– Per un biglietto del treno, un vestito rosso, un paio di scarpe col tacco, una bottiglia di profumo e per farmi la permanente, tutto quello che mi serve per cominciare. Glieli restituirò un giorno, padrone. Con gli interessi.
Esteban le diede i cinquanta pesos perché quel giorno aveva venduto cinque vitelli e aveva le tasche piene di banconote, e perché il languore del piacere soddisfatto lo faceva diventare un po' sentimentale.
– L'unica cosa che mi dispiace è che non ti rivedrò, Tránsito. Mi ero abituato a te.
– Sì che ci rivedremo, padrone. La vita è lunga e fa molti giri.
Quelle grandi mangiate al circolo, le lotte dei galli e le notti al bordello culminarono in un piano intelligente anche se non del tutto originale per far votare i contadini. Offrirono loro una festa con involtini di carne e molto vino, erano stati sacrificati alcuni buoi per arrostirli, fecero suonare canzoni alla chitarra, li rintronarono con qualche arringa patriottica e promisero che se fosse uscito il candidato conservatore avrebbero avuto un bonifico ma che se ne usciva un altro, sarebbero rimasti senza lavoro. Inoltre controllarono le urne e corruppero la polizia. Dopo la festa ammucchiarono i contadini in un carretto e li portarono a votare, ben sorvegliati, tra scherzi e risate, l'unica volta in cui diedero loro confidenza, compare di qua, compare di là, conti su di me, che io non le verrò meno, padroncino, così mi piace, amico, che tu abbia coscienza patriottica, guarda che i liberali e i radicali sono dei vigliacchi e i comunisti sono degli atei, dei figli di puttana, che si mangiano i bambini.
Il giorno delle elezioni tutto accadde com'era stato previsto in perfetto ordine. Le Forze Armate garantirono lo svolgimento democratico, tutto in pace, un giorno di primavera più soleggiato di altri.
– Un esempio per questo continente di indiani e di negri, che se la spassano in rivoluzioni per abbattere un dittatore e metterne su un altro. Questo è un paese diverso, una vera repubblica, abbiamo orgoglio civico, qui il Partito Conservatore vince pulitamente e non ha bisogno di un generale perché ci siano ordine e tranquillità, non è come quelle dittature regionali dove si ammazzano l'un l'altro, mentre i gringo si portano via tutte le materie prime – disse Trueba nella sala da pranzo del circolo, brindando con un bicchiere in mano, quando era venuto a conoscenza dei risultati delle votazioni.
Tre giorni dopo, tornata la quotidianità, alle Tre Marie giunse la lettera di Férula. Esteban Trueba quella notte aveva sognato Rosa. Era molto tempo che non gli succedeva. In sogno l'aveva vista con i suoi capelli di salice piangente sciolti sulle spalle, come un manto vegetale che la copriva fino alla vita, aveva la pelle dura e gelida del colore e dell'aspetto dell'alabastro. Era nuda e reggeva in braccio un fagotto, camminava come si cammina nei sogni, aureolata dal verde splendore che fluttuava intorno al suo corpo. L'aveva vista avvicinarsi lentamente e quando aveva cercato di toccarla, aveva buttato a terra il fagotto, disfacendolo ai suoi piedi. Lui si era chinato, l'aveva raccolto e aveva visto una bambina senza occhi che lo chiamava papà. Si era svegliato in angoscia ed era rimasto di cattivo umore per tutta la mattinata. A causa del sogno, si era sentito inquieto, molto prima di ricevere la lettera di Férula. Entrò in cucina per fare colazione, come tutti i giorni, e vide una gallina che andava beccando le briciole sul pavimento. Le tirò una pedata che le aprì la pancia, lasciandola agonizzante in un alone di trippe e di piume, starnazzante in mezzo alla cucina. Questo non lo calmò, anzi, aumentò la sua rabbia e sentì che cominciava a soffocare. Montò a cavallo e si recò al galoppo a sorvegliare gli armenti che stavano marchiando. In quel momento giunse a casa Pedro Secondo García, che era andato alla stazione di San Lucas a fare una commissione ed era passato dal paese per prendere la posta. Portava la lettera di Férula.
La busta aspettò tutta la mattina sul tavolo dell'entrata. Quando Esteban Trueba arrivò, andò direttamente a fare il bagno, perché era coperto di sudore e di polvere, impregnato dell'odore inconfondibile delle bestie terrorizzate. Poi si sedette alla sua scrivania a fare dei conti e ordinò che gli servissero da mangiare su un vassoio. Non vide la lettera della sorella fino a notte, quando percorse la casa, come faceva sempre prima di andare a letto, per controllare che le luci fossero spente e le porte chiuse. La lettera di Férula era uguale a tutte le altre che aveva ricevuto da lei, ma quando la prese in mano seppe, ancora prima di aprirla, che il suo contenuto gli avrebbe cambiato la vita. Ebbe la stessa sensazione di quando aveva preso in mano il telegramma in cui sua sorella gli annunciava la morte di Rosa, anni prima.
L'aprì, sentendo che gli pulsavano le tempie a causa del presentimento. La lettera diceva brevemente che donna Ester Trueba stava morendo e che, dopo tanti anni trascorsi a curarla e a servirla come una schiava, Férula doveva sopportare che sua madre neppure la riconoscesse, mentre chiamava giorno e notte suo figlio Esteban, perché non voleva morire senza vederlo. Esteban non aveva mai amato realmente sua madre, né in sua presenza si sentiva a suo agio, ma la notizia lo lasciò trepidante. Capì che ormai non gli servivano più i pretesti sempre nuovi che inventava per non andarla a trovare, e che era giunto il momento d'intraprendere la strada del ritorno alla capitale e di affrontare per l'ultima volta quella donna che era presente nei suoi incubi, col suo rancido odore di medicine, le sue tenui lamentele, le sue interminabili preghiere, quella donna sofferente che aveva popolato di proibizioni e di terrori la sua infanzia e gravato di responsabilità e di colpe la sua vita di uomo.
