– Lo vedi, Nicolás, sei un bambino – disse senza sorridere.
Nel momento di uscire, il piccolo Miguel si mise una mantellina e si aggrappò alla mano di sua sorella. Nicolás dovette ricorrere prima al suo fascino e poi alla forza bruta per lasciarlo alla padrona della pensione, che negli ultimi giorni era stata definitivamente sedotta dal sedicente cugino della sua pensionante, e, contro le sue stesse regole, aveva accettato di badare al bambino per quella notte. Fecero il tragitto senza parlare, ciascuno immerso nei propri timori. Nicolás percepiva l'ostilità di Amanda come un morbo che si fosse frapposto tra loro due. Negli ultimi giorni lei era arrivata a maturare l'idea della morte e la temeva meno del dolore e dell'umiliazione che avrebbe dovuto sopportare quella notte. Lui guidava la Covadonga per un settore sconosciuto della città, vicoli stretti e bui dove si ammucchiava l'immondizia contro gli alti muri delle fabbriche, in una foresta di ciminiere che sbarravano il passaggio al colore del cielo. I cani randagi annusavano la sporcizia e i mendicanti dormivano avvolti nei giornali nelle rientranze delle porte. Si stupì che quello fosse lo scenario quotidiano delle attività di suo fratello.
Jaime stava aspettandoli sulla soglia dell'ambulatorio. Il camice bianco e la sua stessa ansietà gli conferivano un aspetto molto più vecchio. Li condusse attraverso un labirinto di corridoi gelidi sino alla sala che aveva preparato, facendo in modo da distrarre Amanda dalla bruttezza del luogo, affinché non vedesse gli asciugamani giallastri nei recipienti in attesa del bucato del lunedì, le parolacce incise sui muri, le piastrelle staccate e i rubinetti arrugginiti che gocciolavano senza tregua. Sulla soglia della sala Amanda si fermò con un'espressione di terrore: aveva visto gli strumenti e il letto ginecologico e quanto fino a quel momento era stato un'idea astratta e un civettare con la possibilità della morte in quell'istante prese forma. Nicolás era livido, ma Jaime lo prese per un braccio e lo costrinse a entrare.
– Non guardare, Amanda! Ti addormenterò, così non sentirai niente – le disse.
Non aveva mai fatto un'anestesia, né era intervenuto in un'operazione. Come studente si limitava a lavori amministrativi, compilare statistiche, riempire schede e aiutare nelle cure, nelle suturazioni e nelle incombenze di minor importanza. Era più spaventato di Amanda stessa, ma assunse l'atteggiamento prepotente e distaccato che aveva visto nei medici, affinché credesse che la faccenda era roba di tutti i giorni. Volle evitarle l'imbarazzo di spogliarsi ed evitare a se stesso l'inquietudine di vederla, sicché l'aiutò a stendersi sul letto vestita. Mentre si lavava le mani e indicava a Nicolás di farlo pure lui, cercava di distrarla con l'aneddoto del fantasma spagnolo che era apparso a Clara durante una riunione del venerdì e aveva raccontato che c'era un tesoro nascosto nelle fondamenta della casa, e le parlò della sua famiglia: un mucchio di pazzi stravaganti da varie generazioni, di cui perfino gli spettri si prendevano gioco. Ma Amanda non lo ascoltava, era pallida come un cencio e le battevano i denti.
– A cosa servono queste cinghie? Non voglio che mi leghi si spaventò.
– Non sto per legarti. Nicolás ti somministrerà l'etere. Respira tranquillamente, non ti spaventare e quando ti sveglierai avremo finito – sorrise Jaime con gli occhi sopra la sua maschera.
Nicolás avvicinò alla giovane la maschera dell'anestesia e l'ultima cosa che lei vide, prima di sprofondare nell'oscurità, fu Jaime che la guardava con amore, ma credette di star sognando. Nicolás le tolse gli indumenti e la legò al letto, consapevole che era peggio di una violenza, mentre suo fratello aspettava con le mani inguantate, cercando di non vedere in lei la donna che occupava tutti i suoi pensieri, bensì solo un corpo come tanti che passavano quotidianamente su quello stesso letto in un grido di dolore. Cominciò a lavorare con lentezza e attenzione, ripetendosi quello che doveva fare, masticando il testo del libro che aveva imparato a memoria, col sudore che gli cadeva sugli occhi, attento al respiro della ragazza, al colore della sua pelle, al ritmo del suo cuore, per indicare a suo fratello che le desse più etere ogni volta che gemeva, pregando perché non ci fosse alcuna complicazione, mentre s'incitava nel più intimo, senza smettere, in tutto quel tempo, di maledire suo fratello col pensiero, perché se quel figlio fosse stato suo e non di Nicolás, sarebbe nato sano e integro, invece di andarsene in pezzi per gli scarichi di quell'ambulatorio e lui l'avrebbe ninnato e protetto, invece di tirarlo fuori dal suo nido a cucchiaiate. Venticinque minuti dopo aveva finito e diede ordine a Nicolás di aiutarlo a sistemarla fintanto che le durava l'effetto dell'etere, ma vide suo fratello che vacillava appoggiato alla parete, in preda a violenti conati.
– Idiota! – ruggì Jaime – va' al cesso e dopo avere vomitato la colpa aspetta in sala d'attesa, perché ne abbiamo ancora per un pezzo!
Nicolás uscì incespicando e Jaime si tolse i guanti e la maschera e cominciò a sciogliere le cinghie ad Amanda, a infilarle delicatamente gli indumenti, a nascondere le prove insanguinate della sua opera e a sottrarre alla sua vista gli strumenti di tortura. Poi la sollevò in braccio, assaporando quell'istante in cui poteva stringerla al petto, e la posò su un letto cui aveva messo lenzuola pulite, che era più di quello che avevano le donne che andavano all'ambulatorio a chiedere aiuto. La coprì e si sedette al suo fianco. Per la prima volta nella sua vita poteva osservarla a suo agio. Era più piccola e dolce di quanto sembrava allorché andava in giro col suo travestimento da pitonessa e la sua sonagliera di perline, e, come sempre aveva sospettato, nel suo corpo sottile le ossa erano appena un accenno tra le piccole colline e le lisce pianure della sua femminilità. Senza la sua capigliatura eccessiva e i suoi occhi da sfinge, sembrava avere quindici anni. La sua vulnerabilità sembrò a Jaime più desiderabile di tutto quello che prima in lei l'aveva sedotto. Si sentiva due volte più grande e pesante di lei e mille volte più forte, ma si sentiva sconfitto in anticipo dalla tenerezza e dall'ansia di proteggerla. Maledisse il suo invincibile sentimentalismo e cercò di vederla come l'amante di suo fratello alla quale aveva finito di procurare un aborto, ma subito capì che era un tentativo inutile e si abbandonò al piacere e alla sofferenza di amarla. Accarezzò le sue mani trasparenti, le sue dita sottili, la curva delle sue orecchie, percorse il suo collo sentendo il rumore impercettibile della vita nelle sue vene. Avvicinò la bocca alle sue labbra e aspirò con avidità l'odore dell'anestesia, ma non osò toccarle.
Amanda si riprese lentamente dal sonno. Dapprima sentì freddo e poi la scossero i conati. Jaime la consolò parlandole con lo stesso linguaggio segreto che riserbava agli animali e ai bambini piccoli dell'ospedale dei poveri, finché non si fu calmata. Lei cominciò a piangere e lui continuò ad accarezzarla. Rimasero in silenzio, lei in bilico tra la sonnolenza, la nausea, l'angoscia e il dolore che cominciava ad attanagliarle il ventre, e lui desiderando che quella notte non terminasse mai.
– Credi che potrò avere altri figli? – chiese lei infine.
– Suppongo di sì – rispose lui. – Ma cercagli un padre responsabile.
Sorrisero entrambi sollevati. Amanda cercò nel viso bruno di Jaime, chino accanto al suo, qualche somiglianza con quello di Nicolás, ma non riuscì a trovarla. Per la prima volta nella sua esistenza di nomade si sentì protetta e sicura, sospirò contenta e dimenticò il lerciume che la circondava, le pareti screpolate, i freddi armadi metallici, gli spaventosi strumenti, l'odore di disinfettante e anche quel sordo dolore che si era installato nelle sue viscere.
– Per favore, sdraiati vicino a me e abbracciami – disse.
Lui si distese timidamente nello stretto letto, circondandola con le sue braccia. Cercava di stare fermo per non darle fastidio e non cadere. Aveva la tenerezza goffa di chi non è mai stato amato e deve improvvisare. Amanda serrò gli occhi e sorrise. Stettero così respirando vicini in completa calma, come due fratelli, finché non cominciò a far chiaro e la luce che entrava dalla finestra fu più forte di quella della lampada. Allora Jaime l'aiutò ad alzarsi in piedi, le mise il cappotto e la condusse a braccetto sino all'anticamera dove Nicolás si era addormentato su una seggiola.
– Sveglia! La portiamo a casa perché se ne occupi nostra madre. È meglio non lasciarla sola per qualche giorno – disse Jaime.
– Sapevo che potevamo contare su di te, fratello – ringraziò Nicolás, emozionato.
– Non l'ho fatto per te, disgraziato, ma per lei – grugnì Jaime voltandogli le spalle.
Nella grande casa dell'angolo Clara li accolse senza fare domande, o forse le aveva fatte direttamente alle carte o agli spiriti. Dovettero svegliarla, perché stava albeggiando e nessuno si era ancora alzato.
– Mamma, aiuti Amanda – chiese Jaime con la sicurezza che gli veniva dalla lunga complicità che avevano in queste cose. – È malata e si fermerà qui per qualche giorno.
– E Miguelito? – chiese Amanda.
– Andrò a prenderlo io – disse Nicolás e uscì.
Prepararono una delle stanze degli ospiti e Amanda si mise a letto. Jaime le misurò la febbre e disse che doveva riposare. Fece per andarsene, ma si fermò sulla soglia della porta, indeciso. In quel momento tornò Clara reggendo un vassoio col caffè per tutti e tre.
– Immagino che le dobbiamo una spiegazione, mamma mormorò Jaime.
– No, figlio – rispose Clara allegramente. – Se è un peccato preferisco che non me lo raccontiate. Approfittiamone per fare riposare un po' Amanda, che ne ha molto bisogno.
Uscì seguita da suo figlio. Jaime vide sua madre avanzare lungo il corridoio, scalza, con i capelli sciolti sulle spalle, avvolta nella sua vestaglia bianca e notò che non era alta e forte come l'aveva vista nella sua infanzia. Allungò la mano e gliela posò sulla spalla. Lei voltò la testa, sorrise, e Jaime l'abbracciò con slancio, stringendola contro il suo petto, graffiandole la fronte col mento sul quale la sua barba impossibile reclamava ormai un'altra rasatura. Era la prima volta che le faceva una carezza spontanea da quando era un bambino attaccato per bisogno ai suoi seni e Clara si stupì nel constatare quanto grande era suo figlio, con un torace da sollevatore di pesi e due braccia come martelli che la stringevano forte in un gesto timoroso. Emozionata e felice si chiese com'era possibile che quell'omaccione peloso con la forza di un orso e il candore di una novizia avesse potuto stare una volta nella sua pancia e per giunta in compagnia di un altro.
Nei giorni successivi Amanda ebbe la febbre. Jaime, spaventato, la sorvegliava di continuo e le somministrava sulfamidici. Clara la curava. Non mancò di notare che Nicolás chiedeva di lei discretamente, ma non faceva alcun tentativo per andarla a trovare, mentre Jaime si chiudeva nella stanza con lei, le prestava i suoi libri più cari e camminava come trasognato, dicendo incoerenze e girando per la casa come non aveva mai fatto, al punto che il Giovedì dimenticò la riunione dei socialisti.
E fu così che Amanda divenne parte della famiglia per un certo tempo e che Miguelito, per una circostanza speciale, fu presente, nascosto nell'armadio, il giorno in cui nacque Alba in casa dei Trueba e non dimenticò mai più il grandioso e terribile spettacolo della creatura che veniva al mondo avvolta nei suoi muchi insanguinati, tra le grida della madre e la confusione delle donne che le si affannavano intorno.
Intanto Esteban Trueba era partito per il Nordamerica. Stanco del male alle ossa e di quella segreta malattia che lui solo percepiva, aveva preso la decisione di farsi visitare da medici stranieri perché era giunto alla conclusione che i dottori latini erano tutti dei ciarlatani più vicini allo stregone aborigeno che alla scienza. Il suo rimpicciolimento era così impercettibile, così lento e dissimulato, che nessuno se n'era ancora accorto. Doveva comprare le scarpe di un numero in meno, doveva farsi accorciare i pantaloni, farsi fare balze alle maniche delle camicie. Un giorno si era messo il cappello estivo che non aveva usato per tutta l'estate e aveva visto che gli copriva completamente le orecchie, sicché dedusse terrorizzato che, se gli si stava restringendo la misura del cervello, probabilmente gli si restringevano anche le idee. I medici nordamericani gli misurarono il corpo, lo pesarono pezzo per pezzo, gli fecero domande in inglese, gli iniettarono del liquido con un ago e glielo tolsero con un altro, gli fecero delle lastre, lo rivoltarono come un guanto e gli misero perfino una lampada nell'ano. Infine conclusero che erano solo idee sue, che non pensasse di star rimpicciolendo, che aveva sempre avuto le stesse dimensioni e che aveva sicuramente sognato di essere stato una volta alto un metro e ottanta e di avere calzato il quarantadue. Esteban Trueba finì per perdere la pazienza e tornò in patria disposto a non badare al problema della statura, dato che tutti i grandi uomini politici della storia erano stati piccoli, da Napoleone fino a Hitler. Quando tornò a casa sua, vide Miguel che giocava nel giardino e Amanda più magra e con le occhiaie, spoglia delle sue collane e dei suoi braccialetti, seduta con Jaime sulla terrazza. Non fece domande, perché era abituato a vedere gente estranea alla famiglia vivere sotto il suo stesso tetto.
8. IL CONTE
Quel periodo sarebbe rimasto immerso nella confusione dei ricordi antichi e scoloriti dal tempo, se non fosse stato per le lettere che Clara e Blanca si scambiarono tra di loro. Quella nutrita corrispondenza preservò gli eventi, salvandoli dalla nebulosa dei fatti improbabili. Dalla prima lettera che ricevette da sua figlia, Clara poté indovinare che la separazione da Blanca non sarebbe durata a lungo. Senza dirle niente, sistemò una delle più assolate e spaziose stanze della casa, per aspettarla. Vi mise la culla di bronzo nella quale aveva allevato i suoi tre figli.
Blanca non riuscì mai a spiegare le ragioni per cui aveva accettato di sposarsi, perché nemmeno lei stessa le sapeva. Analizzando il passato, quando era ormai una donna matura, giunse alla conclusione che la causa principale era stata la paura che aveva di suo padre. Da quando era in fasce aveva conosciuto la forza irrazionale della sua ira ed era abituata a obbedirgli. La sua gravidanza e la notizia che Pedro Terzo era morto avevano finito per deciderla, tuttavia si era proposta fin dal momento che aveva accettato il legame con Jean de Satigny che non avrebbe mai consumato il matrimonio. Avrebbe inventato ogni sorta di scuse per rinviare l'unione, all'inizio col pretesto dei malesseri propri del suo stato e poi ne avrebbe trovati altri, sicura che sarebbe stato molto più facile maneggiare un marito come il conte che calzava scarpe di capretto, si metteva smalto sulle unghie ed era disposto a sposarsi con una donna messa incinta da un altro, piuttosto che opporsi a un padre come Esteban Trueba. Tra i due mali aveva scelto quello che le era parso minore. Aveva intuito che tra suo padre e il conte c'era un'intesa commerciale nella quale lei non aveva niente a che vedere. In cambio di un cognome per suo nipote, Trueba aveva dato a Jean de Satigny una dote pingue e la promessa che un giorno avrebbe ricevuto una eredità. Blanca si era prestata al patto, ma non era disposta a consegnare al marito né il suo amore né la sua intimità, perché continuava ad amare Pedro Terzo García, più per forza di abitudine che per la speranza di rivederlo.
