Arrivarono appena in tempo per sistemare la madre nel suo letto. Férula si affannò nei preparativi mentre un servitore andava a cercare il dottor Cuevas e la levatrice. Clara, che con le scosse dell'auto, le emozioni degli ultimi giorni e le medicine del medico aveva acquisito una facilità di mettere al mondo che non aveva avuto con la prima figlia, strinse i denti, si aggrappò all'albero di mezzana e al trinchetto del veliero azzurro e si dedicò al compito di mettere al mondo nell'acqua quieta della seta azzurra, Jaime e Nicolás, che nacquero precipitosamente davanti allo sguardo attento della loro nonna, i cui occhi continuavano a star aperti osservandoli dalla poltrona. Férula li afferrò a turno per la ciocca di capelli umidi che coronava loro la nuca e li aiutò a uscire a strattoni con l'esperienza acquisita vedendo nascere vitelli e puledri alle Tre Marie. Prima che arrivassero il medico e la levatrice, nascose sotto il letto la testa di Nivea, per evitare imbarazzanti spiegazioni. Quando questi arrivarono, ebbero ben poco da fare, perché la madre riposava tranquilla e i bambini, minuscoli come settimini, ma con tutte le parti integre e in buono stato, dormivano tra le braccia della loro estenuata zia.

La testa di Nivea divenne un problema, perché non c'era un posto dove metterla per non continuare a vederla. Infine Férula la sistemò in una cappelliera di cuoio avvolta in drappi. Discussero della possibilità di sotterrarla come Dio comanda, ma avrebbe comportato un carteggio interminabile far sì che aprissero la tomba per includere quanto mancava e, del resto, temevano lo scandalo se fosse divenuto di dominio pubblico il modo in cui Clara l'aveva trovata dove i segugi avevano fallito. Esteban Trueba, timoroso del ridicolo come sempre lo era stato, optò per una soluzione che non fornisse argomenti alle male lingue, perché sapeva che lo strano comportamento di sua moglie era il cuore dei pettegolezzi. L'abilità di Clara nel muovere oggetti senza toccarli e nell'indovinare l'impossibile era su tutte le bocche. Qualcuno aveva rinvangato la storia del mutismo di Clara durante la sua infanzia e l'accusa di padre Restrepo, quel sant'uomo che la Chiesa voleva trasformare nel primo beato del paese. I due anni alle Tre Marie erano serviti a far tacere i mormorii e a far dimenticare alla gente, ma Trueba sapeva che sarebbe bastata un'inezia, come la faccenda della testa della suocera, perché le dicerie riprendessero. Per questo, e non per incuria, come si disse anni dopo, la cappelliera fu riposta in cantina in attesa di un'occasione adatta per darle una sepoltura cristiana.

 

Clara si riprese dal doppio parto con rapidità. Affidò la cura dei bambini a sua cognata e alla Nana, che dopo la morte dei suoi antichi padroni, si era trasferita nella casa dei Trueba per continuare a servire lo stesso sangue, come diceva. Era nata per cullare i figli altrui, per usare gli indumenti di cui gli altri si disfacevano, per mangiare i loro avanzi, per vivere di sentimenti e tristezze prese a prestito, per invecchiare sotto il tetto d'altri, per morire un giorno nella sua stanzetta nell'ultimo cortile, in un letto che non era il suo, ed essere sotterrata in una fossa comune del Cimitero Generale. Aveva quasi settant'anni, ma si manteneva immutabile nelle sue premure, instancabile nelle sue faccende, inalterata dal tempo, con l'agilità di mascherarsi da babau e di balzare su Clara negli angoli quando le veniva la mania del mutismo e della lavagnetta, sempre abbastanza forte per combattere con i gemelli e abbastanza tenera per dar retta a Blanca, così come aveva fatto con sua madre e con sua nonna. Aveva preso l'abitudine di mormorare preghiere di continuo, perché quando si era resa conto che nessuno in casa era credente, si era assunta la responsabilità di pregare per i vivi della famiglia, e quindi, anche per i loro morti, come un'aggiunta ai servizi che aveva prestato loro in vita. In vecchiaia finì per dimenticare a favore di chi pregava, ma conservò l'abitudine nella certezza che a qualcuno sarebbe servito. La devozione era l'unica cosa che spartiva con Férula. In tutto il resto furono rivali.

La sera di un venerdì bussarono alla porta della grande casa dell'angolo tre dame trasparenti dalle mani affusolate e dagli occhi di bruma, acconciate con cappellini ornati di fiori passati di moda e cosparse di un intenso profumo di violette silvestri, che penetrò in ogni stanza e lasciò la casa profumata di fiori per vari giorni. Erano le tre sorelle Mora. Clara era nel giardino e sembrava che le avesse aspettate tutto il pomeriggio, le ricevette con un bambino a ciascun seno e con Blanca che giocherellava ai suoi piedi. Si guardarono, si riconobbero, si sorrisero. Fu l'inizio di un appassionato rapporto spirituale che durò tutta la vita e, se si sono avverate le previsioni, continua nell'Aldilà.

Le tre sorelle Mora erano studiose di spiritismo e dei fenomeni soprannaturali, erano le uniche a possedere la prova irrefutabile secondo cui le anime possono materializzarsi, grazie a una fotografia che le mostrava intorno a un tavolo e a un ectoplasma volante sopra le loro teste, rarefatto e alato, che qualche miscredente attribuiva a una macchia nello sviluppo del ritratto e altri a un semplice inganno del fotografo. Erano venute a sapere, per vie misteriose note agli iniziati, dell'esistenza di Clara, si erano messe in contatto telepatico con lei e immediatamente avevano compreso che erano sorelle astrali. Mediante discrete indagini avevano individuato il suo indirizzo terreno, si erano presentate con le loro carte impregnate di fluidi benefici, alcuni giochi di figure geometriche e numeri cabalistici di loro invenzione, per smascherare i falsi parapsicologi, e un vassoio di dolcetti comuni e semplici in regalo per Clara. Divennero intime amiche a partire da quel giorno, fecero in modo da riunirsi tutti i venerdì per evocare gli spiriti e scambiarsi cabale e ricette di cucina. Scoprirono il modo di inviarsi energia mentale dalla grande casa dell'angolo sino all'altro estremo della città, dove abitavano le Mora, in un vecchio mulino che avevano trasformato nella loro straordinaria dimora, e anche in senso contrario, sicché potevano darsi un sostegno nelle circostanze difficili della vita quotidiana. Le Mora conoscevano molta gente, quasi tutti interessati a queste faccende, che cominciarono ad arrivare alle riunioni dei venerdì e apportarono le loro cognizioni e i loro fluidi magnetici. Esteban Trueba li vedeva sfilare in casa sua e impose come uniche condizioni che rispettassero la sua biblioteca, che non usassero i bambini per esperimenti psichici e che fossero discreti, perché non desiderava un pubblico scandalo. Férula disapprovava queste attività di Clara perché le sembravano contrarie alla religione e alle buone creanze. Osservava le sedute a prudente distanza, senza partecipare, ma sorvegliando con la coda dell'occhio mentre lavorava a maglia, pronta a intervenire non appena Clara esagerava in qualche trance. Aveva constatato che sua cognata usciva esausta da certe sedute in cui fungeva da medium e cominciava a parlare in un linguaggio pagano con voce che non era la sua. Anche la Nana sorvegliava col pretesto di servire tazzine di caffè, spazzando via gli spiriti con le sue sottovesti inamidate e il suo chiocciare di orazioni mormorate a denti stretti, ma non lo faceva per curarsi di Clara, bensì per controllare che nessuno rubasse i portacenere. Era inutile che Clara le spiegasse che i suoi visitatori non vi nutrivano il minimo interesse; innanzitutto perché nessuno fumava, perché la Nana aveva accusato tutti, tranne le tre incantevoli Mora, di essere una banda di ruffiani evangelici.

La Nana e Férula si detestavano. Si contendevano l'affetto dei bambini e litigavano per proteggere Clara nelle sue stravaganze e svanitezze, nei cortili, nei corridoi, ma mai in presenza di Clara perché erano entrambe d'accordo nell'evitarle quel fastidio. Férula era giunta ad amare Clara con una passione gelosa che assomigliava più a quella di un marito esigente che a quella di una cognata. Col tempo perse la prudenza e cominciò a lasciar trasparire la sua adorazione in molti dettagli che non sfuggivano a Esteban. Quando lui tornava dalla campagna, Férula faceva in modo da convincerlo che Clara stava passando quanto lei chiamava "uno dei suoi brutti momenti", affinché lui non dormisse nel suo letto e stesse in sua compagnia solo in poche occasioni e per un tempo limitato. Inventava raccomandazioni del dottor Cuevas che poi, discusse con il medico, si rivelavano false. S'interponeva in mille modi fra gli sposi e se non ci riusciva, istigava i tre bambini a chiedere di andare a passeggio col padre, di leggere con la madre, che fossero vegliati perché avevano la febbre, che giocassero con loro: "Poverini, hanno bisogno del loro papà e della loro mamma, passano tutto il giorno in compagnia di quella vecchia ignorante che mette loro in testa idee astratte, li fa diventare imbecilli con le sue superstizioni, quello che bisogna fare con la Nana è ricoverarla, dicono che le Serve di Dio abbiano un asilo per lavoratrici vecchie che è una meraviglia, le trattano come signore, non devono lavorare, il mangiare è buono, sarebbe la cosa più umana, povera Nana, ormai non è più buona a nulla" diceva. Senza riuscire a individuare la causa, Esteban cominciò a sentirsi a disagio in casa propria. Sentiva sua moglie sempre più lontana, più strana e inaccessibile, non poteva raggiungerla né con regali, né con le sue timide manifestazioni di tenerezza, né con la passione sfrenata che lo attanagliava sempre in sua presenza. In tutto quel tempo il suo amore era aumentato fino a diventare un'ossessione. Voleva che Clara pensasse solo a lui, che non avesse altra vita se non quella che poteva spartire con lui, che non possedesse nulla che non provenisse dalle sue mani, che gli fosse completamente dipendente.

Ma la realtà era diversa, sembrava che Clara volasse in aeroplano come suo zio Marcos, distaccata dalla terra ferma, cercando Dio in discipline tibetane, consultando spiriti con tavolini a tre gambe che davano colpetti, due per il sì, tre per il no, decifrando messaggi dell'altro mondo che potevano indicarle persino lo stato delle piogge. Una volta annunciarono che c'era un tesoro nascosto sotto il caminetto e lei dapprima fece abbattere il muro, ma non lo si trovò, poi la scala, e neppure, subito dopo metà del salone principale, e niente. Infine venne fuori che lo spirito, confuso dalle modifiche architettoniche che aveva fatto in casa, aveva scordato che il nascondiglio dei dobloni d'oro non era nella dimora dei Trueba, bensì dall'altra parte della strada, nella casa degli Ugarte, i quali rifiutarono di demolire la sala da pranzo, perché non avevano creduto al racconto del fantasma spagnolo. Clara non era capace di fare le trecce a Blanca per andare a scuola, cosa di cui si occupavano Férula o la Nana, ma aveva con la bambina uno stupendo rapporto basato sugli stessi principi che lei aveva avuto con Nivea, si raccontavano storie, leggevano i libri magici dei bauli incantati, sfogliavano i ritratti di famiglia, si passavano gli aneddoti degli zii ai quali scappano ventosità e dei ciechi che cadono come baccelli dai pioppi, andavano a guardare la cordigliera e a contare le nuvole, parlavano tra di loro in un linguaggio inventato che sopprimeva la ti spagnola e la sostituiva con la enne e la erre con la elle, sicché finivano per parlare come il cinese della tintoria. Frattanto Jaime e Nicolás crescevano separati dal binomio femminile, secondo il principio di quei tempi che "bisogna farsi uomini". Le donne, al contrario, nascevano con la loro condizione geneticamente incorporata e non avevano bisogno di acquisirla con le metamorfosi della vita. I gemelli si facevano forti e brutali nei giochi tipici della loro età, dapprima cacciando lucertole per mozzar loro la coda, topi per costringerli a far gare di corsa e farfalle per togliere la polvere dalle loro ali e, più tardi, dandosi pugni e calci secondo le istruzioni proprio del cinese della tintoria, che era un anticipatore per la sua epoca e che era stato il primo a introdurre nel paese la conoscenza millenaria delle arti marziali, ma nessuno gli aveva dato retta quando aveva dimostrato che poteva spaccare mattoni con la mano e aveva voluto fondare una sua palestra, sicché si era messo a lavare la biancheria degli altri. Qualche anno dopo, i gemelli avevano finito di farsi uomini scappando dal collegio per rifugiarsi nel terreno dell'immondezzaio, dove scambiavano le posate d'argento della madre per qualche minuto d'amore proibito con un donnone immenso che poteva cullare entrambi sui suoi seni da vacca olandese, affogare entrambi nella polposa umidità delle sue ascelle, schiacciarli entrambi con le sue cosce da elefante e innalzarli entrambi alla gloria con la cavità buia succosa, calda, del suo sesso. Ma questo accadde molto più tardi e Clara non lo venne mai a sapere, sicché non poté annotarlo sui suoi quaderni affinché io lo leggessi un giorno. Ne sono venuto a conoscenza per altre vie.

A Clara non interessavano le faccende domestiche. Vagava per le stanze senza stupirsi che tutto fosse in perfetto stato di ordine e di pulizia. Si sedeva a tavola senza chiedersi chi preparava da mangiare o dove si comprava il cibo, non badava a chi la serviva, dimenticava i nomi dei domestici e talvolta perfino dei suoi stessi figli, tuttavia sembrava essere sempre presente, come uno spirito benefico e allegro, al cui passaggio si mettevano in moto gli orologi. Si vestiva di bianco, perché aveva deciso che era l'unico colore che non alterava la sua aura, con i vestiti semplici che le faceva Férula alla macchina per cucire e che preferiva a quelli pomposi con falpalà e pietre preziose che le regalava il marito, nell'intento di ostentarla e vederla alla moda. Esteban pativa crisi di disperazione, perché lei lo trattava con la stessa simpatia con cui trattava tutti, gli parlava con lo stesso tono affettuoso con cui accarezzava i gatti. Era incapace di rendersi conto se era stanco, triste, euforico o con voglia di fare l'amore, in cambio gli indovinava dal colore delle sue radiazioni se stava tramando qualche bricconata e sapeva smontare un'arrabbiatura con un paio di frasi scherzose. Lo esasperava il fatto che Clara non sembrasse mai realmente contenta di niente e che non avesse mai bisogno di qualcosa che lui poteva darle. A letto era distratta e allegra come altrove, rilassata e semplice ma assente. Sapeva di possedere un corpo per fare ogni sorta di ginnastica imparata sui libri che nascondeva in una sezione della biblioteca, ma anche i peccati più abominevoli di Clara sembravano ruzzi da neonato, perché era impossibile spruzzarli col sale di un cattivo pensiero o col pepe della sottomissione. Furente, qualche volta Trueba era tornato ai suoi antichi peccati e aggrediva una robusta contadinotta tra l'erba durante le forzate separazioni, quando Clara rimaneva con i bambini nella capitale e lui si doveva occupare della campagna, ma il fatto, lungi dal sollevarlo, gli lasciava un cattivo sapore in bocca e non gli procurava alcun piacere durevole, specialmente perché, se l'avesse raccontato a sua moglie, sapeva che si sarebbe scandalizzata per il maltrattamento fatto all'altra, ma assolutamente non per la sua infedeltà. La gelosia, come altri sentimenti esclusivamente umani, non incombeva su Clara. Andò anche al Lampioncino Rosso due o tre volte, ma smise di andarci perché non funzionava più bene con le prostitute e doveva ingoiare l'umiliazione con pretesti borbottati che aveva bevuto troppo vino, che non aveva digerito il pranzo, che da molti giorni era raffreddato. Non ritornò, tuttavia, a trovare Tránsito Soto, perché aveva il presentimento che lei custodisse dentro di sé il pericolo di un patto. Sentiva un desiderio insoddisfatto che gli ribolliva nelle viscere, un fuoco impossibile da spegnere, una sete di Clara che mai, nemmeno nelle notti più focose e protratte, riusciva a saziare. Si addormentava esausto col cuore sul punto di scoppiargli in petto, ma anche nei sogni era consapevole del fatto che sua moglie, addormentata al suo fianco, non era lì, ma in una dimensione sconosciuta che lui non avrebbe mai potuto raggiungere. Talvolta perdeva la pazienza e scuoteva furioso Clara, le gridava le peggiori ingiurie e finiva per piangere nel suo grembo e per chiederle perdono della sua brutalità. Clara capiva ma non poteva porvi rimedio. L'amore smisurato di Esteban Trueba per Clara fu senza dubbio il sentimento più potente della sua vita, anche più forte della rabbia e dell'orgoglio e mezzo secolo dopo continuava a invocarla con lo stesso turbamento e la stessa urgenza. Nel suo letto di vecchio l'avrebbe chiamata sino alla fine dei suoi giorni.

Gli interventi di Férula aggravarono lo stato di ansietà in cui si dibatteva Esteban. Ogni ostacolo che sua sorella frapponeva tra lui e Clara lo faceva andare in bestia. Arrivò al punto da detestare i suoi stessi figli perché assorbivano l'attenzione della madre, si portò Clara in una seconda luna di miele negli stessi posti della prima, fuggivano in alberghi per il fine settimana ma tutto era inutile. Si convinse che la colpa di tutto l'aveva Férula, che aveva seminato in sua moglie il germe malefico che le impediva di amarlo e che, in cambio, rubava con carezze proibite quello che gli apparteneva come marito. Diventava livido quando sorprendeva Férula fare il bagno a Clara, le toglieva la spugna dalle mani, la cacciava via con violenza e tirava fuori Clara dall'acqua praticamente raggomitolata, la scrollava, le proibiva di farsi fare il bagno di nuovo, perché alla sua età quello era un vizio, e finiva per asciugarla lui, avvolgendola nel suo accappatoio e portandola nella sua camera con la sensazione di essere ridicolo. Se Férula serviva a sua moglie una tazza di cioccolata, gliela strappava dalle mani col pretesto che la trattava come un'invalida, se le dava un bacio della buonanotte, la spingeva da parte con una manata, dicendo che non era bello sbaciucchiarsi, se le sceglieva i pezzi migliori dal vassoio, si allontanava da tavola furibondo. I due fratelli arrivarono a essere rivali dichiarati, si squadravano con occhiate di odio, inventavano stratagemmi per svilirsi reciprocamente agli occhi di Clara, si spiavano e si guatavano. Esteban non andò più in campagna e mise Pedro García a capo di tutto, comprese le vacche importate, smise di uscire con i suoi amici, di andare a giocare a golf, di lavorare, per sorvegliare giorno e notte i passi di sua sorella e piazzarlesi di fronte ogni volta che si avvicinava a Clara. L'atmosfera della casa divenne irrespirabile, densa e cupa e persino la Nana girava come una spiritata. L'unica che rimaneva estranea a tutto quello che stava succedendo era Clara, che nella sua distrazione e innocenza non si rendeva conto di niente.

