre Blanca l'unica. La mattina successiva cominciava il sottile processo per liberarsi della nuova innamorata e, non appena si trovava libero, tornava da Blanca, più magro, più segnato in volto, più colpevole, con una nuova canzone composta alla chitarra e altre inestinguibili carezze per lei.

Blanca, invece, si era abituata a vivere da sola. Finì per trovare pace nelle incombenze della grande casa, nel suo laboratorio di ceramica e nei suoi presepi di animali inventati, in cui l'unica cosa che rispettava le leggi della biologia era la Sacra Famiglia smarrita fra una ressa di mostri. L'unico uomo della sua vita era Pedro Terzo, perché propendeva per un solo amore. La forza di questo inalterabile sentimento la salvò dalla mediocrità e dalla tristezza del suo destino. Rimaneva fedele anche quando lui si perdeva dietro a qualche ninfa dai capelli lisci e dalle ossa lunghe, senza amarlo di meno per questo. All'inizio credeva di morire ogni volta che si allontanava, ma si era subito resa conto che le sue assenze duravano quanto un sospiro e che invariabilmente ritornava più innamorato e più dolce. Blanca preferiva quegli incontri furtivi col suo amante negli alberghi a ore, alla quotidianità della vita in comune, alla stanchezza di un matrimonio e alla pesantezza d'invecchiare insieme dividendo la penuria del fine mese, il cattivo odore in bocca al risveglio, la noia delle domeniche e gli acciacchi dell'età. Era un'incurabile romantica. Talvolta aveva avuto la tentazione di prendere la sua valigia da pagliaccio e quanto rimaneva dei gioielli nel calzerotto, e andarsene con sua figlia a vivere con lui, ma si bloccava sempre. Ogni tanto aveva paura che quel grande amore, che aveva sopportato tante prove, non avrebbe saputo sopravvivere alla più terribile di tutte: la convivenza. Alba stava crescendo molto in fretta e capiva che non le sarebbe durata molto la scusa di vegliare su sua figlia per rinviare le esigenze del suo amante, ma preferiva lasciare la decisione per più avanti. In realtà, così come temeva l'abitudine, la inorridiva lo stile di vita di Pedro Terzo, la sua modesta casetta di legno e zinco in un quartiere operaio, fra altre cento povere quanto la sua, con pavimento di terra battuta senz'acqua e solo una pompa che scendeva dal tetto. Per accontentarla lui era andato via dal quartiere e si era trasferito in un appartamento del centro, ascendendo così, senza proporselo, a una classe media alla quale non aveva mai aspirato di appartenere. Ma nemmeno questo era stato sufficiente per Blanca. L'appartamento le era parso sordido, buio, stretto e l'edificio promiscuo. Diceva di non poter permettere che Alba crescesse lì, giocando con altri bambini nella strada o sulle scale, frequentando una scuola pubblica. Così era trascorsa la sua gioventù ed era entrata nella maturità, ormai rassegnata che gli unici momenti di piacere fossero quando usciva di nascosto con i suoi migliori vestiti, il suo profumo e le sottovesti da sgualdrina che conquistavano Pedro Terzo e che lei nascondeva, rossa di vergogna, nel più segreto del suo armadio, pensando alle spiegazioni che avrebbe dovuto dare se qualcuno le avesse scoperte. Quella donna pratica e con i piedi in terra sotto ogni aspetto della sua esistenza sublimò la sua passione dell'infanzia, vivendola tragicamente. La nutrì di fantasie, la idealizzò, la difese con fierezza, la depurò delle verità prosaiche e riuscì a trasformarla in un amore da romanzo.

Da parte sua Alba imparò a non nominare Pedro Terzo García, perché sapeva l'effetto che quel nome suscitava in famiglia. Intuiva che qualcosa di grave era successo tra l'uomo dalle dita tagliate, che baciava sua madre sulla bocca, e il nonno, ma tutti, perfino lo stesso Pedro Terzo, rispondevano alle sue domande evasivamente. Nell'intimità della camera da letto, talvolta Blanca le raccontava aneddoti su di lui e le insegnava le sue canzoni raccomandandole di non mettersi a canticchiarle in casa. Ma non le raccontò che era suo padre e lei stessa sembrava averlo dimenticato. Ricordava il passato come una serie di violenze, di abbandono e di tristezza e non era certa che le cose fossero andate come pensava. Si era scolorito l'episodio delle mummie, delle fotografie e dell'indiano imberbe con scarpe alla Luigi XV, che avevano causato la sua fuga dalla casa del marito. Aveva raccontato così tante volte che il conte era morto di febbre nel deserto, da arrivare a crederci. Anni dopo, il giorno in cui sua figlia le annunciò che il cadavere di Jean de Satigny giaceva nella cella frigorifera dell'obitorio non si rallegrò, perché si sentiva vedova da molto tempo. E non cercò neppure di giustificare la sua menzogna. Tirò fuori dall'armadio il suo vecchio abito a giacca nero, si sistemò le forcine nella crocchia e accompagnò Alba a seppellire il francese nel Cimitero Centrale, in una tomba del Municipio, dove andavano a finire gli indigenti, perché il senatore Trueba si era rifiutato di cedere un posto nel mausoleo color salmone. Madre e figlia camminarono da sole dietro la bara nera che erano riuscite a comprare grazie alla generosità di Jaime. Si sentivano un po' ridicole nell'afoso mezzogiorno estivo, con un mazzo di fiori vizzi in mano e nessuna lacrima per il cadavere solitario che andavano a seppellire.

Vedo che mio padre non aveva nemmeno degli amici aveva osservato Alba.

Neanche in quell'occasione Blanca ammise con sua figlia la verità.

Dopo che ebbi sistemato Clara e Rosa nel mio mausoleo, mi sentii un po' più tranquillo, perché sapevo che prima o poi saremmo stati riuniti lì tutt'e tre, insieme ad altri esseri amati, come mia madre, la Nana e la stessa Férula, che spero mi abbia perdonato. Non immaginavo che sarei vissuto così a lungo e che avrebbero dovuto aspettarmi per tanto tempo.

La stanza di Clara rimase chiusa a chiave. Non volevo che qualcuno entrasse, affinché non spostassero nulla e non vi potessero più trovare il suo spirito presente ogni volta che lei lo desiderasse. Cominciai a soffrire d'insonnia, il male di tutti i vecchi. Di notte giravo per la casa senza riuscire a prender sonno, trascinando le ciabatte che mi stavano larghe, avvolto nell'antica vestaglia vescovile che ancora conservo per motivi sentimentali, brontolando contro il destino come un vecchio finito. Con la luce del sole, tuttavia, recuperavo la voglia di vivere. Mi presentavo all'ora della colazione con la camicia inamidata e l'abito a lutto, sbarbato e tranquillo, leggevo il giornale con mia nipote, aggiornavo i miei affari e la corrispondenza e poi uscivo per il resto della giornata. Avevo smesso di mangiare in casa, tranne il sabato e la domenica, perché senza la presenza catalizzatrice di Clara non c'era motivo di sopportare le zuffe con i miei figli.

I miei unici amici cercavano di togliermi il lutto dall'anima. Pranzavano con me, giocavamo a golf, mi sfidavano a domino. Con loro discutevo dei miei affari, parlavo di politica e talvolta della mia famiglia. Una sera in cui mi videro più su di morale, m'invitarono al Cristoforo Colombo, nella speranza che una donna compiacente mi facesse tornare il buon umore. Nessuno di noi tre aveva l'età adatta per quelle avventure, ma ci bevemmo un paio di bicchieri e partimmo.

Ero stato al Cristoforo Colombo qualche anno prima, ma l'avevo quasi dimenticato. Negli ultimi tempi l'albergo aveva acquisito prestigio turistico e i provinciali arrivavano alla capitale solo per visitarlo e poi poterlo raccontare ai loro amici. Arrivammo all'antico palazzo, che di fuori continuava a essere uguale da moltissimi anni. Ci ricevette un portiere che ci condusse nel salone principale, dove mi ricordavo di essere già stato, all'epoca della maîtresse francese o, meglio, con l'accento francese. Una ragazzina vestita come una scolaretta ci offrì un bicchiere di vino offerto dalla casa. Uno dei miei amici fece per stringerla alla vita, ma lei l'avvisò che faceva parte del personale di servizio e che dovevamo aspettare le professioniste. Poco dopo si aprì una tenda e apparve una visione da antica corte araba: un negro enorme, così nero da sembrare blu, con i muscoli lucidi d'olio, coperto da brache color carota, un panciotto senza maniche, turbante di lamé viola, babbucce da turco e un anello d'oro infilato nel naso. Quando sorrise, vedemmo che aveva tutti i denti di piombo. Si presentò come Mustafà e ci porse un album di fotografie, affinché scegliessimo la mercanzia. Per la prima volta dopo molto tempo risi di buon gusto, dato che l'idea di un catalogo di prostitute mi sembrava molto divertente. Sbirciammo l'album, in cui c'erano donne grasse, magre, con i capelli lunghi, con i capelli corti, vestite da ninfe, da amazzoni, da novizie, da cortigiane, senza che mi fosse possibile sceglierne una, perché tutte avevano l'espressione pesta dei fiori di un banchetto. Le ultime tre pagine dell'album erano dedicate a ragazzi con tuniche greche, con corone di alloro, che giocavano tra false rovine greche, con le chiappe rotondette e le palpebre dalle ciglia finte, ripugnanti. Io non avevo mai visto da vicino alcun finocchio confesso, tranne Carmelo, quello che si vestiva da giapponese al Lampioncino Rosso, perciò mi stupii che uno dei miei amici, padre di famiglia e agente della Borsa di Commercio, scegliesse uno di quegli adolescenti culoni delle fotografie. Il ragazzo spuntò come per arte magica da dietro le tende e prese per mano il mio amico, fra risatine e sculettate femminili. Un mio altro amico preferì una grassissima odalisca, con cui dubito che abbia potuto combinare qualsiasi prodezza, a causa della sua età avanzata e della sua fragile costituzione, ma, comunque, uscì con lei, anche loro ingoiati dalla tenda.