Chiamò Pedro Secondo García e gli spiegò la situazione. Lo condusse alla scrivania e gli mostrò il libro di contabilità e i conti dell'emporio. Gli consegnò un mazzo con tutte le chiavi, meno quelle della cantina del vino e gli comunicò che a partire da quel momento fino al suo ritorno, lui era il responsabile di tutto quello che c'era alle Tre Marie e che qualunque stupidaggine avesse fatto l'avrebbe pagata molto cara. Pedro Secondo García prese le chiavi si mise il libro dei conti sotto il braccio e sorrise senza allegria.
– Ognuno fa quello che può, non di più, padrone – disse stringendosi nelle spalle.
Il giorno dopo Esteban Trueba rifece per la prima volta dopo anni il viaggio che l'aveva portato dalla casa di sua madre alla campagna. Se ne andò con le sue due valigie di cuoio fino alla stazione di San Lucas, prese il vagone di prima classe dei tempi della compagnia inglese delle ferrovie e percorse di nuovo i vasti campi dispiegati ai piedi della cordigliera.
Chiuse gli occhi e cercò di dormire, ma l'immagine di sua madre gli spaventò il sonno.
3. CLARA CHIAROVEGGENTE
Clara aveva dieci anni quando decise che non valeva la pena di parlare e si chiuse nel mutismo. La sua vita cambiò totalmente. Il medico di famiglia, il grasso e affabile dottor Cuevas, cercò di guarirla dal silenzio con pillole di sua invenzione, con vitamine in sciroppo e pennellature di miele al borace nella gola, ma senza alcun risultato apparente. Si rese conto che i suoi medicamenti erano inefficaci e che la sua presenza metteva la bambina in stato di terrore. Quando lo vedeva, Clara cominciava a strillare e si rifugiava nell'angolo più lontano, rannicchiata come un animale vessato, sicché interruppe i suoi trattamenti e consigliò a Severo e a Nivea di portarla da un rumeno di nome Rostipov, che stava suscitando scalpore in quel periodo. Rostipov si guadagnava la vita facendo trucchi da illusionista nei teatri di varietà e aveva compiuto l'incredibile prodezza di tendere un cavo dalla punta della cattedrale fino alla cupola della Hermandad Gallega, all'altro lato della piazza, per attraversare la strada camminando nell'aria con una pertica come unico sostegno. A prescindere dal suo lato frivolo, Rostipov stava provocando un fermento nei circoli scientifici perché nelle sue ore libere curava l'isteria con sbarrette magnetiche e trance ipnotici. Nivea e Severo portarono Clara al consultorio che il rumeno aveva improvvisato nel suo albergo. Rostipov la esaminò con attenzione e infine dichiarò che il caso non era di sua pertinenza, dato che la piccola non parlava perché non ne aveva voglia, e non perché non poteva. Comunque, di fronte all'insistenza dei genitori preparò certe pillole di zucchero tinte di color violetta e gliele prescrisse avvertendo che erano una medicina siberiana per curare sordomuti. Ma la suggestione in questo caso non funzionò e la seconda boccetta venne ingoiata da Barrabás in un momento di disattenzione senza che ciò provocasse nella bestia alcuna reazione apprezzabile. Severo e Nivea provarono a farla parlare con mezzi alla buona, con minacce e suppliche fino a lasciarla senza mangiare, per vedere se la fame la costringeva ad aprire la bocca per chiedere la cena, ma nemmeno questo era servito.
La Nana era convinta che un buon spavento poteva far sì che la bambina parlasse e passò nove anni a inventare espedienti disperati per terrorizzare Clara, ma riuscì soltanto a immunizzarla contro la sorpresa e lo spavento. Dopo poco tempo, Clara non aveva paura di niente, non la turbavano le apparizioni di mostri lividi ed emaciati nella sua stanza, né i colpi dei vampiri e dei demoni alla sua finestra. La Nana si mascherava da filibustiere senza testa, da boia della Torre di Londra, da lupo mannaro e da diavolo con le corna, secondo l'ispirazione del momento e le idee che ricavava da giornaletti del terrore che comprava a questo scopo, e sebbene non fosse capace di leggerli, ne imitava le illustrazioni. Prese l'abitudine di scivolare segretamente lungo i corridoi per balzare addosso alla bambina nel buio, di ululare dietro le porte, e di nascondere insetti vivi nel letto, ma niente raggiunse lo scopo di tirarle fuori almeno una parola. Talvolta Clara perdeva la pazienza, si gettava a terra, scalpitava e gridava, ma senza articolare alcun suono in linguaggio conosciuto, oppure scriveva sulla lavagnetta che portava sempre con sé i peggiori insulti alla povera donna, che se ne andava in cucina a piangere per l'incomprensione.
– Lo faccio per il tuo bene! – singhiozzava la Nana avvolta in un lenzuolo insanguinato e con la faccia annerita da un tappo di sughero bruciato.
Nivea le proibì di continuar a spaventare sua figlia. Si rese conto che lo stato di turbamento aumentava i suoi poteri mentali e provocava disordine tra le apparizioni che circondavano la bambina. Inoltre, quella sfilata di personaggi truculenti stava distruggendo il sistema nervoso di Barrabás, che non aveva mai avuto un buon olfatto ed era incapace di riconoscere la Nana sotto i suoi travestimenti. Il cane cominciò a fare la pipì da seduto, lasciandosi intorno un'immensa pozza e spesso batteva i denti. Ma la Nana approfittava di qualunque sbadataggine della madre per persistere nei suoi intenti di curare il mutismo con gli stessi rimedi con cui si fa passare il singhiozzo.