L'odio di Esteban e di Férula impiegò molto tempo a esplodere. Cominciò come un malessere dissimulato e un desiderio di offendersi nei piccoli dettagli, ma andò crescendo finché non occupò tutta la casa. Quell'estate Esteban dovette andare alle Tre Marie perché proprio nel momento della raccolta Pedro García era caduto da cavallo e si era ritrovato con la testa rotta all'ospedale delle monache. Non appena il suo amministratore si fu rimesso, Esteban tornò alla capitale senza avvisare. Sul treno aveva un presentimento atroce, con un desiderio inconfessato che accadesse qualche dramma, senza sapere che il dramma era cominciato quando lui l'aveva desiderato. Arrivò in città verso sera, ma se ne andò direttamente al club, dove giocò qualche partita a briscola e cenò senza riuscire a calmare la sua inquietudine e la sua impazienza, sebbene non sapesse cosa stesse aspettandosi. Durante la cena ci fu un leggero terremoto, i lampadari a gocce dondolarono col solito suono di campanellini di cristallo, ma nessuno levò il capo, tutti continuarono a mangiare e i musicanti a suonare senza perdere una nota, tranne Esteban Trueba che sobbalzò come se quello fosse stato un avvertimento. Finì di mangiare in fretta, chiese il conto e uscì.

Férula, che in genere teneva i nervi sotto controllo, non era mai riuscita ad abituarsi ai terremoti. Era riuscita a perdere la paura dei fantasmi che Clara evocava, dei topi in campagna, ma i terremoti la scuotevano fin dentro le ossa e molto tempo dopo che erano passati continuava a esserne stravolta. Quella sera non era ancora andata a dormire ed era corsa nella stanza di Clara, che aveva bevuto il suo infuso di tiglio e stava dormendo placidamente. Cercando un po' di compagnia e di calore, si sdraiò accanto a lei facendo in modo di non svegliarla e mormorando preghiere silenziose affinché la cosa non degenerasse in un vero terremoto. Lì la trovò Esteban Trueba. Entrò in casa cauto come un bandito, salì in camera di Clara senza accendere le luci e comparve come una tromba d'aria davanti alle due donne assopite, che lo credevano alle Tre Marie. Si avventò sulla sorella con la stessa rabbia con cui l'avrebbe fatto se fosse stato il seduttore di sua moglie e la tirò fuori del letto a strattoni, la trascinò per il corridoio, la fece scendere a spintoni dalla scala e la spinse a viva forza nella biblioteca, mentre Clara dalla porta della sua stanza gridava senza capire cos'era successo. Da solo con Férula, Esteban scaricò la sua furia di marito insoddisfatto e urlò a sua sorella quello che mai avrebbe dovuto dirle, da lesbica fino a meretrice, accusandola di pervertire sua moglie, di deviarla con carezze da zitella, di farla tornare lunatica, distratta, muta e spiritista con arti da virago, di farsela con lei durante le sue assenze, di macchiare persino il nome dei figli, l'onore della casa e la memoria della loro santa madre, che ormai era stufo di tanta malvagità e che la cacciava di casa, che se ne andasse immediatamente, che non voleva rivederla mai più e le proibiva di avvicinarsi a sua moglie e ai suoi figli, che non le sarebbe mancato il denaro per sopravvivere decentemente finché lui fosse stato vivo, così come aveva promesso una volta, ma che se la rivedeva ronzare intorno alla sua famiglia, l'avrebbe ammazzata, che se lo mettesse bene in testa. Ti giuro sulla testa di nostra madre che ti ammazzo.

Ti maledico, Esteban! gli gridò Férula. Sarai sempre solo, ti si rattrappirà l'anima e il corpo e morirai come un cane.

E uscì per sempre dalla grande casa dell'angolo, in camicia da notte e senza portarsi niente appresso.

Il giorno dopo Esteban Trueba andò da padre Antonio e gli raccontò quanto era successo, senza entrare nei particolari. Il sacerdote lo ascoltò tranquillamente con lo sguardo impassibile di chi aveva già udito il racconto.

Che vuoi da me, figliolo? chiese quando Esteban ebbe finito di parlare.

Che faccia pervenire tutti i mesi a mia sorella una busta che io le darò. Non voglio che si trovi in ristrettezze economiche. E sia chiaro che non lo faccio per affetto, ma per mantenere una promessa.

Padre Antonio prese la prima busta con un sospiro e abbozzò il gesto di dare una benedizione, ma Esteban si era già girato a metà e stava uscendo. Non diede alcuna spiegazione a Clara di quello che era successo tra lui e sua sorella. Le annunciò che l'aveva cacciata di casa, che le proibiva di nominarla in sua presenza e le suggerì che se aveva un po' di decenza non avrebbe dovuto nominarla neppure alle sue spalle. Fece portare via i suoi indumenti e tutti gli oggetti che avrebbero potuto ricordarla e si convinse che era morta.

Clara capì che era inutile fargli domande. Se ne andò nella stanza da cucito a cercare il suo pendolo, che le serviva per mettersi in comunicazione con i fantasmi e che usava come strumento di concentrazione. Stese a terra una mappa della città e tenne sospeso il pendolo a mezzo metro e sperò che le oscillazioni le indicassero l'indirizzo di sua cognata, ma dopo aver fatto molte prove per tutto il pomeriggio, si rese conto che il sistema non avrebbe funzionato se Férula non aveva un domicilio fisso. Di fronte all'inefficacia del pendolo, per localizzarla andò in giro con un'auto, sperando che il suo istinto la guidasse, ma nemmeno questo diede un risultato. Consultò il tavolino a tre gambe, senza che alcuno spirito guida apparisse per condurla da Férula attraverso i meandri della città, la chiamò col pensiero e non ottenne risposta e neppure i tarocchi la illuminarono. Allora decise di ricorrere ai metodi tradizionali e cominciò a cercarla tra le amiche, interrogò i bottegai e tutti quelli che avevano qualcosa a che fare con lei, ma nessuno l'aveva più vista. Le sue ricerche la portarono infine da padre Antonio.

Non la cerchi più, signora disse il sacerdote. Non vuole vederla.

Clara comprese che era quella la causa per cui non aveva funzionato alcuno dei suoi infallibili sistemi di divinazione.

Le sorelle Mora avevano ragione si disse. Non si può trovare chi non vuole essere trovato.

 

Esteban Trueba entrò in un periodo molto prospero. I suoi affari parevano toccati dalla bacchetta magica. Si sentiva soddisfatto della vita. Era ricco, così come se l'era imposto una volta. Aveva la concessione di altre miniere, stava esportando frutta all'estero, fondò un'impresa di costruzioni e le Tre Marie che erano cresciute in estensione erano diventate la migliore azienda della zona. Non lo danneggiò la crisi economica che aveva travolto il resto del paese. Nelle province del Nord il fallimento delle miniere di salnitro aveva gettato nella miseria migliaia di lavoratori. La famelica tribù di disoccupati, che trascinavano le loro mogli, i loro figli, i loro vecchi in cerca di lavoro lungo le strade, era finita per avvicinarsi alla capitale e lentamente aveva formato un cordone di miseria intorno alla città sistemandosi in qualche modo, tra assi e pezzi di cartone, in mezzo all'immondizia e all'abbandono. Vagavano per le strade chiedendo una possibilità di lavoro, ma non c'era lavoro per tutti e a poco a poco i rudi operai, dimagriti per la fame, striminziti dal freddo, laceri, desolati, cessarono di chiedere lavoro e chiesero semplicemente un'elemosina. Si riempì di mendicanti. E poi di ladri. Non si erano mai viste gelate tanto terribili come quell'anno. Venne la neve nella capitale, uno spettacolo inusitato che rimase a lungo in prima pagina sui giornali, celebrata come una notizia festosa, mentre tra la gente emarginata si svegliavano bambini blu, congelati. Non bastava neppure la carità per tanti derelitti.

Quello fu l'anno del tifo esantematico. Cominciò come altre calamità dei poveri e subito acquisì caratteristiche di piaga divina. Nacque nei quartieri degli indigenti, per colpa dell'inverno, della denutrizione, dell'acqua sporca dei canali di scolo. Si aggiunse alla disoccupazione e si diffuse in ogni dove. Gli ospedali non erano sufficienti. I malati giravano per le strade con lo sguardo smarrito, si toglievano i pidocchi e li tiravano contro la gente sana. La piaga si diffuse, entrò in tutte le case, infettò le scuole e le fabbriche, nessuno poteva sentirsi sicuro. Tutti vivevano con paura, scrutando i segni che annunciavano la terribile malattia. I contagiati cominciavano a battere i denti per un freddo mortale nelle ossa e poco dopo erano preda dell'intontimento. Rimanevano come rimbecilliti, a consumarsi nella febbre, pieni di macchie, a cagare sangue, fra deliri di fuoco e di naufragio, a cadere a terra, con le ossa di lana, le gambe di pezza, un gusto di bile in bocca, il corpo in carne viva, una pustola rossa accanto a un'altra blu e a un'altra gialla e a un'altra nera, vomitando perfino le budella e invocando Dio che abbia pietà e li lasci morire una volta per tutte, che non ce la fanno più, che la loro testa scoppia e l'anima se ne va fra merda e spavento.

Esteban propose di portare tutta la famiglia in campagna, per sottrarla al contagio, ma Clara non volle sentir parlare della faccenda. Era molto occupata a soccorrere i poveri in una fatica che non aveva né principio né fine. Usciva molto presto e talvolta rincasava verso mezzanotte. Vuotò gli armadi di casa, tolse indumenti ai bambini, le coperte ai letti, le giacche al marito. Toglieva il cibo dalla dispensa e aveva instaurato un sistema di spedizione con Pedro Secondo García, il quale inviava dalle Tre Marie formaggi, uova, carne salata, frutta, galline, che lei distribuiva fra i suoi indigenti. Si assottigliò e si vedeva che era dimagrita. Di notte riprese a camminare da sonnambula.

L'assenza di Férula fu sentita come un cataclisma nella casa e perfino la Nana, che aveva sempre desiderato che arrivasse quel momento, si era commossa. Quando cominciò la primavera e Clara poté riposare un poco, aumentò la sua tendenza a evadere dalla realtà e a perdersi nelle fantasticherie. Sebbene non potesse più contare sull'impeccabile organizzazione di sua cognata per sbaraccare il caos della grande casa dell'angolo, si disinteressò delle cose domestiche. Mise tutto nelle mani della Nana e degli altri servitori e s'immerse nel mondo dei fantasmi e degli esperimenti psichici. I suoi diari s'ingarbugliarono, la sua calligrafia perse l'eleganza conventuale che aveva sempre avuto e degenerò in tratti aggrovigliati che talvolta erano così minuscoli da non potersi leggere e talaltra così grandi che tre parole riempivano una pagina.

Negli anni successivi si radunò intorno a Clara e alle tre sorelle Mora un gruppo di studiosi di Gourdieff, di Rosacroce, di spiritisti e di bohèmiens trasognati che facevano tre pasti al giorno nella casa e che alternavano il loro tempo tra consultazioni perentorie agli spiriti del tavolino a tre gambe e la lettura dei versi dell'ultimo poeta illuminato atterrato sul grembo di Clara. Esteban permetteva quest'invasione di stravaganti, perché da molto tempo si era reso conto che era inutile interferire nella vita di sua moglie. Decise che almeno i figli maschi dovevano stare al margine della magia, sicché Jaime e Nicolás furono fatti entrare in un collegio inglese vittoriano, dove ogni pretesto era buono per calar loro i pantaloni e prenderli a vergate sul sedere, specialmente Jaime che si beffava della famiglia reale britannica e a dodici anni era interessato alla lettura di Marx, un ebreo che provocava rivoluzioni in tutto il mondo. Nicolás aveva ereditato lo spirito avventuroso del prozio Marcos e la tendenza a fare oroscopi e a decifrare il futuro da sua madre, ma questo non costituiva un delitto grave nella rigida formazione del collegio, ma solo un'eccentricità, ragion per cui il giovane venne picchiato meno di suo fratello.

Il caso di Blanca era diverso, perché suo padre non interferiva nella sua educazione. Pensava che il suo destino era di sposarsi e di brillare in società, dove la facoltà di comunicare con i morti, se veniva mantenuta sul tono frivolo, avrebbe potuto essere un'attrattiva. Sosteneva che la magia, come la religione e la cucina, era una faccenda eminentemente femminile e forse per questo era capace di provare simpatia per le tre sorelle Mora, mentre detestava gli spiritati di sesso maschile quasi quanto i preti. Da parte sua Clara girava sempre con sua figlia attaccata alle sottane, la invitava alle sedute del venerdì e l'allevò in stretta familiarità con gli spiriti, con i membri delle società segrete e con gli artisti miserrimi ai quali faceva da mecenate. Come aveva fatto con lei sua madre ai tempi del mutismo, portava ora Blanca a visitare i poveri, carica di regali e di conforti.

Questo serve a tranquillizzarci la coscienza, figlia spiegava a Blanca. Ma non aiuta i poveri. Non hanno bisogno di carità, bensì di giustizia.

Era a questo proposito che esplodevano le peggiori discussioni con Esteban, il quale aveva un'altra opinione in merito.

Giustizia! è giusto che tutti abbiano le stesse cose? I pigri le stesse dei lavoratori? I tonti le stesse degli intelligenti? Non succede neppure con gli animali! Non è questione di ricchi o poveri, bensì di forti e deboli. Sono d'accordo sul fatto che tutti dobbiamo avere le stesse occasioni, ma questa gente non fa alcuno sforzo. È molto facile tendere la mano e chiedere l'elemosina! Io credo nello sforzo e nella ricompensa. Grazie a questa filosofia sono arrivato ad avere quello che ho. Non ho mai chiesto un favore a chicchessia e non ho commesso alcuna disonestà, il che prova che chiunque può farlo. Io ero destinato a essere un povero cristo che trascriveva pratiche notarili. Quindi non accetterò idee bolsceviche in casa mia. Andate a fare la carità nei rioni popolari, se volete! Questo è giusto: è giusto per la formazione delle signorine. Ma non venitemi a dire le stesse stupidate di Pedro Terzo García, perché non lo sopporterò!

Era vero, Pedro Terzo García stava parlando di giustizia alle Tre Marie. Era l'unico che osava sfidare il padrone nonostante le frustate che gli aveva dato suo padre, Pedro Secondo García, ogni volta che lo coglieva sul fatto. Già da quando era molto giovane il ragazzo faceva viaggi senza permesso fino in paese per procurarsi libri in prestito, leggere giornali e conversare con il maestro della scuola, un comunista fervente che anni dopo avrebbero ammazzato con una pallottola in mezzo agli occhi. Inoltre scappava di notte al bar di San Lucas dove si riuniva con alcuni sindacalisti che avevano la mania di ricostruire il mondo tra un sorso e l'altro di birra, o col gigantesco e magnifico padre José Dulce María, un sacerdote spagnolo con la testa piena di idee rivoluzionarie che l'avevano fatto relegare dalla Compagnia di Gesù in quello sperduto angolo del mondo, ma nemmeno così aveva rinunciato a trasformare le parabole bibliche in pamphlet socialisti. Il giorno in cui Esteban Trueba scoprì che il figlio del suo amministratore stava introducendo letteratura sovversiva tra i suoi mezzadri, lo chiamò nel suo ufficio e davanti a suo padre gli diede una scarica di botte con la sua frusta di pelle di serpente.

Questo è il primo avvertimento, moccioso di merda! gli disse senza alzare la voce e guardandolo con occhi di fuoco. La prossima volta che ti trovo a molestarmi la gente, ti sbatto dentro. Nella mia proprietà non voglio rivoltosi, perché qui comando io e ho diritto di circondarmi della gente che mi piace. Tu non mi piaci, sicché già lo sai. Ti sopporto per tuo padre, che mi ha servito lealmente per molti anni, ma stai attento, perché può finire molto male. Vattene!

Pedro Terzo García era uguale a suo padre, bruno, con i lineamenti duri, scolpiti nella pietra, con grandi occhi tristi, capelli neri e dritti, tagliati a spazzola. Aveva solo due amori, suo padre e la figlia del padrone, che aveva amato fin dal giorno in cui avevano dormito nudi sotto la tavola della sala da pranzo, nella loro tenera infanzia. E Blanca non si era liberata dalla stessa fatalità. Ogni volta che andava in vacanza in campagna e arrivava alle Tre Marie in mezzo a un polverone provocato dalle automobili cariche di un caotico bagaglio, sentiva il cuore batterle come un tamburo africano per l'impazienza e l'ansia. Era la prima a saltar giù dal veicolo e a mettersi a correre verso casa, e incontrava sempre Pedro Terzo García nello stesso posto dove si erano visti la prima volta, in piedi sulla soglia, seminascosto dall'ombra della porta, timido e accigliato, con i suoi pantaloni lisi, scalzo, i suoi occhi da vecchio che scrutavano la strada per vederla arrivare. I due correvano, si abbracciavano, si baciavano, ridevano, si davano spinte affettuose e rotolavano a terra tirandosi i capelli e gridando di allegria.

Alzati, piccola! Lascia stare quello straccione! strillava la Nana cercando di separarli.

Lasciali stare, Nana, sono bambini e si vogliono bene diceva Clara, che ne sapeva di più.

I bambini scappavano di corsa, andavano a nascondersi per raccontarsi tutto quello che avevano accumulato in quei mesi di separazione. Pedro le consegnava, vergognoso, certi animaletti intagliati che aveva fatto per lei con qualche pezzo di legno e Blanca ricambiava con regali che aveva messo da parte per lui: un temperino che si apriva come un fiore, una piccola calamita che per opera di magia attraeva da terra i chiodi arrugginiti. L'estate in cui lei era arrivata con una parte del contenuto dei bauli dello zio Marcos, aveva circa dieci anni e Pedro Terzo leggeva ancora a stento, ma la curiosità e l'entusiasmo ottennero quello che non aveva potuto ottenere la maestra con le bacchettate. Trascorsero l'estate leggendo vicini tra le canne del fiume, tra i pini del bosco, tra le spighe di frumento, discutendo sulle virtù di Sandokan e di Robin Hood, sulla sfortuna del Corsaro Nero, sulle storie vere ed edificanti del Tesoro della Gioventù, il malizioso significato delle parole proibite nel dizionario della Real Academia de la Lengua Española, il sistema cardiovascolare su tavole in cui si vedeva un tale senza pelle e con tutte le vene e il cuore a nudo, ma con le mutande. In poche settimane il ragazzino aveva imparato a leggere con voracità. Entrarono nel mondo vasto e profondo delle storie impossibili, dei folletti, delle fate, dei naufraghi che si mangiano l'un l'altro dopo aver tirato a sorte, delle tigri che si lasciano ammaestrare per amore, delle invenzioni affascinanti, delle curiosità geografiche e zoologiche, dei paesi orientali dove ci sono geni nelle bottiglie, dei draghi nelle caverne e delle principesse prigioniere nelle torri. Di continuo andavano a trovare Pedro García, il vecchio, al quale il tempo aveva rovinato i sensi. Stava diventando cieco a poco a poco, una pellicola celeste gli copriva le pupille, "sono le nuvole che mi stanno entrando dalla vista", diceva. Era molto contento delle visite di Blanca e di Pedro Terzo, che era suo nipote, ma lui l'aveva già dimenticato. Ascoltava i racconti che loro selezionavano dai libri magici e che dovevano gridargli all'orecchio, perché diceva pure che il vento gli stava entrando dalle orecchie e per questo era sordo. In cambio insegnava loro a immunizzarsi contro le punture d'insetti nocivi, e dimostrava l'efficacia del suo antidoto, mettendosi uno scorpione vivo sul braccio. Insegnava loro a cercare l'acqua. Bisognava tenere con le mani un ramo secco e camminare tastando il terreno, in silenzio, pensando all'acqua, e alla sete che ha il ramo, finché improvvisamente, sentendo l'umidità, il ramo non cominciava a vibrare. Lì bisognava scavare, gli diceva il vecchio, ma chiariva che quello non era il sistema che lui usava per individuare i pozzi nella zona delle Tre Marie, perché lui non aveva bisogno del ramo. Le sue ossa avevano così sete, che passando vicino all'acqua sotterranea, per profonda che fosse, il suo scheletro l'avrebbe percepita. Faceva loro vedere le erbe di campo e gliele faceva odorare, assaggiare, accarezzare perché ne conoscessero il profumo naturale, il sapore, la venatura e poter in tal modo identificarle a una a una secondo le loro proprietà curative: calmare la mente, espellere i fluidi diabolici, nettare gli occhi, fortificare il ventre, stimolare il sangue. In quel campo la sua saggezza era così grande, che il medico dell'ospedale delle monache andava a trovarlo per chiedergli consigli. Comunque, tutta la sua saggezza non aveva potuto guarire la febbre convulsa di sua figlia Pancha, che la mandò all'altro mondo. Le aveva dato da mangiare escrementi di mucca e siccome non si erano rivelati efficaci, le aveva dato sterco di cavallo, l'aveva avvolta in coperte e fatto sudare il male fino a ridurla a pelle e ossa, l'aveva frizionata con grappa e polvere da sparo per tutto il corpo, ma era stato inutile. Pancha se n'era andata con una diarrea interminabile che le aveva succhiato le carni e fatto patire una sete insaziabile. Vinto, Pedro García aveva chiesto al padrone il permesso di portarla al villaggio su un carro. I due bambini l'avevano accompagnato. Il medico dell'ospedale delle monache aveva esaminato attentamente Pancha e aveva detto al vecchio che era perduta, che se gliel'avesse portata prima e non le avesse provocato quelle sudate, avrebbe potuto far qualcosa per lei, ma ormai il suo corpo non poteva più trattenere alcun liquido, ed era come una pianta dalle radici secche. Pedro García si offese e continuò a negare il suo fallimento anche quando tornò col cadavere della figlia avvolto in una coperta, accompagnato dai due bambini spaventati e lo scaricò nel cortile delle Tre Marie borbottando contro l'ignoranza del dottore. La seppellirono in un posto privilegiato nel piccolo cimitero accanto alla chiesa abbandonata, ai piedi del vulcano, perché lei era stata, in un certo senso, moglie del padrone, visto che gli aveva dato l'unico figlio che portava il suo nome, nonostante non ne avesse mai portato il cognome, e un nipote, lo strano Esteban García che era destinato a svolgere un ruolo terribile nella storia della famiglia.