Vedo che il signore fa fatica a decidersi disse Mustafà cordialmente. Mi permetta di offrirle il meglio della casa. Le presenterò Afrodite.

E Afrodite entrò nel salone, con tre piani di riccioli sulla testa, mal coperta da un po' di tulle drappeggiato e con grappoli d'uva finta che le ricadevano dalla spalla fino alle ginocchia. Era Tránsito Soto, che aveva acquisito un deciso aspetto mitologico, nonostante i grappoli pacchiani e il tulle da circo.

Felice di vederla, padrone salutò.

Mi portò oltre la tenda e ci ritrovammo nel piccolo cortile interno, il cuore di quella labirintica costruzione. Il Cristoforo Colombo era formato da due o tre case antiche, strategicamente unite da cortili interni, corridoi e ponti fatti apposta. Tránsito Soto mi condusse in una stanza anodina, ma pulita, la cui unica stravaganza erano certi affreschi erotici scopiazzati da quelli di Pompei, che un pittore mediocre aveva riprodotto sulle pareti, e una vasca da bagno grande, antica, un po' arrugginita, con acqua corrente. Feci un fischio di ammirazione.

Abbiamo fatto qualche cambiamento nelle decorazioni disse lei.

Tránsito si tolse i grappoli d'uva e il tulle, e fu di nuovo la donna che io ricordavo, solo più appetibile e meno vulnerabile, ma con la stessa espressione ambiziosa negli occhi che mi aveva conquistato quando l'avevo conosciuta. Mi raccontò della cooperativa di prostitute e di checche, che si era rivelata formidabile. Fra tutti avevano risollevato il Cristoforo Colombo dalla rovina in cui l'aveva ridotto la falsa madama francese di un tempo, e avevano lavorato per trasformarlo in un luogo mondano e in un monumento storico, che girava per le labbra dei marinai dei più remoti mari. I costumi erano il maggior contributo al successo, perché colpivano la fantasia erotica dei clienti, così come il catalogo delle puttane, che erano riusciti a riprodurre e a distribuire in qualche provincia, per risvegliare negli uomini il desiderio di conoscere un giorno il famoso bordello.

È una rottura di scatole indossare questi vestiti e questi grappoli da commedia, padrone, ma agli uomini piace. Se lo raccontano e questo ne attira degli altri. Ci va molto bene, è un buon affare e qui nessuno si sente sfruttato. Siamo tutti soci. È l'unica casa di puttane del paese ad avere un negro autentico fra il personale. Gli altri che lei vede in giro sono pitturati, invece Mustafà, anche se lo strofina con carta vetrata, negro rimane. E poi qui è pulito. Qui si può bere l'acqua del cesso, perché buttiamo lisciva fin dove lei nemmeno se lo immagina e siamo tutte controllate dalla Sanità. Non ci sono malattie veneree.

Tránsito si tolse l'ultimo velo e la sua magnifica nudità mi confuse talmente che d'improvviso sentii una stanchezza mortale. Avevo il cuore oppresso dalla tristezza e il sesso flaccido come un fiore ammuffito e senza futuro tra le gambe.

Ah, Tránsito! Credo di essere troppo vecchio per queste cose balbettai.

Ma Tránsito Soto cominciò a far ondeggiare il serpente tatuato intorno al suo ombelico, ipnotizzandomi col tenero contorno del suo ventre, mentre mi ninnava con la sua voce di uccello rauco, parlandomi dei benefici della cooperativa e dei vantaggi del catalogo. Dovetti ridere, e a poco a poco sentii che il mio riso era proprio un balsamo. Col dito feci per seguire il contorno del serpente, ma mi scivolò giù a zigzag. Mi stupii che quella donna, che non era nella prima né nella seconda giovinezza, avesse la pelle tanto compatta e i muscoli tanto sodi, capaci di far muovere quel rettile come se avesse vita propria. Mi chinai a baciare il tatuaggio e constatai, soddisfatto, che non era profumata. L'odore caldo e sicuro del suo ventre mi entrò nelle narici e m'invase completamente, risvegliandomi nel sangue un fervore che credevo raffreddato. Senza smettere di parlare, Tránsito aprì le gambe, separando le morbide colonne delle sue cosce con un gesto casuale, come se stesse sistemando la sua posizione. Cominciai a percorrerla con le labbra, aspirando, eccitandomi e leccando, finché non dimenticai il lutto e il peso degli anni e mi tornò il desiderio con la forza di altri tempi e senza smettere di accarezzarla e baciarla mi tolsi i vestiti a strappi, con disperazione, notando felice la fermezza della mia virilità, proprio mentre sprofondavo nell'animale tiepido e misericordioso che si offriva, coccolato dalla voce di uccello rauco, allacciato dalle braccia della dea, dimenandomi con la forza del bacino, sino a perdere la nozione delle cose e a esplodere nel piacere.

Poi ci lavammo insieme nella vasca con acqua tiepida, finché non mi tornò l'anima in corpo e mi sentii quasi guarito. Per un attimo giocai con la fantasia intorno all'idea che Tránsito fosse la donna di cui avevo sempre avuto bisogno e che al suo fianco avrei potuto tornare all'epoca in cui ero capace di sollevare di peso una robusta contadina, issarla sul dorso del mio cavallo e portarla fra i cespugli contro la sua volontà.

Clara... mormorai senza pensarci, e allora sentii che sulla guancia mi scorreva una lacrima e poi un'altra e un'altra ancora, finché non fu un torrente di pianto, un tumulto di singhiozzi, un soffocamento di nostalgie e di tristezze, che Tránsito Soto riconobbe senza difficoltà, perché aveva esperienza delle pene degli uomini. Mi lasciò piangere tutte le miserie e le solitudini degli ultimi anni e poi mi tolse dalla vasca con cure materne, mi asciugò, mi fece dei massaggi sino a lasciarmi molle come un pane bagnato e mi coprì quando chiusi gli occhi nel letto. Mi baciò sulla fronte e uscì in punta di piedi.

Chi sarà mai Clara? la udii mormorare mentre usciva.

 

 

11. IL RISVEGLIO

 

A circa diciott'anni Alba abbandonò definitivamente l'infanzia. Nel momento stesso in cui si sentì donna, andò a chiudersi nella sua antica stanza, dove c'era ancora l'affresco murale che aveva iniziato molti anni prima. Cercò nei vecchi recipienti di colori finché non trovò un po' di rosso e di bianco che erano ancora freschi, li mescolò con cura e poi dipinse un grande cuore rosa nell'ultimo spazio libero della parete. Era innamorata. Poi gettò nell'immondizia i barattoli e i pennelli e si sedette a contemplare a lungo i disegni, per riesaminare la storia delle sue pene e delle sue gioie. Si accorse che era stata felice e con un sospiro si accomiatò dall'infanzia.

Quell'anno molte cose erano cambiate nella sua vita. Aveva finito la scuola e deciso di studiare filosofia, per togliersene la voglia, e musica, per dar contro a suo nonno, che considerava l'arte come un modo di sprecare il tempo e predicava instancabilmente i vantaggi delle professioni libere o scientifiche. La preveniva anche contro l'amore e il matrimonio, con la stessa cocciutaggine con cui insisteva affinché Jaime si trovasse una fidanzata per bene e si sposasse, perché stava diventando uno scapolone. Diceva che per gli uomini era bene avere una moglie, ma che le donne come Alba non erano fatte per il matrimonio. Le prediche di suo nonno si volatilizzarono quando Alba vide per la prima volta Miguel, nel corso di una memorabile sera di guazza e freddo nel caffè dell'università.

Miguel era uno studente pallido, dagli occhi febbricitanti, dai pantaloni stinti e dagli stivali da minatore, all'ultimo anno di legge. Era un dirigente della sinistra. Era infiammato dalla più incontrollabile passione: cercare la giustizia. Questo non gli impedì di accorgersi che Alba lo osservava. Sollevò lo sguardo e i loro occhi s'incontrarono. Si guardarono abbagliati e da quel momento cercarono ogni occasione per stare insieme nei pioppeti del parco, dove passeggiavano carichi di libri o trascinando il pesante violoncello di Alba.

Fin dal primo incontro lei notò che lui portava una piccola insegna sulla manica: una mano tesa col pugno chiuso. Decise di non dirgli che era nipote di Esteban Trueba e, per la prima volta nella sua vita, usò il cognome indicato nella sua carta d'identità: Satigny. Si era subito resa conto che era meglio non dirlo nemmeno agli altri suoi compagni. Poté invece vantarsi di essere amica di Pedro Terzo García, che era molto popolare fra gli studenti, e del Poeta, sulle cui ginocchia si sedeva da bambina e che allora era ormai conosciuto in tutte le lingue e i suoi versi erano sulle labbra dei giovani e sui graffiti dei muri.