Ritirarono Clara dalla scuola delle suore dove erano state educate tutte le sorelle del Valle e fecero venire professori in casa. Severo fece venire dall'Inghilterra un'istitutrice, miss Agatha, alta, tutta del colore dell'ambra e con grandi mani da muratore, ma non aveva sopportato il cambio di clima, il cibo piccante e il volo autonomo della saliera che si spostava sul tavolo della sala, e se ne dovette tornare a Liverpool. La successiva fu una svizzera che non ebbe sorte migliore, e la francese, che era arrivata grazie ai rapporti dell'ambasciatore di quel paese con la famiglia, si rivelò così rosea, tonda e dolce, che rimase incinta di lì a pochi mesi e, svolgendo le indagini del caso, si seppe che il padre era Luis, il fratello minore di Clara. Severo li fece sposare senza chiedergli alcun parere e, contro ogni pronostico di Nivea e delle sue amiche, furono molto felici. Alla luce di queste esperienze, Nivea convinse il marito che imparare lingue straniere non era importante per una creatura con abilità telepatiche e che era molto meglio insistere con le lezioni di piano e insegnarle a ricamare.
La piccola Clara leggeva molto. Il suo interesse per la lettura era indiscriminato e le facevano lo stesso effetto sia i libri magici dei bauli incantati di suo zio Marcos, sia i documenti del Partito Liberale che suo padre custodiva nello studio. Riempiva innumerevoli quaderni con le sue annotazioni personali, dove rimasero via via registrati gli eventi di quell'epoca, che grazie a ciò non andarono persi, cancellati dalla bruma dell'oblio, e adesso io posso servirmene per far rivivere la sua memoria.
Clara chiaroveggente conosceva il significato dei sogni. Quest'abilità le era naturale e non aveva bisogno di quei noiosi studi cabalistici di cui si serviva lo zio Marcos con maggior sforzo e minor successo. Il primo a rendersene conto fu Honorio, il giardiniere della casa, che un giorno aveva sognato serpenti che gli si muovevano tra i piedi e che, per toglierseli d'attorno, li calpestava fino a schiacciarne diciannove. Lo raccontò alla bambina mentre potava le rose solo per intrattenerla, perché le voleva molto bene e gli dispiaceva che fosse muta. Clara tirò fuori dalla tasca del grembiule la lavagnetta e scrisse l'interpretazione del sogno di Honorio: avrai molti soldi, ti dureranno assai poco, li guadagnerai senza sforzo, gioca il diciannove. Honorio non sapeva leggere, ma Nivea gli lesse il messaggio tra scherzi e risate. Il giardiniere fece quello che gli avevano detto e guadagnò ottanta pesos in una bisca clandestina che si trovava dietro un magazzino di carbone. Se li spese in un abito nuovo, in una sbornia memorabile con tutti i suoi amici e in una bambola di maiolica per Clara. Da quel momento la bimba ebbe molto lavoro a decifrare i sogni di nascosto da sua madre, perché quando si seppe la storia di Honorio, andavano a chiederle cosa vuol dire volare sopra una torre con ali di cigno; andare alla deriva su una barca e che canti una sirena con voce da vedova; che nascano due gemelli attaccati per le spalle, ciascuno con una spada in mano, e Clara segnava senza indugiare sulla lavagnetta che la torre è la morte e chi vi vola sopra si salverà dal morire in un incidente, chi naufraga e ascolta la sirena perderà il lavoro e vivrà in ristrettezze, ma lo aiuterà una donna con la quale avrà un affare; i gemelli sono marito e moglie costretti in uno stesso destino, a ferirsi mutuamente con colpi di spada.
I sogni non erano l'unica cosa che Clara indovinava. Vedeva anche il futuro e conosceva le intenzioni della gente, virtù che mantenne a lungo nella vita e col tempo le crebbe. Annunciò la morte del suo padrino, don Salomón Valdés, che era agente di borsa e che credendo di avere perso tutto, si era impiccato al lampadario del suo elegante studio. Lì lo trovarono, per insistenza di Clara, con l'aspetto di un montone avvizzito, così come lei l'aveva descritto sulla lavagna. Predisse l'ernia di suo padre, tutti i terremoti e altri sconvolgimenti della natura, l'unica volta che cadde la neve sulla capitale, facendo morire di freddo i poveri nelle borgate e i roseti nei giardini dei ricchi, e l'identità dell'assassino delle collegiali, molto prima che la polizia scoprisse il secondo cadavere, ma nessuno le aveva creduto e Severo non aveva voluto che sua figlia esprimesse opinioni su affari criminali che non c'entravano con la famiglia. Clara si accorse al primo sguardo che Getulio Armando avrebbe truffato suo padre con la storia delle pecore australiane, perché glielo lesse nel colore della sua aura. Lo scrisse a suo padre ma lui non le badò e quando si ricordò delle predizioni della sua figlia minore aveva perduto metà della sua fortuna e il suo socio girava per i Caraibi, trasformato in uomo ricco, con un serraglio di negre culaccione e una nave propria per prendere il sole.
L'abilità di Clara nel muovere oggetti senza toccarli non le passò con le mestruazioni, come vaticinava la Nana, bensì andò accentuandosi fino ad avere tanta pratica da muovere i tasti del piano col coperchio abbassato, sebbene non fosse mai riuscita a spostare lo strumento per il salotto, com'era suo desiderio. Intenta in quelle stravaganze impiegava la maggior parte del suo tempo e delle sue energie. Sviluppò la capacità d'indovinare una stupefacente percentuale di carte dal mazzo e inventò giochi irreali per divertire i suoi fratelli. Suo padre le proibì di scrutare il futuro nelle carte e di evocare fantasmi e spiriti irrequieti che turbavano il resto della famiglia e terrorizzavano la servitù, ma Nivea capì che quante più limitazioni e paure avesse dovuto subire sua figlia minore, tanto più lunatica sarebbe diventata, sicché decise di lasciarla in pace con i suoi trucchi da spiritista, i suoi giochi da pitonessa e il suo silenzio da caverna, facendo in modo di amarla senza condizioni e di accettarla così com'era. Clara crebbe come una pianta selvatica, nonostante le esortazioni del dottor Cuevas, che aveva portato dall'Europa la novità dei bagni d'acqua fredda e delle scosse elettriche per curare i matti.