Un giorno il vecchio Pedro García narrò a Blanca e a Pedro Terzo il racconto delle galline che si erano messe d'accordo per affrontare una volpe che s'infilava ogni notte nel pollaio per rubare le uova e divorarsi i pulcini. Le galline avevano deciso che erano stufe di sopportare la prepotenza della volpe, si erano organizzate per aspettarla, e quando era entrata nel pollaio le avevano bloccato la strada, l'avevano circondata e le erano volate addosso con tante beccate da lasciarla più morta che viva.

Allora si vide che la volpe scappava con la coda tra le gambe, inseguita dalle galline finì il vecchio.

Blanca rise della storia e disse che era impossibile, perché le galline nascono stupide e deboli e le volpi nascono furbe e forti, ma Pedro Terzo non rise. Rimase tutta la sera pensieroso ruminando il racconto della volpe e delle galline, e forse fu quello l'istante in cui il bambino cominciò a farsi uomo.

 

 

5. GLI AMANTI

 

L'infanzia di Blanca trascorse senza grandi scosse, alternando quelle calde estati alle Tre Marie, in cui scopriva la forza di un sentimento che aumentava in lei, alla routine della capitale, simile a quella delle altre bambine della sua età e dei suoi mezzi, nonostante la presenza di Clara mettesse una nota stravagante nella sua vita. Ogni mattina compariva la Nana con la colazione a scuoterla dalla pigrizia, a sorvegliare la sua toeletta, a tenderle i calzerotti, a metterle il cappello, i guanti e il fazzoletto, a riordinarle i libri nella cartella, mentre intercalava preghiere mormorate per le anime dei morti, con raccomandazioni ad alta voce affinché Blanca non si facesse abbindolare dalle monache.

Quelle donne sono tutte delle depravate l'ammoniva che scelgono le allieve più carine, più intelligenti e di buona famiglia, per chiuderle in convento, radono la testa alle novizie, poverette, e le destinano a passare la vita facendo torte da vendere e curando i vecchietti degli altri.

L'autista portava la bimba alla scuola, dove le prime attività della giornata erano la messa e la comunione obbligatoria. Inginocchiata nel suo banco, Blanca aspirava l'intenso odore dell'incenso e dei gigli di Maria, e soffriva il supplizio composito della nausea della colpa e della noia. Era l'unica cosa che non le piaceva della scuola. Amava gli alti corridoi di pietra, il nitore immacolato dei pavimenti di marmo, le bianche pareti nude, il Cristo di ferro che vegliava sull'entrata. Era una creatura romantica e sentimentale, incline alla solitudine, con poche amiche, capace di emozionarsi fino alle lacrime quando fiorivano le rose nel giardino, quando aspirava il tenue odore di tela e sapone delle monache che si chinavano sui suoi compiti, quando indugiava per sentire il silenzio triste delle aule vuote. Passava per timida e malinconica. Solo in campagna, con la pelle dorata dal sole e la pancia piena di frutta tiepida, correndo con Pedro Terzo attraverso i campi, era ridente e allegra. Sua madre diceva che quella era la vera Blanca e che l'altra, quella in città, era una Blanca in letargo.

Per via dell'agitazione costante che regnava nella grande casa dell'angolo, nessuno tranne la Nana, si era reso conto che Blanca stava trasformandosi in una donna. Entrò nell'adolescenza di colpo. Aveva ereditato dai Trueba il sangue spagnolo e arabo, il portamento signorile, il contegno superbo, la pelle olivastra e gli occhi scuri dei suoi avi mediterranei, ma attenuati dall'eredità della madre, da cui aveva tratto la dolcezza che nessun Trueba aveva mai avuto. Era una creatura tranquilla che si divertiva da sola, studiava, giocava con le bambole e non dava il minimo segno di propensione naturale per lo spiritismo di sua madre o per gli attacchi di rabbia del padre. La famiglia diceva in tono scherzoso che era l'unica persona normale dopo parecchie generazioni e, davvero, sembrava un prodigio di equilibrio e di serenità. Verso i tredici anni il suo petto cominciò ad arrotondarsi, la vita ad assottigliarsi, dimagrì e si allungò come una pianta concimata. La Nana le aveva raccolto i capelli in un nodo, l'aveva accompagnata a comprare il suo primo reggiseno, il suo primo paio di calze di seta, il suo primo vestito da donna e una collezione di salviette nane per quello che lei chiamava la dimostrazione. Intanto sua madre continuava a far ballare le seggiole per tutta la casa, a suonare Chopin col piano chiuso e a declamare i bellissimi versi senza rima, argomento o logica, di un giovane poeta che aveva accolto in casa, di cui si cominciava a parlare dappertutto, senza che lei notasse i cambiamenti che si producevano in sua figlia, senza vedere la divisa della scuola con le cuciture strappate, senza rendersi conto che la faccia da frutto acerbo si era trasformata in un volto di donna, perché Clara viveva più attenta alla sua aura e ai suoi fluidi, che ai chili e ai centimetri. Un giorno la vide entrare nella stanza da cucito col suo vestito da passeggio e si meravigliò che quella signorina alta e bruna fosse la sua piccola Blanca. L'abbracciò, la riempì di baci e le predisse che avrebbe avuto presto le mestruazioni.

Si sieda che le spiego di cosa si tratta disse Clara.

Non si disturbi, mamma, è già quasi un anno che mi vengono tutti i mesi rise Blanca.

I loro rapporti non subirono grandi cambiamenti con lo sviluppo della ragazza, perché erano basati sui solidi principi della reciproca accettazione e sulla capacità di scherzare insieme di quasi tutte le cose della vita.

Quell'anno l'estate si annunciò presto con un caldo secco e afoso che calò sulla città con un riflesso di brutto sogno, sicché anticiparono di un paio di settimane il viaggio alle Tre Marie. Come tutti gli anni, Blanca aveva aspettato ansiosamente il momento di vedere Pedro Terzo e, come tutti gli anni, scendendo dall'automobile, la prima cosa che fece fu di cercarlo con lo sguardo nel posto di sempre. Scoprì la sua ombra nascosta sulla soglia della casa e saltò fuori dal veicolo precipitandosi incontro a lui con l'ansia di tanti mesi trascorsi a sognarlo, ma vide che il ragazzo si voltava e scappava via.

Blanca passò tutto il pomeriggio a girare per i luoghi dove si riunivano, chiese di lui, lo chiamò gridando, lo cercò nella casa di Pedro García, il vecchio, e, infine, al cader della notte andò a coricarsi vinta, senza aver mangiato. Nel suo enorme letto di bronzo, dolente e meravigliata, affondò la faccia nel guanciale e pianse sconsolatamente. La Nana le portò un bicchiere di latte e miele e indovinò subito la causa della sua angoscia.

Mi congratulo! disse con un falso sorriso. Ormai non hai più l'età per giocare con quel moccioso pieno di pulci.

Mezz'ora dopo entrò la madre a baciarla e la trovò che singhiozzava gli ultimi singulti di un pianto melodrammatico. Per un attimo Clara cessò di essere un angelo distratto e si collocò all'altezza dei semplici mortali che a quattordici anni soffrono la prima pena d'amore. Volle indagare, ma Blanca era molto orgogliosa o già troppo donna e non le diede spiegazioni, sicché Clara si limitò a sedersi un momento sul letto e ad accarezzarla finché non si fu calmata.

Quella notte Blanca dormì male e si svegliò all'alba, circondata dalle ombre della sua grande stanza. Rimase a guardare i cassettoni del soffitto finché non udì il canto del gallo e allora si alzò, aprì le tende e lasciò che entrassero la dolce luce dell'alba e i primi rumori del mondo. Si avvicinò allo specchio dell'armadio e si guardò attentamente. Si tolse la camicia e osservò il proprio corpo per la prima volta nei dettagli, comprendendo che tutti quei cambiamenti erano la causa per cui il suo amico era fuggito. Si mise gli indumenti vecchi dell'estate precedente, che quasi non le entravano più, e si avvolse in uno scialle e uscì in punta di piedi per non svegliare i familiari. Fuori, la campagna si scrollava la pigrizia della notte e i primi raggi del sole attraversavano come sciabolate le cime della cordigliera, riscaldando la terra e facendo evaporare la rugiada in una sottile spuma bianca che cancellava il contorno delle cose e trasformava il paesaggio in una visione di sogno. Blanca cominciò ad andare verso il fiume. Tutto era ancora calmo, i suoi passi schiacciavano le foglie cadute e i rami secchi, producendo un lieve crepitìo, unico suono in quel vasto spazio addormentato. Sentì che i filari di pioppi imprecisi, i campi dorati di grano, i lontani monti violacei che si perdevano nel cielo trasparente del mattino erano un antico ricordo nella sua memoria, qualcosa che aveva visto proprio così e che quell'istante l'aveva già vissuto. La finissima guazza della notte aveva inzuppato la terra e gli alberi, sentì gli indumenti leggermente umidi e le scarpe fredde. Respirò il profumo della terra bagnata, delle foglie marce, dell'humus, che le infondeva un piacere ignoto ai suoi sensi.

Blanca arrivò al fiume e vide l'amico della sua infanzia seduto nel posto dove tante volte si erano dati appuntamento. In quell'anno Pedro Terzo non era cresciuto come lei, perché era sempre lo stesso bambino magro, panciuto e bruno, con una saggia espressione da vecchio negli occhi neri. Vedendola si alzò e lei calcolò che era più alta di lui di mezza testa. Si guardarono sconcertati, sentendo per la prima volta che erano quasi due estranei. Per un tempo che sembrò infinito, rimasero immobili, abituandosi ai mutamenti e alle nuove distanze, ma in quel momento trillò un passero e tutto fu di nuovo come l'estate precedente. Tornarono a essere due bambini che corrono, si abbracciano e ridono, cascano in terra, si rotolano, vanno a sbattere contro i sassi mormorando i loro nomi instancabilmente, felici di stare insieme ancora una volta. Infine si calmarono. Lei aveva i capelli pieni di foglie secche, che lui le toglieva a una a una.

Vieni, voglio farti vedere una cosa disse Pedro Terzo.

La prese per mano. Camminarono assaporando quel risveglio del mondo, trascinando i piedi nel fango, raccogliendo steli teneri per succhiarne la linfa, guardandosi e sorridendosi, senza parlare, finché non giunsero in un campo lontano. Il sole stava in cima al vulcano, ma il giorno non aveva ancora finito d'installarsi e la terra sbadigliava. Pedro le fece segno di gettarsi a terra e di stare in silenzio. Si avvicinarono strisciando a uno sterpeto, vi girarono intorno e allora Blanca la vide. Era una bellissima puledra baia, che partoriva, sola sulla collina. I giovani immobili, facendo sì che non si udisse nemmeno il loro respiro, la videro ansimare e sforzarsi finché non apparve la testa del puledro e poi, dopo molto tempo, il resto del corpo. Il piccolo animale cadde a terra e la madre cominciò a leccarlo, lasciandolo pulito e lustro come legno incerato, incoraggiandolo col muso perché provasse ad alzarsi. Il puledro cercò di mettersi in piedi, ma le sue fragili zampe di neonato gli si piegarono e rimase, abbandonato, a guardare sua madre con aria triste, mentre questa nitriva salutando il sole del mattino. Blanca sentì la felicità che le scoppiava in petto manifestarsi in lacrime nei suoi occhi.

Quando sarò grande mi sposerò con te e vivremo qui, alle Tre Marie disse in un sussurro.

Pedro se ne rimase a guardarla con espressione da vecchio triste e fece segno di no con la testa. Era ancora molto più bambino di lei, ma sapeva già qual era il suo posto nel mondo. Sapeva anche che avrebbe amato quella ragazza per tutta la vita, che quell'alba sarebbe rimasta nel suo ricordo e che sarebbe stata l'ultima che avrebbe visto in punto di morte.

Quell'estate la trascorsero tra l'infanzia, che ancora li possedeva e il risveglio dell'uomo e della donna. In certi momenti correvano come bambini, facendo svolazzare galline e mettendo in subbuglio le mucche, si saziavano di latte tiepido appena munto che lasciava loro baffi di schiuma, si rubavano il pane uscito dal forno, si arrampicavano sugli alberi per costruire rifugi arborei. Altre volte si nascondevano nei posti più segreti e fitti del bosco, facevano letti di foglie e giocavano a essere sposati, accarezzandosi fino all'estenuazione. Non avevano perso l'innocenza di togliersi i vestiti e fare il bagno nudi nel fiume, come avevano sempre fatto, tuffandosi nell'acqua fredda e lasciando che la corrente li trascinasse sulle pietre levigate del fondo. Ma c'erano cose che ormai non spartivano come prima. Impararono ad avere vergogna tra loro. Non gareggiavano più per vedere chi era capace di fare con l'orina la pozzanghera più grande e Blanca non gli parlò di quella materia scura che le macchiava le mutande una volta al mese. Senza che nessuno gliel'avesse detto capirono che non potevano mostrarsi troppo in confidenza davanti agli altri. Quando Blanca si metteva i suoi vestiti da signorina e si sedeva la sera sulla terrazza a bere limonata con i suoi familiari, Pedro Terzo la osservava da lontano, senza avvicinarsi. Cominciarono a nascondersi per i loro giochi. Smisero di tenersi per mano sotto gli sguardi degli adulti e fecero finta d'ignorarsi per non attrarre la loro attenzione. La Nana respirò più tranquilla, ma Clara cominciò ad osservarli con maggiore attenzione.

Le vacanze finirono e i Trueba tornarono alla capitale carichi di barattoli di marmellata, conserve, casse di frutta, formaggi, galline e conigli in salamoia, cesti di uova. Mentre sistemavano tutto nelle auto che li avrebbero portati al treno, Blanca e Pedro Terzo si nascosero nel granaio per salutarsi. In quei tre mesi erano giunti ad amarsi con quella passione travolgente che li sconvolse per il resto della loro vita. Col tempo quell'amore si fece più invulnerabile e persistente, ma già allora aveva la stessa profondità e sicurezza che lo caratterizzò in seguito. Sopra un covone di grano, aspirando l'aromatico pulviscolo del granaio nella luce dorata e diffusa della mattina che s'infiltrava tra le assi, si baciarono in ogni punto, si leccarono, si morsero si succhiarono, singhiozzarono e bevvero le lacrime di entrambi, si giurarono eterno amore e concertarono un codice segreto che sarebbe servito per comunicare durante i mesi di separazione.

Tutti quelli che assistettero a quel momento, concordano nel dire che erano circa le otto della sera quando apparve Férula senza che nessuno avesse presagito il suo arrivo. Tutti la poterono vedere con la sua camicetta inamidata, il suo mazzo di chiavi alla cintura, la sua crocchia da zitella, così come l'avevano vista sempre in casa. Entrò dalla porta della sala da pranzo mentre Esteban cominciava a tagliare l'arrosto e la riconobbero subito nonostante fossero sei anni che non la vedevano e lei fosse molto pallida e molto più vecchia. Era un sabato e i gemelli Jaime e Nicolás, erano usciti dal collegio per trascorrere il fine settimana con la famiglia, sicché anche loro erano presenti. La loro testimonianza è molto importante, perché erano gli unici membri della famiglia che vivevano completamente lontani dal tavolino a tre gambe, sottratti alla magia e allo spiritismo dal loro rigido collegio inglese. Dapprima sentirono un freddo immediato nella sala e Clara ordinò che chiudessero le finestre, perché aveva pensato che si trattasse di una corrente d'aria. Poi udirono il tintinnare delle chiavi e quasi immediatamente si aprì la porta e apparve Férula, silenziosa e con un'espressione assente, nello stesso momento in cui entrava la Nana dalla porta della cucina, con la ciotola dell'insalata. Esteban Trueba rimase col coltello e la forchetta da trinciare a mezz'aria, paralizzato dalla sorpresa, e i tre bambini gridarono zia Férula! quasi all'unisono. Blanca fece per alzarsi e andarle incontro, ma Clara, che era seduta al suo lato, tese la mano e la trattenne per il braccio. In realtà Clara fu l'unica a rendersi conto fin dal primo sguardo di quanto stava succedendo, per via della sua lunga familiarità con le faccende soprannaturali, anche se nulla nell'aspetto della cognata rivelava il suo vero stato. Férula si fermò a un metro dalla tavola, guardò tutti con occhi vacui e indifferenti e poi si diresse verso Clara che si alzò, ma non fece alcun gesto per avvicinarsi, bensì chiuse gli occhi e cominciò a respirare convulsamente, come se fosse stata sul punto di avere uno dei suoi attacchi di asma. Férula le si avvicinò, le mise una mano su ciascuna spalla e la baciò sulla fronte con un breve bacio. L'unica cosa che si udiva nella sala era il respiro ansimante di Clara e il tintinnio metallico delle chiavi alla cintura di Férula. Dopo avere baciato sua cognata, Férula le passò a lato e uscì da dove era entrata, chiudendo con dolcezza la porta alle sue spalle. Nella sala da pranzo la famiglia rimase immobile, come in un incubo. D'improvviso la Nana cominciò a tremare così forte, che le caddero le posate da insalata e il rumore dell'argento che cozzava contro il pavimento li fece trasalire tutti. Clara aprì gli occhi. Continuava a respirare a fatica e lacrime silenziose le cadevano lungo le guance e il collo, macchiandole la camicetta.