Miguel parlava della rivoluzione. Diceva che alla violenza del sistema bisognava opporre la violenza della rivoluzione. Alba tuttavia non nutriva alcun interesse per la politica e voleva solo parlare d'amore. Era stufa di sentire i discorsi di suo nonno, di assistere ai suoi litigi con lo zio Jaime, di vivere le campagne elettorali. L'unica partecipazione politica della sua vita era consistita nel recarsi con altri compagni di scuola a tirare sassi contro l'ambasciata degli Stati Uniti senza sapere bene perché, motivo per cui l'avevano sospesa dalla scuola per una settimana e a suo nonno era quasi venuto un altro infarto. Ma all'università la politica era inevitabile. Come tutti i giovani che erano entrati in quell'anno, scoprì l'attrazione di una notte insonne in un caffè, a parlare dei cambiamenti di cui il mondo aveva bisogno e a contagiarsi l'un l'altro con la passione delle idee. Rincasava di notte tardi, con la bocca amara e i vestiti impregnati dall'odore del tabacco puzzolente, con la testa calda di eroismi, sicura che, al momento giusto, avrebbe saputo dare la vita per una giusta causa. Per amore di Miguel, e non per convinzione ideologica, Alba si trincerò nell'università insieme agli studenti che avevano occupato l'edificio in appoggio a uno sciopero di operai. Furono giorni campali, di discorsi infiammati, d'insulti gridati contro la polizia dalle finestre fino a rimanere senza voce. Fecero barricate con sacchi di terra e ciottoli che avevano divelto dal cortile principale, murarono le porte e le finestre nell'intento di trasformare l'edificio in una fortezza e il risultato si rivelò una prigione da cui era più difficile uscire per gli studenti che per la polizia entrare. Fu la prima volta che Alba trascorse la notte fuori casa ninnata fra le braccia di Miguel, in mezzo a mucchi di giornali e di bottiglie di birra, nella calda promiscuità dei compagni, tutti giovani, sudati e con gli occhi arrossati per il sonno arretrato e per il fumo, un po' affamati e senza un briciolo di paura, perché la cosa sembrava loro più un gioco che una guerra. Il primo giorno lo passarono così presi a costruire barricate e a mobilitare le loro candide difese, a dipingere manifesti, a parlare al telefono, che non ebbero tempo di preoccuparsi quando la polizia tolse l'acqua e l'elettricità.

Fin dal primo momento, Miguel si era trasformato nell'anima dell'occupazione, assecondato dal professore Sebastián Gómez, che nonostante le sue gambe paralizzate li accompagnò sino alla fine. Quella notte cantarono per farsi coraggio e quando furono stanchi delle arringhe, delle discussioni e delle canzoni, si sistemarono a gruppi per trascorrere la notte il meglio possibile. L'ultimo a riposare fu Miguel, il quale sembrava l'unico che sapesse che cosa fare. S'incaricò della distribuzione dell'acqua, mettendo in recipienti persino quella che si era accumulata nelle vaschette dei gabinetti, improvvisò una cucina e tirò fuori, nessuno sa da dove, caffè istantaneo, biscotti e qualche lattina di birra. Il giorno dopo, il fetore dei bagni senz'acqua era terribile, ma Miguel organizzò la pulizia e ordinò che non venissero usati: bisognava fare i propri bisogni nel cortile, in un buco scavato vicino alla statua del fondatore dell'università. Miguel divise i ragazzi in squadre e li tenne occupati tutto il giorno, con tanta destrezza, che nessuno notava la sua autorità. Le decisioni sembravano scaturire spontaneamente dai gruppi.

È come se si dovesse restare qui per molti mesi! osservò Alba, affascinata dall'idea di vivere un assedio.

Per strada, intorno all'antico edificio, si erano sistemati strategicamente i carri blindati della polizia. Cominciò una densa attesa che si sarebbe protratta per vari giorni.

Verranno perseguitati gli studenti di tutto il paese, i sindacati, i collegi professionali. Può darsi che cada il governo pensava Sebastián Gómez.

Non credo replicò Miguel. Ma l'importante è istituire la protesta e non lasciare l'edificio finché non sarà firmato il foglio delle richieste dei lavoratori.

Cominciò a piovere dolcemente e ben presto fu buio nell'edificio senza luce. Accesero lumi improvvisati con benzina e una miccia fumante dentro certi barattoli. Alba pensò che avessero tagliato anche il telefono, ma constatò che la linea funzionava. Miguel spiegò che la polizia aveva interesse a sapere quello che loro dicevano e li prevenne in quanto alle comunicazioni. Tuttavia, Alba chiamò casa sua per avvisare che si sarebbe fermata insieme ai suoi compagni fino alla vittoria finale o alla morte, cosa che le risuonò falsa una volta detta. Suo nonno strappò l'apparecchio dalla mano di Blanca e, con l'intonazione furibonda che sua nipote conosceva bene, le disse che aveva un'ora di tempo per rincasare con una scusa ragionevole per avere trascorso tutta la notte fuori. Alba gli ribatté che non poteva uscire e, se anche avesse potuto, non ci pensava nemmeno.

Non hai niente a che fare lì con quei comunisti! gridò Esteban Trueba. Ma subito raddolcì la voce e la pregò di uscire prima che entrasse la polizia, perché lui sapeva bene che il governo non avrebbe tollerato la cosa a lungo. Se non uscite con le buone, ci si metterà il Gruppo Mobile e vi tireranno fuori a randellate concluse il senatore.

Alba guardò da una fessura della finestra sbarrata con assi e sacchi di sabbia, e vide i carri armati allineati in strada e una doppia fila di uomini sul piede di guerra, con caschi, bastoni e maschere. Capì che suo nonno non esagerava. Anche gli altri li avevano visti e alcuni tremavano. Qualcuno ricordò che esistevano nuove bombe, peggiori di quelle lacrimogene, che provocavano una dissenteria incontrollabile, capace di dissuadere il più valoroso con la puzza e il ridicolo. Ad Alba l'idea parve terrificante. Dovette fare un grande sforzo per non piangere. Sentiva fitte nel ventre e suppose che fossero di paura. Miguel l'abbracciò, ma non le servì di conforto. Tutt'e due erano stanchi e cominciavano a sentirsi nelle ossa e nell'anima la nottataccia.

Non credo che oseranno entrare disse Sebastián Gómez. Il governo ha già abbastanza problemi. Non se la prenderà con noi.

Non sarebbe la prima volta che carica gli studenti osservò qualcuno.

L'opinione pubblica non lo permetterà replicò Gómez. Questa è una democrazia. Non è una dittatura e non lo sarà mai.

Si pensa sempre che queste cose succedono altrove disse Miguel. Finché non succedono anche da noi.

Il resto del pomeriggio trascorse senza incidenti e durante la notte tutti erano più tranquilli, malgrado il protratto disagio e la fame. I carri armati erano sempre fermi al loro posto. Nei lunghi corridoi e nelle aule i giovani giocavano a carte, riposavano sdraiati in terra e preparavano armi di difesa con bastoni e sassi. Su tutte le facce si notava la stanchezza. Alba sentiva sempre più forti le fitte al ventre e pensava che, se le cose non si fossero risolte il giorno dopo, non aveva altra soluzione che usare il buco nel cortile. In strada continuava a piovere e la vita normale della città seguitava imperturbabile. Sembrava che a nessuno importasse un altro sciopero degli studenti e la gente passava davanti ai carri armati senza fermarsi a leggere i manifesti appesi alla facciata dell'università. I vicini si abituarono in fretta alla presenza dei carabinieri armati e quando la pioggia fu cessata i bambini uscirono a giocare a palla nello spazio vuoto che separava l'edificio dai distaccamenti di polizia. A tratti, Alba aveva la sensazione di stare su una barca a vela in un mare tranquillo, senza brezza, in un'eterna e silenziosa attesa, immobile, scrutando l'orizzonte per ore. L'allegro cameratismo delle prime giornate si trasformò in irritazione e continue diatribe a mano a mano che il tempo passava e il disagio aumentava. Miguel perquisì tutto l'edificio e confiscò i viveri del bar.

Quando tutto sarà finito, li pagheremo al concessionario. È un lavoratore come qualunque altro disse.

Faceva freddo. L'unico a non lamentarsi di niente, nemmeno della sete, era Sebastián Gómez. Sembrava instancabile quanto Miguel, nonostante avesse il doppio della sua età e un aspetto da tubercolotico. Era l'unico professore che era rimasto con gli studenti quando avevano occupato l'edificio. Si diceva che la paralisi delle sue gambe fosse conseguenza di una raffica di mitraglia in Bolivia. Era l'ideologo che faceva ardere nei suoi alunni la fiamma che la maggioranza vide spegnersi quando abbandonarono l'università e si persero nel mondo che nella prima gioventù avevano creduto di poter cambiare. Era un uomo piccolo, asciutto, dal naso aquilino e dai capelli radi, animato da un fuoco interiore che non gli concedeva tregua. Alba doveva a lui il soprannome di "contessa", perché il primo giorno suo nonno aveva avuto la cattiva idea di mandarla a lezione in automobile con l'autista e il professore l'aveva vista. Il soprannome era un'intuizione casuale, perché Gómez non poteva sapere che, nel caso improbabile che un giorno avesse voluto farlo, lei avrebbe potuto dissotterrare il titolo di nobiltà di Jean de Satigny che era una delle poche cose autentiche possedute dal conte francese che le aveva dato il cognome. Alba non gli serbava rancore per il soprannome scherzoso, anzi, qualche volta aveva accarezzato l'idea di sedurre il valoroso professore. Ma Sebastián Gómez aveva visto molte ragazze come Alba e sapeva distinguere quel miscuglio di compassione e di curiosità provocato dalle stampelle che sorreggevano le sue povere gambe di pezza.