Barrabás stava accanto alla bambina giorno e notte, tranne che nei suoi normali periodi di attività sessuale. Le stava sempre intorno come una gigantesca ombra silenziosa come la bambina, si stendeva ai suoi piedi quando lei si sedeva e di notte le dormiva al fianco con sbuffi da locomotiva. Si affiatò talmente con la sua padrona, che quando lei si metteva a fare la sonnambula per la casa, il cane la seguiva con lo stesso atteggiamento. Nelle notti di luna piena era normale vederli passeggiare per i corridoi, come due fantasmi che galleggiassero nella pallida luce. A mano a mano che il cane cresceva, si fecero evidenti le sue distrazioni. Non capì mai la natura trasparente del vetro e nei suoi momenti di emozione era solito investire la finestra al trotto, con l'innocente intento di afferrare qualche mosca. Cadeva dall'altra parte in uno strepito di vetri rotti, stupito e triste. A quell'epoca i vetri arrivavano dalla Francia per nave e la mania dell'animale di gettarvisi contro divenne un problema, finché Clara non ideò la soluzione estrema di pitturare gatti sui vetri. Fattosi adulto, Barrabás smise di fornicare con le gambe del piano, come faceva durante l'infanzia, e il suo istinto di riproduzione si manifestava solo quando annusava qualche cagnetta in calore nelle vicinanze. In quelle occasioni non c'erano catene o porte che potessero trattenerlo, si lanciava in strada superando tutti gli ostacoli che gli si paravano davanti e si perdeva per due o tre giorni. Tornava sempre con la povera cagnetta appesa dietro, sospesa in aria, trafitta dalla sua enorme mascolinità. Bisognava nascondere i bambini affinché non vedessero l'orrendo spettacolo del giardiniere che lo bagnava con acqua fredda, finché, dopo molta acqua, pedate e altre ignominie, Barrabás non si staccava dalla sua innamorata, lasciandola agonizzante nel cortile della casa, dove Severo doveva finirla con un colpo di grazia.
L'adolescenza di Clara trascorse dolcemente nella grande casa a tre cortili dei suoi genitori, vezzeggiata dai suoi fratelli maggiori, da Severo che la prediligeva fra tutti i suoi figli, da Nivea e dalla Nana, che alternava le sue sinistre incursioni mascherata da babau, con le più tenere cure. Quasi tutti i suoi fratelli si erano sposati o erano partiti, chi per viaggiare, chi per lavorare in provincia e la grande casa, che aveva ospitato una famiglia numerosa, era quasi vuota, con molte stanze chiuse. La bimba occupava il tempo che i suoi precettori le lasciavano libero leggendo, muovendo gli oggetti più disparati senza toccarli, inseguendo Barrabás, facendo giochi di divinazione e imparando a lavorare a maglia che, fra tutti i lavori domestici, era l'unico che sapeva fare bene. Da quel Giovedì Santo in cui padre Restrepo l'aveva accusata di essere indemoniata, ci fu un'ombra sulla sua testa che l'amore dei genitori e la discrezione delle sue sorelle riuscì a tenere sotto controllo, ma la fama delle sue strane abilità circolava a bassa voce nelle riunioni delle signore. Nivea si rese conto che nessuno invitava sua figlia e perfino i suoi stessi cugini la evitavano. Fece in modo da compensare la mancanza di amici con la sua dedizione completa, con un successo tale che Clara crebbe allegramente e negli anni successivi avrebbe ricordato la sua infanzia come un periodo luminoso della sua esistenza, nonostante la solitudine e il mutismo. Per tutta la vita avrebbe serbato nella memoria le serate spartite con la madre all'uscita della stanza da lavoro dove Nivea cuciva a macchina indumenti per i poveri e le raccontava storie e aneddoti di famiglia. Le indicava i dagherrotipi sulle pareti e le narrava il passato.
– Vedi questo signore così serio, con una barba da bucaniere? è lo zio Matteo che se ne andò in Brasile per un affare di smeraldi ma una mulatta di fuoco gli fece il malocchio. Gli caddero i capelli, gli si staccarono le unghie, gli traballavano i denti. Dovette andare da un fattucchiere, uno stregone vodù, un negro nerissimo, che gli diede un amuleto e gli si fermarono i denti, gli spuntarono unghie nuove, gli ricrebbero i capelli. Guardalo, figliola, ha più capelli di un indiano: è l'unico calvo nel mondo a cui siano tornati i capelli.
Clara sorrideva senza dire niente e Nivea seguitava a parlare perché si era abituata al silenzio di sua figlia. D'altro canto aveva la speranza che a furia di metterle idee nella testa, prima o poi avrebbe fatto una domanda e avrebbe recuperato la parola.
– E questo – diceva – è lo zio Juan. Gli volevo molto bene. Una volta mollò una scoreggia e fu la sua condanna a morte, una gran disgrazia. Accadde a una colazione sull'erba. Era una fragrante giornata di primavera e tutte noi cugine eravamo riunite, con i nostri vestiti di mussolina e i capelli con nastri e fiori, e i ragazzi sfoggiavano i loro migliori abiti della domenica. Juan si tolse la sua giacchetta bianca, mi sembra di vederlo! si rimboccò le maniche della camicia e si appese gagliardo al ramo di un albero per suscitare, con prodezze da trapezista, l'ammirazione di Costanza Andrade, che era stata eletta regina della vendemmia, perché dalla prima volta che lui l'aveva vista, aveva perso la pace, divorato dall'amore. Juan fece due flessioni perfette, un giro completo e al movimento successivo lanciò una sonora ventosità. Non ridere, Clarita! Fu terribile. Calò un silenzio confuso e la regina della vendemmia cominciò a ridere senza ritegno. Juan s'infilò la giacca, era molto pallido, si allontanò in fretta dal gruppo e non lo vedemmo mai più. Lo cercarono perfino nella Legione Straniera, chiesero di lui in tutti i consolati, ma non si seppe mai più nulla della sua esistenza. Io credo che si sia fatto missionario e che se ne sia andato a curare lebbrosi nell'Isola di Pasqua, che è il posto più lontano dove si possa arrivare per dimenticare e per essere dimenticati, perché rimane fuori delle rotte di navigazione e non è neppure segnato sulle mappe olandesi. Da allora la gente lo ricorda come Juan della Scoreggia.