Blanca e il suo novello marito passarono la prima notte di nozze nella camera matrimoniale del migliore albergo della capitale, che Trueba aveva fatto riempire di fiori per farsi perdonare da sua figlia la sequela di violenze che le aveva inflitto negli ultimi mesi. Con sua sorpresa, Blanca non aveva avuto bisogno di simulare un mal di testa, perché quando erano rimasti soli, Jean aveva abbandonato il ruolo di fidanzato che le dava piccoli baci sul collo e sceglieva i migliori gamberi da metterle in bocca, e sembrava aver dimenticato completamente i suoi modi da primattore del cinema muto, per trasformarsi nel fratello che era stato per lei durante le passeggiate in campagna, quando andavano a fare merenda sull'erba con una macchina fotografica e i libri in francese. Jean era entrato nel bagno, dove aveva indugiato così tanto, che quando era riapparso nella camera Blanca era mezzo addormentata. Aveva creduto di sognare alla vista di suo marito che si era cambiato l'abito da matrimonio con un pigiama di seta nera e una giacca da camera di velluto pompeiano, si era messo una rete per tener ferma l'impeccabile ondulazione della sua pettinatura e profumava intensamente di colonia inglese. Sembrava non avere alcuna impazienza amatoria. Si era seduto accanto a lei sul letto e le aveva accarezzato la guancia con lo stesso gesto un po' scherzoso che aveva notato in altre occasioni, e poi aveva cominciato a spiegare, nel suo affettato spagnolo senza le erre, di non avere alcuna propensione speciale per il matrimonio, dato che era un uomo innamorato delle arti, delle lettere e delle curiosità scientifiche, e che, pertanto, non aveva intenzione d'importunarla con richieste maritali, sicché avrebbero potuto vivere insieme, ma non avvinghiati, in perfetta armonia e buona educazione. Sollevata, Blanca gli aveva gettato le braccia al collo e l'aveva baciato su entrambe le guance.
– Grazie, Jean! – aveva esclamato.
– Non c'è di che – aveva replicato lui cortesemente.
Si erano adagiati nel gran letto in falso stile Impero, commentando i particolari della festa e facendo piani per la loro vita futura.
– Non t'interessa sapere chi è il padre di mio figlio? – aveva domandato Blanca.
– Lo sono io – aveva risposto Jean baciandola sulla fronte.
Si erano addormentati ognuno dalla sua parte, voltandosi le spalle. Alle cinque del mattino Blanca si era svegliata con lo stomaco sconvolto per via dell'odore dolciastro dei fiori con cui Esteban Trueba aveva ornato la camera nuziale. Jean de Satigny l'aveva accompagnata al bagno, le aveva sorretto la fronte mentre lei si chinava sul gabinetto, l'aveva aiutata a sdraiarsi e aveva messo i fiori fuori nel corridoio. Dopo era rimasto sveglio per il resto della notte a leggere La filosofia nel salotto, del Marchese de Sade, mentre Blanca sussurrava in sogno che era stupendo essere sposata con un intellettuale.
Il giorno dopo Jean era andato in banca a cambiare un assegno di suo suocero e aveva trascorso quasi tutta la giornata girando nei negozi del centro per comprarsi il corredo da sposo che considerava consono alla sua nuova posizione economica. Intanto Blanca, stufa di aspettarlo nella hall dell'albergo, aveva deciso di andare a trovare sua madre. Si era messa il suo miglior cappellino da mattina ed era andata con un'auto pubblica alla grande casa dell'angolo, dove il resto della sua famiglia stava pranzando in silenzio, ancora arrabbiati e stanchi per i sussulti delle nozze e la risacca degli ultimi litigi. Vedendola entrare in sala da pranzo, suo padre aveva cacciato un grido di orrore.
– Che ci fa qui, figlia! – aveva ruggito.
– Niente... sono venuta a trovarvi... – aveva mormorato Blanca atterrita.
– Lei è pazza! Non si rende conto che se la gente la vede, dirà che suo marito l'ha rimandata indietro in piena luna di miele? Diranno che non era vergine!
– Il fatto è che non lo ero, papà.
Esteban era stato sul punto di appiopparle uno schiaffo, ma Jaime gli si era messo davanti con tanta decisione, che si era limitato a insultarla per la sua stupidità. Clara, imperturbabile, aveva fatto accomodare Blanca su una seggiola e le aveva servito un piatto di pesce freddo con salsa di capperi. Mentre Esteban seguitava a gridare e Nicolás andava in cerca di un'auto per restituirla a suo marito, loro due si erano messe a bisbigliare come ai vecchi tempi.
Quella stessa sera Blanca e Jean avevano preso il treno per il porto. Lì si erano imbarcati su un transatlantico inglese. Lui indossava un paio di pantaloni di lino bianco e una giacca blu dal taglio alla marinara, che s'intonava alla perfezione con la gonna blu e la giacca bianca del tailleur di sua moglie. Quattro giorni dopo, la nave li aveva depositati nella più dimenticata provincia del Nord, dove i loro eleganti abiti da viaggio e le loro valigie di coccodrillo erano passati inosservati nell'asfissiante calore secco dell'ora della siesta. Jean de Satigny aveva sistemato provvisoriamente sua moglie in albergo e si era assunto l'incombenza di cercare un alloggio degno delle sue nuove entrate. Ventiquattro ore dopo la piccola società provinciale era a conoscenza di essersi arricchita di un autentico conte. Ciò rese le cose più facili a Jean. Aveva potuto affittare un'antica magione appartenuta a una delle grandi fortune dei tempi del salnitro, prima che fosse scoperto il sostituto sintetico che aveva mandato tutta la regione in malora. La casa era un po' triste e abbandonata, come tutte le altre da quelle parti, aveva bisogno di qualche riparazione, ma conservava intatta la sua dignità di un tempo e il suo fascino di fine secolo. Il conte l'aveva decorata a suo gusto, con una raffinatezza equivoca e decadente che aveva stupito Blanca, abituata alla vita di campagna e alla sobrietà classica di suo padre. Jean aveva disposto dei sospetti e grandi vasi di porcellana cinese che al posto dei fiori contenevano piume di struzzo colorate, tendaggi di damasco con panneggi e nappine, grossi cuscini con frange e pompon, mobili di tutti gli stili, mensole dorate, paraventi e certe incredibili lampade a stelo, sorrette da statue di ceramica che riproducevano negri abissini in grandezza naturale, seminudi, ma con babbucce e turbanti. La casa stava sempre con le tende tirate, in una tenue penombra che riusciva a trattenere la luce implacabile del deserto. Negli angoli Jean aveva messo brucia incenso orientali in cui faceva ardere erbe profumate e bastoncini d'incenso che all'inizio davano il voltastomaco a Blanca, ma ai quali si era presto abituata. Aveva assunto al suo servizio diversi indiani, oltre a una grassona monumentale che si occupava della cucina, cui aveva insegnato a preparare le salse saporite che gli piacevano, e una cameriera zoppa e analfabeta che avrebbe badato a Blanca. A tutti aveva fatto indossare vistose divise da operetta, ma non era riuscito a fargli tenere le scarpe perché erano abituati a girare scalzi e non le sopportavano. Blanca si sentiva a disagio in quella casa e non aveva fiducia negli indiani impassibili che la servivano svogliatamente e sembravano prendersi gioco di lei alle sue spalle. Le giravano intorno come spiriti, scivolando senza rumore per le stanze, quasi sempre senza fare niente e annoiati. Non rispondevano quando lei parlava come se non capissero lo spagnolo, e tra di loro parlavano in sussurri o in dialetto dell'altopiano. Ogni volta che Blanca riferiva a suo marito le cose strane che notava nei servitori, lui diceva che erano abitudini da indiani e che non bisognava farci caso. La stessa cosa aveva risposto Clara per lettera quando lei le aveva raccontato che un giorno aveva visto un indiano arrampicato su un paio di scarpe antiche con tacco ritorto e fiocco di velluto, dove i grandi piedi callosi dell'uomo stavano rattrappiti. "Il calore del deserto, la gravidanza e il tuo inconfessato desiderio di vivere come una contessa, secondo il lignaggio di tuo marito, ti fanno avere delle visioni, figliola", le aveva scritto per scherzo Clara, e aveva aggiunto che il migliore rimedio contro le scarpe Luigi XV era una doccia fredda e un infuso di camomilla. Un'altra volta Blanca aveva trovato nel suo piatto una lucertolina morta che per poco non si era messa in bocca. Non appena si era rimessa dallo spavento e aveva potuto cacciar fuori la voce, aveva chiamato a urla la cuoca e le aveva indicato il piatto col dito tremante. La cuoca si era avvicinata facendo dondolare la sua immensità di grasso e le sue trecce nere, e aveva preso il piatto senza fare commenti. Ma mentre si voltava, Blanca aveva creduto di cogliere un ghigno di complicità tra suo marito e l'indiana. Quella notte era rimasta sveglia fino a molto tardi, pensando a quanto aveva visto, finché all'alba non era giunta alla conclusione che se l'era immaginato. Sua madre aveva ragione: il caldo e la gravidanza le stavano ingarbugliando le idee.
Le stanze più discoste della casa erano state destinate alla mania di Jean per la fotografia. Vi aveva installato le sue lampade, i suoi treppiedi, le sue macchine. Aveva pregato Blanca di non entrare mai senza il suo permesso in quello che aveva battezzato "il laboratorio", perché, come aveva spiegato, alla luce naturale le lastre si potevano velare. Aveva messo una chiave alla porta e la teneva sempre attaccata a una catena d'oro, cautela del tutto inutile, perché sua moglie non nutriva praticamente alcun interesse per ciò che la circondava e ancora meno per l'arte della fotografia.
A mano a mano che s'ingrossava, Blanca acquisiva una placidità orientale contro cui si schiantarono i tentativi di suo marito d'inserirla in società, condurla alle feste, o a passeggio in carrozza, di entusiasmarla con gli arredi della sua nuova casa. Greve, ingombrante, solitaria e con una perenne stanchezza, Blanca si era rifugiata nel lavoro a maglia e nel ricamo. Passava la maggior parte del giorno dormendo e nelle ore in cui era sveglia confezionava piccoli indumenti per un corredino rosa, perché era sicura di dare alla luce una bambina. Proprio come sua madre aveva fatto con lei, aveva sviluppato un sistema di comunicazione con la creatura che teneva nel grembo e andò ripiegandosi su se stessa in un silenzioso e ininterrotto dialogo. Nelle sue lettere descriveva la sua vita ritirata e malinconica e parlava di suo marito con cieca simpatia, come di un uomo fine, discreto e comprensivo. Così andava diffondendo, senza esserselo proposto, la leggenda che Jean de Satigny era quasi un principe, evitando di accennare al fatto che aspirava cocaina dal naso e che fumava oppio la sera, perché era sicura che i suoi genitori non avrebbero potuto capirlo. Aveva a sua disposizione un'intera ala della dimora. Vi aveva sistemato i suoi quartieri e lì ammucchiava tutto quello che preparava per l'arrivo di sua figlia. Jean diceva che cinquanta bambini non sarebbero riusciti a mettersi tutta quella roba e a giocare con quella quantità di giocattoli, ma l'unico diversivo che Blanca aveva era quello di girare per le poche botteghe della città e comprare tutto quanto di color rosa vedeva per un bebè. La giornata la trascorreva ricamando mantelline, confezionando scarpette di lana, decorando cestini, mettendo in ordine la fila di camicine, bavaglini, pannicelli, stirando le lenzuola ricamate. Dopo la siesta scriveva a sua madre e talvolta a suo fratello Jaime e quando il sole calava e rinfrescava un po', andava a passeggio nei dintorni perché le si sgonfiassero le gambe. La sera si univa a suo marito nella grande sala da pranzo della casa, dove i negri di porcellana, ritti nei loro angoli, illuminavano la scena con una luce da postribolo. Si sedevano ognuno a un'estremità della tavola, apparecchiata con una lunga tovaglia, cristalleria e vasellame al completo e ornata di fiori artificiali, perché in quella regione inospitale non ce n'erano di naturali. Li serviva sempre lo stesso indiano impassibile e silenzioso, che continuava a rigirarsi in bocca la stessa verde palla di foglie di coca di cui si nutriva. Non era un servitore comune e non svolgeva alcuna mansione specifica nell'ambito dell'economia domestica. E non era nemmeno il suo forte servire a tavola, perché non sapeva badare a porgere né piatti da portata né posate e finiva per buttare lì il cibo in un modo qualsiasi. Talvolta Blanca aveva dovuto avvertirlo di non prendere le patate con la mano per mettergliele nel piatto. Ma Jean de Satigny lo stimava per qualche misterioso motivo e stava avviandolo a farne un aiutante per il suo laboratorio.
– Se non può parlare come un cristiano, a maggior ragione non potrà fare fotografie – aveva osservato Blanca quand'era venuta a saperlo.
Quell'indiano era quello che Blanca aveva creduto di veder ostentare tacchi Luigi XV.
I primi mesi della sua vita di sposa erano trascorsi calmi e pieni di noia. La naturale tendenza di Blanca all'isolamento e alla solitudine si era accentuata. Si era rifiutata di fare vita di società e Jean de Satigny aveva finito per recarsi da solo ai numerosi ricevimenti cui erano invitati. Poi, quando rincasava, scherniva davanti a Blanca la pacchianeria di quelle vecchie e rancide famiglie in cui le signorine erano accompagnate dalla balia e gli uomini usavano gli scapolari. Blanca poteva condurre la vita indolente per la quale si sentiva portata, mentre suo marito si dedicava a quei piccoli piaceri che solo il denaro può consentire e ai quali aveva dovuto rinunciare per così lungo tempo. Usciva tutte le sere per andare a giocare al casinò e sua moglie aveva calcolato che doveva perdere grandi somme di denaro, perché alla fine del mese c'era invariabilmente una fila di creditori davanti alla porta. Jean aveva un'idea molto peculiare dell'economia domestica. Si era comprato un'automobile ultimo modello, con sedili foderati di pelle di leopardo e pulsanti dorati, degna di un principe arabo, la più grande e sontuosa che si fosse mai vista da quelle parti. Aveva instaurato una rete di contatti misteriosi che gli permettevano di comprare antichità, specialmente porcellana francese in stile barocco, per la quale aveva una debolezza. Inoltre aveva introdotto nel paese casse di liquori pregiati che passavano la dogana senza problemi. I suoi contrabbandi entravano in casa dalla porta di servizio e uscivano intatti dalla porta principale diretti verso altri luoghi, dove Jean li consumava in festini segreti oppure li rivendeva a un prezzo esorbitante. In casa non ricevevano visite e dopo poche settimane le signore del luogo avevano smesso d'invitare Blanca. Era corsa la voce che era orgogliosa, altera e di salute cagionevole, cosa che aveva aumentato la generale simpatia per il conte francese, il quale aveva acquisito fama di marito paziente e rassegnato.
Blanca andava d'accordo con suo marito. Le uniche occasioni in cui discutevano era quando lei cercava di sapere qualcosa delle finanze familiari. Non poteva spiegarsi come Jean potesse permettersi il lusso di comprare porcellane e di andare a spasso con quel veicolo tigrato, se non gli bastava il denaro per pagare il conto del circolo, degli alimentari né le paghe dei numerosi servitori. Jean si rifiutava di parlare della faccenda, col pretesto che quelle erano responsabilità prettamente maschili e che lei non aveva bisogno di riempire la sua testolina da passerotto con problemi che non aveva la capacità di capire. Blanca aveva sospettato che il conto di Esteban Trueba a favore di Jean de Satigny avesse fondi illimitati e, di fronte all'impossibilità di raggiungere un accordo con lui, aveva finito per disinteressarsi di quei problemi. Vegetava come un fiore di un altro clima in quella casa isolata fra arenili, circondata da indiani stravaganti che sembravano vivere in un'altra dimensione, notando spesso piccoli dettagli che la inducevano a dubitare del proprio buon senso. La realtà le appariva sbiadita, come se quel sole implacabile, che cancellava i colori, avesse deformato anche le cose che l'attorniavano e avesse trasformato gli esseri umani in ombre silenziose.