Così passò tutta la giornata, senza che il Gruppo Mobile spostasse i suoi carri armati e senza che il governo cedesse di fronte alle richieste dei lavoratori. Alba cominciò a chiedersi che diavolo stesse facendo in quel posto, perché il mal di pancia stava diventando insopportabile e il bisogno di lavarsi in un bagno con acqua corrente cominciava a ossessionarla. Ogni volta che guardava verso la strada e vedeva i carabinieri armati le si riempiva la bocca di saliva. In quei momenti si era resa conto che gli allenamenti di suo zio Nicolás non erano così validi nel momento dell'azione come nella simulazione delle sofferenze immaginarie. Due ore dopo sentì una viscosità tra le gambe e si vide i pantaloni macchiati di rosso. La invase una sensazione di panico. In tutti quei giorni il timore che la cosa accadesse l'aveva tormentata quasi quanto la fame. La macchia sui suoi pantaloni era come una bandiera. Non fece nulla per nasconderla. Si sedette in un angolo sentendosi perduta. Quando era piccola, sua nonna le aveva insegnato che le cose proprie delle funzioni umane erano naturali e poteva parlare delle mestruazioni come della poesia ma, più tardi, a scuola, aveva imparato che tutte le secrezioni del corpo, meno le lacrime, sono indecenti. Miguel si rese conto del suo rossore e della sua ansia, e andò a cercare nell'improvvisata infermeria un pacco di cotone e trovò qualche fazzoletto, ma poco dopo si accorsero che non bastava e al calar della notte Alba piangeva di umiliazione e di dolore, spaventata dalle tenaglie nelle sue viscere e da quel gorgoglio sanguinolento che non sembrava affatto quello degli altri mesi. Credeva che qualcosa stesse esplodendole dentro. Ana Díaz, una studentessa che come Miguel portava l'insegna del pugno teso, osservò che era una cosa di cui soffrivano le donne ricche, perché le proletarie non si lagnavano neppure quando stavano partorendo, ma vedendo che i pantaloni di Alba erano zuppi, e che lei era pallida come un moribondo, andò a parlare con Sebastián Gómez. Questi si dichiarò incapace di risolvere il problema.

Ecco cosa succede quando le donne si mescolano alle faccende degli uomini scherzò.

No! Succede quando si mescolano i borghesi alle faccende del popolo! replicò la giovane indignata.

Sebastián Gómez raggiunse l'angolo dove Miguel stava sistemando Alba e le si mise a lato con difficoltà per via delle stampelle.

Contessa, devi andartene a casa. Qui non dai alcun contributo, anzi sei solo un fastidio le disse.

Alba sentì un'ondata di sollievo. Era troppo spaventata e quella era un'uscita onorevole che le permetteva di tornare a casa senza che sembrasse una vigliaccata. Discusse un po' con Sebastián Gómez per salvare la faccia, ma accettò quasi subito che Miguel uscisse con una bandiera bianca per parlamentare con i carabinieri. Tutti lo osservavano dalle feritoie mentre attraversava lo spazio vuoto. I carabinieri avevano serrato le fila e gli avevano ordinato, con un altoparlante, di fermarsi, di posare la bandiera bianca a terra e di avanzare con le mani dietro la testa.

Sembra che siamo in guerra! commentò Gómez.

Poco dopo Miguel tornò e aiutò Alba a sollevarsi. La stessa giovane, che prima aveva criticato le lamentele di Alba, la prese per un braccio e i tre uscirono dall'edificio scansando le barricate e i sacchi di sabbia, illuminati dai potenti riflettori della polizia. Alba poteva appena camminare, si vergognava e le girava la testa. Una pattuglia le andò incontro a metà strada e Alba si trovò a pochi centimetri da una divisa verde e vide una pistola puntata all'altezza del naso. Alzò lo sguardo e si trovò di fronte un volto bruno con occhi da roditore. Seppe immediatamente chi era: Esteban García.

Lei è la nipote del senatore Trueba! esclamò García con ironia.

Così Miguel venne a sapere che lei non gli aveva detto tutta la verità. Sentendosi tradito, la consegnò nelle mani dell'altro, si voltò e tornò indietro trascinando per terra la sua bandiera bianca, senza darle nemmeno uno sguardo di saluto, accompagnato da Ana Díaz, che era sorpresa e furiosa quanto lui.

Cosa ti succede? chiese García indicando con la sua pistola i pantaloni di Alba. Sembra un aborto!

Alba alzò la testa e lo guardò negli occhi.

Non sono fatti suoi. Mi porti a casa! ordinò ricorrendo al tono autoritario che usava suo nonno con tutti quelli che non considerava della sua stessa condizione sociale.

García esitò. Da molto tempo non sentiva un ordine in bocca a un civile ed ebbe la tentazione di portarla dentro e di lasciarla marcire in una cella, nel suo stesso sangue, finché non l'avesse pregato in ginocchio, ma nel suo mestiere aveva imparato che c'erano molti altri più potenti di lui e che non poteva concedersi il lusso di fare qualcosa impunemente. Inoltre, il ricordo di Alba con i suoi vestiti inamidati che beveva limonata sulla veranda delle Tre Marie, mentre lui strascicava i piedi nudi nel cortile delle galline e ingoiava il proprio moccio, e il terrore che aveva ancora per il vecchio Trueba furono più forti del suo desiderio di umiliarla. Non poté sostenere lo sguardo della ragazza e abbassò impercettibilmente il capo. Si volse, latrò una breve frase e due carabinieri portarono a braccia Alba sino al furgone della polizia. Arrivò così a casa. Vedendola, Blanca pensò che si erano avverate le previsioni del nonno e che la polizia era ricorsa ai bastoni contro gli studenti. Cominciò a strillare e non smise finché Jaime non ebbe esaminato Alba e le assicurò che non era ferita e non aveva niente che non si potesse guarire con un paio d'iniezioni e un po' di riposo.

Alba trascorse due giorni a letto, durante i quali lo sciopero degli studenti si dissolse pacificamente. Il ministro dell'Educazione venne rimosso dal suo posto e trasferito al Ministero dell'Agricoltura.

Se ha potuto fare il ministro dell'Educazione senza avere terminato gli studi, può benissimo fare il Ministro dell'Agricoltura senza avere mai visto in vita sua una mucca intera commentò il senatore Trueba.

Mentre era a letto, Alba poté rivivere le circostanze in cui aveva conosciuto Esteban García. Cercando molto indietro nelle immagini della sua infanzia, ricordò un giovane bruno, la biblioteca della casa, il caminetto acceso con grandi ciocchi di legno di pino che profumavano l'aria, di pomeriggio o di sera, e lei seduta sulle sue ginocchia. Ma quella visione entrava e usciva veloce dalla sua memoria e arrivò a pensare di averla sognata. Il primo ricordo preciso che aveva di lui era posteriore. Sapeva la data esatta perché era stato il giorno che aveva compiuto quattordici anni e sua madre l'aveva segnato nell'album nero che sua nonna aveva iniziato quando lei era nata. Per l'occasione si era arricciata i capelli, e stava sulla terrazza col cappotto addosso in attesa che arrivasse lo zio Jaime per portarla a comprare il suo regalo. Faceva molto freddo, ma a lei piaceva il giardino d'inverno. Si era alitata sulle mani e aveva sollevato il colletto del cappotto per proteggersi le orecchie. Di lì poteva vedere la finestra della biblioteca, dove suo nonno parlava con un uomo. Il vetro era appannato, ma era riuscita a riconoscere la divisa dei carabinieri e si era chiesta che cosa poteva fare suo nonno con uno di loro nel suo studio. L'uomo voltava le spalle alla finestra e stava seduto rigidamente sull'orlo della seggiola, con le spalle rigide, e un'aria patetica da soldatino di piombo. Alba era rimasta a guardarli un po', finché non aveva calcolato che suo zio stava per arrivare, allora era avanzata nel giardino fino a un chiostro semidistrutto, battendosi le mani per riscaldarsi, aveva tolto le foglie umide che c'erano sulla panca di pietra e si era seduta ad aspettare. Poco dopo, Esteban García l'aveva trovata proprio lì, quando era uscito dalla casa e aveva dovuto attraversare il giardino per dirigersi al cancello. Vedendola si era fermato bruscamente. Aveva guardato da ogni parte, aveva esitato e poi si era avvicinato.

Ti ricordi di me? aveva chiesto García.

No... aveva risposto lei, dubbiosa.

Sono Esteban García. Ci siamo conosciuti alle Tre Marie.

Alba aveva sorriso meccanicamente. Le faceva venire in mente un brutto ricordo. C'era qualcosa nei suoi occhi che le causava inquietudine, ma non sapeva dire cosa con precisione. García aveva spazzato via le foglie e le si era seduto accanto nel chiosco, così vicino che le loro gambe si toccavano.

Questo giardino sembra una foresta aveva detto respirandole molto vicino.

Si era tolto il berretto della divisa e lei gli aveva visto i capelli molto corti e lisci, pettinati con brillantina. Subito, la mano di García si era posata sulla sua spalla. La familiarità del gesto aveva sconcertato la ragazza, che per un momento era rimasta paralizzata, ma subito si era spinta indietro, cercando di sottrarsi. La mano del carabiniere le aveva stretto la spalla, infilandole le dita attraverso la grossa stoffa del suo cappotto. Alba aveva sentito che il cuore le batteva all'impazzata e il rossore le aveva coperto le guance.

Sei cresciuta, Alba, sembri quasi una donna le aveva sussurrato l'uomo all'orecchio.

Ho quattordici anni, li compio oggi aveva balbettato.

Allora ho un regalo per te aveva detto Esteban García sorridendo con la bocca storta.