Nivea portava sua figlia alla finestra e le indicava il tronco secco di pioppo.
– Era un albero enorme – diceva. – L'ho fatto tagliare prima che nascesse il mio figlio maggiore. Dicono fosse così alto che dalla punta si poteva vedere tutta la città, ma l'unico che sia andato in cima non aveva occhi per vederla. Ogni uomo della famiglia del Valle, quando era tempo di mettersi i pantaloni lunghi, ha dovuto arrampicarvisi per dar prova di coraggio. Era qualcosa come un rito d'iniziazione. L'albero era pieno di tacche. Io stessa ho potuto verificarlo quando l'hanno abbattuto. Dai primi rami intermedi, come canne fumarie, si potevano già vedere le tacche lasciate dai nonni che avevano compiuto l'ascesa ai loro tempi. Dalle iniziali incise nel tronco si sapeva di quelli che erano saliti più in alto, dei più coraggiosi, e anche di quelli che avevano rinunciato, spaventati. Un giorno toccò a Jerónimo, il cugino cieco. Salì tastando i rami senza vacillare, perché non vedeva l'altezza e non temeva il vuoto. Arrivò in cima, ma non poté finire la lettera iniziale del suo nome perché si staccò come un baccello e cadde a terra di testa, ai piedi di suo padre e dei suoi fratelli. Aveva quindici anni. Portarono il corpo avvolto in un lenzuolo a sua madre, la povera donna sputò in faccia a tutti, gridò insulti da marinaio e maledisse la razza degli uomini che avevano incitato suo figlio a salire sull'albero, finché le monache della Caridad non se la portarono via legata in una camicia di forza. Io sapevo che un giorno i miei figli avrebbero dovuto continuare questa barbara tradizione. Perciò lo feci tagliare. Non volevo che Luis e gli altri bambini crescessero con l'ombra di quel patibolo alla finestra.
Talvolta Clara accompagnava sua madre e due o tre amiche suffragette a visitare fabbriche, dove si issavano su grandi casse per arringare le operaie, mentre a prudente distanza, i capisquadra e i padroni le osservavano ridanciani e aggressivi. Nonostante la sua tenera età e la sua totale ignoranza delle cose del mondo, Clara poteva percepire l'assurdità della situazione e descriveva nei suoi quaderni il contrasto provocato da sua madre e dalle sue amiche con pellicce e stivaletti di camoscio, che parlavano di oppressione, di uguaglianza e diritti a un gruppo triste e rassegnato di operaie con i loro duri grembiuli di tela e le mani arrossate dai geloni. Dalla fabbrica le suffragette se ne andavano alla pasticceria della Plaza de Armas a prendere il tè con pasticcini e a discutere dei problemi della campagna politica, senza che questa frivola distrazione le spostasse nemmeno di un millimetro dai loro infiammati ideali. A volte sua madre la portava nei quartieri periferici e nei rioni popolari in cui arrivavano con la carrozza carica di generi alimentari, d'indumenti che Nivea e le sue amiche preparavano per i poveri. Anche in questi casi la bimba scriveva con stupefacente intuito che le opere di carità non potevano mitigare la monumentale ingiustizia. Il rapporto con sua madre era allegro e intimo, e Nivea, nonostante avesse avuto quindici figli, la trattava come se fosse l'unica, annodando un vincolo così forte, che si protrasse fra le generazioni successive come una tradizione familiare.
La Nana si era trasformata in una donna senza età, che conservava intatta la forza della sua gioventù e poteva saltellare negli angoli per spaventare il mutismo, così come poteva trascorrere la giornata rimestando con un bastone la marmitta di rame, su un fuoco d'inferno in mezzo al terzo cortile, dove gorgogliava la marmellata di cotogne, un liquido spesso color del topazio, che raffreddandosi si trasformava in forme di ogni dimensione che Nivea distribuiva ai suoi poveri. Abituata a vivere circondata da bambini, quando la maggior parte di questi erano cresciuti e se n'erano andati, la Nana aveva riversato su Clara tutta la sua tenerezza. Anche quando la bambina non ne aveva più l'età, le faceva il bagno come a una creatura, tenendola a mollo nella bagnarola smaltata e piena d'acqua profumata al basilico e al gelsomino, la strofinava con una spugna, la insaponava meticolosamente senza dimenticare alcun interstizio delle orecchie e dei piedi, la frizionava con acqua di colonia, la incipriava con un piumino di cigno e le spazzolava i capelli con infinita pazienza, fino a farli diventare brillanti e docili come una pianta marina. La vestiva, le apriva la stanza, le portava la colazione su un vassoio, la obbligava a bere infusi di tiglio per i nervi, di camomilla per lo stomaco, di limone per la trasparenza della pelle, di ruta per la bile, di menta per la freschezza dell'alito, finché la bambina non si trasformò in un essere angelico e bello che passeggiava per i cortili e i corridoi avvolta in un aroma di fiori, un fruscio di gonne inamidate e un alone di riccioli e nastri.