Nel sopore di quei mesi, Blanca, protetta dalla creatura che le cresceva dentro, aveva dimenticato l'immensità della sua sventura. Aveva smesso di pensare a Pedro Terzo García con l'assillante urgenza con cui lo faceva prima e si era rifugiata in ricordi dolci e appannati che poteva evocare in qualunque momento. La sua sensualità si era addormentata e le rare volte in cui meditava sul suo sfortunato destino si compiaceva a immaginare se stessa fluttuante in una nebulosa, senza pene e senza allegrie, lontana dalle cose brutte della vita, isolata, con sua figlia come unica compagnia. Era giunta a pensare di avere perduto per sempre la capacità di amare e che l'ardore della sua carne si fosse messo a tacere definitivamente. Passava interminabili ore a contemplare il paesaggio pallido che si dispiegava davanti alla sua finestra. La casa si trovava al limite della città, circondata da qualche albero rachitico che resisteva all'avanzare implacabile del deserto. Dal lato nord, il vento distruggeva ogni specie di vegetazione e si poteva vedere l'immensa piana di dune, di collinette lontane che tremavano nel riverbero della luce. Di giorno la spossava l'afa di quel sole a piombo e di notte tremava dal freddo fra le lenzuola del suo letto, difendendosi dal gelo con borse di acqua calda e scialli di lana. Guardava il cielo nudo e limpido in cerca della traccia di una nuvola, nella speranza che ogni tanto cadesse una goccia d'acqua ad alleviare l'opprimente asperità di quella vallata lunare. I mesi passavano immutabili senz'altro diversivo che le lettere di sua madre, in cui le raccontava della campagna politica di suo padre, delle follie di Nicolás, delle stravaganze di Jaime, che viveva come un prete, ma che aveva gli occhi da innamorato. Clara le aveva suggerito, in una delle sue lettere, che per tenere le mani occupate, riprendesse a fare i suoi presepi. Lei ci aveva provato, si era fatta mandare l'argilla speciale che era abituata a usare alle Tre Marie, aveva organizzato il suo laboratorio nella parte dietro la cucina e aveva messo un paio d'indiani a costruire il forno per cuocere le figurine di ceramica. Ma Jean de Satigny la prendeva in giro dicendo che, per tenere le mani occupate, era meglio che facesse scarpette a maglia e imparasse a confezionare dolcetti di pasta sfoglia. Aveva finito per abbandonare il suo lavoro non tanto per i sarcasmi di suo marito, quanto perché aveva capito che le era impossibile competere con l'antica arte ceramica degli indiani.
Jean aveva organizzato il suo commercio con la stessa tenacia con cui prima si era occupato dei cincillà, ma con maggiore successo. A parte un sacerdote tedesco che da vent'anni percorreva la regione per dissotterrare il passato degli Incas, nessuno si era mai preoccupato di quelle reliquie, considerandole di scarso valore commerciale. Il governo proibiva il traffico delle antichità indigene e aveva dato una concessione plenaria al prete, che era autorizzato a raccogliere i pezzi e a consegnarli al museo. Aveva trascorso due giorni col prete tedesco, il quale, felice di trovare dopo tanti anni una persona interessata al suo lavoro, non aveva avuto difficoltà a rivelare le sue conoscenze. Era così venuto al corrente del modo in cui si poteva stabilire per quanto tempo erano rimaste sepolte, aveva imparato a conoscere le differenze di epoca e di stile, aveva scoperto il modo d'individuare i cimiteri nel deserto tramite segni invisibili all'occhio civile ed era arrivato infine alla conclusione che quelle terrecotte, pur non avendo il dorato splendore di quelle delle tombe egizie, avevano almeno lo stesso valore storico. Una volta ottenute tutte le informazioni che gli erano necessarie, aveva organizzato le sue squadre d'indiani per dissotterrare quanto era sfuggito allo zelo archeologico del prete.
Le magnifiche ceramiche funerarie, verdi per la patina del tempo, avevano cominciato ad arrivare a casa sua nascoste in fagotti di stoffa indiana e in bisacce di pelle di lama, riempiendo rapidamente i posti segreti a loro destinati. Blanca le vedeva ammucchiarsi nelle stanze e restava meravigliata dalle loro forme. Le prendeva in mano accarezzandole come ipnotizzata e quando le imballavano con paglia e carta per inviarle a destinazioni lontane e sconosciute, si sentiva angosciata. Quella ceramica le sembrava troppo bella. Sentiva che i mostri dei suoi presepi non potevano stare sotto lo stesso tetto delle terrecotte funerarie, e per questo, più che per qualsiasi altro motivo, aveva abbandonato il suo laboratorio.
L'affare delle crete indigene era segreto, perché erano patrimonio storico della nazione. Lavoravano per Jean de Satigny diverse squadre d'indiani che erano arrivati lì infiltrandosi clandestinamente attraverso gli intricati passaggi della frontiera. Non avevano documenti che li accreditassero come esseri umani, erano silenziosi, rozzi e impenetrabili. Ogni volta che Blanca chiedeva da dove venivano quegli esseri che comparivano improvvisamente nel cortile, le rispondevano che erano cugini di quello che serviva a tavola, e, in effetti, si somigliavano tutti. Non rimanevano a lungo in casa. Per la maggior parte del tempo se ne stavano nel deserto, senz'altro equipaggiamento che una pala per scavare nella sabbia e una palla di coca in bocca per mantenersi vivi. Talvolta avevano la fortuna di trovare le rovine seminterrate di un villaggio degli Incas e in poco tempo riempivano i ripostigli della casa con quello che rubavano nei loro scavi. La ricerca, il trasporto e il commercio di questa mercanzia venivano compiuti in maniera così cauta, che Blanca non aveva mai nutrito il minimo dubbio che ci fosse qualcosa d'illegale dietro le attività di suo marito. Jean le aveva spiegato che il governo era molto suscettibile riguardo ai recipienti sporchi e ai miseri collage di pietruzze del deserto e che, per evitare pratiche interminabili della burocrazia ufficiale, preferiva occuparsene a modo suo. Li spediva fuori del paese in casse sigillate con etichette di mele, grazie alla complicità interessata di qualche ispettore di dogana.
Tutto ciò non impensieriva Blanca. La preoccupava soltanto la faccenda delle mummie. Aveva familiarità con i morti, perché aveva passato tutta la vita in stretto contatto con loro attraverso il tavolino a tre gambe, su cui sua madre li evocava. Era abituata a vedere le loro figure trasparenti aggirarsi lungo i corridoi della casa dei suoi genitori, facendo rumore negli armadi e apparendo in sogno per pronosticare disgrazie o vincite alla lotteria. Ma le mummie erano diverse. Quegli esseri rattrappiti, avvolti in panni che si disfacevano in filamenti polverosi, con le loro teste scarnificate e gialle, le loro manine rugose, le loro palpebre cotte, i loro capelli radi sulla nuca, i loro eterni sorrisi senza labbra, il loro odore di rancido e quell'aria triste e derelitta dei cadaveri antichi, le sconvolgevano l'anima. Erano poche. Assai di rado gli indiani ne portavano qualcuna. Lenti, immutabili, apparivano in casa reggendo sulle spalle una grande giara sigillata di fango cotto. Jean l'apriva con attenzione in una stanza con tutte le porte e le finestre chiuse, affinché il primo soffio d'aria non la trasformasse in polvere e cenere. Dentro la giara appariva la mummia come il nocciolo di uno strano frutto, raccolta in posizione fetale, avviluppata nei suoi cenci, in compagnia dei suoi miseri tesori di collane di denti e bambole di pezza. Erano molto più pregevoli di tutti gli altri oggetti che estraevano dalle tombe, perché i collezionisti privati e qualche museo straniero le pagavano molto bene. Blanca si chiedeva che tipo di persone potesse collezionare morti e dove li avrebbe messi. Non riusciva a immaginare una mummia come parte dell'arredamento di un salotto, ma Jean le diceva che per un milionario europeo, sistemate in un'urna di vetro, potevano avere più valore di qualunque opera d'arte. Le mummie erano difficili da piazzare sul mercato, da trasportare e da far passare alla dogana, sicché talvolta rimanevano per diverse settimane nei ripostigli della casa, in attesa del loro turno per intraprendere il lungo viaggio all'estero. Blanca le sognava, aveva allucinazioni, credeva di vederle camminare nei corridoi in punta di piedi, piccole come gnomi sornioni e furtivi. Chiudeva la porta della sua camera, cacciava la testa sotto le lenzuola e trascorreva ore e ore così, tremando, pregando e invocando sua madre con la forza del pensiero. L'aveva raccontato a Clara nelle sue lettere e lei aveva risposto che non doveva avere paura dei morti, bensì dei vivi, perché nonostante la loro cattiva fama, non si era mai saputo che le mummie avessero aggredito qualcuno; erano invece di natura assai timida. Rincuorata dai consigli di sua madre, Blanca aveva deciso di spiarle. Le aspettava silenziosamente, sorvegliando dalla porta socchiusa della sua camera. Aveva subito avuto la certezza che passeggiavano per casa, trascinando le loro gambette infantili sui tappeti, bisbigliando come scolaretti, spingendosi, passando tutta la notte in piccoli gruppi di due o tre, sempre in direzione del laboratorio fotografico di Jean de Satigny. Talvolta credeva di udire lontani gemiti d'oltretomba, e subiva incontrollabili attacchi di terrore, chiamava gridando suo marito, ma nessuno arrivava e lei aveva troppa paura per attraversare tutta la casa e cercarlo. Allo spuntare dei primi raggi del sole, Blanca recuperava il suo coraggio e il controllo dei suoi nervi tormentati, si rendeva conto che le sue angosce notturne erano frutto dell'immaginazione febbrile ereditata da sua madre e si tranquillizzava finché non calavano di nuovo le ombre della notte e ricominciava il ciclo del suo spavento. Un giorno non aveva più sopportato la tensione che sentiva all'avvicinarsi della notte e si era decisa a parlare delle mummie con Jean. Stavano cenando. Quando lei gli raccontò dei passi, dei sussurri e delle grida soffocate, Jean de Satigny rimase pietrificato, con la forchetta in mano e la bocca aperta. L'indiano che stava entrando nella sala da pranzo col vassoio inciampò e il pollo arrosto andò a finire sotto una seggiola. Jean fece sfoggio di tutto il suo fascino, di tutta la sua fermezza e di tutto il suo senso della logica, per convincerla che stavano crollandole i nervi e che niente di tutto questo stava succedendo nella realtà, bensì era il frutto della sua eccitata fantasia. Blanca aveva finto di accettare il suo ragionamento, però le era sembrata molto dubbia la veemenza di suo marito che di solito non badava ai suoi problemi, così come la faccia del servitore, che per una volta aveva perso la sua immutabile espressione da idolo e gli occhi gli si erano spalancati un po'. Aveva allora deciso dentro di sé che era giunta l'ora d'indagare a fondo sulla faccenda delle mummie migranti. Quella sera si accomiatò presto, dopo avere detto al marito che pensava di prendere un tranquillante per dormire. Invece si bevve una grande tazza di caffè nero e si appostò vicino alla porta, decisa a passare molte ore di attesa.
Sentì i primi brevi passi verso mezzanotte. Aprì la porta con molta cautela e sporse la testa proprio nell'istante in cui una piccola figura rannicchiata passava in fondo al corridoio. Questa volta era sicura di non esserselo sognato, ma a causa del peso del suo ventre, le ci volle quasi un minuto per raggiungere il corridoio. La notte era fredda e soffiava il vento del deserto, che faceva crocchiare le vecchie strutture della casa e gonfiava le tende come nere vele d'altomare. Fin da piccola, quando ascoltava le storie del babau della Nana in cucina, aveva paura del buio, ma non osò accendere le luci per non spaventare le piccole mummie nel loro erratico andare.
D'improvviso un grido rauco spezzò il denso silenzio della notte, attutito, come se fosse uscito dal fondo di una cassa da morto, o almeno questo pensò Blanca. Cominciava a essere vittima del fascino morboso delle cose dell'oltretomba. Rimase immobile, col cuore che quasi le usciva dalla bocca, ma un secondo gemito la strappò dalla sua astrazione, dandole la forza di avanzare fino alla porta del laboratorio di Jean de Satigny. Fece per aprirla, ma era chiusa a chiave. Accostò la faccia alla porta e allora intese chiaramente mormorii, grida soffocate e risa e allora non ebbe più dubbi che qualcosa stava succedendo tra le mummie. Tornò nella sua camera confortata dalla convinzione che non erano i suoi nervi a cedere, bensì che qualcosa di atroce accadeva nell'antro segreto di suo marito.
Il giorno dopo, Blanca aspettò che Jean de Satigny terminasse la sua meticolosa toeletta personale, facesse colazione con la sua parsimonia consueta, leggesse il suo giornale sino all'ultima pagina e infine uscisse per la sua passeggiata mattutina, senza che nulla nella sua placida indifferenza di futura madre rivelasse la sua feroce determinazione. Quando Jean fu uscito, chiamò l'indiano dai tacchi alti e per la prima volta gli diede un ordine.
– Va' in città e comprami papaye candite – ordinò seccamente.
L'indiano se ne andò col passo lento di quelli della sua razza e lei rimase in casa con gli altri servitori, che temeva molto meno di quello strano individuo dai gesti cortigiani. Calcolò di avere a disposizione un paio di ore prima che tornasse, sicché decise di non affrettarsi e di agire con serenità. Era decisa di scoprire il mistero delle mummie furtive. Andò nel laboratorio, sicura che, in piena luce del mattino, le mummie non avrebbero avuto coraggio di fare pagliacciate, e col desiderio che la porta non fosse chiusa a chiave, ma la trovò sprangata, come sempre. Provò tutte le chiavi che aveva, ma nessuna andava bene. Allora prese il coltello più grosso della cucina, lo infilò nella bandella della porta e cominciò a far leva finché il legno secco della chiambrana non andò in pezzi in modo da poter togliere la serratura e aprire la porta. Il danno che aveva fatto alla porta non era simulabile e capì che quando suo marito l'avesse visto, gli avrebbe dovuto dare qualche spiegazione ragionevole, ma si consolò pensando che, come padrona di casa, aveva il diritto di sapere quanto stava succedendo sotto il suo tetto. Nonostante il suo senso pratico che aveva sopportato imperturbabile per oltre vent'anni il ballo dei tavolino a tre gambe e che aveva sentito sua madre pronosticare tutto quello che non era prevedibile, varcando la soglia del laboratorio, Blanca stava tremando.
A tastoni cercò l'interruttore e accese la luce. Si trovò in una stanza spaziosa dai muri dipinti di nero e dalle spesse tende dello stesso colore alle finestre, da cui non filtrava il più sottile raggio di luce. Il pavimento era coperto da grossi tappeti scuri e da ogni parte vide le luci, le lampade e gli schermi che aveva visto usare da Jean per la prima volta durante il funerale di Pedro García il vecchio, quando gli era venuta la mania di fare ritratti ai morti e ai vivi finché non aveva messo tutti a fuoco e i contadini avevano finito per gettare a terra le lastre e per calpestarle. Si guardò intorno sconcertata: si trovava in uno scenario fantastico. Avanzò scansando bauli aperti che contenevano abiti piumati di ogni epoca, parrucche ricciolute e cappelli vistosi, si fermò dinanzi a un trapezio dorato appeso al soffitto, da cui pendeva un fantoccio disarticolato di proporzioni umane, vide in un angolo un lama imbalsamato, sul tavolo bottiglie di liquori ambrati e in terra pelli di animali esotici. Ma quello che più la sorprese furono le fotografie. Vedendole si fermò stupefatta. Le pareti dello studio di Jean de Satigny erano coperte di angoscianti scene erotiche che rivelavano l'occulta natura di suo marito.