Alba aveva tentato di voltare la faccia, ma lui l'aveva tenuta saldamente con le due mani costringendola a stargli di fronte. Era stato il primo bacio. Aveva sentito una sensazione calda, brutale, la pelle dura e mal rasata che le grattava la faccia, il suo odore di tabacco vecchio e cipolla, la sua violenza. La lingua di García aveva cercato di aprirle le labbra mentre con una mano le schiacciava le guance fino a obbligarla a disserrare le mascelle. Lei aveva percepito quella lingua come un mollusco bavoso e tiepido, l'aveva invasa la nausea e le era salito un conato di vomito dallo stomaco ma aveva tenuto gli occhi aperti. Aveva visto la stoffa dura dell'uniforme e sentito le mani feroci che le circondavano il collo e, senza smettere di baciarla, le sue dita avevano cominciato a premere. Alba aveva creduto di asfissiare e l'aveva spinto con tale violenza da riuscire a scostarsi. García si era allontanato dalla panchina e aveva sorriso con scherno. C'erano macchie rosse sulle sue guance e respirava con agitazione.

Ti è piaciuto il mio regalo? aveva riso.

Alba l'aveva visto allontanarsi a grandi passi nel giardino e si era seduta a piangere. Si sentiva sporca e umiliata. Dopo era corsa in casa a lavarsi la bocca col sapone e a spazzolarsi i denti come se così avesse potuto togliere la macchia dalla sua memoria. Quando era arrivato suo zio Jaime a prenderla, gli si era aggrappata al collo, aveva affondato la faccia nella sua camicia e gli aveva detto che non voleva alcun regalo, perché aveva deciso di farsi monaca. Jaime era scoppiato in una risata profonda che nasceva dalle viscere e che solo lei gli aveva udito in ben poche circostanze, perché suo zio era un uomo taciturno.

Ti giuro che è vero! Mi farò monaca! aveva singhiozzato.

Dovresti nascere un'altra volta aveva replicato Jaime. E inoltre dovresti passare sopra il mio cadavere.

Alba non aveva più rivisto García finché non l'ebbe al suo fianco nel distaccamento di polizia dell'università, ma non era mai riuscita a dimenticarlo. Non aveva raccontato a nessuno di quel bacio ripugnante né dei sogni che aveva poi fatto, nei quali lui appariva come una bestia verde in atto di strangolarla con le sue zampe e di asfissiarla introducendole un tentacolo bavoso in bocca.

Ricordando tutto questo, Alba scoprì che l'incubo era rimasto rannicchiato dentro di lei durante tutti quegli anni e che García continuava a essere la bestia che la spiava nell'ombra, per saltarle addosso alla prima svolta della vita. Non poteva sapere che questa era una premonizione.

 

A Miguel passarono la delusione e la rabbia che Alba fosse nipote del senatore Trueba, la seconda volta che la vide camminare come un'anima smarrita nelle viuzze vicine al caffè dove si erano conosciuti. Decise che era ingiusto incolpare la nipote per le idee del nonno e ripresero a passeggiare abbracciati. Di lì a poco i baci interminabili che si davano diventarono insufficienti e cominciarono a darsi appuntamento nella stanza dove Miguel abitava. Era una mediocre pensione per studenti poveri, tenuta da una coppia di età matura con la vocazione allo spionaggio. Scrutavano Alba con malcelata ostilità quando saliva per mano a Miguel nella sua stanza e per lei era un supplizio vincere la timidezza e affrontare la critica di quegli sguardi che le guastavano la gioia dell'incontro. Pur di evitarli preferiva altre alternative, ma non accettava neanche l'idea di andare insieme in un albergo, per lo stesso motivo per cui non voleva essere vista nella pensione di Miguel.

Sei la peggior borghese che io conosca! rideva Miguel.

Talvolta lui riusciva a farsi prestare una moto e scappavano per qualche ora correndo a una velocità suicida, a cavallo della macchina. con le orecchie gelate e il cuore anelante. D'inverno andavano sulle spiagge solitarie, camminavano sulla sabbia bagnata lasciando orme che l'acqua lambiva, spaventando i gabbiani e respiravano a pieni polmoni l'aria del mare. D'estate preferivano i boschi più fitti, dove potevano ruzzare impunemente una volta elusi i giovani esploratori e gli escursionisti. Ben presto Alba scoprì che il posto più sicuro era la sua stessa casa, perché nel labirinto e nell'abbandono delle stanze posteriori, dove nessuno entrava, potevano amarsi senza essere disturbati.

Se la servitù sentisse rumori, crederà che siano tornati i fantasmi disse Alba e gli raccontò del glorioso passato di spiriti visitatori e tavolini volanti della grande casa dell'angolo.

La prima volta che lo condusse attraverso la porta posteriore del giardino, aprendosi un varco fra i pruneti e schivando le statue macchiate di muschio e di escrementi di uccelli, il giovane ebbe un sussulto alla vista del triste casamento. "Qui ci sono già stato", mormorò, ma non riuscì a ricordare, perché quella foresta da incubo in quella lugubre dimora conservavano appena una vaga somiglianza con la luminosa immagine tesaurizzata nella memoria della sua infanzia.

Gli innamorati provarono a una a una le stanze abbandonate e finirono per improvvisare un nido per i loro amori furtivi nelle profondità della cantina. Erano molti anni che Alba non ci entrava ed era arrivata al punto da dimenticarne l'esistenza, ma, quando aprì la porta e respirò l'inconfondibile odore, sentì di nuovo la magica attrazione di una volta. Usarono le carabattole, le cassette, i libri dello zio Nicolás, i mobili e i tendaggi di altri tempi per arredare una stupefacente camera nuziale. Nel mezzo improvvisarono un letto con diversi materassi, che ricoprirono con pezze di velluto tarlato. Dai bauli trassero innumerevoli tesori. Fecero lenzuola con vecchie tende di damasco color topazio, scucirono il sontuoso vestito di pizzo chantilly, che aveva indossato Clara il giorno in cui era morto Barrabás, per costruirsi una zanzariera color del tempo, che li preservasse dai ragni che tessendo calavano dal tetto. Si facevano luce con candele e non badavano ai piccoli roditori, al freddo e a quel tanfo d'oltretomba. Nel crepuscolo eterno della cantina, se ne stavano nudi sfidando l'umidità e le correnti d'aria. Bevevano vino bianco in coppe di cristallo che Alba aveva sottratto dalla sala da pranzo e facevano un minuzioso inventario dei loro corpi e delle molteplici possibilità del piacere. Giocavano come bambini. Lei faticava a riconoscere in quel giovane innamorato e dolce, che rideva e ruzzava in un instancabile baccanale, il rivoluzionario avido di giustizia che imparava, in segreto, l'uso delle armi da fuoco e le strategie rivoluzionarie. Alba inventava irresistibili trucchi di seduzione e Miguel creava nuovi e meravigliosi modi di amarla. Erano abbacinati dalla forza della loro passione, che era come un sortilegio di sete insaziabile. Non bastavano le ore né le parole per dirsi i più intimi pensieri e i più remoti ricordi, in un ambizioso tentativo di possedersi intimamente sino all'ultimo grado. Alba tralasciò il violoncello, se non per suonarlo nuda sul letto di topazio, e assisteva alle sue lezioni all'università con un'aria allucinata. Anche Miguel rinviò la sua tesi e le sue riunioni politiche, perché di continuo avevano bisogno di stare insieme e approfittavano di ogni minima distrazione degli abitanti della casa per scivolare sino alla cantina. Alba imparò a mentire e a dissimulare. Col pretesto di studiare di notte, lasciò la stanza che spartiva con sua madre dalla morte della nonna e si sistemò in una camera del primo piano che dava sul giardino, per poter aprire la finestra a Miguel e guidarlo, in punta di piedi attraverso la casa addormentata, fino alla tana incantata. Ma non stavano insieme solo di notte. L'impazienza dell'amore era talvolta così intollerabile, che Miguel si arrischiava a entrare di giorno, strisciando fra i cespugli, come un ladro, fino alla porta della cantina, dove lo aspettava Alba col cuore in subbuglio. Si abbracciavano con la disperazione di un addio e sgattaiolavano nel loro rifugio soffocati dalla complicità.

Per la prima volta nella sua vita, Alba sentì il bisogno di essere bella e rimpianse che nessuna delle splendide donne della sua famiglia le avesse lasciato in eredità i suoi attributi, e l'unica che l'aveva fatto la bella Rosa, le aveva dato solo una sfumatura d'alga marina ai suoi capelli, che, se non era accompagnata da tutto il resto, sembrava piuttosto un errore del parrucchiere. Quando Miguel indovinò la sua inquietudine, la portò per mano fino al grande specchio veneziano che ornava un angolo della camera segreta, tolse la polvere dal vetro incrinato e poi accese tutte le candele che aveva e gliele mise intorno. Lei si rimirò nei mille frammenti dello specchio. La sua pelle, illuminata dalle candele, aveva il colore irreale delle figure di cera. Miguel cominciò ad accarezzarla e lei vide trasformarsi il suo volto nel caleidoscopio dello specchio e convenne infine che lei era la più bella dell'universo, perché aveva potuto vedersi con gli occhi con cui la vedeva Miguel.