Clara trascorse l'infanzia ed entrò nella giovinezza fra le pareti della sua casa, in un mondo di storie stupefacenti, di silenzi tranquilli, in cui il tempo non era scandito da orologi e da calendari e dove gli oggetti avevano una vita propria, le apparizioni si sedevano a tavola e parlavano con gli umani, il passato e il futuro facevano parte della stessa cosa e la realtà del presente era un caleidoscopio di specchi disordinati in cui tutto poteva succedere. È una delizia per me leggere i quaderni di quell'epoca, in cui è descritto un mondo magico che è finito. Clara abitava un universo inventato da lei, protetta dalle avversità della vita, dove la verità prosaica delle cose materiali si confondeva con la verità tumultuosa dei sogni, nei quali non sempre funzionavano le leggi della fisica e della logica. Clara visse questo periodo immersa nelle sue fantasie, accompagnata dagli spiriti dell'aria, dell'acqua e della terra, così felice da non provare la necessità di parlare per nove anni. Tutti avevano perso la speranza di sentirle di nuovo la voce, quando il giorno del suo compleanno, dopo avere soffiato sulle diciannove candeline della sua torta al cioccolato, inaugurò una voce che era stata custodita per tutto quel tempo e che aveva risonanza da strumento scordato.
– Presto mi sposerò – disse.
– Con chi? – chiese Severo.
– Col fidanzato di Rosa – rispose.
E allora si resero conto che aveva parlato per la prima volta in tutti quegli anni e il prodigio scosse la casa nelle sue fondamenta e provocò il pianto di tutta la famiglia. Si chiamarono l'un l'altro, si sparse la notizia per la città, consultarono il dottor Cuevas che non poteva crederci e nella confusione suscitata dal fatto che Clara aveva parlato, tutti dimenticarono quello che aveva detto e non se ne ricordarono fino a due mesi dopo, quando comparve Esteban Trueba, che non avevano più visto dopo la sepoltura di Rosa, a chiedere la mano di Clara.
Esteban Trueba scese alla stazione e portò da solo le sue due valigie. La tettoia di ferro che avevano costruito gli inglesi imitando la Stazione Vittoria, ai tempi in cui avevano la concessione delle ferrovie nazionali, non era per nulla cambiata dall'ultima volta che era stato lì anni prima, gli stessi vetri sudici, gli stessi bambini lustrascarpe, le stesse venditrici di pane all'uovo e di dolci creoli e gli stessi facchini dai berretti scuri con lo stemma della corona britannica, che a nessuno era venuto in mente di sostituire con un altro dai colori della bandiera. Prese una carrozza e diede l'indirizzo della casa di sua madre. La città gli sembrò sconosciuta, c'era un disordine di modernità, un putiferio di donne che mostravano i polpacci, di uomini con panciotto e pantaloni con risvolto, un fracasso di operai che facevano perforazioni nella rete stradale, che toglievano alberi per sistemare pali, che toglievano pali per sistemare edifici, che toglievano edifici per piantare alberi, una confusione di venditori ambulanti che gridavano le meraviglie dell'affilacoltelli, delle noccioline americane, del bambolotto che balla da solo, senza fili, senza cavi, lo provi lei stesso, lo prenda in mano, un vento d'immondezzai, di fritture miste, di fabbriche, di automobili che s'intoppavano fra le carrozze e i tram a trazione a sangue, come chiamavano i cavalli vecchi che tiravano gli omnibus, un ansimare di folla, un rumore di corse, di andirivieni frettoloso, d'impazienza e di orario fisso. Esteban si sentì oppresso. Odiava quella città molto più di quanto ricordasse, evocò i pioppeti della campagna, il tempo misurato dalle piogge, la vasta solitudine dei suoi campi, la fresca quiete del fiume e della sua casa silenziosa.
– È una città di merda – concluse.
La carrozza lo portò al trotto alla casa dov'era cresciuto. S'impressionò vedendo come si era deteriorato il quartiere in quegli anni, da quando i ricchi avevano voluto vivere più in alto degli altri, e la città era cresciuta sino alle falde della cordigliera. Della piazza dove giocava da bambino, non rimaneva nulla, era un posto incolto pieno di banchi del mercato sistemati in mezzo alle immondizie tra cui frugavano i cani randagi. La sua casa era slabbrata. Vide tutti i segni del passar del tempo. Sulla porta a vetri, con motivi di uccelli esotici incisi sul cristallo, passata di moda e sgangherata, c'era un batacchio di bronzo a forma di mano femminile che stringeva una palla. Bussò e dovette aspettare un tempo che gli parve interminabile, finché la porta non si aprì allo strattone di una corda che andava dal battente fino alla porta superiore della scala. Sua madre abitava al secondo piano e affittava il pianoterra a una fabbrica di bottoni. Esteban cominciò a salire i gradini scricchiolanti che non erano stati incerati da molto tempo. Una vecchissima donna di servizio, della cui esistenza si era dimenticato completamente, lo aspettava in cima e lo accolse con lacrimose manifestazioni di affetto, nello stesso modo in cui lo accoglieva a quindici anni, quando tornava dallo studio notarile dove si guadagnava da vivere copiando cessioni di proprietà e di poderi sconosciuti. Nulla era cambiato, neppure la collocazione dei mobili, ma tutto sembrò diverso a Esteban, il corridoio dal pavimento di legno rovinato, qualche vetro rotto, mal rattoppato con pezzi di cartone, qualche felce polverosa che languiva in giare ossidate e in portavasi di maiolica scheggiati, un fetore di cibo e di piscio che rivoltava lo stomaco: "Che povertà!" pensò Esteban senza spiegarsi dove andava a finire tutto il denaro che mandava a sua sorella per vivere decentemente.
Férula gli andò incontro con una triste smorfia di benvenuto. Era molto mutata, non era più la donna opulenta che aveva lasciato anni prima, era dimagrita e il naso sembrava enorme sul suo viso angoloso, aveva un'aria di malinconia e di foschezza, un odore intenso di lavanda e di abiti vecchi. Si abbracciarono in silenzio.
– Come sta la mamma? – chiese Esteban.
– Vieni a vederla, ti aspetta – disse lei.