Férula è morta annunciò.

Esteban Trueba lasciò cadere le posate per trinciare l'arrosto sulla tovaglia e uscì di corsa dalla sala. Arrivò fino in strada chiamando sua sorella, ma non trovò neppure una traccia di lei. Intanto Clara ordinò a un servitore che andasse a prendere i cappotti e quando suo marito ritornò stava infilandosi il suo e aveva in mano le chiavi dell'automobile.

Andiamo da padre Antonio gli disse.

Fecero la strada in silenzio. Esteban guidava col cuore oppresso, cercando la vecchia parrocchia di padre Antonio in quei quartieri di poveri dove da molti anni non metteva piede. Il sacerdote stava attaccando un bottone alla sua lisa sottana quando arrivarono con la notizia che Férula era morta.

Non può essere! esclamò. Sono stato con lei due giorni fa ed era in buona salute e di buon umore.

Ci porti a casa sua, padre, per favore supplicò Clara. So quello che le dico. È morta.

Di fronte all'insistenza di Clara, padre Antonio li accompagnò. Guidò Esteban per vie strette fino al domicilio di Férula. Durante quegli anni di solitudine, era vissuta in uno di quei rioni popolari in cui andava a recitare il rosario contro la volontà dei beneficiari, ai tempi della sua gioventù. Dovettero lasciare l'auto a vari isolati di distanza, perché le strade si andavano facendo via via più anguste, finché non capirono che erano fatte per andare a piedi o in bicicletta. Si addentrarono senza macchina evitando le pozzanghere dell'acqua sporca che straripava dalle fognature, scartando l'immondizia ammucchiata in cumuli tra cui i gatti frugavano come ombre caute. Il rione era un lungo vicolo di case in rovina, tutte uguali, piccole e umili abitazioni di cemento, con una sola porta e due finestre, dipinte di colori grigiastri, sconnesse, rose dall'umidità, con fili di ferro tesi attraverso il vicolo, dove di giorno si stendeva la biancheria al sole, ma a quell'ora di notte, spogli, ondeggiavano impercettibilmente. Nel centro della viuzza c'era un'unica fontana per soddisfare tutte le famiglie che vivevano lì e solo due lampioni illuminavano il passaggio tra le case. Padre Antonio salutò una vecchia che si trovava vicino alla fontana in attesa che si riempisse il secchio con l'esiguo filo d'acqua che usciva dal rubinetto.

Ha visto la signorina Férula? domandò.

Dev'essere a casa sua, padre. Non l'ho vista negli ultimi giorni disse la vecchia.

Padre Antonio indicò un'abitazione, uguale alle altre, triste, scrostata e sudicia, ma l'unica che avesse due vasi appesi accanto alla porta, dove crescevano piccoli ciuffi di cardinali, i fiori dei poveri. Il sacerdote bussò all'uscio.

Entrate pure gridò la vecchia dalla fontana. La signorina non chiude a chiave la porta. Non c'è niente da rubare lì!

Esteban Trueba aprì chiamando sua sorella, ma non osò entrare. Clara fu la prima a varcare la soglia. Dentro era buio e le venne incontro il solito odore di lavanda e limone. Padre Antonio accese un fiammifero. La debole fiamma disegnò un cerchio di luce nella penombra, ma prima che potessero andare avanti o rendersi conto di quello che li circondava, si spense.

Aspettate qui disse il prete. Conosco la casa.

Avanzò a tentoni e poco dopo accese una candela. La sua figura risaltò grottesca e videro la sua faccia deformata dalla luce che gli veniva da sotto, mentre la sua ombra gigantesca tremolava contro la parete. Clara illustrò questa scena con minuzia nel suo diario, descrivendo nei dettagli le due stanze buie i cui muri erano macchiati dall'umidità, il piccolo gabinetto sudicio e senza acqua corrente, la cucina in cui rimanevano solo avanzi di pane vecchio e un barattolo con un po' di tè. Il resto della casa di Férula sembrò a Clara coerente con l'incubo che aveva vissuto quando sua cognata era comparsa nella sala da pranzo della grande casa dell'angolo per accomiatarsi. Le fece l'impressione che fosse il retrobottega di un venditore d'indumenti usati o il proscenio di una misera compagnia di teatro in tournée. Da alcuni chiodi sui muri pendevano abiti antiquati, boa di piume, squallidi pezzi di pelliccia, collane di pietre false, cappelli che da mezzo secolo non si usavano più. sottovesti stinte con i pizzi logori, vestiti che erano stati sontuosi e la cui brillantezza non esisteva più, imprevedibili giacche d'ammiraglio e pianete da vescovi, il tutto mescolato in una fratellanza grottesca, in cui si era annidata la polvere di anni. A terra c'era una confusione di scarpe di raso, di borsette da debuttante, di cinture di bigiotteria, di bretelle e persino una fiammante spada da cadetto militare. Vide parrucche tristi, posticci con cosmetici, bottiglie vuote e un eccesso di articoli impossibili sparsi dappertutto.

Una porta stretta separava le due uniche stanze. Nell'altra camera, Férula giaceva nel suo letto. Agghindata come una regina austriaca, portava addosso un abito di velluto tarlato, sottane di taffetà giallo e sulla sua testa, fermamente calcata, brillava un'incredibile parrucca a riccioli da cantante d'opera. Non c'era nessuno con lei, nessuno aveva saputo della sua agonia e si calcolò che fosse morta da molte ore, perché i topi cominciavano già a morderle i piedi e a divorarle le dita. Era magnifica nella sua desolazione di regina e aveva sul volto l'espressione dolce e serena che non aveva mai avuto durante la sua esistenza da incubo.

Le piaceva vestirsi con roba usata che si procurava di seconda mano o che raccattava negli immondezzai, si pitturava e si metteva quelle parrucche, ma non ha mai fatto male a nessuno, anzi sino alla fine dei suoi giorni recitava il rosario per la salvezza dei peccatori spiegò padre Antonio.

Lasciatemi sola con lei disse Clara con fermezza.

I due uomini uscirono nel vicolo, dove cominciavano a radunarsi i vicini. Clara si tolse il cappotto di lana bianca e si rimboccò le maniche, si avvicinò a sua cognata, le tolse con dolcezza la parrucca e vide che era quasi calva, vecchia e striminzita. La baciò sulla fronte così come lei l'aveva baciata poche ore prima nella sala da pranzo della sua casa e subito cominciò, in tutta calma, a improvvisare i riti della morte. La spogliò, la lavò, la insaponò meticolosamente senza dimenticare alcun angolo, la frizionò con acqua di colonia, la incipriò, spazzolò i suoi quattro peli amorosamente, la vestì con i più strampalati ed eleganti stracci che trovò, le mise la sua parrucca da soprano, restituendole nella morte quegli infiniti servigi che Férula le aveva prodigato in vita. Mentre si dava da fare, lottando contro l'asma, le raccontava di Blanca, che ormai era una signorina, dei gemelli, della grande casa dell'angolo, della campagna "e se vedessi come ci manchi, cognata, il bisogno che ho di te per occuparmi di questa famiglia, sai bene che non so sbrigarmela nelle incombenze della casa, i ragazzi sono insopportabili, mentre Blanca è una bambina adorabile, e le ortensie che hai piantato con le tue stesse mani alle Tre Marie sono diventate meravigliose, ce ne sono di azzurre, perché avevo messo monete di rame nella terra concimata, affinché fiorissero di quel colore, è un segreto di natura, e ogni volta che le metto nei vasi mi ricordo di te, ma mi ricordo di te anche quando non ci sono ortensie, mi ricordo sempre, Férula, perché la verità è che da quando te ne sei andata dal mio fianco, nessuno mi ha più dato tanto amore."

Finì di acconciarla, si fermò un momento per parlarle e accarezzarla e poi chiamò suo marito e padre Antonio, perché si occupassero della sepoltura. In una scatola di biscotti trovarono intatte le buste col denaro che Esteban aveva inviato ogni mese a sua sorella in tutti quegli anni. Clara la diede al sacerdote per le sue opere pie, sicura che quella era la destinazione che Férula pensava di darle comunque.

Il prete rimase con la morta affinché i topi non le mancassero di rispetto. Era circa mezzanotte quando uscirono. Sulla soglia si erano riuniti i vicini del rione per commentare la notizia. Dovettero farsi strada spingendo da parte i curiosi e scacciando i cani che annusavano tra la gente. Esteban si allontanò a grandi falcate portando Clara per il braccio, quasi trascinandola, senza badare all'acqua sudicia che schizzava i suoi impeccabili pantaloni grigi del sarto inglese. Era furioso perché sua sorella, persino dopo morta, riusciva a farlo sentire colpevole, proprio come da bambino. Ricordò la sua infanzia, quando lo circondava con le sue oscure sollecitudini, avviluppandolo in debiti di gratitudine così grandi che con tutti i giorni della sua vita non avrebbe potuto pagarli. Sentì di nuovo il senso d'inferiorità che sempre lo tormentava in sua presenza e detestò di nuovo il suo spirito di sacrificio, la sua severità, la sua vocazione alla povertà e la sua inalterabile castità, che lui sentiva come un rimprovero alla sua natura egoista, sensuale e affamata di potere. Che il diavolo ti porti, maledetta! biascicò, rifiutandosi di ammettere, neppure nel più intimo del suo cuore, che pure sua moglie non era più riuscita ad appartenergli da quando aveva cacciato Férula dalla casa.

Perché viveva così, se soldi ne aveva? gridò Esteban.

Perché le mancava tutto il resto replicò Clara dolcemente.

 

Durante i mesi che rimasero separati, Blanca e Pedro Terzo si scambiarono per posta lettere infiammate che lui firmava con un nome di donna e che lei nascondeva non appena arrivavano. La Nana riuscì ad intercettarne una o due, ma non sapeva leggere e anche se l'avesse saputo, il codice segreto le impediva di capire il senso, fortunatamente per lei, perché il suo cuore non l'avrebbe sopportato. Blanca trascorse l'inverno lavorando a maglia un panciotto di lana scozzese durante le lezioni di economia domestica a scuola, pensando alle misure del ragazzo. Di notte dormiva abbracciata al panciotto, aspirando l'odore della lana e sognando che fosse lui a dormire nel suo letto. Pedro Terzo, a sua volta, trascorse l'inverno componendo alla chitarra canzoni da cantare a Blanca e intagliando la sua immagine in qualunque pezzo di legno gli capitasse tra le mani, senza poter separare il ricordo angelico della ragazza da quelle tormente che gli ribollivano nel sangue, gli ammollivano le ossa, gli stavano facendo cambiare la voce e spuntare peli sulla faccia. Si dibatteva inquieto tra le esigenze del suo corpo, che si stava trasformando in quello di un uomo, e la dolcezza di un sentimento che era ancora tinto dei giochi innocenti dell'infanzia. Entrambi aspettarono l'arrivo dell'estate con un'impazienza dolorosa e, finalmente, quando arrivò e si ritrovarono, il panciotto che Blanca aveva fatto per Pedro Terzo non gli passava per la testa, perché in quei mesi si era lasciato alle spalle l'infanzia, raggiungendo le proporzioni di un uomo fatto, e le tenere canzoni di fiori e di albe che aveva composto per lei, gli risuonavano ridicole, perché lei aveva il fare di una donna e le sue urgenze.

Pedro Terzo era sempre magro, con i capelli lisci e gli occhi tristi, ma cambiando la voce aveva acquisito una tonalità rauca e appassionata con cui sarebbe stato conosciuto più tardi, quando avrebbe cantato la rivoluzione. Parlava poco ed era rude e sgradevole nel modo di fare, ma tenero e delicato con le mani, aveva dita lunghe da artista con le quali intagliava il legno, strappava lamenti alle corde della chitarra e disegnava con la stessa facilità con cui reggeva le redini di un cavallo, brandiva l'ascia per tagliare la legna o guidava l'aratro. Era l'unico alle Tre Marie che teneva testa al padrone. Suo padre, Pedro Secondo, gli aveva detto mille volte di non guardare il padrone negli occhi, di non rispondergli, di non prendersela con lui e nel desiderio di proteggerlo arrivò a dargli delle belle legnate per fargli chinare il capo. Ma il figlio era ribelle. A tre anni ne sapeva quanto la maestra della scuola delle Tre Marie e a dodici insisteva per andare alla scuola del villaggio, a cavallo o a piedi, partendo dalla sua casetta di mattoni alle cinque del mattino, che piovesse o tuonasse. Lesse e rilesse mille volte i libri magici dei bauli incantati dello zio Marcos, e continuò a nutrirsi di altri che gli prestavano i sindacalisti del bar e padre José Dulce María, che gli insegnò anche a coltivare la sua abilità naturale di scrivere versi e tradurre in canzoni le sue idee.

Figliolo, la Santa Madre Chiesa sta a destra, ma Gesù Cristo è stato sempre a sinistra diceva enigmaticamente, tra un sorso e l'altro di vino da messa con cui festeggiava le visite di Pedro Terzo.

E fu così che un giorno Esteban Trueba, che stava riposando sulla terrazza dopo pranzo, lo udì cantare di certe galline organizzate che si univano per affrontare la volpe e la vincevano. Lo chiamò.

Voglio sentirti. Canta su! gli ordinò.

Pedro Terzo prese la chitarra con un gesto amoroso, appoggiò la gamba su una seggiola e tese le corde. Restò a guardare fissamente il padrone mentre la sua voce vellutata si levava nel sopore della siesta. Esteban Trueba non era stupido e comprese la sfida.

Bene! Vedo che cantando si possono dire le cose più stupide grugnì. Impara piuttosto canzoni d'amore!

A me piace, padrone. L'unione fa la forza, come dice padre José Dulce María. Se le galline possono affrontare la volpe, che cosa devono fare gli uomini?

E prese la chitarra e se ne andò strascicando i piedi senza che l'altro potesse ribattergli, nonostante sentisse già la rabbia a fior di labbra e cominciasse ad aumentargli la pressione. Da quel giorno Esteban Trueba lo prese di mira, l'osservava, era diffidente. Fece in modo da impedirgli di andare a scuola al villaggio, inventandogli incombenze da uomo adulto, ma il ragazzo si alzava più presto e andava a dormire più tardi, per compierle. Fu quello l'anno in cui Esteban lo percosse con la frusta davanti a suo padre, perché aveva introdotto tra i mezzadri le novità che stavano circolando tra i sindacalisti del paese, idee di domenica di riposo, di salario minimo, di pensione e di servizio sanitario, di permesso di maternità per le donne gravide, di votazioni senza interferenze, e, la più grave, l'idea di un'organizzazione contadina che potesse affrontare i padroni.

Quell'estate, quando Blanca andò a passare le vacanze alle Tre Marie, quasi non lo riconobbe perché era cresciuto di quindici centimetri e si era lasciato alle spalle il bambino dal ventre gonfio che spartiva con lei le estati dell'infanzia. Scese dall'auto, si lisciò la gonna e per la prima volta non corse ad abbracciarlo, bensì gli fece un cenno con la testa a mo' di saluto, seppure con gli occhi gli dicesse quello che gli altri non dovevano udire e che, del resto, gli aveva già detto nella sua impudica corrispondenza in chiave. La Nana osservò la scena con la coda dell'occhio e sorrise maliziosa. Passando davanti a Pedro Terzo gli fece un cenno.

Impara, moccioso, a fartela con quelli della tua classe e non con signorine scherzò tra i denti.

Quella sera Blanca mangiò con tutta la famiglia la fricassea di pollo con cui venivano sempre accolti alle Tre Marie, senza che s'intravedesse in lei qualche ansietà per il prolungato dessert durante il quale il padre beveva cognac e parlava di mucche importate e di miniere d'oro. Attese che sua madre desse il segnale di ritirarsi e poi si alzò con calma, augurò la buonanotte a ciascuno e se ne andò in camera sua. Per la prima volta in vita sua chiuse a chiave la porta. Si sedette sul letto senza spogliarsi e aspettò nel buio finché non tacquero le voci dei gemelli che si agitavano nella stanza accanto, i passi della servitù, le porte, le serrature, e la casa non si addormentò. Allora aprì la finestra e saltò giù, andando a cadere sui cespugli di ortensie che molto tempo prima la zia Férula aveva piantato. La notte era chiara, si udivano i grilli e le rane. Respirò profondamente e l'aria le recò l'odore dolciastro delle pesche che venivano fatte seccare nel cortile per le marmellate. Attese che i suoi occhi si abituassero all'oscurità e poi cominciò ad avanzare, ma non poté andare oltre, perché udì i latrati furibondi dei cani da guardia che di notte venivano sciolti. Erano quattro mastini che erano cresciuti legati alla catena e che passavano la giornata chiusi, che lei non aveva mai visto da vicino e sapeva che non potevano riconoscerla. Per un attimo sentì che il panico le faceva perdere la testa e fu sul punto di mettersi a gridare, ma allora si ricordò che Pedro García, il vecchio, le aveva detto che i ladri vanno nudi per non essere aggrediti dai cani. Senza indugi si spogliò dei suoi indumenti con tutta la rapidità che i nervi le permettevano, se li mise sottobraccio e continuò a camminare con passo tranquillo, pregando affinché le bestie non fiutassero la sua paura. Li vide scagliarsi latrando e continuò a camminare senza perdere il ritmo del passo. I cani si avvicinarono, ringhiando sconcertati, ma lei non si fermò. Uno, più audace degli altri, si avvicinò a fiutarla. Percepì il soffio tiepido del suo respiro tra le spalle, ma fece finta di niente. Continuarono a ringhiare e ad abbaiare per un po', l'accompagnarono per un tratto e, infine, infastiditi, tornarono indietro. Blanca sospirò di sollievo e si rese conto che stava tremando ed era coperta di sudore, dovette appoggiarsi a un albero e aspettare finché le fu passato l'affanno che le aveva mozzato le gambe. Poi si vestì rapidamente e si mise a correre verso il fiume.

Pedro Terzo l'aspettava nello stesso posto in cui si erano ritrovati l'estate precedente e dove molti anni prima Esteban Trueba si era impadronito dell'umile verginità di Pancha García. Alla vista del ragazzo, Blanca arrossì violentemente. Durante i mesi in cui erano stati separati, lui si era indurito nell'arduo compito di farsi uomo e lei, invece, era stata reclusa tra le pareti della sua casa e della scuola delle monache, preservata dal logorio della vita, nutrendo sogni romantici con i ferri da lana, ma l'immagine dei suoi sogni coincideva con quel giovane che si avvicinava mormorando il suo nome. Pedro Terzo tese la mano e le toccò il collo all'altezza dell'orecchio. Blanca sentì qualcosa di caldo che le scorreva nelle ossa e le rendeva molli le gambe, chiuse gli occhi e si abbandonò. La trasse a sé con dolcezza, la cinse fra le sue braccia, lei affondò il naso nel petto di quell'uomo che non conosceva, così diverso dal bambino magro con cui si accarezzava sino all'estenuazione, pochi mesi prima. Aspirò il suo nuovo odore, si strofinò contro la pelle ruvida, palpò quel corpo asciutto e forte e sentì una grandiosa e completa pace, che in nulla assomigliava all'agitazione che si era impossessata di lui. Si cercarono con le lingue, come facevano prima, sebbene sembrasse una carezza appena inventata, caddero riversi baciandosi con disperazione e poi rotolarono sul tenero letto di terra umida. Si scoprivano per la prima volta e non avevano niente da dirsi. La luna percorse tutto l'orizzonte, ma loro non la videro, perché erano intenti ad esplorare le profondità più intime, penetrando ognuno nella pelle dell'altro, insaziabilmente.