Quell'orgia interminabile durò più di un anno. Alla fine Miguel terminò la tesi, si laureò e cominciò a cercarsi un lavoro. Quando passò la pregnante urgenza dell'amore insoddisfatto, poterono ricuperare un contegno e normalizzare le loro vite. Lei fece uno sforzo per interessarsi di nuovo agli studi e lui si lanciò nuovamente nell'impegno politico perché gli eventi stavano precipitando e il paese era lacerato dalle lotte ideologiche. Miguel affittò un piccolo alloggio vicino al suo posto di lavoro, dove si ritrovavano per amarsi, perché durante l'anno che avevano trascorso saltellando nudi per la cantina avevano contratto tutt'e due una bronchite cronica che toglieva una buona parte dell'incanto al loro paradiso sotterraneo. Alba aiutò a arredarlo, mettendo cuscini fatti a mano e manifesti politici dappertutto e arrivò persino a suggerire che avrebbe potuto andare a vivere con lui, ma su questo punto Miguel era stato inflessibile.

Si avvicinano tempi molto brutti, amore mio spiegò. Non posso tenerti con me, perché, quando sarà necessario entrerò nella guerriglia.

Verrò con te ovunque tu sia promise lei.

Queste cose non le si fa per amore, ma per convinzione politica e tu non ce l'hai replicò Miguel. Non possiamo permetterci il lusso di accettare dilettanti.

Ad Alba questo sembrò brutale e dovettero passare alcuni anni perché potesse capirlo in tutta la sua grandezza.

 

Il senatore Trueba era già in età di ritirarsi, ma l'idea non gli passava neppure per la testa. Leggeva il giornale del giorno e biascicava tra i denti. Le cose erano molto cambiate in quegli anni e sentiva che gli eventi lo trascendevano, perché non aveva pensato di continuare a vivere tanto da doverli affrontare. Era nato quando non esisteva la luce elettrica in città e si era ritrovato a vedere alla televisione un uomo che passeggiava sulla luna, ma nessun trambusto della sua lunga vita l'aveva preparato ad affrontare la rivoluzione che si stava organizzando nel suo paese, sotto i suoi occhi, e che metteva tutti in agitazione.

L'unico a non parlare di quanto stava succedendo era Jaime. Per evitare i litigi con suo padre aveva assunto l'abitudine del silenzio e aveva subito scoperto che gli era più comodo non parlare. Le poche volte che abbandonava la sua laconicità trappista era quando Alba andava a trovarlo nel tunnel dei libri. Sua nipote arrivava in camicia da notte, con i capelli bagnati dalla doccia, e si sedeva ai piedi del suo letto per raccontargli cose felici, perché, come lei diceva, lui era una calamita che attraeva i problemi altrui e le miserie irrimediabili ed era necessario che qualcuno lo tenesse al corrente della primavera e dell'amore. Le sue buone intenzioni si dissolvevano dinanzi all'urgenza di discutere con suo zio di tutto quello che la preoccupava. Non erano mai d'accordo. Spartivano gli stessi libri, ma, nel momento di analizzare quanto avevano letto, esprimevano opinioni affatto contrastanti. Jaime scherniva le sue idee politiche, i suoi amici barbuti e le rimproverava di essersi innamorata di un terrorista da caffeuccio. Era l'unico in casa a conoscere l'esistenza di Miguel.

Di' a quel moccioso che un giorno di questi venga a lavorare con me all'ospedale, così vedremo se gli durerà la voglia di continuare a sprecare il tempo fra volantini e discorsi diceva ad Alba.

È un avvocato, zio, non un medico replicava lei.

Non importa. Là abbiamo bisogno di tutti. Persino un idraulico ci serve.

Jaime era sicuro che i socialisti avrebbero finalmente trionfato dopo tanti anni di lotta. Lo deduceva dal fatto che il popolo aveva preso coscienza dei suoi bisogni e della sua forza. Alba ripeteva le parole di Miguel, che solo con la guerra si poteva battere la borghesia. Jaime aveva orrore di qualsiasi forma di estremismo e sosteneva che i guerriglieri si giustificano solo durante la tirannia, quando non c'è altra scelta che battersi con le armi, ma che sono un'aberrazione in un paese dove i cambiamenti si possono ottenere con votazioni popolari.

Non è mai successo, zio, non fare l'ingenuo replicava Alba. Non lasceranno mai vincere i tuoi socialisti!

Lei cercava di spiegare il punto di vista di Miguel: che non si poteva aspettare oltre il lento passo della storia, il laborioso processo di educazione e organizzazione del popolo, perché il mondo avanzava a balzi e loro rimanevano indietro, che i mutamenti radicali non avvenivano mai con le buone e senza violenze. La storia lo dimostrava. La discussione si prolungava ed entrambi si smarrivano in un'oratoria confusa che li lasciava sfiniti, accusandosi a vicenda di essere più testardi di un mulo, ma infine si auguravano la buonanotte con un bacio e restavano tutt'e due con la sensazione che l'altro era un essere meraviglioso.

Un giorno, all'ora di cena, Jaime annunciò che avrebbero vinto i socialisti, ma, poiché erano vent'anni che pronosticava la stessa cosa, nessuno gli credette.

Se tua madre fosse viva, direbbe che vinceranno quelli di sempre gli rispose il senatore Trueba, sdegnosamente.

Jaime sapeva quello che diceva. Gliel'aveva detto il Candidato. Da molti anni erano amici e Jaime andava spesso a giocare a scacchi con lui la sera. Era lo stesso socialista che era stato candidato alla presidenza della repubblica diciott'anni prima. Jaime l'aveva visto per la prima volta sulle spalle di suo padre, quando passava in mezzo a una nuvola di fumo sui treni del trionfo, durante le campagne elettorali della sua adolescenza. A quei tempi il Candidato era un uomo giovane e robusto, con guance da cane da caccia, che gridava discorsi esaltati fra i fischi e i lazzi dei padroni e il silenzio rabbioso dei contadini. Era l'epoca in cui i fratelli Sánchez avevano impiccato all'incrocio delle strade il dirigente socialista ed Esteban Trueba aveva frustato Pedro Terzo García davanti a suo padre, per avere ripetuto davanti ai contadini le perturbanti versioni bibliche di padre José Dulce María. La sua amicizia col Candidato era nata per caso, una domenica notte in cui l'avevano mandato dall'ospedale a occuparsi di un'emergenza a domicilio. Era giunto all'indirizzo indicato con un'ambulanza di servizio, aveva suonato il campanello e il Candidato in persona aveva aperto la porta. Jaime non aveva avuto difficoltà a riconoscerlo, perché aveva visto spesso la sua immagine e perché non era cambiato da quando l'aveva visto passare sul treno.

Entri, dottore, la stiamo aspettando aveva salutato il Candidato.

L'aveva condotto nella stanza di servizio, dove le sue figlie cercavano di aiutare una donna che sembrava stesse asfissiando, aveva la faccia livida, gli occhi fuori delle orbite e una lingua mostruosamente gonfia che le usciva dalla bocca.

Ha mangiato pesce gli avevano spiegato.

Portate l'ossigeno che si trova nell'ambulanza aveva detto Jaime mentre preparava un'iniezione.

Era rimasto col Candidato, tutt'e due seduti sulla sponda del letto, finché la donna non aveva ripreso a respirare normalmente ed era riuscita a infilarsi di nuovo la lingua in bocca. Avevano parlato di socialismo e di scacchi e quello era stato l'inizio di una buona amicizia. Jaime si era presentato col cognome di sua madre, che usava sempre, senza pensare che il giorno dopo i servizi di sicurezza del partito avrebbero fornito all'altro l'informazione che era figlio del senatore Trueba, il suo peggiore nemico politico. Il Candidato tuttavia, non vi aveva mai accennato e persino nell'ora della fine, quando entrambi si strinsero la mano per l'ultima volta nel fragore dell'incendio e delle pallottole, Jaime si chiedeva se un giorno avrebbe avuto il coraggio di dirgli la verità.

La sua lunga esperienza della sconfitta e la sua conoscenza del popolo permisero al Candidato di rendersi conto prima di tutti che in quell'occasione avrebbe vinto. Lo disse a Jaime e aggiunse che la consegna era di non divulgare la notizia, affinché la destra si presentasse alle elezioni sicura del trionfo, arrogante e divisa. Jaime aveva replicato che, quand'anche l'avesse detto a tutti, nessuno gli avrebbe creduto, neppure gli stessi socialisti, e a prova di ciò l'aveva annunciato a suo padre.

Jaime continuò a lavorare quattordici ore al giorno, comprese le domeniche, senza partecipare alla contesa politica. Era intimorito dal corso violento di quella lotta, che stava polarizzando tutte le forze ai due estremi, lasciando al centro solo un gruppo indeciso e volubile, che aspettava di vedere il vincitore per votarlo. Non si lasciò provocare da suo padre, che approfittava di tutte le occasioni in cui stavano insieme per prevenirlo sulle manovre del comunismo internazionale e sul caos che avrebbe coinvolto la patria nel caso improbabile che avesse vinto la sinistra. L'unica volta che Jaime perse la pazienza fu quando una mattina trovò la città tappezzata di manifesti truculenti in cui appariva una madre panciuta e desolata, che tentava inutilmente di strappare suo figlio a un soldato comunista che lo portava a Mosca. Era la campagna di terrore organizzata dal senatore Trueba e dai suoi correligionari, con l'aiuto di esperti stranieri importati appositamente a quel fine. Fu troppo per Jaime. Decise che non poteva vivere sotto lo stesso tetto di suo padre, chiuse il tunnel, prese la sua roba e se ne andò a dormire all'ospedale.