Passarono per un corridoio di stanze comunicanti tra loro, tutte uguali, buie, di pareti funebri, di soffitti alti e di finestre strette con tappezzeria di carta a fiori scoloriti e fanciulle languide macchiate dalla caligine dei bracieri e dalla patina del tempo e della povertà. Da molto lontano giungeva la voce di un annunciatore della radio che propagandava le pillole del dottor Ross piccole ma efficaci, che combattono la stitichezza, l'insonnia e l'alito cattivo. Si fermarono dinanzi alla porta chiusa della camera di donna Ester.
– È qui – disse Férula.
Esteban aprì la porta e gli ci vollero alcuni secondi per vedere nell'oscurità. L'odore di medicine e di marcio lo colpì in faccia, un odore dolciastro di sudore, di umidità di ambiente chiuso e di qualcosa che dapprima non riuscì a identificare, ma che immediatamente gli aderì come un morbo: l'odore della carne in decomposizione. La luce entrava come un filo dalla finestra socchiusa, vide il letto matrimoniale dov'era morto suo padre e dove aveva dormito sua madre dal giorno delle nozze, un letto di legno nero intagliato, con baldacchino di angeli sbalzati e alcuni brandelli di broccato rosso avvizziti dall'uso. Sua madre stava semiseduta. Era un blocco di carne compatta, una mostruosa piramide di grasso e d'indumenti, che finiva in una piccola testa calva con gli occhi dolci, sorprendentemente vivi, azzurri e innocenti. L'artrite l'aveva trasformata in un essere monolitico, non poteva piegare le articolazioni né girare la testa, aveva le dita rattrappite come le zampe di un fossile, e per mantenere la posizione nel letto aveva bisogno dell'appoggio di una cassa dietro alle spalle, sorretta da un trave di legno che a sua volta si appoggiava alla parete. Si notava il trascorrere degli anni dai segni che il trave aveva scalfito nel muro, una traccia di sofferenza, un sentiero di dolore.
– Mamma... – mormorò Esteban e la voce gli si ruppe nel petto in un pianto trattenuto, che cancellava con un colpo di spugna i ricordi tristi, l'infanzia povera, gli odori rancidi, le mattinate fredde e la minestra unta della sua infanzia, la madre malata, il padre assente e quella rabbia che gli logorava le budella dal giorno in cui aveva raggiunto l'uso della ragione, che dimenticava tutto meno gli unici momenti luminosi in cui quella donna sconosciuta che giaceva nel letto l'aveva cullato tra le braccia, gli aveva toccato la fronte per sentire se aveva la febbre, gli aveva cantato una ninnananna, si era chinata con lui sulle pagine di un libro, aveva singhiozzato di pena vedendolo alzarsi all'alba per andare al lavoro quando era ancora un ragazzino, aveva singhiozzato di allegria vedendolo tornare di notte, aveva singhiozzato, madre, per me.
Donna Ester tese la mano, ma non era un saluto, bensì un gesto per trattenerlo.
– Figlio, non si avvicini – e aveva la voce intatta, così come la ricordava, la voce canterina e sana di una giovinetta.
– È per l'odore – chiarì Férula seccamente. – Si appiccica.
Esteban tolse la coperta di damasco sfilacciato e vide le gambe di sua madre. Erano due colonne livide, elefantesche, coperte di piaghe in cui le larve delle mosche e i vermi facevano nidi e scavavano gallerie, due gambe che marcivano vive, con due piedi sproporzionati di un pallido colore azzurro, senza unghie alle dita, che scoppiavano nel loro stesso pus, nel sangue nero, nella fauna abominevole che si nutriva della sua carne, madre, in nome di Dio, della mia carne.
– Il dottore vuole tagliarmele, figlio – disse Ester con la sua tranquilla voce da ragazza, – ma sono troppo vecchia per questo e sono molto stanca di soffrire, così è meglio che muoia. Ma non volevo morire senza vederla, perché in tutti questi anni ero arrivata al punto da pensare che lei fosse morto e che le sue lettere le scrivesse sua sorella, per non darmi questo dolore. Si metta alla luce, figlio, perché possa vederla bene. In nome di Dio! Sembra un selvaggio!
– È la vita di campagna, mamma – mormorò lui.
– Davvero! Sembra ancora forte. Quanti anni ha?
– Trentacinque.
– L'età giusta per sposarsi e per mettere la testa a posto, affinché io possa morire in pace.
– Lei non morirà, mamma! – supplicò Esteban.
– Voglio essere sicura che avrò dei nipoti, qualcuno che abbia il mio sangue, che conservi il nostro nome. Férula ha perso la speranza di sposarsi, ma lei deve cercarsi una moglie. Una donna per bene e cristiana. Ma prima deve tagliarsi quei capelli e quella barba, mi ha sentita?
Esteban annuì. S'inginocchiò accanto a sua madre e le affondò il viso nella mano gonfia, ma l'odore lo spinse indietro. Férula lo prese per un braccio e lo fece uscire da quella stanza da incubo. Fuori respirò profondamente, con l'odore appiccicato alle narici e allora sentì la rabbia, la sua rabbia tanto nota salirgli come un'ondata calda alla testa, iniettargli gli occhi, mettere bestemmie da bucaniere sulle sue labbra, rabbia per il tempo trascorso senza pensare a lei madre, rabbia per non essermi interessato a lei, per non averla amata e curata abbastanza, rabbia per essere un miserabile figlio di puttana, no, scusi, madre, non volevo dire questo, cazzo, sta morendo, vecchia e io non posso fare niente, neppure mitigarle il dolore, alleviarle la putredine, toglierle quest'odore spaventoso, questo brodo di morte nel quale sta cuocendo, madre.