Blanca era di reazioni lente e impiegò un certo tempo per assimilare quanto stava vedendo, perché mancava di esperienza in quelle cose. Conosceva il piacere come ultima e preziosa tappa nel lungo cammino che aveva percorso con Pedro Terzo, attraverso il quale era passata senza fretta, di buon umore, nella cornice dei boschi, dei campi di grano, del fiume, sotto un cielo immenso, nel silenzio della campagna. Non aveva fatto in tempo a sperimentare le inquietudini proprie dell'adolescenza. Mentre le sue compagne leggevano di nascosto in collegio i romanzi proibiti con immaginari corteggiatori appassionati e vergini ansiose di non esserlo più, lei si sedeva all'ombra degli alberi di prugne nel cortile delle monache, chiudeva gli occhi ed evocava con piena esattezza la magnifica realtà di Pedro Terzo García che la stringeva fra le braccia, l'accarezzava ovunque, le strappava dal più profondo gli stessi accordi che poteva trarre dalla chitarra. I suoi istinti si erano trovati soddisfatti nel momento stesso in cui si erano svegliati e non aveva mai pensato che la passione potesse avere altre forme. Quelle scene confuse e tormentate erano una verità mille volte più sconcertante delle mummie scandalose che si era aspettata di trovare.
Riconobbe le facce dei servitori di casa. Lì c'era tutta la corte degli incas, nuda come Dio l'aveva fatta, o malcoperta da costumi teatrali. Vide l'insondabile abisso tra le cosce della cuoca, il lama imbalsamato che cavalcava sopra la cameriera zoppa e l'indiano imperturbabile che serviva a tavola, nudo come un neonato, imberbe e con le gambe corte, col suo inalterabile volto di pietra e il suo sproporzionato pene in erezione.
Per un istante interminabile, Blanca rimase sospesa nella sua stessa incertezza, finché l'orrore non la vinse. Cercò di pensare con lucidità. Capì quello che Jean de Satigny aveva voluto dire la notte di nozze, quando le aveva spiegato che non si sentiva portato per la vita matrimoniale. Intravide anche il sinistro potere dell'indiano, lo scherno segreto dei sei servitori e si sentì prigioniera nell'anticamera dell'inferno. In quel momento la bambina si agitò nel suo ventre e lei si spaventò, come se avesse sentito un campanello d'allarme.
– Mia figlia! Devo portarla via di qui! – esclamò proteggendosi il ventre.
Uscì di corsa dal laboratorio, attraversò tutta la casa come un fulmine e arrivò in strada, dove il calore a piombo e la spietata luce del mezzogiorno le restituirono il senso della realtà. Capì che a piedi con la sua pancia di nove mesi non avrebbe potuto andare molto lontano. Tornò in camera sua, prese tutti i soldi che riuscì a trovare, fece un fagotto con qualche indumento del sontuoso corredino che aveva preparato e si diresse alla stazione.
Seduta su una ruvida panca di legno del marciapiede, col suo involto in grembo e gli occhi spaventati, Blanca aspettò per ore l'arrivo del treno, pregando tra i denti perché il conte, rincasando e vedendo lo scempio sulla porta del laboratorio, non la cercasse sino a trovarla e a costringerla a tornare nel malefico regno degli incas, perché il treno si sbrigasse e una volta tanto fosse in orario, perché potesse arrivare a casa dei suoi genitori prima che la creatura che le scuoteva le viscere e le dava calci nelle costole annunciasse la sua venuta al mondo, perché le bastassero le forze per il viaggio di due giorni filati e perché il suo desiderio di vivere fosse più potente di quel terribile scoramento che cominciava a travolgerla. Strinse i denti e aspettò.
9. LA PICCOLA ALBA
Alba nacque in piedi, segno di buona fortuna. Sua nonna Clara le cercò e trovò sulla schiena una macchia a forma di stella che è una caratteristica degli esseri che nascono con la capacità di vivere felici. "Non bisogna preoccuparsi per questa bambina. Avrà buona fortuna e sarà felice. Inoltre avrà una bella pelle, perché la si eredita e io alla mia età non ho rughe e non mi è mai venuto un foruncolo", aveva predetto Clara due giorni dopo la nascita. Per questi motivi non si preoccuparono di addestrarla alla vita, dato che gli astri si erano combinati per dotarla di tanti doni. Il suo segno era il Leone. La nonna studiò la sua carta astrale e segnò il suo destino con inchiostro bianco su un album di carta nera, dove incollò anche qualche ciocca verde dei suoi primi capelli, le unghie che le aveva tagliato poco dopo la nascita e diverse fotografie che permettono di ammirarla così com'era: un essere straordinariamente piccolo, quasi calvo, rugoso e pallido, senz'altri segni d'intelligenza umana che i suoi occhi neri brillanti, con una saggia espressione adulta sin dalla culla. Così li aveva il suo vero padre. Sua madre voleva chiamarla Clara, ma sua nonna non era favorevole a ripetere i nomi in famiglia, perché la cosa seminava confusione nei quaderni su cui annotava la vita. Cercarono un nome nel dizionario dei sinonimi e scoprirono il suo, che è l'ultimo di una catena di parole luminose che vogliono dire la stessa cosa. Anni dopo Alba si sarebbe tormentata pensando che, quando lei avesse avuto una figlia, non ci sarebbe stata più un'altra parola con lo stesso significato che potesse andarle bene come nome, ma Blanca le suggerì l'idea di usare lingue straniere, il che offre una grande varietà.
Alba era stata lì lì per nascere su un treno a scartamento ridotto, alle tre del pomeriggio in pieno deserto. Sarebbe stato fatale per sua carta astrologica. Fortunatamente seppe trattenersi dentro sua madre ancora molte ore e riuscì a nascere nella casa dei suoi nonni, nel giorno, nell'ora e nel luogo che erano più convenienti al suo oroscopo. Sua madre era arrivata alla grande casa dell'angolo senza preavviso, scarmigliata, coperta di polvere, con le occhiaie e piegata in due dal dolore delle contrazioni con cui Alba spingeva per uscire, aveva bussato alla porta disperata e quando le avevano aperto, aveva attraversato la casa come una tromba d'aria, senza fermarsi fino alla stanza da cucito, dove Clara stava finendo l'ultimo perfetto vestitino per la futura nipote. Lì Blanca era crollata, dopo il suo lungo viaggio, senza avere il tempo di dare spiegazioni, perché il ventre le si era schiantato in un profondo sospiro liquido e aveva sentito che tutta l'acqua del mondo le scorreva tra le gambe con un gorgoglio furioso. Alle grida di Clara accorsero i servitori e Jaime, che in quei giorni stava sempre in casa intorno ad Amanda. La trasportarono nella camera di Clara e mentre la sistemavano sul letto e le strappavano con forza i vestiti di dosso, Alba cominciò a sporgere la sua minuscola umanità. Lo zio Jaime, che aveva assistito a qualche parto in ospedale, l'aiutò a nascere, afferrandola saldamente per le natiche con la mano destra, mentre con la sinistra, a tentoni per via del buio, cercava il collo della creatura, per liberarlo dal cordone ombelicale che la strozzava. Intanto Amanda, che era arrivata di corsa richiamata dal rumore, schiacciava il ventre di Blanca con tutto il peso del suo corpo e Clara, china sul viso sofferente della figlia, avvicinava al naso un colino da tè coperto da uno straccio, su cui facevano cadere qualche goccia di etere. Alba nacque in fretta. Jaime le tolse il cordone dal collo, la tenne in aria a testa in giù e con due sonore sculacciate la iniziò alla sofferenza della vita e alla meccanica della respirazione, ma Amanda, che aveva letto dei costumi delle tribù africane e predicava il ritorno alla natura, le strappò la neonata dalle mani e la depose con amore sul ventre tiepido della madre sul quale trovò un po' di consolazione alla tristezza di nascere. Madre e figlia rimasero a riposare, nude e abbracciate, mentre gli altri pulivano le tracce del parto e si affaccendavano con le lenzuola nuove e i primi pannolini. Nell'emozione di quei momenti, nessuno badò alla porta socchiusa dell'armadio, da cui il piccolo Miguel osservava la scena paralizzato dalla paura, fissando per sempre nella memoria la vista della gigantesca palla solcata da vene terminanti in un ombelico sporgente da dove era uscito quell'essere paonazzo, avvolto in un'orrenda trippa bluastra.
Iscrissero Alba nel Registro Civile e nei libri della parrocchia col cognome francese del padre, ma lei non se ne servì mai, perché quello di sua madre era più facile da sillabare. Suo nonno, Esteban Trueba, non vide mai di buon occhio questa cattiva abitudine, si era dato un gran daffare perché la bambina avesse un padre noto e un cognome rispettabile e non avesse dovuto usare quello della madre come se fosse stata figlia della vergogna e del peccato. Non permise neppure che si dubitasse della legittima paternità del conte e continuò ad aspettare, contro ogni logica, che prima o poi si sarebbe notata l'eleganza dei gesti e il fascino sottile del francese nella silenziosa e goffa nipote che gironzolava per casa sua. Nemmeno Clara alluse mai alla faccenda sino a molto tempo dopo, una volta in cui vide la bimba intenta a giocare fra le statue distrutte del giardino e si rese conto che non somigliava a nessuno della famiglia e nemmeno a Jean de Satigny.
– Da chi avrà preso questi occhi da vecchio? – chiese la nonna.
– Gli occhi sono del padre – rispose Blanca distrattamente.
– Pedro Terzo Garcia, suppongo – disse Clara.
– Certo – ammise Blanca.
Fu l'unica volta in cui si parlò dell'origine di Alba in seno alla famiglia, perché, come Clara scrisse, la cosa non aveva assolutamente importanza, visto che, comunque, Jean de Satigny era scomparso dalle loro vite. Non seppero mai più niente di lui e nessuno si prese il disturbo di cercare il suo recapito, non foss'altro che per legalizzare la situazione di Blanca, che non aveva le libertà di una nubile e aveva tutte le limitazioni di una donna sposata, ma non aveva marito. Alba non vide mai un ritratto del conte, perché sua madre non aveva lasciato alcun angolo della casa inesplorato, fino a distruggerli tutti, compresi quelli in cui appariva al suo braccio il giorno delle nozze. Aveva preso la decisione di dimenticare l'uomo con cui si era sposata e di far conto che non esistesse. Non parlò più di lui e non diede nemmeno una spiegazione per la sua fuga dal domicilio coniugale. Clara, che aveva trascorso nove anni muta, conosceva i vantaggi del silenzio, sicché non fece domande alla figlia e collaborò all'impresa di cancellare Jean de Satigny dai ricordi. Ad Alba dissero che suo padre era stato un nobile gentiluomo, intelligente e distinto, che aveva avuto la disgrazia di morire di febbre nel deserto del Nord. Fu una delle poche bugie che dovette subire nella sua infanzia, perché in quanto al resto fu in stretto contatto con le prosaiche verità della vita. Suo zio Jaime si assunse il compito di distruggere il mito dei bambini che nascono sotto i cavoli o vengono portati da Parigi dalle cicogne e suo zio Nicolás quello dei Re Magi, delle fate e del babau. Alba aveva incubi in cui vedeva la morte di suo padre. Sognava un uomo giovane, bello e tutto vestito di bianco, con scarpe di vernice dello stesso colore e una paglietta, che camminava nel deserto in pieno sole. Nel sogno, colui che camminava accorciava il passo, vacillava, andava via via più piano, inciampava e cadeva, si alzava e tornava a cadere, bruciato dal caldo, dalla febbre e dalla sete. Si trascinava in ginocchio sull'ardente sabbia per un tratto, ma infine rimaneva stecchito nell'immensità di quelle dune livide, con gli avvoltoi che volavano in cerchio sul suo corpo inerte. L'aveva sognato tante volte, che rimase stupita quando molti anni dopo dovette recarsi a riconoscere il cadavere di chi credeva fosse suo padre, in un deposito dell'Obitorio Municipale. Allora Alba era una giovane coraggiosa, dal carattere audace e abituata alle avversità, sicché ci sarebbe andata da sola. L'accolse un assistente in camice bianco, che aprì la porta del gigantesco frigorifero ed estrasse un ripiano sul quale giaceva un corpo gonfio, vecchio e di colore bluastro. Alba lo guardò attentamente senza trovare alcuna somiglianza con l'immagine che aveva sognato tante volte. Le sembrò un tipo comune e banale, con l'aspetto di un impiegato delle poste, osservò le mani: non erano quelle di un nobile gentiluomo, fine e intelligente, bensì quelle di uno che non avesse niente d'interessante da raccontare. Ma i suoi documenti erano una prova che quel cadavere blu e triste era Jean de Satigny, il quale non era morto di febbre fra le dune dorate dei suoi incubi infantili, ma semplicemente di apoplessia mentre in vecchiaia attraversava la strada. Ma tutto questo accadde molto dopo. Ai tempi in cui Clara era viva, quando Alba era ancora una bambina, la grande casa dell'angolo era un mondo chiuso, dove lei crebbe protetta perfino dai suoi incubi.
Alba non aveva ancora compiuto due settimane di vita, quando Amanda se n'era andata dalla grande casa dell'angolo. Aveva recuperato le forze e non le era stato difficile indovinare il desiderio nel cuore di Jaime. Aveva preso per mano il suo fratellino ed era partita così com'era arrivata, senza rumore e senza promesse. La persero di vista e l'unico che avrebbe potuto cercarla non lo fece per non ferire il fratello. Solo casualmente Jaime l'avrebbe rivista molti anni dopo, ma allora era ormai tardi per tutt'e due. Dopo che se ne fu andata, Jaime affogò la disperazione nello studio e nel lavoro. Tornò alle sue antiche abitudini da anacoreta e non lo si vedeva quasi mai in casa. Non pronunciò più il nome della ragazza e si allontanò per sempre da suo fratello.
La presenza della nipotina addolcì il carattere di Esteban Trueba. Il cambiamento era stato impercettibile, ma Clara l'aveva notato. Lo rivelarono piccoli sintomi: la luce nel suo sguardo quando vedeva la bimba, i costosi regali che le faceva, la pena se la udiva piangere. Questo tuttavia non lo avvicinò a Blanca. I rapporti con sua figlia non erano mai stati buoni e dal suo funesto matrimonio in poi si erano così deteriorati, che solo la cortesia inevitabile che Clara aveva imposto permetteva loro di vivere sotto lo stesso tetto.
In quell'epoca la casa dei Trueba aveva quasi tutte le stanze occupate e quotidianamente si preparava la tavola per i familiari, gli invitati e un posto in più per chi sarebbe potuto arrivare senza preavviso. La porta principale era aperta in permanenza perché entrassero e uscissero quelli che vivevano insieme e i visitatori. Mentre il senatore Trueba si sforzava per riformare i destini del suo paese, sua moglie navigava abilmente nelle acque agitate della vita di società e nelle altre, sorprendenti, del suo cammino spirituale. L'età e la pratica avevano accentuato la capacità di Clara d'indovinare l'occulto e di muovere le cose a distanza. I momenti d'esaltazione la portavano con facilità a stati di trance durante i quali poteva spostarsi seduta sulla sua seggiola per tutta la camera, come se ci fosse stato un motore nascosto sotto il sedile. In quei giorni, un giovane artista affamato, accolto in casa per misericordia, pagò la sua ospitalità dipingendo l'unico ritratto di Clara che esiste. Molto tempo dopo, il miserrimo artista divenne un grande maestro e oggi il quadro si trova in un museo di Londra, come tante altre opere d'arte che se ne andarono dal paese all'epoca in cui si dovettero vendere i mobili per dar da mangiare ai perseguitati. Sulla tela si può vedere una donna matura, vestita di bianco, con i capelli d'argento e una dolce espressione da trapezista sul volto, in posizione di riposo su una poltrona sospesa sopra il livello del pavimento, galleggiante fra tendaggi a fiori, un orciolo che vola capovolto e un gatto grasso e nero che guarda seduto come un gran signore. Influenza di Chagall, dice il catalogo del museo, ma non è così. Corrisponde esattamente alla realtà che l'artista vide nella casa di Clara. Era quella l'epoca in cui agivano impunemente le forze occulte della natura umana e il buon umore divino, provocando uno stato di emergenza e di sussulti nelle leggi della fisica e della logica. Le comunicazioni di Clara con le anime erranti e con gli extraterrestri avvenivano mediante la telepatia, i sogni e un pendolo che lei usava a tal fine, tenendolo sospeso in aria su una serie di caratteri alfabetici che collocava in ordine sopra il tavolo. I movimenti autonomi del pendolo indicavano le lettere e formavano i messaggi in spagnolo e in esperanto, dimostrando così che erano le uniche lingue che interessavano gli esseri di un'altra dimensione e non l'inglese, come sosteneva Clara nelle lettere agli ambasciatori delle potenze anglofone, senza che loro le rispondessero mai, così come non lo fecero neppure i successivi ministri dell'Educazione ai quali si rivolse per esporre la sua teoria che invece d'insegnare l'inglese e il francese nelle scuole, lingue da marinai, commercianti e strozzini, i bambini venissero obbligati a studiare l'esperanto.