Gli eventi precipitarono negli ultimi mesi prima delle elezioni. Su tutti i muri c'erano i ritratti dei candidati, gettarono manifestini dall'aria con aeroplani e ricoprirono le strade di un'immondizia stampata che cadeva come neve dal cielo, le radio urlavano gli slogan politici e vi furono le scommesse più folli tra i sostenitori di ogni schieramento. Di notte gruppi di giovani partivano all'assalto dei loro nemici ideologici. Si organizzavano assembramenti accalcati per sondare la popolarità di ogni partito e ciascuno riempiva la città e ammassava gente nella stessa misura. Alba era euforica, ma Miguel le aveva spiegato che le elezioni erano una buffonata e che chiunque avesse vinto era lo stesso, perché se non era zuppa era pan bagnato e la rivoluzione non la si poteva fare dalle urne elettorali, ma col sangue del popolo. L'idea di una rivoluzione pacifica nella democrazia e con piena libertà era un controsenso.

Quel povero ragazzo è matto! esclamò Jaime quando Alba glielo raccontò. Vinceremo e dovrà ringoiarsi le sue parole.

Fino a quel momento, Jaime era riuscito ad eludere Miguel. Non voleva conoscerlo. Segrete e inconfessabili gelosie lo tormentavano. Aveva aiutato Alba a nascere e l'aveva tenuta mille volte sulle sue ginocchia, le aveva insegnato a leggere, le aveva pagato la scuola e festeggiato ogni suo compleanno, si sentiva come suo padre e non poteva evitare l'inquietudine di vederla trasformata in una donna. Aveva notato il cambiamento negli ultimi anni e s'ingannava con false argomentazioni, nonostante la sua esperienza nel curare altri esseri umani gli avesse insegnato che solo l'amore può conferire quello splendore a una donna. Dal giorno alla notte aveva visto maturare Alba, abbandonando le forme imprecise dell'adolescenza, per sistemarsi nel suo nuovo corpo di donna soddisfatta e calma. Sperava con assurda veemenza che l'amore di sua nipote fosse un sentimento passeggero, perché nell'intimo non voleva accettare che avesse più bisogno di un altro uomo che di lui. Tuttavia, non poté continuare a ignorare Miguel. In quei giorni Alba gli aveva raccontato che sua sorella era malata.

Voglio che parli con Miguel, zio. Lui ti dirà di sua sorella. Lo faresti per me? chiese Alba.

Quando Jaime conobbe Miguel, in un piccolo caffè del quartiere, tutta la sua diffidenza non poté impedire che un'ondata di simpatia gli facesse dimenticare il suo antagonismo, perché l'uomo che aveva di fronte mentre mescolava nervosamente il suo caffè non era l'estremista petulante e spaccone che si aspettava, bensì un giovane commosso e tremante, che, spiegando i sintomi della malattia di sua sorella, lottava contro le lacrime che gli annebbiavano gli occhi.

Portami da lei disse Jaime.

Miguel e Alba lo condussero nel quartiere degli artisti. In pieno centro, a pochi metri dagli edifici moderni di acciaio e vetro, erano sorte sui fianchi della collina le stipate strade dei pittori, dei ceramisti, degli scultori. Lì avevano costruito le tane, dividendo le antiche case in minuscoli studi. I laboratori degli artigiani si aprivano al cielo attraverso i soffitti di vetro e nei bui porcili sopravvivevano gli artisti in un paradiso di grandezze e di miserie. Nei vicoli giocavano bambini tranquilli, belle donne con lunghe tuniche portavano le loro creature sulle spalle o su un'anca e gli uomini barbuti, sonnolenti, tediati guardavano passare la vita seduti agli angoli o sulle soglie delle porte. Si fermarono davanti a una casa in stile francese, decorata come una torta di crema con angioletti nei fregi. Salirono per una scala stretta, costruita come uscita d'emergenza in caso d'incendio, e che le numerose suddivisioni dell'edificio avevano trasformato nell'unico accesso. A mano a mano che salivano, la scala si piegava su se stessa e li avvolgeva in penetrante odore di aglio, marijuana e trementina. Miguel si fermò all'ultimo piano, di fronte a una porta pitturata d'arancio, tirò fuori una chiave e aprì. Jaime e Alba credettero di entrare in un'uccelliera. La stanza era rotonda, coronata da un'assurda cupola bizantina, e circondata da vetri, da cui la vista poteva spaziare sui tetti della città e sentirsi molto vicina alle nuvole. Le colombe avevano fatto il nido sui davanzali delle finestre e contribuito con i loro escrementi e le loro piume alla marezzatura dei vetri. Seduta su di una seggiola, davanti all'unico tavolo, c'era una donna che indossava una vestaglia ornata con un triste drago sfilacciato ricamato sul petto. Jaime ebbe bisogno di qualche secondo per riconoscerla.

Amanda... Amanda... balbettò.

Non l'aveva più rivista da oltre vent'anni, quando l'amore che entrambi nutrivano per Nicolás era stato più forte di quello che sentivano tra loro. In quel tempo il giovane atletico, bruno, con capelli imbrillantinati e sempre umidi, che passeggiava leggendo ad alta voce i suoi trattati di medicina, si era trasformato in un uomo leggermente curvo per via dell'abitudine di chinarsi sui letti degli ammalati, con i capelli grigi, un viso grave e lenti spesse dalla montatura metallica, ma nel fondo era la stessa persona. Per riconoscere Amanda, tuttavia, bisognava averla amata molto. Dimostrava più anni di quanti ne poteva avere, era molto magra, quasi all'osso, la pelle macilenta e giallastra e le mani molto trascurate, con le dita macchiate di nicotina. I suoi occhi erano gonfi, senza luce, arrossati, con le pupille dilatate, cosa che le conferiva un aspetto derelitto e terrorizzato. Non vide né Jaime né Alba, ebbe occhi solo per Miguel. Fece per alzarsi, inciampò e traballò. Suo fratello le si avvicinò e la sostenne, stringendosela contro il petto.

Vi conoscevate? chiese Miguel stupito.

Sì, molto tempo fa disse Jaime.

Pensò che era inutile parlare del passato e che Miguel e Alba erano troppo giovani per capire la sensazione di perdita irreparabile che provava in quel momento. Con un colpo di spugna si era cancellata l'immagine della zingara che aveva custodito in tutti quegli anni nel suo cuore, unico amore nella solitudine del suo destino. Aiutò Miguel a distendere la donna sul divano che le serviva da letto e le sistemò il guanciale. Amanda si chiuse la vestaglia con la mano, difendendosi debolmente e balbettando incoerenze. Era scossa da tremori convulsi e ansimava come un cane stanco. Alba la osservò inorridita, e, solo quando Amanda fu sdraiata, quieta e con gli occhi chiusi, riconobbe la donna che sorrideva nella piccola fotografia che Miguel portava sempre nel suo portafoglio. Jaime le parlò con una voce sconosciuta, e a poco a poco riuscì a tranquillizzarla, l'accarezzò con gesti teneri e paterni, come quelli che talvolta usava con gli animali, finché l'ammalata non si rilassò e permise che le sollevasse le maniche del vecchio chimono. Apparvero le sue braccia scheletrite e Alba vide che aveva migliaia di piccole cicatrici, lividi e punture, qualcuna infetta e suppurante. Poi le scoprì le gambe e pure le sue cosce erano torturate. Jaime l'osservò con tristezza comprendendo in quell'istante l'abbandono, gli anni di miseria, gli amori frustrati e il terribile cammino che quella donna aveva percorso sino ad arrivare al punto di disperazione in cui si trovava. La ricordò com'era in gioventù, quando lo abbagliava scuotendo i suoi capelli, il tintinnio dei suoi bracciali, la sua risata argentina e il suo candore nell'abbracciare idee strambe e inseguire illusioni. Si maledisse per averla lasciata andare via e per tutto quel tempo perduto da entrambi.

Bisogna ricoverarla. Solo una cura di disintossicazione potrà salvarla disse. Soffrirà molto aggiunse.

 

 

12. LA COSPIRAZIONE

 

Così come aveva pronosticato il Candidato, i socialisti, alleati col resto dei partiti della sinistra, vinsero le elezioni presidenziali. Il giorno delle votazioni trascorse senza incidenti in una luminosa mattinata di settembre. Quelli di sempre, abituati al potere da tempi immemorabili, sebbene negli ultimi anni avessero visto indebolirsi molto le loro forze, si prepararono a festeggiare il trionfo con settimane d'anticipo. Nei negozi non c'erano più liquori, nei mercati erano finiti i frutti di mare freschi e le pasticcerie lavoravano a doppio turno per soddisfare la richiesta di torte e di pasticcini. Nel Quartiere Alto non si allarmarono sentendo i risultati dei calcoli parziali nelle province, che favorivano la sinistra, perché tutti sapevano che i voti della capitale erano decisivi. Il senatore Trueba seguì la votazione dalla sede del suo partito, con perfetta calma e buon umore, ridendo petulante quando qualcuno dei suoi uomini s'innervosiva per l'avanzata evidente del candidato dell'opposizione. In anticipo sul trionfo, aveva smesso il lutto stretto infilandosi una rosa rossa all'occhiello della giacca. Lo intervistarono alla televisione e tutto il paese poté udirlo: "Vinceremo noi, quelli di sempre", disse superbamente, e poi invitò a brindare al "difensore della democrazia".

Nella grande casa dell'angolo, Blanca, Alba e la servitù stavano davanti al televisore, bevendo tè, mangiando fette di pane tostato e annotando i risultati per seguire da vicino la corsa finale, quando videro apparire il nonno sullo schermo, più anziano e più testardo che mai.

Gli verrà un accidente disse Alba. Perché questa volta vinceranno gli altri.