Da quella notte in poi, Blanca e Pedro Terzo s'incontravano sempre nello stesso posto alla stessa ora. Di giorno lei ricamava, leggeva e dipingeva insipidi acquerelli nei dintorni della casa, davanti allo sguardo felice della Nana, che poteva infine dormire tranquilla. Invece Clara aveva il presentimento che stesse per succedere qualcosa di strano, perché vedeva un nuovo colore nell'aura di sua figlia e credeva d'indovinarne la causa. Pedro Terzo faceva i consueti lavori nei campi e non smise di andare in paese a trovare i suoi amici. Al cader della notte era morto di fatica, ma la prospettiva di ritrovarsi con Blanca gli restituiva le forze. Non per nulla aveva quindici anni. Così trascorsero tutta l'estate e molti anni dopo avrebbero entrambi ricordato quelle notti veementi come la migliore epoca della loro vita.

Intanto Jaime e Nicolás approfittavano delle vacanze per fare tutte quelle cose che erano proibite nel collegio britannico, gridando fino a sgolarsi, facendo la lotta con qualsiasi pretesto, trasformati in due mocciosi lerci, sbrindellati, con le ginocchia piene di croste e la testa di pidocchi, sazi della tiepida frutta appena colta, del sole e della libertà. Uscivano all'alba e non rincasavano fino al tramonto, occupati a dar la caccia ai conigli con sassate, a correre a cavallo a perdifiato, a spiare le donne che insaponavano la biancheria nel fiume.

 

Così trascorsero tre anni, finché il terremoto non mutò le cose. Alla fine di quelle vacanze, i gemelli tornarono alla capitale prima del resto della famiglia, accompagnati dalla Nana, dalla servitù di città e da gran parte dei bagagli. I ragazzi andarono direttamente al collegio, mentre la Nana e gli altri domestici sistemavano la casa dell'angolo per l'arrivo dei padroni.

Blanca rimase in campagna con i suoi genitori qualche giorno in più. Fu allora che Clara cominciò ad avere incubi, a camminare sonnambula, vedendo segni premonitori nelle bestie: le galline non fanno il loro uovo quotidiano, le mucche sono spaventate, i cani ululano alla morte ed escono i topi, i ragni e i vermi dai loro nascondigli, gli uccelli hanno abbandonato il loro nido e si stanno allontanando a stormi, mentre i loro piccoli gridano di fame sugli alberi. Guardava ossessivamente la tenue colonna di fumo del vulcano, scrutando i mutamenti del colore del cielo. Blanca le preparò infusi calmanti e bagni tiepidi ed Esteban ricorse all'antica scatoletta delle pillole omeopatiche per tranquillizzarla, ma i sogni continuavano.

La terra sta per tremare! diceva Clara, sempre più pallida e agitata.

Trema sempre, in nome di Dio, Clara! rispondeva Esteban.

Questa volta sarà diverso. Ci saranno diecimila morti.

Non c'è così tanta gente in tutto il paese scherzava Esteban.

La catastrofe iniziò alle quattro del mattino. Clara si era svegliata poco prima con un incubo apocalittico di cavalli schizzati in aria, mucche travolte dal mare, gente che strisciava sotto le pietre e caverne aperte nel terreno in cui affondavano case intere. Si alzò livida di terrore e corse nella stanza di Blanca. Ma Blanca, come tutte le notti, aveva chiuso a chiave la sua porta ed era scivolata dalla finestra in direzione del fiume. Gli ultimi giorni prima di tornare in città, la passione estiva acquisiva caratteristiche drammatiche, perché di fronte all'imminenza di una nuova separazione, i giovani approfittavano di ogni momento possibile per amarsi sfrenatamente. Passavano le notti al fiume, indifferenti al freddo e alla stanchezza, arruffandosi con la forza della disperazione, e solo alla vista delle prime luci dell'alba, Blanca rincasava ed entrava attraverso la finestra della sua stanza, dove arrivava giusto in tempo per sentir cantare i galli. Clara giunse sino alla porta di sua figlia e fece per aprirla, ma era chiusa a chiave. Bussò e siccome nessuno rispose, uscì di corsa, fece mezzo giro intorno alla casa e allora vide la finestra spalancata e le ortensie piantate da Férula calpestate. In un attimo capì il colore dell'aura di Blanca, le sue occhiaie, il suo tedio e il suo silenzio, la sua sonnolenza mattutina e i suoi acquerelli pomeridiani. In quello stesso momento cominciò il terremoto.

Clara sentì che il terreno si scuoteva e non riuscì a tenersi dritta. Cadde in ginocchio. Le tegole del tetto si staccarono e le piovvero intorno con un fracasso assordante. Vide le pareti in muratura della casa schiantarsi come se fossero state colpite da un colpo d'ascia, la terra si aprì, così come aveva visto nei sogni e un'enorme crepa cominciò a spalancarsi davanti a lei sommergendo nell'avanzata i pollai, gli impianti del lavatoio e parte della stalla. La cisterna dell'acqua si inclinò e cadde a terra, spargendo mille litri d'acqua sulle galline sopravvissute che starnazzavano disperate. Lontano, il vulcano vomitava fuoco e fumo come un drago furioso. I cani si sciolsero dalle catene e corsero impazziti, i cavalli che erano scampati al crollo della stalla, fiutavano l'aria e recalcitravano di terrore prima di uscire a briglia sciolta nei campi, i pioppi traballavano come ubriachi e alcuni caddero con le radici all'aria spiaccicando i nidi dei passeri. E la cosa più terribile fu quel rumore dal fondo della terra, quel respiro da gigante che si udì a lungo, riempiendo l'aria di spavento. Clara tentò di trascinarsi verso casa chiamando Blanca, ma le scosse del terreno glielo impedirono. Vide i contadini che uscivano terrorizzati dalle abitazioni, invocando il cielo, abbracciandosi l'un l'altro, a strattoni con i bambini, a pedate con i cani, a spintoni con i vecchi, cercando di mettere in salvo le loro povere cose in quel frastuono di mattoni e tegole che uscivano dalle stesse viscere della terra, come un interminabile rumore da fine del mondo.

Esteban Trueba apparve sulla soglia della casa nello stesso momento in cui l'edificio si spaccò in due come un guscio d'uovo e crollò in una nuvola di polvere, schiacciandolo sotto una montagna di macerie. Clara si trascinò fin là chiamandolo a grida, ma nessuno rispose.

La prima scossa di terremoto durò quasi un minuto e fu la più forte mai registrata sino a quella data in questo paese di catastrofi. Gettò a terra quasi tutto quello che stava in piedi e il resto finì di crollare nella sequela di sussulti minori che seguì spaventando il mondo fino allo spuntar del sole. Alle Tre Marie aspettarono che facesse giorno per contare i morti e dissotterrare i sepolti che ancora gemevano sotto i crolli, fra cui Esteban Trueba, che tutti sapevano dov'era, ma che nessuno aveva la speranza di trovare in vita. Ci vollero quattro uomini agli ordini di Pedro Secondo, per rimuovere la montagna di polvere, tegole e muratura che lo ricopriva. Clara aveva abbandonato la sua distrazione angelica e aiutava a togliere le pietre con forza da uomo.

Bisogna tirarlo fuori. È vivo e ci sente! assicurava Clara e questo le dava più coraggio per continuare.

Con le prime luci apparvero Blanca e Pedro Terzo, incolumi. Clara si scagliò su sua figlia e le diede un paio di sberle, ma poi l'abbracciò piangendo, sollevata vedendola in salvo e al suo fianco.

Suo padre è lì indicò Clara.

I ragazzi si misero all'opera con gli altri e in capo a un'ora, quando il sole si era già affacciato su quell'universo di angoscia, tirarono fuori il padrone dalla sua tomba. Le sue ossa rotte erano così tante che non si potevano contare, ma era vivo e aveva gli occhi aperti.

Bisogna portarlo al villaggio a farlo visitare dai medici disse Pedro Secondo.

Stavano discutendo su come trasportarlo senza che le ossa gli uscissero da ogni parte come da un sacco rotto, quando arrivò Pedro García, il vecchio, che grazie alla sua cecità ed alla vecchiaia aveva sopportato il terremoto senza impressionarsi. Si accovacciò a lato del ferito e con grande cautela gli ispezionò il corpo tastandolo con le sue mani, guardandolo con le sue dita antiche, senza lasciarne un angolo da controllare né una frattura da prendere in considerazione.

Se lo muovete, muore sentenziò.

Esteban Trueba non era senza sensi e lo udì chiaramente, si ricordò della piaga delle formiche e decise che il vecchio era la sua unica speranza.

Lasciatelo, sa quello che fa balbettò.

Pedro García fece portare una coperta e, tra suo figlio e suo nipote, vi collocarono sopra il padrone, lo sollevarono con cautela e lo sistemarono su un tavolo improvvisato nel mezzo di quello che prima era il cortile, ma che adesso era solo una piccola zona sgombra in quell'incubo di macerie, di cadaveri di animali, di pianti di bambini, di gemiti di cane e di preghiere di donne. Tra le rovine raccattarono un otre di vino, che Pedro García divise in tre parti, una per lavare il corpo del ferito, un'altra per dargliela da bere e un'altra per bersela lui parsimoniosamente prima di cominciare ad aggiustargli le ossa, a una a una, con pazienza e calma, tirando di qua, stringendo di là, risistemando ciascuna al suo posto, accomodandole tra assicelle di legno, avvolgendole in strisce di lenzuolo per immobilizzarle, masticando litanie di santi curatori, invocando la fortuna e la Vergine Maria e sopportando le grida e le bestemmie di Esteban Trueba, senza mutare in nulla la sua beatifica espressione di cieco. A tentoni gli ricostruì il corpo così bene, che i medici che lo visitarono in seguito non poterono credere che ciò fosse stato possibile.

Io non mi ci sarei neppure provato ammise il dottor Cuevas quando lo visitò.

I danni del terremoto sommersero il paese in un lungo lutto. Non solo la terra si era scossa fino a gettare a terra tutto quanto, ma anche il mare si era ritirato per varie miglia ed era tornato in un'unica gigantesca onda che aveva scagliato le navi sulle colline, molto lontane dalla costa, si era portato via interi villaggi, strade e bestie e aveva fatto sprofondare più di un metro sotto il livello dell'acqua molte isole del Sud. Ci furono edifici che caddero come dinosauri feriti, altri che si disfecero come castelli di carte, i morti si contavano a migliaia e non ci fu famiglia che non avesse qualcuno da piangere. L'acqua salata del mare distrusse il raccolto, gli incendi demolirono zone intere di città e di paesi, e infine colò la lava e cadde la cenere a completare il castigo, sui villaggi vicini ai vulcani. La gente smise di dormire nelle proprie case, terrorizzata dalla possibilità che il cataclisma si ripetesse, improvvisavano tende in posti deserti, dormivano nelle piazze e nelle strade. I soldati dovettero assumersi la responsabilità del disordine e fucilavano senza processo chi veniva sorpreso a rubare, poiché mentre i buoni cristiani gremivano le chiese invocando il perdono dei propri peccati e pregando Dio che placasse la sua ira, i ladri frugavano nelle macerie e dove appariva un orecchio con un orecchino, o un dito con un anello, lo spiccavano con una coltellata, senza badare se la vittima era morta o solo prigioniera del crollo. Si scatenò un putiferio di germi che provocò diverse epidemie in tutto il paese. Il resto del mondo, troppo occupato in un'altra guerra, venne appena a conoscenza che la natura era impazzita in quel lontano angolo del pianeta, ma arrivarono comunque carichi di medicine, di coperte, di cibo e materiali da costruzione, che si smarrirono nei misteriosi meandri della pubblica amministrazione, al punto che, anni dopo, si potevano ancora comprare gli stufati in scatola dei nordamericani e il latte in polvere europeo, al prezzo dei cibi prelibati, nei negozi di lusso.

Esteban Trueba trascorse quattro mesi avvolto in bende, teso tra assicelle, cerotti e ganci, in un atroce supplizio di pruriti e d'immobilità, divorato dall'impazienza. Il suo carattere peggiorò finché nessuno poté più sopportarlo. Clara rimase in campagna per curarlo e quando si normalizzarono le comunicazioni e si instaurò l'ordine, mandarono Blanca come interna in un collegio perché sua madre non poteva occuparsi di lei.

Nella capitale il terremoto sorprese la Nana nel suo letto, e nonostante lì lo si fosse sentito meno che nel Sud, l'ammazzò ugualmente per lo spavento. La grande casa dell'angolo crocchiò come una noce, s'incrinarono le pareti e il gran lampadario a gocce di cristallo del salotto cadde con un clamore di mille campane, andando in frantumi. A parte questo, l'unico fatto grave fu la morte della Nana. Quando passò il terrore del primo momento, la servitù si rese conto che la vecchia non era fuggita in strada come gli altri. Rientrarono a cercarla e la trovarono nel suo lettaccio, con gli occhi fuori delle orbite e i pochi capelli che le rimanevano ritti dalla paura. Nel caos di quei giorni, non poterono darle una degna sepoltura, come lei si sarebbe aspettata, bensì dovettero sotterrarla in tutta fretta, senza discorsi né lacrime. Non assistette al suo funerale nessuno dei numerosi figli altrui che lei aveva allevato con tanto amore.

Il terremoto segnò un cambiamento tanto importante nella vita della famiglia Trueba, che a cominciare da allora divisero i fatti in prima e dopo quella data. Alle Tre Marie, Pedro Secondo García tornò ad assumere l'incarico di amministratore, per l'impossibilità del padrone di muoversi dal letto. Gli toccò il compito di organizzare i lavoratori, restituire la calma e ricostruire la rovina in cui si era trasformata la proprietà. Cominciarono a sotterrare i loro morti nel cimitero ai piedi del vulcano, che miracolosamente si era salvato dal fiume di lava sceso lungo le fiancate del monte maledetto. Le nuove tombe diedero un'aria festosa all'umile camposanto e vennero piantati filari di betulle affinché dessero ombra a chi rendeva visita ai morti. Ricostruirono le casette di mattoni una per una, esattamente com'erano prima, le stalle, la latteria, il granaio e prepararono di nuovo la terra per la semina, contenti che la lava e la cenere erano cadute dall'altro lato, risparmiando la proprietà. Pedro Terzo dovette rinunciare alle sue puntate al villaggio, perché suo padre lo voleva al suo fianco. Lo assecondava di cattivo umore, facendogli notare che si spezzavano la schiena per rimettere in sesto la ricchezza del padrone, ma che loro continuavano ad essere poveri come prima.

È stato sempre così, figlio. Lei non può cambiare la legge di Dio gli replicava suo padre.

Sì che si può cambiare, padre. C'è gente che sta facendolo, ma qui non sappiamo neppure le cose. Nel mondo stanno succedendo fatti importanti asseriva Pedro Terzo e gli sciorinava senza paura il discorso del maestro comunista o di padre José Dulce María.

Pedro Secondo non rispondeva e continuava a lavorare senza titubanze. Faceva finta di non vedere quando suo figlio, approfittando del fatto che la malattia del padrone aveva rilassato la sorveglianza, rompeva la cerchia della censura e introduceva alle Tre Marie i volantini proibiti dei sindacalisti, i giornali politici del maestro e le strane versioni bibliche del prete spagnolo.

Per ordine di Esteban Trueba, l'amministratore avviò la ricostruzione della casa padronale seguendo lo stesso piano che aveva originariamente. Non cambiarono nemmeno i blocchi di paglia e fango cotto con moderni mattoni, né modificarono la larghezza delle finestre troppo strette. L'unica miglioria fu quella di mettere l'acqua calda nei bagni e di sostituire l'antica cucina a legna con un marchingegno a paraffina cui, tuttavia, nessuna cuoca riuscì mai ad abituarsi e finì i suoi giorni relegato in cortile a uso indiscriminato delle galline. Mentre veniva costruita la casa, improvvisarono un rifugio di assi con tetto di zinco in cui sistemarono Esteban nel suo letto d'invalido e di lì, attraverso una finestra, lui poteva osservare i progressi dei lavori e gridare le sue istruzioni, ribollendo di rabbia per la forzata immobilità.

Clara cambiò molto in quei mesi. Dovette affiancarsi a Pedro Secondo García nel compito di salvare quanto poteva essere salvato. Per la prima volta nella sua vita s'incaricò, senz'alcun aiuto, delle faccende materiali, perché ormai non poteva contare né su suo marito né su Férula e neppure sulla Nana. Si svegliò infine da una lunga infanzia durante la quale era stata sempre protetta, circondata di attenzioni, di agi e senza obblighi. A Esteban Trueba era venuta la mania che tutto quello che mangiava gli facesse male, tranne le cose che cucinava lei, sicché passava una buona parte della giornata in cucina a spennare galline per fare minestrine da malato e a impastare pane. Dovette fargli da infermiera, lavarlo con la spugna, cambiargli le bende, togliergli il pitale. Lui era diventato sempre più furibondo e dispotico, le ordinava mettimi un cuscino qui, no, più in alto, portami del vino, no, ti ho detto che volevo vino bianco, apri la finestra, chiudila, mi fa male qui, ho fame, ho caldo, grattami la schiena, più giù. Clara arrivò ad aver paura di lui più di quando era l'uomo sano e forte che s'introduceva nella pace della sua vita col suo odore di maschio ansioso, il suo vocione da uragano, la sua guerra senza quartiere, la sua prepotenza da gran signore che impone la sua volontà e fa cozzare i suoi capricci contro il delicato equilibrio che lei manteneva tra gli spiriti dell'Aldilà e le anime bisognose dell'Aldiqua. Giunse a detestarlo. Non appena le ossa si furono saldate e riuscì a muoversi un po', Esteban fu ripreso dal desiderio tormentoso di abbracciarla e ogniqualvolta lei gli passava accanto le allungava una manata, confondendola nei suoi turbamenti da malato con le robuste contadine che nei suoi anni giovanili lo servivano in cucina e a letto. Clara sentiva di non essere più fatta per quelle imprese. Le disgrazie l'avevano spiritualizzata e l'età e la mancanza d'amore per suo marito l'avevano portata a considerare il sesso come qualcosa di brutale, che le lasciava le giunture indolenzite e metteva in disordine i mobili. In poche ore, il terremoto l'aveva fatta atterrare fra la violenza, fra la morte e fra la volgarità e l'aveva messa a contatto con bisogni elementari, che prima aveva ignorato. A nulla le servirono il tavolino a tre gambe o la capacità d'indovinare il futuro nelle foglie di tè, di fronte all'urgenza di difendere i mezzadri dalle epidemie e dalla diarrea, la terra dalla siccità e dalle lumache, le mucche dalla febbre aftosa, le galline dalla pepita, i panni dalle tarme, i suoi figli dall'abbandono e suo marito dalla morte e dalla sua stessa incontenibile ira. Clara era molto stanca. Si sentiva sola e confusa e nei momenti di decidere, l'unico al quale poteva ricorrere in cerca d'aiuto era Pedro Secondo García. Quell'uomo leale e silenzioso era sempre presente, a portata della sua voce, per dare una certa stabilità al tramenio burrascoso che era entrato nella sua vita. Spesso, alla fine della giornata, Clara lo cercava per offrirgli una tazza di tè. Si sedevano su seggiole di vimini sotto una tettoia, in attesa che calasse la notte ad alleviare la tensione del giorno. Guardavano l'oscurità che scendeva dolcemente e le prime stelle che cominciavano a brillare in cielo, sentivano gracidare le rane e se ne stavano zitti. Avevano molte cose di cui parlare, molti problemi da risolvere, molte decisioni in sospeso, ma entrambi capivano che quella mezz'ora in silenzio era un premio meritato, bevevano il tè senza fretta, per farlo durare, e ognuno pensava alla vita dell'altro. Si conoscevano ormai da oltre quindici anni, erano vicini tutte le estati, ma in tutto si erano scambiati ben poche frasi. Lui aveva visto la padrona come una luminosa apparizione estiva, estranea alle ansie della vita, di una specie differente dalle altre donne che aveva conosciuto. Anche allora, con le mani immerse nella pasta o col grembiule insanguinato dalle galline del pranzo, le sembrava un miraggio nel riverbero del giorno. Solo a sera, nella calma di quei momenti che spartivano con le loro tazze di tè, poteva vederla nella sua dimensione umana. Segretamente le aveva giurato lealtà e come un adolescente, talvolta fantasticava con l'idea di dare la vita per lei. La stimava tanto quanto odiava Esteban Trueba.