Alba trascorse la sua infanzia fra diete vegetariane, arti marziali giapponesi, danze del Tibet, respirazione yoga, rilassamento e concentrazione col professor Hausser e molte altre tecniche interessanti, senza contare gli apporti alla sua educazione dei due zii e delle incantevoli signorine Mora. Sua nonna Clara si affaccendava per mantenere in moto quell'immenso carrozzone pieno di allucinati in cui si era trasformata la sua casa, sebbene lei stessa non avesse alcuna abilità domestica e disdegnasse le quattro operazioni al punto da dimenticare come si fanno le addizioni, sicché l'organizzazione della casa e i conti finirono in modo naturale nelle mani di Blanca, che divideva il suo tempo tra le fatiche da maggiordomo di quel regno in miniatura e il suo laboratorio di ceramica in fondo al cortile, ultimo rifugio ai suoi dispiaceri, dove faceva scuola ai mongoloidi come alle signorine, e costruiva i suoi incredibili presepi di mostri che, contro ogni logica, si vendevano come pane appena sfornato.
Fin da piccolissima Alba aveva avuto l'incarico di disporre fiori freschi nei vasi. Apriva le finestre per far entrare in abbondanza la luce e l'aria, ma i fiori non duravano fino alla sera, perché il vocione di Esteban Trueba e i suoi colpi di bastone avevano il potere di spaventare la natura. Al suo passaggio gli animali domestici fuggivano e le piante avvizzivano. Blanca coltivava un albero della gomma portato dal Brasile, un arbusto misero e timido il cui unico pregio era il prezzo: si comprava a foglie. Quando sentivano arrivare il nonno, chi si trovava più vicino all'albero correva a metterlo in salvo sulla terrazza, perché non appena il vecchio entrava nella stanza, la pianta abbassava le foglie e cominciava a trasudare dal fusto un pianto biancastro come lacrime di latte. Alba non andava a scuola perché sua nonna diceva che, una persona così favorita dagli astri come lei, aveva bisogno solo di saper leggere e scrivere, e quello poteva impararlo in casa. Si affrettò tanto a insegnarle l'alfabeto, che a cinque anni la bambina leggeva il giornale all'ora della colazione per discutere le notizie con suo nonno, e a sei aveva scoperto i libri di magia nei bauli incantati del suo prozio Marcos ed era entrata in pieno nel mondo senza ritorno della fantasia. Non si preoccuparono nemmeno della sua salute perché non credevano nei profitti delle vitamine e dicevano che le vaccinazioni andavano bene alle galline. Inoltre sua nonna le aveva letto le linee della mano e le aveva preannunciato che avrebbe avuto una salute di ferro e una lunga vita. L'unica attenzione frivola che le prodigarono fu quella di pettinarla con Bayrum per attenuare il tono verde scuro che avevano i suoi capelli alla nascita, nonostante il senatore Trueba avesse detto che bisognava lasciarglieli così, perché era l'unica che avesse ereditato qualcosa dalla bella Rosa, sebbene sfortunatamente fosse solo il colore marino dei capelli. Per fargli piacere Alba aveva interrotto durante l'adolescenza lo stratagemma del Bayrum e si sciacquava la testa con infusi di prezzemolo, che permisero al verde di ricomparire in tutta la sua frondosità. Il resto della sua persona era piccolo e anodino, a differenza della maggior parte delle donne della sua famiglia, che, quasi senza eccezione, erano state splendide.
Nei pochi momenti di ozio che Blanca aveva per pensare a se stessa e a sua figlia, rimpiangeva che fosse una bambina solitaria e silenziosa, senza compagni della sua età per giocare. In realtà Alba non si sentiva sola, al contrario, talvolta sarebbe stata molto felice se avesse potuto eludere la chiaroveggenza di sua nonna, l'intuizione di sua madre e la baraonda di gente stramba che costantemente appariva, spariva e riappariva nella grande casa dell'angolo. Anche Blanca si preoccupava perché sua figlia non giocava con le bambole ma Clara sosteneva sua nipote con l'argomento che quei piccoli cadaveri di porcellana, con i loro occhietti che si aprivano e si chiudevano e la loro perversa bocca a cuore, erano ripugnanti. Lei stessa confezionava esseri informi con gli avanzi della lana che usava per fare maglie ai poveri. Erano creature che non avevano nulla di umano e per questo erano più facili da cullare, tenere in braccio, far loro il bagno e poi gettarle nell'immondizia. Il giocattolo preferito dalla bimba era la cantina. Per via dei topi, Esteban Trueba aveva ordinato che mettessero una sbarra alla porta, ma Alba s'infilava per la testa attraverso un lucernaio e atterrava senza far rumore in quel paradiso di oggetti dimenticati. Il posto era sempre in penombra, protetto dall'usura del tempo, come una piramide suggellata. Lì si ammucchiavano i mobili disfatti, ferri di uso incomprensibile, macchine sconquassate, pezzi di Covadonga, l'automobile preistorica che i suoi zii avevano smontato per trasformarla in un veicolo da corsa e aveva finito i suoi giorni trasformata in un rottame. Tutto serviva ad Alba per costruirsi rifugi negli angoli. C'erano bauli e valigie con abiti antichi, che usava per organizzare i suoi solitari spettacoli teatrali e uno stuoino triste, nero e tarmato, con la testa di cane, che messo in terra sembrava una pietosa bestia con le gambe aperte. Era l'ultimo obbrobrioso vestigio del fedele Barrabás.
Una notte di Natale, Clara fece a sua nipote un favoloso regalo che più volte era riuscito a rimpiazzare la fascinosa attrazione della cantina: una scatola con tubetti di colori, pennelli, una piccola scala e l'autorizzazione a usare a suo piacimento la parete più grande della sua stanza.
– Le servirà per sfogarsi – disse Clara quando vide Alba in equilibrio sulla scala per dipingere vicino al soffitto un treno pieno di animali.
Col passare degli anni Alba andò riempiendo quella e le altre pareti della sua camera da letto con un immenso affresco, in cui, tra una flora marziana e una fauna impossibile di bestie inventate come quelle che ricamava Rosa sulla sua tovaglia e Blanca cuoceva nel suo forno della ceramica, apparivano i desideri, i ricordi, le tristezze e le allegrie della sua infanzia.
Le stavano molto vicini i suoi due zii. Jaime era il suo preferito. Era un omaccione peloso che doveva sbarbarsi due volte al giorno e anche così sembrava avere sempre la barba lunga, aveva sopracciglia nere e severe che pettinava all'insù per far credere a sua nipote che era imparentato col diavolo, e i capelli erano lisci come uno spazzolone, inutilmente imbrillantinati e sempre umidi. Entrava e usciva con i suoi libri sotto il braccio e una valigetta da idraulico in mano. Aveva detto ad Alba che lavorava come ladro di gioielli e che nell'orribile valigia portava grimaldelli e tirapugni. La bambina faceva finta di spaventarsi, ma sapeva che suo zio era medico e che la valigetta conteneva i ferri del suo mestiere. Avevano inventato giochi d'illusionismo per divertirsi nelle serate di pioggia.
– Porta l'elefante! – ordinava lo zio Jaime.
Alba usciva e tornava trascinando per una corda invisibile un pachiderma immaginario. Potevano passare una buona mezz'ora a dargli da mangiare erba adatta alla sua specie, a lavarlo con terra per proteggergli la pelle dalle inclemenze del tempo, a lucidare l'avorio delle sue zanne mentre discutevano calorosamente sui vantaggi e sugli svantaggi di vivere nella foresta.
– Questa bambina finirà per diventare matta da legare! – diceva il senatore Trueba, quando vedeva la piccola Alba seduta nella veranda, intenta a leggere i trattati di medicina che le dava lo zio Jaime.
Era l'unica persona della casa che aveva la chiave d'accesso al tunnel di libri dello zio e l'autorizzazione a prenderli e a leggerli. Blanca sosteneva che bisognava graduare la lettura, perché c'erano cose che non erano adatte alla sua età, ma lo zio Jaime era del parere che la gente non legge quello che non gli interessa, e se gli interessa è perché ha la maturità per farlo. Era dello stesso avviso in quanto al bagno e al mangiare. Diceva che se la bambina non aveva voglia di fare il bagno, era perché non ne aveva bisogno e che si doveva darle da mangiare quello che voleva nelle ore in cui aveva fame, perché l'organismo conosce meglio di chiunque le proprie necessità. Su questo punto Blanca era inflessibile e costringeva sua figlia a seguire orari rigidi e norme igieniche. Il risultato era che oltre al mangiare e ai bagni normali, Alba ingoiava le ghiottonerie che suo zio le regalava e si bagnava col tubo da innaffiare ogni volta che aveva caldo, senza che alcuna di queste cose alterasse la sua robusta costituzione. Ad Alba sarebbe piaciuto che suo zio Jaime si fosse sposato con sua mamma, perché era più sicuro averlo per padre che per zio, ma le avevano spiegato che da quelle unioni incestuose nascono figli mongoloidi. Si era messa in testa che gli alunni del Giovedì nel laboratorio di sua madre erano figli dello zio.
Anche Nicolás stava nel cuore della bambina, ma aveva qualcosa di effimero, di volatile, di affrettato, sempre di passaggio, come se stesse saltando da un'idea all'altra, che rendeva Alba inquieta. Aveva cinque anni quando suo zio Nicolás stanco di evocare Dio sul tavolino a tre gambe e nel fumo dell'hashish, aveva deciso di andarlo a cercare in una regione meno rozza della sua terra natale. Trascorse due mesi importunando Clara, perseguitandola in ogni angolo, sussurrandole nell'orecchio quando era addormentata, finché non l'aveva convinta a vendere un anello di brillanti per pagargli il biglietto per la terra del Mahatma Gandhi. Quella volta Esteban Trueba non si era opposto, perché aveva pensato che un giro attraverso quella lontana nazione di affamati e di vacche transumanti avrebbe fatto molto bene a suo figlio.
– Se non muore morso da un cobra o per qualche infezione straniera, spero che torni fatto uomo, perché ormai sono stufo delle sue stravaganze – gli disse il padre salutandolo sul molo.
Nicolás visse un anno come un mendicante, percorrendo a piedi i cammini degli yoga, a piedi per l'Himalaya, a piedi per Katmandu, a piedi per il Gange e a piedi per Benares. Al termine di questo pellegrinaggio aveva la certezza dell'esistenza di Dio e aveva imparato a trafiggersi con spilloni da cappello le guance e la pelle del petto e a vivere senza quasi mangiare. Lo videro arrivare a casa un giorno qualunque, senza preavviso, con un pannolino da neonati che gli copriva le vergogne, la pelle appiccicata alle ossa e quell'aria stravolta che si nota nella gente che si nutre di verdure. Arrivò accompagnato da un paio di carabinieri increduli, che erano intenzionati ad arrestarlo a meno che dimostrasse di essere veramente figlio del senatore Trueba, e da un codazzo di bambini che lo seguivano tirandogli immondizia e sbeffeggiandolo. Clara fu l'unica che non ebbe difficoltà a riconoscerlo. Suo padre tranquillizzò i carabinieri e ordinò a suo figlio di farsi un bagno e di mettersi indumenti da cristiano se voleva vivere in casa sua, ma Nicolás lo guardò come se non lo vedesse e non gli rispose. Era diventato vegetariano. Non assaggiava la carne, il latte e nemmeno le uova, la sua dieta era quella di un coniglio e a poco a poco il suo volto ansioso somigliava sempre più a quello dell'animale. Masticava ogni boccone dei suoi scarsi alimenti cinquanta volte. I pasti si trasformarono in un rituale eterno durante cui Alba si addormentava sul piatto vuoto e i servitori con i vassoi in cucina, mentre lui ruminava cerimoniosamente, sicché Esteban Trueba smise di rincasare e consumava tutti i suoi pasti al club. Nicolás asseriva di poter camminare scalzo sulle braci, ma ogni volta che si accingeva a dimostrarlo, a Clara veniva un attacco d'asma e lui doveva desistere. Parlava con parabole asiatiche non sempre comprensibili. I suoi unici interessi erano di ordine spirituale. Il materialismo della vita domestica gli dava fastidio, così come le eccessive cure di sua sorella e di sua madre, che insistevano nell'alimentarlo e nel vestirlo e la persecuzione affascinata di Alba, che lo seguiva in tutta la casa come un cagnolino, pregandolo d'insegnarle a stare dritta sulla testa e a trafiggersi con gli spilloni. Rimase nudo anche quando arrivò l'inverno in tutto il suo rigore. Poteva restare quasi tre minuti senza respiro ed era pronto a mettere in pratica quella prodezza ogni volta che qualcuno glielo chiedeva, il che accadeva con frequenza. Jaime diceva che era un peccato che l'aria fosse gratis, perché aveva fatto il conto che Nicolás respirava la metà di una persona normale, anche se questo sembrava non disturbarlo affatto. Passò l'inverno mangiando carote, senza lamentarsi del freddo, chiuso in camera sua, riempiendo pagine e pagine della sua minuscola calligrafia con inchiostro nero. Alla comparsa dei primi sintomi della primavera, annunciò che il suo libro era finito. Aveva millecinquecento pagine e riuscì a convincere suo padre e suo fratello Jaime a finanziarlo, in conto dei guadagni che si sarebbero ricavati dalla vendita. Dopo averle corrette e stampate, le mille e tante cartelle manoscritte si ridussero a seicento pagine di un voluminoso trattato sui novantanove nomi di Dio e su come raggiungere il Nirvana mediante esercizi di respirazione. Non ebbe il successo sperato e le casse dell'edizione finirono i loro giorni in cantina, dove Alba li usava come mattoni per costruire trincee, finché molti anni dopo non servirono per alimentare un infame rogo.
Come il libro uscì dalla tipografia, Nicolás se lo tenne amorosamente fra le mani, recuperò il suo smarrito sorriso da iena, si mise abiti decenti e annunciò che era giunto il momento di consegnare la Verità ai suoi coetanei che persistevano nelle nebbie dell'ignoranza. Esteban Trueba gli ricordò il suo divieto di usare la casa come accademia e lo avvertì che non avrebbe tollerato che cacciasse idee pagane nella testa di Alba e, ancora meno, che le insegnasse trucchi da fachiro. Nicolás se ne andò a predicare nel piccolo bar dell'università, dove trovò un numero impressionante di adepti per i suoi corsi di esercizi spirituali e respiratori. Nei momenti liberi girava in moto e insegnava a sua nipote a vincere il dolore e altre debolezze della carne. Il suo metodo consisteva nell'identificare le cose che infondevano paura. La bambina, che aveva una certa inclinazione per il macabro, si concentrava secondo le istruzioni dello zio e riusciva a visualizzare, come se la stesse vivendo, la morte di sua madre. La vedeva livida, fredda, con i suoi bellissimi occhi neri chiusi, distesa nella cassa da morto. Udiva il pianto dei familiari. Vedeva la processione di amici che entravano in silenzio, lasciavano il loro biglietto da visita e uscivano a testa bassa. Sentiva l'odore dei fiori, il nitrito dei cavalli impennacchiati della carrozza funebre. Aveva male ai piedi nelle sue nuove scarpe da lutto. Immaginava la sua solitudine, il suo abbandono, l'essere orfana. Suo zio l'aiutava a pensare a tutto questo senza piangere, a rilassarsi e a non opporre resistenza al dolore, affinché l'attraversasse senza rimanere in lei. Altre volte Alba si schiacciava un dito nella porta e imparava a sopportare l'ardente bruciore senza lagnarsi. Se riusciva a passare tutta la settimana evitando di piangere, superando le prove che le imponeva Nicolás, vinceva un premio, che consisteva quasi sempre in un giro a tutta velocità in moto, cosa che era un'esperienza indimenticabile. Una volta andarono a finire in mezzo a una mandria di mucche che si avviava verso la stalla, su una strada nei dintorni della città dove aveva portato sua nipote per pagare il premio. Lei avrebbe ricordato sempre i corpi pesanti degli animali, la loro goffaggine, le loro code infangate che le colpivano il viso, l'odore di sterco, le corna che la sfioravano e la sua sensazione di vuoto allo stomaco, di meravigliosa vertigine, d'incredibile eccitazione, un miscuglio di appassionata curiosità e di terrore, che riprovò solo per istanti fugaci nella sua vita.