Fu subito chiaro per tutti che solo un miracolo avrebbe cambiato il risultato che si andava profilando nell'arco della giornata. Nelle residenze signorili bianche, azzurre e gialle del Quartiere Alto cominciarono a chiudere le persiane, a sbarrare le porte e a ritirare frettolosamente le bandiere e i ritratti del loro candidato, che erano state esposte con anticipo sui balconi. Intanto, dai borghi periferici e dai quartieri operai uscirono in strada intere famiglie, padri, bambini, nonni, con i loro abiti della festa, marciando allegramente verso il centro. Portavano radio a transistor per udire gli ultimi risultati. Nel Quartiere Alto, alcuni studenti, infiammati d'idealismo, fecero uno sberleffo ai genitori raccolti intorno al televisore con espressione funebre, e si lanciarono pure loro in strada. Dalla periferia industriale arrivarono i lavoratori in colonne ordinate con i pugni sollevati, cantando gli slogan della campagna. Si riunirono tutti nel centro, gridando come un solo uomo che el pueblo unido jamás será vencido. Tirarono fuori bianchi fazzoletti e aspettarono. A mezzanotte si venne a sapere che aveva vinto la sinistra. In un batter d'occhi i gruppi dispersi s'ingrossarono, si gonfiarono, si estesero e le strade si riempirono di gente euforica che saltava, gridava, si abbracciava e rideva. Accesero torce e lo schiamazzo delle voci e i balli in strada si trasformarono in una giubilante e disciplinata mascherata che cominciò ad avanzare verso i lindi viali della borghesia. E allora si vide il desueto spettacolo della gente del popolo, uomini con i loro scarponi della fabbrica, donne con i loro figli in braccio, studenti in maniche di camicia, passeggiare tranquillamente per la zona riservata ed elegante dove ben poche volte si erano avventurati e dove erano stranieri. Il clamore dei loro canti, i loro passi e la luminaria delle loro torce penetrarono dentro le case chiuse e silenziose, dove tremavano quelli che avevano finito per credere nella loro stessa campagna di terrore ed erano convinti che il volgo li avrebbe fatti a pezzi o, nel migliore dei casi, spogliati dei loro beni e mandati in Siberia. Ma la folla ruggente non forzò alcuna porta né calpestò i giardini perfetti. Passò allegramente senza toccare i veicoli di lusso parcheggiati in strada, girò per la piazza e per i parchi dove non aveva mai messo piede, indugiò stupita davanti alle vetrine dei negozi, che risplendevano come a Natale e dove si offrivano oggetti che neppure sapeva che uso avevano e continuò il suo cammino imperturbabile. Quando le colonne passarono davanti a casa sua, Alba uscì di corsa e vi si mescolò cantando a squarciagola. Il popolo festante sfilò per tutta la notte. Nelle belle case le bottiglie di champagne rimasero tappate, le aragoste languirono sui loro vassoi d'argento e le torte si riempirono di mosche.

Al mattino, Alba scorse fra la ressa che già cominciava a disperdersi l'inconfondibile figura di Miguel, che andava gridando con una bandiera tra le mani. Si fece strada verso di lui, chiamandolo inutilmente, perché non poteva sentirla in mezzo a quel bailamme. Quando gli si mise davanti e Miguel la vide, passò la bandiera a quello che gli stava più vicino e l'abbracciò, sollevandola da terra. I due erano all'estremo delle forze e mentre si baciavano piangevano d'allegria.

Te l'avevo detto che avremmo vinto con le buone, Miguel! rise Alba.

Abbiamo vinto, ma adesso dobbiamo difendere questo trionfo replicò.

Il giorno dopo, quegli stessi che avevano passato la notte a lume di candela terrorizzati nelle loro case, uscirono come una valanga impazzita e presero d'assalto le banche, esigendo di riavere il denaro. Chi aveva più coraggio, preferiva tenerselo sotto il materasso o mandarlo all'estero. In ventiquattr'ore, il valore della proprietà calò a meno della metà e tutti i biglietti d'aereo si esaurirono nella follia di uscire dal paese prima dell'arrivo dei sovietici che avrebbero messo filo spinato alla frontiera. Il popolo che era sfilato trionfante andò a vedere la borghesia che faceva la coda e litigava alle porte delle banche e si sganasciò dal ridere. In poche ore il paese si divise in due campi inconciliabili e la divisione cominciò a estendersi in tutte le famiglie.

Il senatore Trueba trascorse la notte nella sede del suo partito, trattenuto con la forza dai suoi seguaci, che erano sicuri che se usciva in strada la folla non avrebbe avuto difficoltà a riconoscerlo e l'avrebbe appeso a un lampione. Trueba era più stupito che furioso. Non riusciva a credere a quanto era successo, nonostante fossero molti anni che andava ripetendo la solfa che il paese era pieno di marxisti. Non si sentiva depresso, al contrario. Nel suo vecchio cuore di lottatore palpitava un'emozione esaltata che non sentiva più dalla giovinezza.

Una cosa è vincere le elezioni e un'altra molto diversa è essere Presidente disse misteriosamente ai suoi piagnucolosi correligionari.

L'idea di eliminare il nuovo Presidente, tuttavia, non stava ancora nella mente di nessuno, perché i suoi nemici erano sicuri che l'avrebbero liquidato seguendo la stessa via legale che gli aveva permesso di trionfare. Questo era quanto Trueba pensava. Il giorno dopo, quando fu evidente che non era il caso di temere la folla in festa, uscì dal suo rifugio e si diresse a una casa di campagna nei dintorni della città, dove si tenne un pranzo segreto. Lì si riunì con altri politici, qualche militare e con i gringos inviati dal servizio segreto, per tracciare il piano che doveva far cadere il nuovo governo: la destabilizzazione economica, come chiamarono il sabotaggio.

Quella casa era un edificio di stile coloniale, circondata da un cortile di ciottoli. All'arrivo del senatore Trueba c'erano già diverse auto parcheggiate. Lo accolsero con effusione, perché era uno dei leader indiscussi della destra e perché lui, per prevenire quello che era poi successo, aveva mantenuto i contatti necessari con mesi di anticipo. Dopo il pranzo, pesce freddo con salsa di palta, porchetta arrosto al brandy e mousse di cioccolata, allontanarono i camerieri e sbarrarono le porte del salone. Lì tracciarono a grandi linee la loro strategia e poi, in piedi, fecero un brindisi alla patria. Tutti loro, meno gli stranieri, erano disposti ad arrischiare la metà delle loro fortune personali nell'impresa, ma solo il vecchio Trueba era disposto a dare anche la vita.

Non lo lasceremo in pace nemmeno un minuto. Dovrà rinunciare disse con fermezza.

E se così non funzionasse, senatore, ecco cos'abbiamo aggiunse il generale Hurtado posando la sua arma d'ordinanza sulla tovaglia.

Un colpo di stato non ci interessa, generale! replicò nel suo corretto castigliano l'agente segreto dell'ambasciata. Vogliamo che il marxismo fallisca strepitosamente e cada da solo, per togliere quest'idea dalla testa ad altri paesi del continente. Capisce? è una faccenda che sistemeremo col danaro. Possiamo ancora comprare qualche parlamentare perché non lo confermino presidente. Sta nella sua costituzione: non ha avuto la maggioranza assoluta e il parlamento deve decidere.

Si tolga quest'idea dalla testa, mister! esclamò il senatore Trueba. Qui non potrà corrompere nessuno! Il Congresso e le Forze Armate sono incorruttibili. È meglio investire tutto il denaro per comprare tutti i mezzi di comunicazione. Così saremo padroni dell'opinione pubblica, che è l'unica cosa realmente importante.

È una follia! La prima cosa che faranno i marxisti sarà quella di abolire la libertà di stampa! dissero più voci all'unisono.

Credetemi, signori replicò il senatore Trueba. Io conosco questo paese. Non toglieranno mai la libertà di stampa. Del resto, è nel suo programma di governo, ha giurato di rispettare le libertà democratiche. Lo cattureremo con la sua stessa rete.

Il senatore Trueba aveva ragione. Non riuscirono a corrompere i parlamentari e nel tempo previsto dalla legge la sinistra assunse tranquillamente il potere. E allora la destra cominciò ad accumulare odio.

Dopo le elezioni, la vita cambiò per tutti e quelli che avevano pensato di poter continuare come sempre ben presto si resero conto che era un'illusione. Per Pedro Terzo García il cambiamento fu brutale. Aveva vissuto schivando i tranelli della vita abitudinaria, libero e povero come un trovatore errante, senza mai portare scarpe di cuoio, né cravatta e orologio, permettendosi il lusso della tenerezza, del candore, dello sperpero e della siesta, perché non doveva renderne conto a chicchessia. Ogni volta faticava sempre di più a trovare l'inquietudine e il dolore necessari per comporre una nuova canzone perché con gli anni aveva acquistato una grande pace interiore e la ribellione che lo mobilitava in gioventù si era trasformata nella mansuetudine dell'uomo soddisfatto di se stesso. Era austero come un francescano. Non aveva alcuna ambizione di denaro e di potere. L'unica macchia nella sua tranquillità era Blanca. Aveva smesso di interessargli l'amore senza futuro delle adolescenti e aveva acquisito la certezza che Blanca era l'unica donna per lui. Contò gli anni che l'aveva amata in clandestinità e non riuscì a ricordare nemmeno un momento della sua vita in cui lei non fosse stata presente. Dopo l'elezione presidenziale, vide l'equilibrio della sua esistenza sconvolto dall'urgenza di collaborare col governo. Non poté rifiutare, perché, come gli spiegarono, i partiti di sinistra non avevano abbastanza uomini all'altezza di tutte le funzioni che dovevano svolgere.

Sono un contadino. Non ho preparazione cercò di scusarsi.

Non importa, compagno. Lei, almeno, è popolare. Anche se commettesse errori, la gente glielo perdonerebbe gli risposero.