Quando venne installato il telefono, alla casa mancava molto per essere abitabile. Erano quattro anni che Esteban lottava per averlo e glielo sistemarono proprio quando non aveva nemmeno un tetto per ripararlo dalle intemperie. Il marchingegno non durò molto; ma servì per chiamare i gemelli e sentire la loro voce come se fossero stati in un'altra galassia, in mezzo a un assordante ronzio e alle interruzioni dell'operatrice del villaggio, che partecipava alla conversazione. Per telefono vennero a sapere che Blanca era malata e che le monache non se ne volevano assumere la responsabilità. La ragazza aveva una tosse persistente e la febbre l'assaliva con frequenza. Il terrore della tubercolosi era presente in tutte le case, perché non c'era famiglia che non avesse un tisico da piangere, sicché Clara decise di andarla a prendere. Lo stesso giorno in cui Clara era in viaggio, Esteban Trueba ruppe il telefono a bastonate perché aveva cominciato a squillare e gli aveva gridato che non sarebbe andato a rispondere, che stesse zitto, ma l'apparecchio aveva continuato a suonare e lui, in un impeto di furia, gli si era gettato sopra a colpi, slogandosi, tra l'altro, la clavicola che a Pedro García, il vecchio, era costato tanto aggiustare.

Era la prima volta che Clara viaggiava sola. Aveva fatto lo stesso tragitto per anni, ma sempre distratta, perché contava su qualcuno che si assumeva la responsabilità dei dettagli prosaici, mentre lei sognava osservando il paesaggio dal finestrino. Pedro Secondo García la portò fino alla stazione, la sistemò a sedere sul treno. Accomiatandosi, lei si chinò, lo baciò lievemente su una guancia e sorrise. Lui si portò la mano alla faccia per proteggere dal vento quel bacio fugace e non sorrise perché l'aveva invaso la tristezza.

Guidata dall'intuizione, più che dalla conoscenza delle cose o dalla logica, Clara riuscì ad arrivare al collegio della figlia senza contrattempi. La Madre Superiora la ricevette nel suo studio spartano, con un Cristo enorme e sanguinante su una parete e un incongruo mazzo di rose rosse sul tavolo.

Abbiamo chiamato il medico, signora Trueba le disse. La bambina non ha niente ai polmoni, ma è meglio che se la porti via, la campagna le farà bene. Non possiamo assumerci questa responsabilità, lei capirà.

La suora scosse un campanellino ed entrò Blanca. Era più magra e pallida, con ombre violacee sotto gli occhi che avrebbero impressionato qualunque madre, ma Clara capì subito che la malattia di sua figlia non era del corpo, bensì dell'anima. L'orribile divisa grigia dava l'impressione che fosse molto più giovane di quello che era, nonostante le sue forme da donna tendessero le cuciture. Blanca fu sorpresa di vedere sua madre, che ricordava come un angelo vestito di bianco, allegro e distratto e che in pochi mesi si era trasformata in una donna efficiente, con le mani callose e due profonde rughe ai lati della bocca. Andarono a trovare i gemelli al collegio. Era la prima volta che s'incontravano dopo il terremoto ed ebbero la sorpresa di constatare che l'unico luogo del territorio nazionale che non era stato toccato dal cataclisma era il vecchio collegio, dove l'avevano completamente ignorato. Lì i diecimila morti erano passati senza pena né gloria, mentre loro continuavano a cantare in inglese e a giocare a cricket, sensibili soltanto alle notizie che giungevano dalla Gran Bretagna con tre settimane di ritardo. Stupite, videro che quei due ragazzi che avevano nelle vene sangue di mori e di spagnoli, e che erano nati nell'ultimo angolo dell'America, parlavano castigliano con l'accento di Oxford e che l'unica emozione che erano capaci di manifestare era la sorpresa, sollevando il sopracciglio sinistro. Non avevano niente in comune con i due monelli esuberanti e pidocchiosi che passavano l'estate in campagna. "Spero che tanta flemma anglosassone non me li faccia diventare idioti", balbettò Clara separandosi dai figli.

La morte della Nana, che malgrado i suoi anni era la responsabile della grande casa dell'angolo in assenza dei padroni, aveva provocato lo sbandamento dei domestici. Senza controllo, avevano abbandonato le loro incombenze e trascorrevano la giornata in un'orgia di siesta e di pettegolezzi, mentre le piante si rinsecchivano per mancanza d'irrigazione e i ragni passeggiavano negli angoli. Il deterioramento era così evidente, che Clara decise di chiudere la casa e di licenziare tutti. Poi s'immerse con Blanca nel compito di coprire i mobili con lenzuola e di mettere naftalina dappertutto. Aprirono a una a una le gabbie degli uccelli e il cielo si riempì di pappagallini, di canarini, di cardellini e di allodole che svolazzarono riconfortati dalla libertà e infine intrapresero il volo in ogni direzione. Blanca notò che durante tutti quei lavori, non era apparso alcun fantasma dietro le tende, non era sopraggiunto alcun Rosacroce avvertito dal suo sesto senso, né poeti affamati chiamati dalla necessità. Sua madre sembrava essersi trasformata in una signora comune e campagnola.

È molto cambiata, mamma osservò Blanca.

Non sono io, figlia. È il mondo che è cambiato rispose Clara. Prima di partire andarono nella stanza della Nana nel cortile della servitù. Clara aprì i cassetti, tirò fuori la valigia di cartone che la brava donna aveva usato per mezzo secolo e ispezionò l'armadio. C'erano solo alcuni indumenti, vecchie ciabatte di corda e scatole di ogni dimensione, legate con nastri ed elastici, dove lei conservava cartoncini della Prima Comunione e del Battesimo, ciocche di capelli, unghie tagliate, ritratti sbiaditi, e qualche babbuccia da bebè consumata dall'uso. Erano i ricordi di tutta la famiglia del Valle e poi di quella dei Trueba che erano passati fra le sue braccia e che lei aveva ninnato sul suo seno. Sotto il letto trovò un fagotto con i travestimenti che la Nana usava per spaventare il suo mutismo. Seduta sul letto, con quei tesori in grembo, Clara pianse a lungo quella donna che aveva dedicato la sua vita a rendere più comoda quella degli altri e che era morta sola.

Dopo aver tanto cercato di spaventarmi, è stata lei a morire di spavento osservò Clara.

Fece trasferire il corpo al mausoleo dei del Valle, nel cimitero cattolico, perché aveva pensato che non le sarebbe piaciuto essere sepolta con i protestanti e gli ebrei e avrebbe preferito rimanere da morta vicino a chi aveva servito da viva. Mise un mazzo di fiori vicino alla lapide e se ne andò con Blanca alla stazione per tornare alle Tre Marie.

Durante il viaggio in treno, Clara mise sua figlia al corrente delle novità della famiglia e della salute di suo padre, sperando che Blanca le facesse l'unica domanda che sapeva che sua figlia aveva voglia di farle, ma Blanca non accennò a Pedro Terzo García e neppure Clara osò farlo. Era dell'idea che dando un nome ai problemi, questi si sarebbero materializzati e non sarebbe più stato possibile ignorarli; invece, se si fossero mantenuti nel limbo delle parole non dette, avrebbero potuto scomparire da soli, col passare del tempo. Alla stazione li aspettava Pedro Secondo con l'auto e Blanca si sorprese sentendolo fischiettare per tutto il tragitto fino alle Tre Marie, perché l'amministratore aveva fama di uomo taciturno.

Trovarono Esteban Trueba seduto su una poltrona tappezzata di felpa azzurra, cui avevano sistemato ruote da bicicletta, in attesa che arrivasse dalla capitale la sedia a rotelle che aveva ordinato e che Clara portava insieme ai bagagli. Dirigeva con energici colpi di bastone e con improperi i progressi della casa, così occupato che l'accolse con un bacio distratto e dimenticò di informarsi sulla salute di sua figlia.

Quella sera cenarono intorno a una rustica tavola di assi, illuminati da una lampada a petrolio. Blanca vide sua madre servire il cibo in piatti di argilla fatti artigianalmente, così come facevano i mattoni, perché col terremoto era andata persa tutta la porcellana. Senza la Nana a dirigere le faccende di cucina, erano diventati semplici sino alla frugalità e spartirono solo una densa minestra di lenticchie, pane, formaggio e marmellata di cotogne, che era meno di quanto lei mangiava in collegio nei venerdì di digiuno. Esteban diceva che non appena avesse potuto reggersi sulle gambe sarebbe andato di persona alla capitale per comprare le cose più fini e costose con cui arricchire la sua casa, perché ormai era stufo di vivere come uno zotico a causa della maledetta natura isterica di quel paese del cazzo. Di tutto quello di cui si parlò a tavola, l'unica cosa che Blanca ricordò era che aveva cacciato Pedro Terzo García con l'ordine di non mettere più piede nella sua proprietà, perché l'aveva sorpreso a diffondere idee comuniste tra i contadini. La ragazza impallidì e le cadde il contenuto del cucchiaio sulla tovaglia. Solo Clara notò il suo turbamento, perché Esteban dava stura al suo monologo di sempre sui malnati che mordono la mano che dà loro da mangiare "e tutto per colpa di quei politicanti del diavolo! Come quel nuovo candidato socialista, un fantoccio che osa attraversare il paese da Nord a Sud sul suo treno di paccottiglia, rimbecillendo la gente con le sue fanfaronate bolsceviche, ma stia attento a non avvicinarsi, perché se scende dal treno, ne faremo poltiglia, siamo già pronti, non c'è un solo proprietario in tutta la zona che non sia d'accordo, non permetteremo che vengano a predicare contro il lavoro sacrosanto, il giusto premio per chi si sforza, la ricompensa per chi va avanti nella vita, non è possibile che i fannulloni abbiano quanto noi, che lavoriamo dalla mattina alla sera e sappiamo investire il nostro capitale, correre i rischi, assumerci responsabilità, perché, se guardiamo bene, la storia della terra è di chi la lavora, la si può ribaltare, perché qui l'unico che sa lavorare sono io, senza di me questo era uno sfacelo e continuerebbe a esserlo, e nemmeno Cristo ha detto che bisogna dividere il frutto del nostro sforzo con fannulloni e questo moccioso di merda, Pedro Terzo, ha il coraggio di dirlo nella mia proprietà, non gli ho ficcato una palla in testa perché stimo molto suo padre e in un certo senso devo la vita a suo nonno, ma gli ho già detto che se lo vedo girare come un ladro da queste parti lo riduco in poltiglia a fucilate."

Clara non aveva preso parte alla conversazione. Era occupata a togliere e mettere le cose sulla tavola e a sorvegliare sua figlia con la coda dell'occhio, ma mentre toglieva la zuppiera col resto delle lenticchie udì le ultime parole della tirata di suo marito.

Non puoi impedire che il mondo cambi, Esteban. Se non è Pedro Terzo García, sarà un altro a portare le nuove idee alle Tre Marie disse.

Esteban Trueba diede una bastonata alla zuppiera che sua moglie aveva in mano e la gettò lontano, spargendone il contenuto in terra. Blanca si drizzò inorridita. Era la prima volta che vedeva il cattivo umore di suo padre rivolto contro Clara e pensò che lei sarebbe entrata in uno dei suoi stati lunatici e che si sarebbe messa a volare dalla finestra, ma niente di tutto questo accadde. Clara raccolse i cocci della zuppiera rotta con la sua calma abituale, senza dar segno di udire gli insulti da marinaio che Esteban vomitava. Aspettò che finisse di brontolare, gli diede la buonanotte con un tiepido bacio sulla guancia e uscì portandosi via Blanca per mano.

Blanca non perse la tranquillità per l'assenza di Pedro Terzo. Andava ogni giorno al fiume e aspettava. Sapeva che la notizia del suo ritorno in campagna sarebbe prima o poi arrivata al ragazzo e il richiamo dell'amore l'avrebbe raggiunto ovunque fosse stato. Così fu, infatti. Il quinto giorno vide arrivare un tipo stracciato che indossava una coperta invernale e un cappello dalla tesa larga, e si trascinava dietro un asino carico di utensili di cucina, pentole di peltro, teiere di rame, grandi marmitte di ferro smaltato, mestoli di tutte le dimensioni, tra uno sferragliare che annunciava il suo arrivo con dieci minuti di anticipo. Non lo riconobbe. Sembrava un vecchio miserabile, uno di quei malinconici viaggiatori che girano di porta in porta per la provincia con la loro mercanzia. Le si fermò davanti, si tolse il cappello e allora lei vide i suoi begli occhi neri che brillavano in mezzo a una chioma e a una barba irsuta. L'asino si fermò a mangiucchiare l'erba col suo tramenìo di pentole rumorose, mentre Blanca e Pedro Terzo saziavano la fame e la sete accumulate in tanti mesi di silenzio e di separazione, rotolando tra le pietre e i cespugli e gemendo come disperati. Poi rimasero abbracciati fra le canne della riva. Tra il ronzio delle libellule e il gracidare delle rane, lei gli raccontò che si era messa bucce di banana e carta assorbente nelle scarpe per farsi venire la febbre e che aveva ingoiato gesso in polvere finché non le aveva fatto venire una tosse vera, per convincere le monache che la sua inappetenza e il suo pallore erano sintomi sicuri della tisi.

Volevo stare con te! disse, baciandolo sul collo.

Pedro Terzo le parlò di quello che stava succedendo nel mondo e nel paese, della guerra che teneva soggiogata mezza umanità in uno sbudellamento di mitragliatrici, in un'agonia di campi di concentramento e in un'alluvione di vedove e orfani le parlò dei lavoratori in Europa e in Nordamerica, i cui diritti venivano rispettati, perché la moria di sindacalisti e di socialisti delle decadi precedenti aveva prodotto leggi più giuste e repubbliche come Dio comanda, in cui i governanti non rubano il latte in polvere dei sinistrati.

Gli ultimi a renderci conto delle cose, siamo sempre noi contadini, non ci interessa quello che succede altrove. Tuo padre qui lo odiano. Ma ne hanno tanta paura che non sono capaci di organizzarsi per tenergli testa. Capisci, Blanca?

Lei capiva, ma in quel momento il suo unico interesse consisteva nel respirare il suo odore di grano fresco, nel leccargli le orecchie, nell'affondare le dita in quella barba folta, nell'ascoltare i suoi gemiti innamorati. Aveva anche paura per lui. Sapeva non solo che suo padre gli avrebbe cacciato in testa la pallottola promessa, ma che qualunque proprietario della regione avrebbe fatto lo stesso con molto piacere. Blanca ricordò a Pedro Terzo la storia del dirigente socialista, che un paio d'anni prima percorreva la regione in bicicletta, distribuendo volantini nelle tenute e organizzando i mezzadri, finché i fratelli Sánchez non l'avevano preso, ammazzato a bastonate e impiccato a un palo del telegrafo in un crocicchio, affinché tutti potessero vederlo. Era rimasto lì un giorno e una notte a dondolare contro il cielo, finché non erano arrivati i gendarmi a cavallo e l'avevano tirato giù. Per stornare i sospetti avevano dato la colpa agli indiani della riserva, nonostante tutti sapessero che erano pacifici e che se avevano paura di ammazzare una gallina a maggior ragione l'avevano per un uomo. Ma i fratelli Sánchez l'avevano dissotterrato dal cimitero e di nuovo ne avevano mostrato il cadavere e questo era ormai troppo per essere attribuito agli indiani. Nemmeno per questo la giustizia osò intervenire e la morte del socialista venne rapidamente dimenticata.

Possono ammazzarti supplicò Blanca abbracciandolo.

Starò attento la tranquillizzò Pedro Terzo. Non resterò a lungo nel medesimo posto. Per questo motivo non potrò vederti tutti i giorni. Aspettami in questo stesso posto. Verrò ogni volta che potrò.

Ti amo disse lei singhiozzando.

Anch'io.

Si abbracciarono di nuovo con l'ardore insaziabile proprio della loro età, mentre l'asino continuava a masticare l'erba.

 

Blanca fece sì da non dover più tornare in collegio, provocandosi il vomito con salamoie calde, diarrea con prugne verdi, e affanno serrandosi la vita con una cinghia da cavallo, finché non acquisì fama di avere cattiva salute, che era proprio quanto andava cercando. Così bene imitava i sintomi delle più svariate malattie, che avrebbe potuto ingannare un consulto di medici e lei stessa era giunta a convincersi di essere molto malaticcia. Ogni mattina, al risveglio, faceva una revisione mentale del suo organismo, per vedere dove le faceva male e quale nuovo malanno l'affliggesse. Imparò ad approfittare di qualsiasi circostanza per sentirsi malata, da una variazione di temperatura sino al polline dei fiori, e a trasformare ogni piccolo malessere in un'agonia. Clara era del parere che la cosa migliore per la salute era tenere le mani occupate, sicché ridimensionò i malesseri di sua figlia facendola lavorare. La ragazza doveva alzarsi presto, come tutti gli altri, lavarsi con acqua fredda e occuparsi delle sue faccende, che comprendevano insegnare nella scuola, cucire nel laboratorio, compiere ogni lavoro dell'infermeria, dal fare i clisteri sino a suturare ferite con ago e filo del laboratorio di cucito, senza che le servissero gli svenimenti alla vista del sangue, né i sudori freddi quando doveva pulire un vomito. Pedro García, il vecchio, che aveva già novant'anni e a fatica trascinava le sue ossa, condivideva l'idea di Clara che le mani sono fatte per essere usate. E fu così che un giorno in cui Blanca si stava lamentando di una terribile emicrania, la chiamò e senza preamboli le mise una palla di creta in grembo. Passò il pomeriggio ad insegnarle a modellare l'argilla per fare utensili da cucina, senza che la ragazza si ricordasse dei suoi dolori. Il vecchio non sapeva che stava dando a Blanca quello che più tardi sarebbe stato il suo unico mezzo per vivere e il suo conforto nelle ore tristi. Le insegnò a far girare il tornio col piede mentre faceva volare le mani sulla creta molle, per fabbricare anfore e brocche. Ma ben presto Blanca scoprì che le cose utili l'annoiavano e che era molto più divertente fare figure di animali e di persone. Col tempo si dedicò a modellare un mondo in miniatura di bestie domestiche e di personaggi intenti a ogni lavoro, falegnami, lavandaie, cuoche, tutti con i loro piccoli utensili e i loro mobili.