Esteban Trueba, che aveva avuto sempre difficoltà nell'esprimere il suo bisogno d'affetto e che da quando si erano deteriorati i rapporti matrimoniali con Clara, non aveva accesso alla tenerezza, riversò su Alba i suoi sentimenti migliori. Gli importava più la bambina di quello che i suoi stessi figli gli avevano importato. Ogni mattino lei andava in pigiama nella stanza del nonno, entrava senza bussare e s'infilava nel suo letto. Lui fingeva di svegliarsi di soprassalto, sebbene in realtà stesse aspettandola e grugniva che non lo importunasse, che se ne andasse dalla sua camera e che lo lasciasse dormire. Alba gli faceva il solletico finché, apparentemente vinto, non l'autorizzava a cercare il cioccolato che nascondeva per lei. Alba conosceva tutti i nascondigli e suo nonno se ne serviva sempre nello stesso ordine, ma per non farlo restar male si affaccendava per un po' a cercare e cacciava grida di giubilo quando lo trovava. Esteban non seppe mai che sua nipote odiava il cioccolato e che lo mangiava per amor suo. Con questi giochi mattutini, il senatore soddisfaceva il suo bisogno di contatto umano. Per il resto della giornata era occupato al Congresso, al club, al golf, negli affari e nei suoi conciliaboli politici. Due volte all'anno andava alle Tre Marie con sua nipote per due o tre settimane. Entrambi tornavano abbronzati, più grassi e felici. Lì distillavano un'acquavite casereccia che usavano per bere, per accendere la stufa, per disinfettare ferite e per ammazzare gli scarafaggi, e che loro chiamavano pomposamente "vodka". Al termine della sua vita, quando i novant'anni l'avevano trasformato in un vecchio albero contorto e fragile, Esteban Trueba avrebbe ricordato quei momenti con sua nipote come i migliori della sua esistenza, e pure lei conservò sempre nella memoria la complicità di quei viaggi in campagna per mano a suo nonno, le passeggiate sul dorso del cavallo, l'imbrunire nell'immensità dei seminati, le lunghe serate vicino al caminetto a raccontare storie di fantasmi e a disegnare.
I rapporti del senatore Trueba col resto della sua famiglia non smisero di peggiorare col tempo. Una volta alla settimana, il sabato, si riunivano a cena intorno alla grande tavola di quercia che era rimasta sempre in famiglia, e che prima era appartenuta ai del Valle ossia, proveniva dalla più antica antichità, ed era servita per vegliare i morti, per i balli di flamenco e altri usi inimmaginabili. Mettevano a sedere Alba tra sua madre e sua nonna, con un cuscino sulla seggiola affinché il suo naso arrivasse al piatto. La bambina osservava gli adulti affascinata, sua nonna raggiante, con i denti messi per l'occasione, che inviava messaggi obliqui a suo marito attraverso i figli o i servitori, Jaime che faceva sfoggio di maleducazione, ruttando dopo ogni portata e pulendosi i denti col dito mignolo per dar fastidio al padre, Nicolás con gli occhi chiusi che masticava cinquanta volte ogni boccone e Blanca che blaterava di qualunque cosa per creare la finzione di una cena normale. Trueba se ne stava relativamente silenzioso finché non lo tradiva il suo brutto carattere e cominciava a litigare con suo figlio Jaime per via dei poveri, delle votazioni, dei socialisti e per principio, o a insultare Nicolás per le sue iniziative di levarsi in volo sul pallone e di praticare l'agopuntura con Alba, o a punire Blanca con le sue risposte brutali, la sua indifferenza e i suoi avvertimenti inutili che gli avevano rovinato la vita e che non avrebbe ereditato nemmeno un soldo da lui. L'unica che non attaccava era Clara, ma con lei quasi non parlava. Talvolta Alba coglieva gli occhi del nonno fissi su Clara, se ne stava lì a guardarla e diventava bianco e dolce fino a sembrare un vecchio sconosciuto. Ma non succedeva spesso, in genere i coniugi s'ignoravano. Qualche volta il senatore Trueba perdeva il controllo e gridava tanto da diventare rosso e bisognava gettargli in faccia l'acqua fredda della brocca perché gli passassero le convulsioni e riprendesse il ritmo del respiro.
In quell'epoca Blanca aveva toccato l'apogeo della sua bellezza. Aveva un'aria da mora, languida e abbondante, che ispirava riposo e confidenza. Era alta e formosa, di temperamento svanito e piagnucoloso, che risvegliava negli uomini l'ancestrale istinto di protezione. Suo padre non l'aveva in simpatia. Non le aveva perdonato i suoi amori con Pedro Terzo García e faceva di tutto per ricordarle che viveva della sua misericordia. Trueba non riusciva a spiegarsi come sua figlia avesse tanti corteggiatori, perché Blanca non aveva nulla dell'inquietante allegria e della giovialità che lo attraevano nelle donne e inoltre pensava che nessun uomo normale potesse nutrire il desiderio di sposarsi con una donna di scarsa salute, dallo stato civile incerto con una figlia a carico. Da parte sua, Blanca non sembrava stupita dell'assedio degli uomini. Era consapevole della sua bellezza. Tuttavia dinanzi ai signori che le facevano visita, assumeva un atteggiamento contraddittorio, allettandoli col vibrare dei suoi occhi musulmani, ma tenendoli a prudente distanza. Non appena vedeva che le intenzioni dell'altro erano serie, interrompeva il rapporto con un rifiuto feroce. Taluni, di posizione economica migliore, tentarono di arrivare al cuore di Blanca attraverso la seduzione della figlia. Riempivano Alba di regali costosi, di bambole dotate di meccanismi per camminare, piangere, mangiare ed eseguire altre destrezze tipicamente umane, la rimpinzavano di paste alla crema e la portavano a spasso al giardino zoologico, dove la bambina piangeva di pena per le povere bestie prigioniere, specialmente la foca che le destava nell'animo funesti presagi. Quelle visite al giardino zoologico per mano di qualche pretendente panciuto e spendereccio le lasciarono per il resto della vita l'orrore del chiuso, dei muri, delle inferriate e dell'isolamento. Fra tutti gli innamorati, quello che andò più vicino alla conquista di Blanca fu il re delle pentole a pressione. Nonostante la sua immensa fortuna e il suo carattere mite e riflessivo, Esteban Trueba lo detestava perché era circonciso, aveva il naso sefardita e i capelli ricci. Col suo atteggiamento ironico e ostile, Trueba riuscì a scacciare quell'uomo che era sopravvissuto a un campo di concentramento, aveva vinto la miseria e l'esilio e aveva trionfato nella spietata lotta commerciale. Finché durò l'idillio, il re delle pentole a pressione passava a prendere Blanca per portarla a cena nei posti più raffinati, in un'automobile minuscola con solo due posti, con ruote da trattore e un rumore di turbina nel motore, unica nella sua specie, che riuniva capannelli di curiosi quando passava e riluttanza sprezzante nella famiglia Trueba. Senza badare all'insofferenza del padre né all'indiscrezione dei vicini, Blanca saliva sull'auto con la maestà di un primo ministro, vestita col suo unico tailleur nero e la camicetta di seta bianca che usava in tutte le occasioni speciali. Alba la salutava con un bacio e restava ferma sulla soglia, col sottile profumo di gelsomino di sua madre appiccicato alle narici e un nodo di ansia che le serrava il petto. Solo gli allenamenti di suo zio Nicolás le permettevano di sopportare quelle uscite di sua madre senza mettersi a piangere, perché temeva che un giorno o l'altro il damerino di turno sarebbe riuscito a convincere Blanca ad andarsene con lui e lei si sarebbe trovata per sempre senza madre. Aveva deciso da molto tempo che non aveva bisogno di un padre, e ancora meno di un patrigno, ma che se fosse mancata sua madre sarebbe andata ad affondare la testa in un secchio d'acqua sino a morire affogata, proprio come faceva la cuoca con i gattini che partoriva la gatta ogni quattro mesi.
Alba perdette il timore che sua madre l'abbandonasse quando conobbe Pedro Terzo e la sua intuizione l'avvertì che finché fosse esistito quell'uomo non ce ne sarebbero stati altri capaci di conquistare l'amore di Blanca. Fu una domenica d'estate. Blanca l'aveva pettinata con i boccoli, arricciati con un ferro caldo che le aveva bruciacchiato le orecchie, le aveva messo guanti bianchi e scarpe di vernice nera e un cappello di paglia con ciliegie finte. Vedendola, sua nonna Clara era esplosa in una risata, ma sua madre l'aveva consolata con due gocce del suo profumo che le aveva messo nel collo.
– Conoscerai una persona famosa – aveva detto Blanca misteriosamente mentre uscivano.
Portò la bimba al parco Giapponese, dove le comprò biribissi di zucchero filato e un cartoccio di granoturco. Si sedettero su una panca all'ombra, tenendosi per mano, circondate dai colombi che beccavano il granoturco.
Lo vide avvicinarsi prima che sua madre glielo indicasse. Aveva una tuta da meccanico, un'enorme barba nera che gli arrivava a metà del petto, i capelli spettinati, sandali da francescano senza calze e un ampio, scintillante, meraviglioso sorriso che lo collocò subito nella categoria degli esseri che meritavano di essere dipinti nel gigantesco affresco della sua camera.
L'uomo e la bambina si guardarono ed entrambi si riconobbero negli occhi dell'altro.
– Questo è Pedro Terzo, il cantante. L'hai sentito alla radio disse sua madre.
Alba allungò la mano e lui gliela strinse con la sinistra. Allora si accorse che gli mancavano alcune dita alla mano destra, ma lui le spiegò che poteva comunque suonare la chitarra, perché c'è sempre modo di fare quello che si vuol fare. Passeggiarono tutt'e tre per il parco Giapponese. Verso sera salirono su uno degli ultimi tram elettrici che ancora esistevano in città, e andarono a mangiare pesce in una friggitoria del mercato, e quando fu buio lui le accompagnò fino alla strada di casa. Al momento di salutarsi, Blanca e Pedro Terzo si baciarono sulle labbra. Fu la prima volta che Alba vide questo in vita sua, perché intorno a lei non c'era gente innamorata.
Da quel giorno in poi, Blanca cominciò a uscire da sola per il fine settimana. Diceva che andava a trovare certe cugine lontane. Esteban Trueba s'infuriava e minacciava di cacciarla di casa, ma Blanca rimaneva inflessibile nella sua decisione. Lasciava sua figlia con Clara e saliva in autobus con una valigetta da pagliaccio con fiori dipinti.
– Ti prometto che non mi sposerò e che tornerò domani notte – diceva alla figlia salutandola.
Ad Alba piaceva sedersi con la cuoca all'ora della siesta, ad ascoltare alla radio canzoni popolari, specialmente quelle dell'uomo che aveva conosciuto nel parco Giapponese. Un giorno entrò nella dispensa il senatore Trueba e, sentendo la voce della radio, si scagliò contro l'apparecchio dandogli bastonate sino a ridurlo in un mucchio di cavi contorti e di bulloni sparsi, davanti agli occhi spaventati di sua nipote, che non riusciva a spiegarsi l'improvvisa furia di suo nonno. Il giorno dopo Clara comprò un'altra radio affinché Alba potesse ascoltare Pedro Terzo quando ne aveva voglia e il vecchio Trueba fece finta di non accorgersene.
Quella era l'epoca del re delle pentole a pressione. Pedro Terzo venne a sapere della sua esistenza ed ebbe un attacco di gelosia ingiustificata, se si paragona il grande ascendente che lui aveva su Blanca col timido corteggiamento del commerciante ebreo. Come tante altre volte, aveva supplicato Blanca di lasciare la casa dei Trueba, la tutela feroce di suo padre e la solitudine del suo laboratorio pieno di mongoloidi e di signorine sfaccendate, e se ne andasse con lui, una volta per tutte, a vivere quell'amore sfrenato che avevano nascosto fin dall'infanzia. Ma Blanca non si decideva. Sapeva che se se ne andava con Pedro Terzo sarebbe rimasta esclusa dalla sua cerchia sociale e dalla posizione che aveva sempre avuto e si rendeva conto che lei non aveva la minima occasione di trovarsi a suo agio fra le amicizie di Pedro Terzo o di adattarsi alla modesta esistenza di un quartiere operaio. Anni dopo, quando Alba ebbe l'età per analizzare quell'aspetto della vita di sua madre, giunse alla conclusione che non se n'era andata con Pedro Terzo perché l'amore non le bastava, visto che in casa dei Trueba non aveva niente che lui non potesse darle. Blanca era una donna molto povera, che poteva disporre di un po' di denaro solo quando Clara glielo dava o quando vendeva qualche presepe. Guadagnava un misero stipendio che consumava quasi tutto in conti del medico, perché la sua capacità di patire malattie immaginarie non era diminuita col lavoro e col bisogno, al contrario, non faceva che aumentare di anno in anno. Faceva in modo da non chiedere niente a suo padre, per non dargli l'occasione di umiliarla. Di tanto in tanto, Clara e Jaime le compravano indumenti o le davano qualcosa per i suoi bisogni, ma in genere non aveva denaro neppure per un paio di calze. La sua povertà contrastava con i vestiti ricamati e con le scarpe fatte a mano con cui il senatore Trueba vestiva sua nipote Alba. La sua vita era dura. Si alzava alle sei del mattino, estate e inverno. A quell'ora accendeva il forno del laboratorio, con addosso un grembiule di tela cerata e zoccoli di legno, preparava i tavoli da lavoro e batteva l'argilla per le sue lezioni, con le braccia immerse fino ai gomiti nella creta aspra e fredda. Per questo aveva sempre le unghie rotte e la pelle screpolata e col tempo le si deformarono le dita. A quell'ora si sentiva ispirata e nessuno la interrompeva, sicché poteva cominciare la giornata fabbricando i suoi mostruosi animali per il presepe. Poi doveva occuparsi della casa, della servitù e degli acquisti, fino all'ora in cui cominciavano le lezioni. I suoi alunni erano ragazze di buona famiglia che non avevano niente da fare e avevano adottato la moda dell'artigianato, più elegante che non lavorare a maglia per i poveri, come facevano le nonne.