Son cose che non servono a niente disse Esteban Trueba quando vide sua figlia all'opera.

Cerchiamone l'utilità suggerì Clara.

Venne così l'idea del Natale. Blanca cominciò a produrre figurine per il presepe natalizio, non solo i re magi e i pastori, ma anche una folla di persone dei più diversi tipi e ogni specie di animali, cammelli e zebre dell'Africa, iguane d'America e tigri dell'Asia, senza tenere affatto in considerazione la zoologia propria di Betlemme. Poi aggiunse animali che inventava, attaccando mezzo elefante alla metà di un coccodrillo, senza sapere che stava facendo col fango le stesse cose che sua zia Rosa, che non aveva mai conosciuto, faceva col filo da ricamo sulla sua enorme tovaglia, mentre Clara disquisiva che se le follie si ripetono nella famiglia lo si deve al fatto che esiste una memoria genetica che impedisce che si perdano nell'oblio.

I presepi affollati di Blanca divennero una curiosità. Dovette addestrare due ragazze per farsi dar una mano, perché non ce la faceva a esaudire le richieste, quell'anno tutti volevano averne uno per la notte di Natale, specialmente perché erano gratis. Esteban Trueba pensava che la mania della creta andava bene come divertimento da signorina, ma che se si fosse trasformato in un affare il nome dei Trueba sarebbe stato associato a quello dei commercianti che vendevano chiodi da ferramenta e pesce fritto al mercato.

Gli incontri tra Blanca e Pedro Terzo erano distanziati e irregolari, ma proprio per questo più intensi. In quegli anni lei si abituò al timore e all'attesa, si rassegnò all'idea che si sarebbero amati sempre di nascosto e smise di nutrire il sogno di sposarsi e di vivere in una delle casette di mattoni di suo padre. Spesso trascorrevano settimane senza che sapesse nulla di lui, ma improvvisamente appariva nella tenuta un postino in bicicletta, un evangelista che predicava con la bibbia sottobraccio, o uno zingaro che parlava mezzo pagano, tutti così inoffensivi, che passavano senza destare sospetti agli occhi inquisitori del padrone. Lo riconosceva dalle sue pupille nere. Non era l'unica: tutti i mezzadri delle Tre Marie e molti contadini di altre tenute lo aspettavano pure loro. Da quando il giovane era perseguitato dai padroni, si era guadagnato la fama di eroe. Tutti volevano nasconderlo per una notte, le donne gli tessevano poncho e calzerotti per l'inverno e gli uomini gli mettevano da parte la miglior acquavite e la migliore carne secca della stagione. Suo padre, Pedro Secondo García, sospettava che suo figlio violasse il divieto di Trueba e riconosceva le tracce che lasciava al suo passaggio. Era diviso tra l'amore per suo figlio e il suo ruolo di guardiano della proprietà. Inoltre temeva di riconoscerlo e che Esteban Trueba glielo leggesse in viso, ma provava una segreta allegria attribuendogli alcune delle cose segrete che stavano accadendo in campagna. Ma non gli passava proprio per la testa che le visite di suo figlio avessero qualcosa a che vedere con le passeggiate di Blanca Trueba al fiume, perché quest'eventualità non stava nell'ordine naturale del mondo. Non parlava mai di suo figlio se non in seno alla famiglia, ma si sentiva orgoglioso di lui e preferiva vederlo ridotto a essere un fuggiasco piuttosto che uno dei tanti nel mucchio che seminava patate e raccoglieva povertà insieme a tutti gli altri. Quando ascoltava canticchiare qualche canzone di galline e volpi, sorrideva pensando che suo figlio si era guadagnato più adepti con le sue ballate sovversive che con i suoi pamphlet del Partito Socialista che distribuiva instancabilmente.

 

 

6. LA VENDETTA

 

Un anno e mezzo dopo il terremoto, le Tre Marie erano di nuovo la tenuta modello di prima. La grande casa padronale era stata ricostruita come quella originale, ma più solida e con l'impianto di acqua calda nei bagni. L'acqua era come cioccolata chiara e talvolta apparivano persino dei girini, ma usciva in un getto gaio e forte. La pompa tedesca era una meraviglia. Io giravo dappertutto senz'altro appoggio che un grosso bastone d'argento, lo stesso che ho adesso e che mia nipote dice che uso non perché sono zoppo, bensì per dar forza alle mie parole, brandendolo come un argomento contundente. La lunga malattia aveva intaccato il mio organismo e peggiorato il mio carattere. Devo ammettere che all'ultimo neppure Clara poteva frenare i miei attacchi d'ira. Un'altra persona sarebbe rimasta per sempre invalida a causa dell'incidente, ma io sono stato aiutato dalla forza della disperazione. Pensavo a mia madre, seduta sulla sedia a rotelle che marciva viva, e questo mi dava la tenacia per alzarmi e tentar di camminare, fosse anche stato a forza d'imprecazioni. Credo che la gente avesse paura di me. Clara stessa, che non aveva mai temuto il mio cattivo carattere, in parte perché io badavo molto a non volgerlo contro di lei, era spaventata. Vederla timorosa di me mi faceva andare in bestia.

A poco a poco Clara stava cambiando. Aveva un aspetto stanco, notai che stava allontanandosi da me. Ormai non mi aveva in simpatia, i miei dolori non le facevano compassione bensì le davano fastidio, mi resi conto che evitava la mia presenza. Oserei dire che in quell'epoca si sentiva più a suo agio badando alle vacche con Pedro Secondo che facendomi compagnia in salotto. Quanto più distante era Clara, tanto maggiore era il bisogno che sentivo del suo amore. Non era diminuito il desiderio che avevo nutrito per lei quando l'avevo sposata, volevo possederla completamente, fino al suo ultimo pensiero, ma quella donna diafana mi passava accanto come un soffio e, anche se la immobilizzavo con due mani e l'abbracciavo con brutalità, non riuscivo a imprigionarla. Il suo spirito non era con me. Quando cominciò a temermi, la vita divenne un purgatorio. Durante il giorno ciascuno era occupato con le sue faccende. Tutt'e due avevamo molto da fare. Ci incontravamo solo all'ora dei pasti e in quei momenti ero io a sostenere la conversazione con lei, perché lei sembrava vagare tra le nuvole. Parlava assai poco e aveva perso quella risata fresca e insolente che era stata la prima cosa a piacermi in lei, ormai non gettava più la testa all'indietro, ridendo a gola spiegata. Sorrideva appena. Pensai che l'età e il mio incidente stavano separandoci, che era stufa della vita matrimoniale, cose simili succedono a tutte le coppie e io non ero uno di quegli amanti delicati che regalano fiori di continuo e dicono cose carine. Ma feci il possibile per avvicinarmi a lei. Dio mio se lo feci! La trovavo nella sua stanza intenta sui suoi quaderni dove annotava la vita o al tavolino a tre gambe. Mi ero sforzato di condividere questi aspetti della sua esistenza, ma a lei non faceva piacere che si leggessero i suoi quaderni e la mia presenza le interrompeva l'ispirazione quando conversava con gli spiriti, sicché dovetti smettere. Lasciai perdere anche il proposito di annodare un buon rapporto con Blanca. Fin da piccola, mia figlia era strana e non fu mai la bimba affettuosa e dolce che avrei desiderato. Sembrava proprio un istrice. Da quando me la ricordo è stata sempre aspra con me, e non deve aver superato il complesso d'Edipo, perché non l'ha mai avuto. Ma era già una signorina, sembrava intelligente e matura per la sua età, era molto attaccata alla madre. Pensai che avrebbe potuto aiutarmi e feci in modo di conquistarmela come alleata, le facevo regali, cercavo di scherzare insieme a lei, ma mi sfuggiva lo stesso. Ora, che sono molto vecchio e posso parlarne senza perdere la testa per la rabbia, credo che la colpa di tutto fosse il suo amore per Pedro Terzo García. Blanca era incorruttibile. Non chiedeva mai nulla, parlava meno della madre e se io la costringevo a darmi un bacio di saluto, lo faceva così di controvoglia che mi doleva come uno schiaffo. "Cambierà quando torneremo alla capitale e faremo una vita civile" mi dicevo allora, ma né Clara né Blanca mostravano il minimo interesse per lasciare le Tre Marie, anzi, ogniqualvolta io alludevo alla cosa, Blanca diceva che la vita di campagna le aveva restituito la salute, ma che non si sentiva ancora forte, e Clara mi ricordava che c'era molto da fare in campagna, che le cose non potevano essere lasciate a metà. Mia moglie non sentiva nemmeno nostalgia per le raffinatezze cui era stata abituata e il giorno che arrivò alle Tre Marie il carico di mobili e di articoli domestici che avevo ordinato per farle una sorpresa, si limitò a trovare il tutto molto carino. Io stesso dovetti dare disposizioni su dove mettere le cose, perché sembrava che a lei non gliene importasse niente. La nuova casa si rivestì di un lusso che non aveva mai avuto, neppure negli splendidi giorni prima di mio padre, che l'aveva rovinata. Arrivarono grandi mobili coloniali di quercia rossa e di noce, intagliati a mano, pesanti tappeti di lana, lampadari di ferro e rame sbalzato. Ordinai alla capitale un servizio di porcellana inglese dipinta a mano, degna di un'ambasciata, servizi di bicchieri di cristallo, quattro casse piene di ninnoli, lenzuola e tovaglie di lino, una collezione di musica classica e leggera, col suo moderno grammofono. Qualunque donna si sarebbe entusiasmata a quella vista e sarebbe stata occupata per molti mesi a sistemare la sua casa, meno Clara, che era impermeabile a quelle cose. Si limitò ad addestrare un paio di cuoche e a istruire qualche ragazza, figlia dei mezzadri, affinché servissero in casa e, non appena si trovò libera dalle casseruole e dalla scopa, tornò ai suoi quaderni dove annotava la sua vita e ai suoi tarocchi nei momenti di ozio. Passava la maggior parte del giorno nel laboratorio di cucito, nell'infermeria e nella scuola. Io la lasciavo fare perché queste faccende davano un senso alla sua vita. Era una donna caritatevole e generosa, ansiosa di rendere felice chi le stava intorno, tutti meno me. Dopo la rovina ricostruimmo l'emporio e, per accontentarla, soppressi il sistema dei foglietti rosa e cominciai a pagare la gente in contanti, perché Clara diceva che questo permetteva loro di comprare al villaggio e di risparmiare. Non era vero. Serviva solo a far andare gli uomini a ubriacarsi alla taverna di San Lucas e a spingere nell'indigenza le donne e i bambini. Per questo tipo di cose litigavamo molto. I mezzadri erano la causa di ogni nostra discussione. Be', non di tutte. Discutevamo anche della guerra mondiale. Io seguivo i progressi delle truppe naziste su una mappa che avevo attaccato alla parete del salotto, mentre Clara sferruzzava calzerotti per i soldati alleati. Blanca se ne stava con la testa tra le mani, senza capire la causa della nostra passione per una guerra che non aveva niente a che vedere con noi e che si svolgeva dall'altra parte dell'oceano. Mi pare che sorgessero dei malintesi anche per altri motivi. In realtà, ben poche volte eravamo d'accordo su qualcosa. Non credo che la colpa di tutto fosse il mio cattivo carattere, perché io ero un buon marito, nemmeno l'ombra dello scapestrato che ero da scapolo. Lei era l'unica donna per me. Lo è ancora.

Un giorno Clara fece mettere un chiavistello alla porta della sua stanza e non mi volle più nel suo letto, se non quelle volte in cui io forzavo talmente la situazione, che un rifiuto avrebbe significato la rottura definitiva. Dapprima pensai che avesse uno di quegli strani malesseri che talvolta hanno le donne, oppure la menopausa, ma quando il fatto si protrasse per varie settimane, decisi di parlargliene. Mi spiegò con calma che la nostra situazione matrimoniale si era deteriorata, sicché aveva perso la buona disposizione per i ruzzi carnali. Dedusse con naturalezza che se non avevamo niente da dirci, neppure potevamo spartire il letto, e sembrò stupita del fatto che io passavo tutto il giorno ad arrabbiarmi con lei e la notte a desiderare le sue carezze. Cercai di farle capire che in questo senso gli uomini sono diversi dalle donne e che l'adoravo nonostante le mie ubbie, ma fu inutile. In quel tempo ero più sano e più forte di lei, a prescindere dal mio incidente e dal fatto che Clara era molto più giovane. Con l'età ero dimagrito. Non avevo un briciolo di grasso in corpo e conservavo la stessa resistenza e lo stesso vigore della mia giovinezza. Potevo trascorrere tutto il giorno a cavallo, dormire disteso in qualunque posto, mangiare qualsiasi cosa senza risentirne alla vescica, al fegato e agli altri organi interni di cui la gente parla continuamente. Mi facevano male le ossa, questo sì. Nelle sere fredde o nelle notti umide il dolore alle ossa, schiacciate durante il terremoto, era così intenso che mordevo il guanciale per non far udire i miei lamenti. Quando proprio non resistevo oltre, buttavo giù un sorso di acquavite e due aspirine effervescenti, ma non è che mi passasse. Il fatto strano è che la mia sensualità si era fatta più selettiva con l'età, ma era accesa quasi come nella mia gioventù. Mi piaceva guardare le donne, mi piace ancora. È un piacere estetico, quasi spirituale. Ma solo Clara risvegliava in me un desiderio concreto e immediato, perché nella nostra lunga vita in comune avevamo imparato a conoscerci e ciascuno di noi conosceva in punta di dita la geografia precisa dell'altro. Lei sapeva dov'erano le mie zone più sensibili, poteva dirmi esattamente quello che avevo bisogno di sentire. A un'età in cui la maggior parte degli uomini sono stufi della moglie, e hanno bisogno dello stimolo delle altre per trovare la scintilla del desiderio, io ero convinto che solo con Clara potevo fare l'amore come ai tempi della luna di miele, instancabilmente. Non ero tentato di cercare altre donne.

Ricordo che cominciavo ad assediarla all'imbrunire. Di sera si sedeva a scrivere e io facevo finta di assaporare la pipa, ma in realtà la spiavo con la coda dell'occhio. Non appena calcolavo che stava per ritirarsi perché si metteva a nettare la penna e a chiudere i quaderni la precedevo. Andavo zoppicando in bagno, mi azzimavo, mi mettevo una vestaglia felpata da vescovo che avevo comprato per sedurla, ma della cui esistenza lei non sembrò mai essersi accorta, accostavo l'orecchio alla porta e l'aspettavo. Quando sentivo che avanzava nel corridoio, le balzavo addosso. Provai di tutto, dal colmarla di lusinghe e regali fino a minacciarla di abbattere la porta e di darle un fracco di bastonate, ma nessuna di queste alternative colmava l'abisso che ci separava. Immagino che era inutile che io cercassi di farle dimenticare, con le mie premure amorose della notte, il cattivo umore con cui l'opprimevo di giorno. Clara mi evitava con quell'aria distratta che finii per detestare. Non riesco a capire cos'era che mi attraesse tanto in lei. Era una donna matura, senz'alcuna civetteria, che strascicava leggermente i piedi e che aveva perso l'allegria ingiustificata che la rendeva così attraente in gioventù. Clara non era seduttrice né tenera con me. Sono sicuro che non mi amava. Non c'era motivo di desiderarla in quel modo esagerato e brutale che sconfinava con la disperazione e col ridicolo. Ma non potevo evitarlo. I suoi minimi gesti, il suo tenue odore di biancheria pulita e di sapone, la luce dei suoi occhi, la grazia della sua nuca sottile coronata dai riccioli ribelli, tutto in lei mi piaceva. La sua fragilità mi suscitava una tenerezza insopportabile. Volevo proteggerla, abbracciarla, farla ridere come ai vecchi tempi, dormire ancora con lei al mio fianco, con la sua testa sulla mia spalla, le gambe raccolte sotto le mie, così piccola e tiepida, la sua mano sul mio petto, vulnerabile e bellissima. Talvolta mi proponevo di punirla con una finta indifferenza, ma in capo a qualche giorno mi davo per vinto, perché sembrava molto più tranquilla e felice quando l'ignoravo. Trapanai un buco nella parete del bagno per vederla nuda, ma ciò mi metteva in un tale stato di turbamento che preferii richiuderlo con un po' di calce. Per ferirla ostentai di andare al Lampioncino Rosso, ma il suo unico commento fu che era meglio che violentare le contadine, cosa che mi sorprese, perché non avevo immaginato che lo sapesse. Pur di provocare una sua frase, ripresi a tentare le violenze, non foss'altro che per darle fastidio. Ebbi così la prova che il tempo e il terremoto avevano minato la mia virilità e che ormai non avevo più la forza di cingere la vita di una robusta ragazza e d'issarla in groppa al mio cavallo, e, ancora meno, di toglierle le vesti a strappi e penetrarla contro la sua volontà. Ero nell'età in cui si ha bisogno di aiuto e di tenerezza per fare l'amore. Ero diventato vecchio, cazzo.

 

Lui fu l'unico ad accorgersi che stava rattrappendosi. Lo notò dagli abiti. Non era semplicemente che gli stavano larghi, bensì che gli andavano lunghe le maniche e le gambe dei pantaloni. Chiese a Blanca di risistemarglieli alla macchina per cucire, con la scusa che stava dimagrendo, ma si chiedeva con inquietudine se Pedro García, il vecchio, non gli avesse aggiustato le ossa al rovescio e per questo stava rimpicciolendosi. Non lo disse a nessuno, così come non aveva mai parlato dei suoi dolori, per una questione d'orgoglio.

In quei giorni si preparavano le elezioni presidenziali. Durante una cena dei conservatori al villaggio, Esteban Trueba conobbe il conte Jean de Satigny. Portava scarpe di capretto e giacche di lino grezzo, non sudava come gli altri mortali e profumava di colonia inglese, era sempre abbronzato per l'abitudine di spingere con una mazza una pallina attraverso un archetto, nella piena luce del mezzogiorno, e parlava strascicando le ultime sillabe delle parole e mangiandosi le erre. Era l'unico uomo tra quanti Esteban conosceva che si mettesse smalto lucido sulle unghie e collirio azzurro negli occhi. Aveva biglietti da visita con lo stemma della sua famiglia e osservava tutte le buone regole conosciute e altre inventate da lui, come mangiare i carciofi con pinzette, il che provocava stupore generale. Gli uomini ridevano alle sue spalle, ma ben presto si vide che cercavano d'imitare la sua eleganza, le sue scarpe di capretto, la sua indifferenza e la sua aria civile. Il titolo di conte lo collocava a un livello diverso da quello degli altri emigranti che erano arrivati dall'Europa centrale, fuggendo le calamità del secolo scorso, dalla Spagna scappando dalla guerra, dal Medio Oriente con quegli affari di turchi e armeni dell'Asia, per vendere i loro cibi tipici e le loro cianfrusaglie. Il conte de Satigny non aveva bisogno di guadagnarsi la vita, come fece sapere a tutti. L'affare dei cincillà era solo un passatempo per lui.

Esteban Trueba aveva visto i cincillà aggirarsi nella sua proprietà. Dava loro la caccia a fucilate, perché gli divoravano i seminati, ma non aveva immaginato che quei roditori insignificanti potessero trasformarsi in pellicce per signora. Jean de Satigny cercava un socio che mettesse il capitale, il lavoro, gli allevamenti e corresse tutti i rischi, per dividere il guadagno al cinquanta per cento. Esteban Trueba non era un avventuroso in alcun aspetto della vita, ma il conte francese aveva la grazia alata e l'ingegno che potevano accattivarselo, per cui passò molte notti sveglio a studiare la crescita proporzionale dei cincillà e a fare conti. Intanto, Monsieur de Satigny passava molto tempo alle Tre Marie, come ospite d'onore. Giocava con la sua pallina in pieno sole, beveva quantità esorbitanti di succo di melone senza zucchero e girava delicatamente intorno alle ceramiche di Blanca. Arrivò al punto da proporre alla ragazza di esportarle in altri luoghi dove c'era un mercato sicuro per l'artigianato indigeno. Blanca cercò di chiarire l'equivoco, spiegandogli che lei non aveva niente di indiano e neppure la sua opera, ma la barriera del linguaggio impedì che lui comprendesse il suo punto di vista. Il conte fu un'acquisizione sociale per la famiglia Trueba, perché, dal momento in cui s'installò nella loro proprietà, piovvero inviti alle tenute vicine, alle riunioni con le autorità politiche del villaggio, e a tutti gli eventi culturali e sociali della regione. Tutti volevano star vicini al francese, nella speranza che qualcosa della sua distinzione li contagiasse, le ragazzine sospiravano al vederlo e le madri lo ambivano come genero contendendosi l'onore d'invitarlo. I signori invidiavano la fortuna di Esteban Trueba, che era stato scelto per l'affare dei cincillà. L'unica a non rimanere abbagliata dagli incantesimi del francese e a non meravigliarsi per il suo modo di sbucciare un'arancia con le posate, senza toccarla con le dita, lasciando la buccia a forma di fiore, o per la sua abilità di citare i poeti e i filosofi francesi nella loro lingua natale, fu Clara, che ogniqualvolta lo vedeva, doveva chiedergli il suo nome e si stupiva quando lo incontrava in vestaglia di seta mentre andava nel bagno di casa sua. Blanca, invece, si divertiva con lui ed era felice dell'occasione di indossare i suoi migliori abiti, di pettinarsi con cura e di preparare la tavola con le porcellane inglesi e i candelabri d'argento.

Perlomeno ci tira fuori dalla barbarie diceva.

Esteban Trueba era meno impressionato dalle smancerie del nobile, che dai cincillà. Pensava come diavolo non gli fosse mai passata per la testa l'idea di conciarne la pelliccia, invece di perdere tanti anni ad allevare quelle maledette galline che morivano alla prima diarrea da nulla e quelle mucche che per ogni litro di latte che si mungeva loro consumavano un ettaro di foraggio e una scatola di vitamine e inoltre riempivano tutto di mosche e di merda. Clara e Pedro Secondo García, invece, non condividevano il suo entusiasmo nei confronti dei roditori, lei per ragioni umanitarie, poiché le sembrava atroce allevarli per strappar loro la pelle, e lui perché non aveva mai sentito parlare di allevamenti di topi.

Una notte il conte uscì a fumare uno dei suoi sigari orientali fatti venire apposta per lui dal Libano, dove diavolo si troverà mai, come diceva Trueba, e a respirare il profumo dei fiori che saliva a grandi folate dal giardino e inondava le stanze. Passeggiò un po' sulla terrazza e misurò con lo sguardo l'estensione del parco che circondava la casa padronale. Sospirò, commosso da quella natura prodiga che sapeva riunire, nel più dimenticato paese della terra, tutti i climi di sua invenzione, la cordigliera e il mare, le vallate e le cime più alte, fiumi dall'acqua cristallina e una fauna benevola che consentiva di passeggiare in tutta tranquillità, nella certezza che non sarebbero apparsi serpenti velenosi o fiere affamate, e, per colmo di perfezione, non c'erano neppure negri rancorosi o indiani selvaggi. Era stufo di girare per paesi esotici inseguendo commerci di pinne di pescecane come afrodisiaci, ginseng per ogni malanno, sculture intagliate dagli esquimesi, piraña imbalsamati dell'Amazzonia e cincillà per farne pellicce per signora. Aveva trentotto anni, o almeno questi confessava, e sentiva che aveva infine trovato il paradiso in terra, dove poteva iniziare imprese tranquille con soci ingenui. Si sedette su un tronco a fumare nell'oscurità. D'improvviso vide un'ombra agitarsi ed ebbe la fugace idea che poteva essere un ladro, ma subito la scacciò, perché i banditi in quelle terre erano incongrui al pari delle bestie cattive. Si avvicinò con prudenza e allora scorse Blanca, che metteva le gambe fuori della finestra e scivolava come un gatto lungo il muro, andando a cadere tra le ortensie senza il minimo rumore. Era vestita da uomo, perché i cani ormai la conoscevano e non aveva bisogno di girare nuda. Jean de Satigny la vide allontanarsi cercando l'ombra della veranda della casa e degli alberi, pensò di seguirla, ma ebbe paura dei mastini e pensò che non era necessario per sapere dove andava una ragazza che salta da una finestra nella notte. Si sentì preoccupato perché quanto aveva appena visto metteva in pericolo i suoi piani.

Il giorno dopo, il conte chiese in matrimonio Blanca Trueba. Esteban, che non aveva avuto tempo di conoscere bene sua figlia, aveva confuso la sua placida amabilità e il suo entusiasmo nel disporre i candelabri d'argento sulla tavola con l'amore. Si sentì molto soddisfatto che sua figlia, così annoiata e di cattiva salute, avesse acchiappato il giovanotto più richiesto della regione. "Che cos'avrà visto in lei?", si chiese, stupito. Disse al pretendente che doveva parlarne con Blanca, ma che era sicuro che non ci sarebbe stato alcun ostacolo, e che, da parte sua, gli dava con anticipo il benvenuto nella famiglia. Mandò a chiamare sua figlia, che in quel momento stava insegnando geografia nella scuola, e si chiuse con lei nel suo ufficio. Cinque minuti dopo la porta si aprì violentemente e il conte vide uscire la giovane con le guance arrossate. Passandogli accanto gli lanciò un'occhiata di odio e girò la faccia dall'altra parte. Un altro meno tenace avrebbe fatto le valigie e se ne sarebbe andato all'unico albergo del villaggio, ma il conte disse a Esteban che era sicuro di conquistare l'amore della giovane, purché gliene avessero dato il tempo. Esteban Trueba gli offrì di rimanere come ospite alle Tre Marie finché non l'avesse ritenuto necessario. Blanca non disse nulla, ma da quel giorno smise di mangiare a tavola con loro e non perse occasione per far sapere al francese che era indesiderabile. Ripose i suoi abiti eleganti e i candelabri d'argento e lo evitò con cura. Annunciò a suo padre che se le avesse ancora accennato la faccenda del matrimonio sarebbe tornata alla capitale col primo treno che fosse passato dalla stazione e che sarebbe entrata come novizia nel suo collegio.

Cambierà idea le ruggì Esteban Trueba.

Ne dubito rispose lei.

Quell'anno, l'arrivo dei gemelli alle Tre Marie fu un grande sollievo. Portarono una ventata di freschezza e di chiasso nel clima opprimente della casa. Nessuno dei due fratelli seppe apprezzare il fascino del nobile francese, sebbene questi avesse fatto discreti sforzi per conquistarsi la simpatia dei giovani. Jaime e Nicolás prendevano in giro i suoi modi di fare, le sue scarpe da checca e il suo cognome straniero, ma Jean de Satigny non si scompose mai. Il suo buon umore finì per disarmarli e convissero per il resto dell'estate amichevolmente, arrivando persino ad allearsi nel tentativo di sottrarre Blanca all'ostinazione in cui era sprofondata.

Hai già ventiquattro anni, sorella. Vuoi rimanere zitella? dicevano. Cercavano di spingerla a farsi tagliare i capelli e a copiare i vestiti che furoreggiavano sulle riviste, ma lei non nutriva alcun interesse per quella moda esotica, che non aveva la minima probabilità di sopravvivere nel polverone della campagna.

I gemelli erano così diversi tra loro che non sembravano neppure fratelli. Jaime era alto, robusto, timido e studioso. Costretto dall'educazione del collegio, riuscì a sviluppare con lo sport una muscolatura da atleta, ma in realtà era dell'idea che quella fosse un'attività faticosa e inutile. Non poteva capire l'entusiasmo di Jean de Satigny, che passava la mattina a inseguire una palla con una mazza per spingerla in un buco, quando era così facile mettercela con la mano. Aveva strane manie che erano cominciate a manifestarsi in quell'epoca e che si andarono accentuando durante la sua vita. Non gli piaceva che gli respirassero da vicino, che gli dessero la mano, che gli rivolgessero domande personali, che gli chiedessero libri in prestito e che gli scrivessero lettere. Questo rendeva difficili i suoi rapporti con la gente, ma non riuscì a isolarlo, perché dopo cinque minuti che lo si conosceva, balzava agli occhi che, nonostante il suo carattere eccitabile, era generoso, candido e aveva una grande capacità di tenerezza, che inutilmente cercava di nascondere, perché se ne vergognava. Si preoccupava degli altri molto più di quanto volesse ammettere, era facile commuoverlo. Alle Tre Marie i mezzadri lo chiamavano "il padroncino" e correvano da lui ogni volta che avevano bisogno di qualcosa. Jaime li ascoltava senza fare commenti, rispondeva a monosillabi e finiva voltando loro le spalle, ma non aveva pace finché non risolveva il problema. Era scontroso e sua madre diceva che nemmeno quand'era bambino si lasciava accarezzare. Fin da piccolo aveva gesti stravaganti, era capace di togliersi la roba che aveva addosso per darla a un altro, cosa che aveva fatto in varie circostanze. L'affetto e le emozioni gli sembravano segno d'inferiorità e solo con gli animali superava la barriera del suo esagerato pudore, si rotolava in terra con loro, li accarezzava, dava loro da mangiare e dormiva abbracciato ai cani. Faceva lo stesso con i bambini molto piccoli, purché nessuno stesse osservandolo, in quanto davanti alla gente preferiva il ruolo dell'uomo forte e solitario. L'educazione britannica di dodici anni di collegio non poté sviluppare in lui lo spleen, che era considerato il miglior attributo di un gentiluomo. Era un incorreggibile sentimentale. Per questo s'interessava alla politica e aveva deciso che non sarebbe divenuto avvocato come suo padre desiderava, ma medico, per aiutare chi ne aveva bisogno, come gli aveva suggerito sua madre che lo conosceva meglio. Jaime aveva giocato con Pedro Terzo García per tutta l'infanzia, ma fu in quell'anno che imparò ad ammirarlo. Blanca aveva dovuto sacrificare un paio d'incontri al fiume, perché i due giovani s'incontrassero. Parlavano di giustizia, di uguaglianza, del movimento contadino, del socialismo, mentre Blanca li ascoltava con impazienza, desiderando che finissero in fretta per rimanere sola col suo amante. Quell'amicizia unì i due ragazzi sino alla morte, senza che Esteban Trueba lo sospettasse.

Nicolás era bello come una fanciulla. Aveva ereditato la delicatezza e la trasparenza di pelle di sua madre, era piccolo, magro, astuto e svelto come una volpe. D'intelligenza brillante, senza fare alcuno sforzo superava suo fratello in tutto quello che intraprendevano insieme. Aveva inventato un gioco per tormentarlo: lo contraddiceva su qualunque argomento e trovava le frasi con tanta sicurezza e abilità che finiva per convincere Jaime che si sbagliava, obbligandolo ad ammettere il suo errore.

Sei sicuro che ho ragione io? diceva infine Nicolás a suo fratello.

Sì, hai ragione tu grugniva Jaime, la cui rettitudine gli impediva di discutere in mala fede.

Ah! Sono contento esclamava Nicolás. Ora io ti dimostro che chi ha ragione sei tu e quello che sbaglia sono io. Ti dirò gli argomenti che avresti dovuto usare, se fossi stato intelligente.

Jaime perdeva la pazienza e gliele suonava, ma subito se ne pentiva, perché era molto più forte di suo fratello e la sua stessa forza lo faceva sentire colpevole. In collegio Nicolás usava la sua intelligenza per dare fastidio agli altri e quando si vedeva costretto ad affrontare una situazione di violenza, chiamava suo fratello perché lo difendesse mentre lui lo incitava da dietro. Jaime si abituò a esporsi per Nicolás, al punto da sembrargli normale essere punito al suo posto, fare i suoi compiti e nascondere le sue bugie. Il principale interesse di Nicolás in quel periodo della sua gioventù, a parte le donne, consistette nello sviluppare l'abilità di Clara a indovinare il futuro. Comprava libri di società segrete, di oroscopi e di tutto quello che avesse caratteristiche soprannaturali. Quell'anno aveva la fissazione di smascherare miracoli, comprò "Le Vite dei Santi" in edizione popolare e trascorse l'estate cercando spiegazioni pedestri alle più fantastiche prodezze di ordine spirituale. Sua madre lo scherniva.

Se non riesci a capire come funziona il telefono, figlio diceva Clara come vuoi comprendere i miracoli?

L'interesse di Nicolás per i fatti soprannaturali aveva cominciato a manifestarsi un paio d'anni prima. Nei fine settimana in cui poteva uscire dal collegio, andava a trovare le tre sorelle Mora al loro vecchio mulino, per imparare scienze occulte. Ma aveva subito capito di non avere alcuna disposizione naturale per la chiaroveggenza e per la telecinesi, sicché dovette rassegnarsi alla meccanica delle carte astrologiche, dei tarocchi e dei bastoncini cinesi. Poiché una cosa ne tira un'altra, in casa delle Mora aveva conosciuto una bella giovane di nome Amanda, un po' più anziana di lui, che l'aveva iniziato alla meditazione yoga e all'agopuntura, discipline con cui Nicolás riuscì a curare i reumatismi e altri piccoli dolori, che era più di quanto avrebbe ottenuto suo fratello con la medicina tradizionale, dopo sette anni di studio. Ma tutto questo accadde molto dopo. Quell'estate aveva ventun anni e si annoiava in campagna. Suo fratello lo vigilava da presso, perché non desse fastidio alle ragazze, dato che si era autodesignato difensore della virtù delle giovinette delle Tre Marie, tuttavia Nicolás si diede da fare per sedurre quasi tutte le adolescenti della zona, con arti di galanteria quali mai si erano viste da quelle parti. Il resto del tempo lo passava indagando sui miracoli, cercando d'imparare i trucchi di sua madre per muovere la saliera con la forza della mente, e scrivendo versi appassionati ad Amanda, che glieli rimandava per posta, corretti e migliorati, senza che questo scoraggiasse il giovane.

 

Pedro García, il vecchio, morì poco prima delle elezioni presidenziali. Il paese era agitato dalle campagne politiche, i treni trionfali andavano da Nord a Sud portando i candidati affacciati in coda, con la loro corte di proseliti, che salutavano tutti allo stesso modo, promettevano tutti le stesse cose, imbandierati e con una sarabanda di cori e di altoparlanti che spaventava la quiete del paesaggio e terrificava gli armenti. Il vecchio aveva vissuto tanto che ormai era solo un mucchio di ossicini di vetro coperti da una pelle giallastra. La sua faccia era un ricamo di rughe. Scricchiolava camminando con un rumore di nacchere, non aveva denti e poteva mangiare solo pappette da bebè, oltre che cieco era diventato sordo, ma non gli era mai venuta meno la facoltà di riconoscere le cose e la memoria del passato e del presente. Morì seduto sulla sua seggiola di vimini al tramonto. Gli piaceva stare seduto sulla soglia della sua baracca a sentire il cader della sera, che intuiva dal cambiamento lieve della temperatura, dai rumori del cortile, dal fervore delle cucine, dal silenzio delle galline. Lì lo trovò la morte. Ai suoi piedi, c'era il pronipote Esteban García, che aveva già quasi dieci anni, intento a infilzare un chiodo negli occhi di un pollo. Era figlio di Esteban García, l'unico bastardo del padrone che portasse il suo nome, ma non il suo cognome. Nessuno ne ricordava l'origine né il motivo per cui aveva quel nome, tranne lui stesso, perché sua nonna, Pancha García, prima di morire era riuscita ad avvelenare la sua infanzia con la storia che se suo padre fosse nato al posto di Blanca, di Jaime o di Nicolás, avrebbe ereditato le Tre Marie e avrebbe potuto diventare Presidente della repubblica, se lo avesse voluto. In quella regione, disseminata di figli illegittimi e di altri legittimi che non conoscevano il proprio padre, lui fu probabilmente l'unico che crebbe odiando il suo cognome. Visse tormentato dal rancore contro il padrone, contro la nonna sedotta, contro suo padre bastardo e contro il suo inesorabile destino di zotico. Esteban Trueba non lo distingueva dagli altri ragazzotti della proprietà, era uno dei tanti nel mucchio di giovani che cantavano l'inno nazionale nella scuola e facevano la coda per il loro regalo di Natale. Non si ricordava di Pancha García né di avere avuto un figlio da lei e neppure di quel nipote sornione che lo odiava, ma che lo osservava da lontano per imitarne i gesti e copiarne la voce. Il bambino si svegliava di notte immaginando orribili malattie o incidenti che mettevano fine alla vita del padrone e di tutti i suoi figli per poter ereditare la proprietà. Avrebbe trasformato le Tre Marie nel suo regno. Accarezzò quelle fantasie per tutta la vita, anche dopo aver saputo che non avrebbe mai ottenuto nulla per via ereditaria. Rinfacciò sempre a Trueba l'oscura esistenza cui l'aveva condannato e si sentì punito, anche nei giorni in cui avrebbe raggiunto il massimo del potere e avrebbe avuto tutti in suo pugno.

Il bambino intuì che qualcosa era cambiato nel vecchio. Si avvicinò, lo toccò e il corpo barcollò. Pedro García cadde a terra come un sacco d'ossa. Aveva le pupille coperte dalla pellicola lattiginosa che le aveva a poco a poco lasciate senza luce nel corso di un quarto di secolo. Esteban García prese il chiodo e stava per forargli gli occhi, quando arrivò Blanca e lo gettò da parte con una spinta, senza sospettare che quella creatura fosca e malvagia fosse suo nipote e che nel giro di pochi anni sarebbe stato lo strumento di una tragedia per la sua famiglia.

Dio mio, è morto il vecchietto singhiozzò chinandosi sul corpo ringobbito del vecchio che aveva popolato di racconti la sua infanzia e protetto i suoi amori clandestini.

Pedro García, il vecchio, venne seppellito con una veglia funebre di tre giorni, durante i quali Esteban Trueba aveva ordinato che non si badasse a spese. Sistemarono il suo corpo in una cassa di pino naturale, col suo vestito della domenica, lo stesso di quando si era sposato e che si metteva per votare e per ricevere i suoi cinquanta pesos a Natale. Gli misero la sua unica camicia bianca, che gli stava molto larga al collo, perché l'età l'aveva rinsecchito, la sua cravatta da lutto e un garofano rosso all'occhiello, come durante ogni festa. Gli serrarono la mascella con un fazzoletto e gli misero il suo cappello nero, perché aveva detto spesso che voleva toglierselo per salutare Dio. Non aveva scarpe, ma Clara ne prese un paio a Esteban, perché tutti vedessero che non andava scalzo in Paradiso.