L'idea di dare lezioni ai mongoloidi era stata prodotto del caso. Un giorno era arrivata a casa del senatore Trueba una vecchia amica di Clara che aveva con sé suo nipote. Era un adolescente grasso e molle, con una faccia tonda da luna quieta e un'espressione di tenerezza inalterabile nei suoi occhi orientali. Aveva quindici anni, ma Alba aveva capito che era come un bebè. Clara aveva chiesto a sua nipote di portare il ragazzo a giocare in giardino e di stare attenta che non si sporcasse, non annegasse nella fontana, non mangiasse la terra e non mettesse mano alla patta dei pantaloni. Alba si era annoiata in fretta di sorvegliarlo e, davanti all'impossibilità di comunicare con lui in nessun linguaggio coerente, se l'era portato nel laboratorio di ceramica, dove Blanca, per tenerlo tranquillo, gli aveva messo un grembiule che lo preservasse dalle macchie e dall'acqua e gli aveva messo in mano una palla di argilla. Il ragazzo era rimasto occupato più di tre ore, senza sbavare, senza farsi la pipì addosso e senza dar testate contro il muro, modellando rustiche figure di creta che portò poi a sua nonna in regalo. La signora, che si era addirittura dimenticata di averlo condotto con sé, rimase compiaciuta e così era nata l'idea che la ceramica andava bene per i mongoloidi. Blanca finì per dare lezioni a un gruppo di bambini che andavano in laboratorio il Giovedì pomeriggio. Arrivavano su un furgoncino, sorvegliati da due monache dalle cuffie inamidate, che si sedevano nel chiostro del giardino a bere cioccolata con Clara e a discutere le qualità del punto a croce e le gerarchie dei peccati, mentre Blanca e sua figlia insegnavano ai bambini a fare vermi, palline, cani spiaccicati e vasi deformi. Alla fine dell'anno le monache organizzavano un'esposizione e una sagra e quelle opere spaventose venivano vendute per carità. Ben presto Blanca e Alba si resero conto che i bambini lavoravano molto meglio quando si sentivano amati e che l'unico modo per comunicare con loro era l'affetto. Impararono ad abbracciarli, a baciarli, a far loro moine, finché tutt'e due non finirono per amarli davvero. Alba aspettava tutta la settimana l'arrivo del furgoncino con i ragazzi e saltava di gioia quando loro correvano ad abbracciarla. Ma i Giovedì erano sfibranti. Alba andava a letto distrutta, le giravano in testa le dolci facce asiatiche dei bambini del laboratorio e Blanca invariabilmente aveva il mal di testa. Dopo che le monache se n'erano andate col loro volteggiar di panni bianchi e con le loro reclute di ritardati tenuti per mano, Blanca abbracciava furiosamente sua figlia, la copriva di baci e le diceva che doveva ringraziare Dio di essere normale. Per questo, Alba crebbe con l'idea che la norma fosse un dono divino. Ne discusse con sua nonna.
– In quasi tutte le famiglie c'è qualche rimbambito o pazzo, figliola – assicurò Clara mentre si affannava col suo lavoro a maglia, perché in tutti quegli anni non aveva imparato a lavorare senza guardare. – Talvolta non li si nota perché li nascondono come se fossero una vergogna. Li chiudono nelle stanze più isolate, affinché non li vedano quando ci sono visite. Ma in realtà non c'è di che vergognarsene, anche loro sono opera di Dio.
– Ma nella nostra famiglia non ce ne sono, nonna – replicò Alba.
– No. Qui la follia si è divisa fra tutti e non ne è avanzata per avere il nostro matto da legare.
Così erano le sue conversazioni con Clara. Sicché, per Alba, la persona più importante della casa e la presenza più forte della sua vita era sua nonna. Era lei il motore che avviava e faceva funzionare quell'universo magico che era la parte sul retro della grande casa dell'angolo, dove i primi sette anni della sua vita trascorsero in completa libertà. Si era abituata alle stranezze della nonna. Non si stupiva di vederla mentre si spostava in stato di trance per tutto il salotto, seduta sulla sua poltrona con le gambe raccolte, trascinata da una forza invisibile. Le andava dietro in tutte le sue peregrinazioni attraverso gli ospedali e gli istituti di beneficenza dove cercava di seguire la pista della serie dei suoi bisognosi e imparò persino a fare a maglia, con lana a quattro fili e ferri grossi, i maglioni che suo zio Jaime regalava dopo esserseli messi una volta, non foss'altro che per vedere il sorriso senza denti di sua nonna quando lei diventava strabica nel riprendere i punti. Di continuo Clara si serviva di lei per mandare messaggi a Esteban, sicché l'avevano soprannominata il Colombo Viaggiatore. La bambina partecipava alle riunioni dei venerdì in cui il tavolino a tre gambe saltava nella piena luce del giorno, senza che ci fosse alcun trucco, energia nota o leva e alle serate letterarie in cui i maestri consacrati si alternavano a un numero variabile di timidi artisti sconosciuti che Clara proteggeva. In quell'epoca nella grande casa dell'angolo mangiarono e bevvero molti ospiti. Si dava il turno per risiedere lì, o almeno per assistere alle riunioni spiritistiche, alle chiacchiere culturali e alle conversazioni politiche, quasi tutta la gente importante del paese, compreso il Poeta, che anni dopo sarebbe stato considerato il migliore del secolo e tradotto in tutte le lingue conosciute della terra, sulle cui ginocchia Alba si era seduta spesso, senza sospettare che un giorno avrebbe seguito il suo feretro con un mazzo di garofani insanguinati in mano, tra due fila di mitragliatrici.
Clara era ancora giovane, ma a sua nipote sembrava molto vecchia, perché non aveva i denti. Non aveva nemmeno rughe e, quando se ne stava con la bocca chiusa, dava l'impressione di un'estrema giovinezza, dovuta all'espressione innocente del suo volto. Si vestiva con tuniche di lino grezzo che sembravano camici da pazzi e d'inverno portava lunghi calzerotti e guanti senza dita. La divertivano le faccende meno comiche e, invece, era incapace di capire uno scherzo, rideva fuori tempo, quando nessuno lo faceva più, e poteva diventare molto triste se vedeva un altro fare il buffone. Di tanto in tanto soffriva attacchi d'asma. Allora chiamava sua nipote con un campanellino d'argento che portava sempre con sé e Alba arrivava di corsa, l'abbracciava e la curava con sussurri di conforto, dato che entrambe sapevano, per esperienza, che l'unica cosa a far passare l'asma è l'abbraccio protratto di un essere amato. Aveva occhi ridenti color di mandorla, i capelli canuti e lucidi raccolti in un nodo scarruffato, dal quale sfuggivano ciocche ribelli, le mani fini e bianche, le unghie a mandorla e dita lunghe senza anelli, che usava solo per fare gesti di tenerezza, disporre le carte di divinazione e mettersi i denti finti all'ora di mangiare. Alba passava la giornata dietro a sua nonna, infilandosi tra le sue sottane, insistendo perché raccontasse storie o muovesse vasi con la forza del pensiero. In lei trovava un rifugio sicuro quando era presa da incubi o quando gli allenamenti di suo zio Nicolás divenivano insopportabili. Clara le insegnò a badare agli uccelli e a parlare a ognuno di loro nel suo linguaggio, a conoscere i segni premonitori della natura e a confezionare sciarpe a punto incrociato per i poveri.
Alba sapeva che sua nonna era l'anima della grande casa dell'angolo. Gli altri lo seppero più tardi, quando Clara morì e la casa perse i fiori, gli amici di passaggio e gli spiriti giocherelloni ed entrò in pieno nell'epoca dello sfacelo.
Alba aveva sei anni quando vide per la prima volta Esteban García, ma non lo dimenticò mai. Probabilmente l'aveva visto prima alle Tre Marie, durante uno qualunque dei suoi viaggi estivi col nonno, quando la portava in giro per la tenuta e con un ampio gesto le mostrava tutto quello che era a portata d'occhio, dai pioppeti sino al vulcano, comprese le casette di mattoni, e le diceva d'imparar ad amare la terra, perché un giorno sarebbe stata sua.
– I miei figli sono tutti dei deficienti. Se ereditassero le Tre Marie, in meno di un anno tornerebbero a essere la rovina che erano ai tempi di mio padre – diceva alla nipote.
– Tutto questo è tuo, nonno?
– Tutto, dall'autostrada panamericana fino alla cima di quelle montagne. Le vedi?
– Perché, nonno?
– Come perché! Perché sono il padrone, chiaro!
– Sì, ma perché sei il padrone?
– Perché era della mia famiglia.
– Perché?
– Perché l'hanno comprata agli indiani.
– E i mezzadri, quelli che hanno vissuto sempre qui anche loro, perché non sono i padroni?
– Tuo zio Jaime sta mettendoti in testa idee bolsceviche! – ruggiva rosso d'ira il senatore Trueba. – Sai cosa succederebbe qui se non ci fosse un padrone?
– No.
– Che tutto andrebbe a remengo! Non ci sarebbe nessuno a dare ordini, a vendere il raccolto, ad assumersi la responsabilità delle cose. Capisci? E nessuno che si occuperebbe della gente, neanche questo. Se qualcuno si ammalasse, per esempio, o morisse e lasciasse una vedova e molti figli, morirebbero di fame. Ciascuno avrebbe un miserabile pezzetto di terreno e non gli basterebbe neppure per mangiare a casa sua. C'è bisogno di qualcuno che pensi a loro, che prenda le decisioni, che li aiuti. Io sono stato il miglior padrone della regione, Alba. Ho un brutto carattere, ma sono giusto. I miei mezzadri vivono meglio di molta gente in città, a loro non manca niente e anche se è un anno di siccità, d'inondazioni o di terremoto, io mi preoccupo che qui nessuno sia in miseria. Dovrai fare così pure tu quando avrai l'età giusta, per questo ti porto sempre alle Tre Marie, perché tu conosca ogni pietra e ogni animale e, soprattutto, ogni persona per nome e cognome. Mi hai capito?
Ma in realtà lei aveva pochi contatti con i contadini ed era ben lontana dal conoscere ognuno per nome e cognome. Per questo non riconobbe il giovane bruno, goffo e impacciato, con piccoli occhi da topo, che una sera bussò alla porta della grande casa dell'angolo in capitale. Indossava un completo scuro molto stretto per la sua corporatura. Alle ginocchia, ai gomiti e sul sedere, la stoffa era lisa, ridotta a una pellicola lucida. Disse che voleva parlare col senatore Trueba e si presentò come il figlio di uno dei suoi mezzadri delle Tre Marie. A prescindere dal fatto che in tempi normali la gente della sua condizione entrava dalla porta di servizio e aspettava in dispensa, lo condussero in biblioteca, perché quel giorno c'era una festa in casa alla quale partecipava tutto lo stato maggiore del Partito Conservatore. La cucina era invasa da un esercito di cuochi e di aiutanti che Trueba aveva portato dal club, e c'era un tale bailamme e un tale affaccendio, che un visitatore non avrebbe potuto non dar fastidio. Era una sera d'inverno e la biblioteca era buia e silenziosa, illuminata soltanto dal fuoco che crepitava nel caminetto. Profumava di prodotti per pulire il legno e il cuoio.
– Aspetta qui, ma non toccare niente. Il senatore Trueba verrà subito – disse in malo modo la domestica, lasciandolo solo.
Il giovane perlustrò la stanza con lo sguardo, senza azzardare alcun movimento, ruminando il rancore per il fatto che tutto quello avrebbe potuto essere stato suo, se fosse nato legittimo, come tante volte gli aveva spiegato sua nonna, Pancha García, prima di morire di lipiria fra i crampi e lasciarlo definitivamente orfano in una ressa di fratelli e di cugini tra i quali non era nessuno. Solo sua nonna l'aveva individuato nel mucchio e non gli aveva permesso di dimenticare che era diverso dagli altri, perché nelle sue vene scorreva sangue del padrone. Guardò la biblioteca sentendosi soffocare. Tute le pareti erano coperte di ripiani di mogano lustro, tranne ai due lati del camino, dove c'erano due vetrinette zeppe di avori e di pietre dure d'Oriente. La stanza era a due piani, unico capriccio dell'architetto che suo nonno aveva permesso. Una balconata, alla quale si accedeva per mezzo di una scala a chiocciola di ferro forgiato, faceva le veci di un secondo piano degli scaffali. I migliori quadri della casa erano lì, perché Esteban Trueba aveva fatto di quella stanza il suo santuario, il suo ufficio, il suo rifugio e gli piaceva avere intorno gli oggetti che apprezzava di più. I ripiani erano pieni di libri e di oggetti d'arte, dal pavimento fino al soffitto. C'era una pesante scrivania di stile spagnolo, grandi poltrone di cuoio nero che voltavano le spalle alla finestra, quattro tappeti persiani che ricoprivano il pavimento di quercia e diverse lampade con paralume di pergamena, sparse strategicamente, di modo che in qualunque posto ci si fosse seduti c'era buona luce per leggere. Il senatore preferiva organizzare i suoi conciliaboli in quel luogo, tessere i suoi intrighi, o architettare i suoi affari e, nelle ore più solitarie, chiudersi a sfogare la sua rabbia, il desiderio frustrato o la tristezza. Ma nulla di tutto questo poteva essere noto al contadino che se ne stava con i piedi sul tappeto, senza sapere dove mettere le mani, sudando di timidezza. Quella biblioteca signorile, pesante e opprimente, corrispondeva per filo e per segno all'immagine che aveva del padrone. Rabbrividì di odio e di timore. Non si era mai trovato in un luogo simile, e fino a quel momento aveva pensato che il più lussuoso che potesse esistere in tutto l'universo fosse il cinematografo di San Lucas, dove una volta la maestra della scuola aveva portato tutta la classe a vedere un film di Tarzan. Gli era costato molto prendere la sua decisione, convincere la famiglia e fare il lungo viaggio fino alla capitale, solo e senza soldi, per parlare col padrone. Non poteva aspettare fino all'estate per dirgli quello che gli stava di traverso nel gozzo. D'improvviso si sentì osservato. Si volse e si trovò di fronte una bambina con trecce e calzerotti ricamati che lo guardava dalla porta.
– Come ti chiami? – chiese la bambina.
– Esteban García – disse lui.
– Io mi chiamo Alba Trueba. Ricordati del mio nome.
– Me ne ricorderò.
Si guardarono a lungo, finché lei non prese confidenza e osò avvicinarsi. Gli spiegò che avrebbe dovuto aspettare, perché suo nonno non era ancora rincasato dal Congresso e gli raccontò che in cucina c'era un turbinìo per via della festa, promettendogli che più tardi avrebbe trovato qualche pasta da portargli. Esteban García si sentì più a suo agio. Si sedette su una poltrona di cuoio nero e a poco a poco attrasse a sé la piccola e la mise a sedere sulle sue ginocchia. Alba profumava di Bayrum, una fragranza fresca e dolce che si mescolava al suo odore naturale di bambina sudata. Il ragazzo avvicinò il naso al suo collo e aspirò quel profumo sconosciuto di nitore e di benessere e, senza sapere perché, gli si riempirono gli occhi di lacrime. Sentì che odiava quella creatura quasi quanto odiava il vecchio Trueba. Lei rappresentava quello che non avrebbe mai avuto, quello che non sarebbe mai stato. Desiderava farle male, distruggerla, ma voleva anche continuare a odorarla, ascoltando la sua vocina infantile e avendo a portata di mano la sua pelle sottile. Le accarezzò le ginocchia, proprio sopra il bordo dei calzerotti ricamati, erano tiepide e avevano fossette. Alba seguitava a parlare della cuoca che metteva noci nel culo dei polli per la cena della sera. Lui chiuse gli occhi, stava tremando. Con una mano circondò il collo della bambina, sentì le sue trecce che solleticavano la nuca e schiacciò leggermente, consapevole del fatto che era tanto piccola, che con uno sforzo minimo poteva strangolarla. Desiderava farlo, voleva sentirla torcersi e muovere le gambe sulle sue ginocchia, agitandosi in cerca d'aria. Desiderava udirla gemere e morire tra le sue braccia, desiderava spogliarla e si sentiva violentemente eccitato. Con l'altra mano penetrò sotto il suo vestito inamidato, percorse le gambe infantili, trovò il pizzo della sottoveste di batista e le mutandine di lana con l'elastico. Ansimava. In un angolo del suo cervello gli rimaneva abbastanza buon senso per rendersi conto che si trovava sul bordo di un abisso. La bambina aveva smesso di parlare e se ne stava quieta, guardandolo con i suoi grandi occhi neri. Esteban García prese la mano della piccola e la appoggiò sul suo sesso indurito.
– Sai cos'è questo? – chiese con voce roca.
– Il tuo pene – rispose lei, che l'aveva visto nelle illustrazioni dei libri di medicina di suo zio Jaime e in suo zio Nicolás, quando passeggiava nudo facendo i suoi esercizi asiatici.
Lui trasalì. Si alzò bruscamente e lei cadde sul tappeto. Era sorpreso e spaventato, gli tremavano le mani, sentiva le ginocchia molli e le orecchie calde. In quel momento udì i passi del senatore Trueba nel corridoio e un istante dopo, prima di riuscire a riprendere un respiro normale, il vecchio entrò nella biblioteca.
– Perché è così scuro qui? – ruggì col suo vocione da terremoto.
Trueba accese le luci e non riconobbe il giovane che lo guardava con gli occhi fuori delle orbite. Tese le braccia a sua nipote e lei vi si rifugiò per un breve attimo come un cane bastonato, ma subito si sciolse e uscì chiudendo la porta.
– Chi sei tu, ragazzo? – spiattellò a quello che era pure lui.
– Esteban García. Non si ricorda di me, padrone? – riuscì a balbettare l'altro.
Allora Trueba riconobbe il bambino sornione che aveva denunciato Pedro Terzo anni prima e aveva raccolto da terra le dita amputate. Capì che non gli sarebbe stato facile mandarlo via senza averlo ascoltato, nonostante avesse come norma che le faccende dei mezzadri doveva risolverle l'amministratore alle Tre Marie.
– Cosa vuoi? – gli chiese.
Esteban García indugiò, non riusciva a trovare le parole che aveva preparato così minuziosamente per mesi, prima di osar bussare alla porta di casa del padrone.
– Parla alla svelta, non ho molto tempo – disse Trueba.
Tartagliando, García riuscì a formulare la sua richiesta: era riuscito a finire le medie a San Lucas e voleva una raccomandazione per la scuola dei carabinieri e una borsa di studio dallo stato per pagarsi gli studi.
– Perché non resti in campagna, come tuo padre e tuo nonno? gli chiese il padrone.
– Scusi, signore, ma voglio diventare un carabiniere – pregò Esteban García.
Trueba si ricordò che gli doveva ancora la ricompensa per avere denunciato Pedro García e decise che quella era una buona occasione per saldare il debito e, contemporaneamente, avere un servitore nella polizia. "Non si sa mai, da un momento all'altro potrei averne bisogno", pensò. Si sedette alla sua pesante scrivania, prese un foglio di carta con intestazione del senato, scrisse la raccomandazione nei termini abituali e la porse al giovane che aspettava in piedi.
– Prendi, figliolo. Mi congratulo che tu abbia scelto questa professione. Se quanto chiedi è di girare armato, tra essere delinquente o essere poliziotto, è meglio essere poliziotto, perché hai l'impunità. Chiamerò per telefono il comandante Hurtado, è mio amico, affinché ti diano la borsa di studio. Se hai bisogno di qualcosa, avvisami.
– Grazie molte, padrone.
– Non ringraziarmi, figliolo. Mi piace aiutare la mia gente.
Lo salutò con una pacca amichevole sulla spalla. – Perché ti hanno messo il nome Esteban? – gli chiese sulla soglia.
– Per lei, signore – rispose l'altro arrossendo.
Trueba non scorse un secondo senso nella cosa. Spesso i mezzadri usavano i nomi dei loro padroni per battezzare i figli, come segno di rispetto.
Clara morì lo stesso giorno in cui Alba compì sette anni. Il primo annuncio della sua morte era stato colto solo da lei. Allora cominciò a disporsi segretamente alla partenza. Con grande discrezione spartì i suoi vestiti fra i servitori e fra la sequela dei suoi protetti che aveva sempre, tenendosi l'indispensabile. Mise in ordine le sue carte tirando fuori dagli angoli nascosti i suoi quaderni in cui annotava la vita. Li legò con nastri colorati, separandoli secondo gli eventi e non in ordine cronologico perché l'unica cosa che si era dimenticata di mettere erano le date e nella fretta della sua ultima ora aveva deciso che non poteva perdere tempo a controllarle. Cercando i quaderni cominciarono a comparire i gioielli nelle scatole delle scarpe, nei sacchetti per le calze e in fondo agli armadi dove li aveva messi dall'epoca in cui suo marito glieli aveva regalati pensando così di ottenere il suo amore. Li mise in una vecchia calza di lana, la chiuse con una spilla di sicurezza e la diede a Blanca.
– La conservi, figlia. Un giorno potranno servirle per qualcosa di più importante che mascherarsi – disse.
Blanca ne parlò con Jaime e questi cominciò a sorvegliarla. Notò che sua madre faceva una vita apparentemente normale, ma che quasi non mangiava. Si nutriva di latte e di un cucchiaio di miele. Non dormiva neppure molto, trascorreva la notte scrivendo o girando per casa. Sembrava staccarsi dal mondo, ogni volta più leggera, più trasparente, più alata.
– Un giorno di questi uscirà volando – disse Jaime preoccupato.
D'improvviso cominciò a mancarle l'aria. Sentiva nel petto il galoppo di un cavallo imbizzarrito e l'ansia di un cavaliere che va di gran fretta contro il vento. Disse che era l'asma, ma Alba si era resa conto che non la chiamava più col campanellino d'argento affinché la curasse con abbracci protratti. Un mattino vide sua nonna aprire le gabbie degli uccelli con inesplicabile allegria.
Clara scrisse bigliettini per coloro che amava, i quali erano molti, e li mise segretamente in una scatola sotto il suo letto. Il mattino dopo non si alzò e, quando giunse la cameriera con la colazione, non le permise di aprire le tende. Aveva cominciato a congedarsi anche dalla luce, per entrare lentamente fra le ombre.
Avvertito, Jaime andò a vederla e non se ne andò via finché non si fu lasciata visitare. Non riuscì a trovare niente di anormale nel suo fisico ma seppe, senz'ombra di dubbio, che stava per morire. Uscì dalla camera con un ampio e ipocrita sorriso, e, una volta lontano dallo sguardo di sua madre, dovette appoggiarsi alla parete perché le gambe gli cedevano. Non lo disse a nessuno in casa. Chiamò uno specialista che era stato suo professore alla facoltà di medicina e questi si presentò a casa Trueba quello stesso giorno. Dopo avere visitato Clara, confermò la diagnosi di Jaime. Riunirono la famiglia nel salotto e senza tanti preamboli comunicarono che non sarebbe vissuta più di due o tre settimane e che l'unica cosa che si poteva fare era tenerle compagnia affinché morisse contenta.
– Credo che abbia deciso di morire, e la scienza non ha alcun rimedio contro questo male – disse Jaime.
Esteban Trueba prese suo figlio per il collo e stava quasi per strangolarlo, buttò fuori a spintoni lo specialista e poi ruppe a bastonate i lampadari e le porcellane del salotto. Infine cadde a terra in ginocchio gemendo come un bambino. Alba entrò in quel momento e vide suo nonno alla propria altezza, si avvicinò, si fermò a guardarlo sorpresa e quando vide le sue lacrime, lo abbracciò. Dal pianto del vecchio la bimba apprese la notizia. L'unica persona in casa a non perdere la calma fu lei, grazie al suo allenamento a sopportare il dolore e perché sua nonna le aveva spiegato in dettaglio le circostanze e le ansie della morte.
– Così come quando si viene al mondo, morendo abbiamo paura dell'ignoto. Ma la paura è qualcosa d'interiore che non ha nulla a che vedere con la realtà. Morire è come nascere: solo un cambiamento – aveva detto Clara.
Aveva aggiunto che, se lei poteva comunicare senza difficoltà con le anime dell'Aldilà, era completamente sicura che dopo avrebbe potuto farlo con le anime dell'Aldiqua, sicché, invece di piagnucolare quando il momento fosse arrivato, voleva che stesse tranquilla, perché nel suo caso la morte non sarebbe stata una separazione, bensì un modo di stare più unite. Alba l'aveva capito perfettamente.
Di lì a poco sembrò che Clara fosse entrata in un dolce sogno e solo il visibile sforzo d'introdurre aria nei suoi polmoni indicava che era ancora viva. Comunque l'asfissia non sembrava angosciarla, dato che non stava lottando per la vita. Sua nipote le rimase accanto tutto il tempo. Dovettero improvvisarle un letto sul pavimento, perché si rifiutava di uscire dalla stanza e, quando la vollero portare via con la forza, ebbe la sua prima convulsione. Insisteva che sua nonna si rendeva conto di tutto e che aveva bisogno di lei. Così era in effetti. Poco prima della fine, Clara riprese coscienza e poté parlare con tranquillità. La prima cosa che notò fu la mano di Alba nella sua.
– Sto per morire, vero, piccola? – domandò.
– Sì, nonna, ma non importa, perché io sto con te – rispose la bambina.
– Va bene. Tira fuori la cassetta con i biglietti che c'è sotto il letto e distribuiscili, perché non ce la faccio a salutare tutti.
Clara chiuse gli occhi, esalò un sospiro soddisfatto e se ne andò all'altro mondo senza guardarsi indietro. Intorno a lei c'era tutta la famiglia, Blanca e Jaime dimagriti per le notti di veglia, Nicolás che mormorava preghiere in sanscrito, Esteban con la bocca e i pugni stretti, infinitamente furioso e desolato, e la piccola Alba che era l'unica a rimanere serena. C'erano anche i domestici, le sorelle Mora, un paio di artisti poverissimi che erano sopravvissuti nella casa durante gli ultimi mesi, e un sacerdote che era venuto chiamato dalla cuoca, ma non ebbe niente da fare, perché Trueba non permise che desse fastidio alla moribonda con confessioni dell'ultima ora né con aspersioni di acqua benedetta.
Jaime si chinò sul corpo cercando qualche impercettibile battito del suo cuore, ma non lo trovò.
– La mamma se n'è andata – disse in un singhiozzo.
10. L'EPOCA DELLO SFACELO
Non posso parlarne. Ma cercherò di scriverlo. Sono passati venticinque anni e per molto tempo ho avuto un continuo dolore. Credevo che non sarei mai riuscito a consolarmi, ma ora, vicino ai novant'anni, capisco quello che lei aveva voluto dire quando ci aveva assicurato che non avrebbe avuto difficoltà a comunicare con noi, perché aveva molta pratica in queste cose. Prima io giravo come smarrito, cercandola dappertutto. Ogni notte, andando a letto, immaginavo che stesse con me, così com'era quando aveva tutti i suoi denti e mi amava. Spegnevo la luce, chiudevo gli occhi e nel silenzio della mia camera cercavo di vederla, la chiamavo da sveglio e dicono che la chiamassi anche da addormentato.
La notte che morì mi chiusi dentro con lei. Dopo tanti anni senza parlarci dividemmo quelle ultime ore riposando nell'acqua quieta della seta azzurra, come le piaceva chiamare il suo letto, e ne approfittai per dirle tutto quello che non avevo potuto dirle prima, tutto quello che mi ero trattenuto dal dirle dopo la terribile notte in cui l'avevo picchiata. Le tolsi la camicia da notte e la scrutai con attenzione cercando qualche traccia di malattia che potesse giustificare la sua morte, e, non trovandola, seppi che aveva semplicemente terminato la sua missione su questa terra ed era volata in un'altra dimensione dove il suo spirito, finalmente libero dalla zavorra materiale, si trovava più a suo agio. Non c'era alcuna deformità né altra cosa terribile nella sua morte. La scrutai a lungo, perché da molti anni non avevo occasione di osservarla a mio agio, e durante quel tempo mia moglie era cambiata come succede a tutti col passare degli anni. Mi sembrò bella come sempre. Era dimagrita e credetti che fosse cresciuta, che fosse più alta, ma poi compresi che era un effetto illusorio, prodotto dal mio stesso rattrappimento. Prima mi sentivo come un gigante al suo fianco, ma, stendendomi accanto a lei nel letto, notai che eravamo quasi della stessa statura. Aveva il suo cespuglio di capelli ricci e ribelli che mi avevano affascinato quando ci eravamo sposati, raddolciti da alcune ciocche bianche che illuminavano il suo volto addormentato. Era molto pallida, con ombre intorno agli occhi, e notai per la prima volta che aveva certe piccole rughe molto sottili ai lati delle labbra e sulla fronte. Sembrava una bambina. Era fredda, ma era la donna dolce di sempre e potei parlarle tranquillamente, accarezzarla, dormire un momento quando il sonno vinse il dolore, senza che il fatto irrimediabile della sua morte alterasse il nostro incontro. Finalmente ci eravamo riconciliati.
All'alba cominciai a rassettarla, affinché tutti la vedessero con un bell'aspetto. Le misi una tunica bianca che c'era nel suo armadio e mi meravigliai che avesse così pochi indumenti, perché mi ero fatto l'idea che fosse una donna elegante. Trovai un paio di calzerotti di lana e glieli infilai perché non le si gelassero i piedi, perché era molto freddolosa. Poi le spazzolai i capelli con l'intenzione di annodarle la crocchia che portava, ma mentre passavo la spazzola i suoi ricci s'ingarbugliarono formando una cornice intorno al suo volto e mi sembrò che così fosse più bella. Cercai i suoi gioielli, per mettergliene qualcuno, ma non riuscii a trovarli, sicché mi rassegnai a togliermi la fede matrimoniale che portavo dal nostro fidanzamento e a mettergliela al dito, per sostituire quella che si era tolta quando aveva rotto con me. Sistemai i guanciali, lisciai il letto, le misi qualche goccia d'acqua di colonia sul collo e poi aprii la finestra, per fare entrare il mattino. Una volta finito tutto questo, aprii l'uscio e permisi che i miei figli e mia nipote si accomiatassero da lei. Trovarono Clara sorridente, pulita e bella, com'era stata sempre. Io mi ero rimpicciolito di dieci centimetri, i piedi mi sguazzavano nelle scarpe e avevo i capelli definitivamente bianchi, ma ormai non piangevo più.
– Potete seppellirla – dissi. – Approfittate per seppellire anche la testa di mia suocera, che dev'essere in qualche angolo della cantina da molto tempo – aggiunsi e uscii strascicando i piedi per non perdere le scarpe.
Così la mia nipotina venne a sapere che, quanto stava nella cappelliera di pelle di porco e che le era servito per giocare alle messe nere e per addobbare i suoi rifugi, era la testa della sua bisnonna Nivea, che era rimasta a lungo senza sepoltura, dapprima per evitare lo scandalo e poi perché, nel disordine di questa casa, ce n'eravamo dimenticati. Lo facemmo con la maggior segretezza per non far parlare la gente. Dopo che gli inservienti delle pompe funebri ebbero terminato di sistemare Clara nella sua bara e di adibire il salotto a cappella mortuaria, con tendaggi e crespi neri, ceri gocciolanti e un altare improvvisato sul pianoforte, Jaime e Nicolás misero nella cassa la testa della nonna, che ormai era solo un giocattolo giallo dall'espressione impaurita, affinché riposasse accanto alla sua figlia preferita.
Il funerale di Clara fu un evento. Nemmeno io riuscii a spiegarmi da dove fosse uscita tanta gente addolorata per la morte di mia moglie. Non sapevo che conoscesse tutti. Sfilarono processioni interminabili che mi stringevano la mano, una coda di automobili sbarrò tutti gli accessi al cimitero e accorsero alcune strane delegazioni di poveri, di scolari, di sindacati operai, di monache, di bambini mongoloidi, di vagabondi e di spiritisti. Quasi tutti i mezzadri delle Tre Marie avevano fatto il viaggio, alcuni per la prima volta nella loro vita, su camion e in treno per porgerle l'ultimo saluto. Tra la folla vidi Pedro Secondo García, che non avevo più rivisto in tutti quegli anni. Mi avvicinai per salutarlo, ma non rispose al mio cenno. Si avvicinò a testa china alla fossa aperta e gettò sulla bara di Clara un mazzo di avvizziti fiori silvestri che avevano l'aria di essere stati rubati in un giardino altrui. Stava piangendo.
Alba, che mi dava la mano, assistette alla cerimonia funebre. Vide la bara calare nella terra, nel posto provvisorio che avevamo ottenuto, ascoltò gli interminabili discorsi che esaltavano le uniche virtù che sua nonna non aveva avuto e quando tornò a casa corse a chiudersi in cantina ad aspettare che lo spirito di Clara si mettesse in contatto con lei, proprio come le aveva promesso. Lì la trovai che sorrideva addormentata, sulla spoglia tarmata di Barrabás.