Due giorni dopo, donna Ester morì nel letto dei suoi tormenti dove aveva tribolato negli ultimi anni della sua vita. Era sola, perché sua figlia Férula era andata, come tutti i venerdì, nei rioni dei poveri, nel quartiere della Misericordia, a recitare il rosario per gli indigenti, per gli atei, per le prostitute e per gli orfani, che le tiravano dietro porcherie, le rovesciavano in testa vasi da notte e le sputavano addosso, mentre lei, in ginocchio nel vicolo del rione, gridava padrenostri e avemarie in un'instancabile litania, sgocciolante del sudiciume dei poveri, degli sputi degli atei, dei rifiuti delle prostitute e dell'immondizia degli orfani, piangendo ah che umiliazione, chiedendo perdono per coloro che non sanno quello che fanno e sentendo che le ossa le diventavano molli, che un languore mortale le trasformava le gambe in bambagia, che un calore d'estate le infondeva peccato tra le cosce, allontana da me questo calice, Signore, che il ventre le scoppiava in fiamme infernali ah, di santità, di paura, padrenostro, non mi far cadere in tentazione, Gesù.
Neppure Esteban era con donna Ester quando questa morì silenziosamente nel letto dei tormenti. Era andato a trovare la famiglia del Valle per vedere se avevano ancora qualche figlia nubile, perché dopo tanti anni di assenza e di imbarbarimento, non sapeva da dove cominciare per compiere la promessa fatta alla madre di darle dei nipoti legittimi, e aveva concluso che se Severo e Nivea l'avevano accettato come genero ai tempi di Rosa la bella, non c'era alcun motivo che non lo accettassero di nuovo, specialmente adesso che era un uomo ricco e non doveva scavare la terra per strapparle il suo oro, bensì aveva tutto il necessario sul suo conto in banca.
Esteban e Férula trovarono quella notte la madre morta nel letto. Aveva un sorriso calmo, come se nell'ultimo istante della vita la malattia avesse voluto risparmiarle la sua quotidiana tortura.
Il giorno in cui Esteban Trueba aveva chiesto di essere ricevuto, Severo e Nivea del Valle ricordarono le parole con cui Clara aveva infranto il suo lungo mutismo, sicché non mostrarono alcuno stupore quando l'ospite chiese loro se non avevano qualche figlia in età e condizione per sposarsi. Fecero i conti e gli riferirono che Anna si era fatta monaca, Teresa era molto malata e tutte le altre erano sposate, meno Clara, la minore, che era ancora disponibile, ma era una creatura un po' stramba, poco adatta alle responsabilità matrimoniali e alla vita domestica. Con molta onestà gli raccontarono le stranezze della loro figlia minore, senza omettere il fatto che era rimasta senza parlare per metà della sua esistenza, perché non aveva voglia di farlo e non perché non poteva, come aveva chiarito molto bene il rumeno Rostipov e confermato il dottor Cuevas con innumerevoli visite. Ma Esteban Trueba non era uomo da lasciarsi intimorire da storie di fantasmi che girano per i corridoi, da oggetti che si muovono a distanza col potere della mente o da presagi di sventura, e molto meno dal protratto silenzio, che considerava una virtù. Concluse che nessuna di queste cose rappresentava degli inconvenienti per mettere al mondo figli sani e legittimi e chiese di conoscere Clara. Nivea andò a cercare sua figlia e i due uomini rimasero soli nella sala, circostanza di cui Trueba approfittò, con la sua franchezza abituale, per esporre senza preamboli la sua situazione economica.
– Per favore, non vada avanti, Esteban! – lo interruppe Severo. – Prima di tutto deve vedere la bambina, conoscerla meglio e poi dobbiamo tenere in considerazione i desideri di Clara. Non le pare?
Nivea tornò con Clara. La giovane entrò nella sala con le guance arrossate e le unghie nere, perché era stata ad aiutare il giardiniere a piantare bulbi di dalie e in quell'occasione le era venuta meno la chiaroveggenza per aspettare il futuro fidanzato con un aspetto più accurato. Vedendola, Esteban si alzò meravigliato. La ricordava come una creatura magra e asmatica, senza la minima grazia, ma la giovane che gli stava davanti era un delicato medaglione di avorio, con il viso dolce e un cespuglio di capelli castani, crespi e disordinati che le sfuggivano in riccioli dalla pettinatura, occhi malinconici, che si trasformavano in un'espressione burlesca e scintillante quando rideva, con una risata franca e aperta, con la testa leggermente china all'indietro. Lo salutò con una stretta di mano senza mostrare timidezza.
– Stavo aspettandola – disse semplicemente.
Passarono un paio d'ore in visita di cortesia, parlando della stagione lirica, dei viaggi in Europa, della situazione politica e dei raffreddori dell'inverno, bevendo vino dolce e mangiando dolci di pasta sfoglia. Esteban osservava Clara con tutta la discrezione di cui era capace, sentendosi a poco a poco sedotto dalla ragazza. Non si ricordava di avere provato tanto interesse per qualcuno dal giorno glorioso in cui aveva visto Rosa, la bella, che comprava caramelle all'anice nella pasticceria della Plaza de Armas. Confrontò le due sorelle e giunse alla conclusione che Clara era avvantaggiata in simpatia, sebbene Rosa, senza dubbio, era stata molto più bella. Calò la sera ed entrarono due cameriere a tirare le tende e ad accendere le luci, allora Esteban si rese conto che la sua visita era durata troppo. Le sue maniere lasciavano molto a desiderare. Salutò rigidamente Severo e Nivea e chiese il permesso di visitare Clara di nuovo.
– Spero di non annoiarla, Clara – disse arrossendo. – Sono un uomo rude, di campagna, e sono di almeno quindici anni più vecchio. Non ci so fare con una giovane come lei...
– Lei vuole sposarsi con me? – chiese Clara e lui notò un brillio ironico nelle sue pupille nocciola.
– Clara, per l'amor di Dio! – esclamò sua madre inorridita. – La scusi, Esteban, questa bambina è sempre stata molto impertinente.
– Voglio saperlo, mamma, per non perdere tempo – disse Clara.
– Anche a me piacciono le cose dirette – sorrise felice Esteban. – Sì, Clara, sono venuto per questo.
Clara lo prese per un braccio e lo accompagnò fino all'uscita. Dall'ultimo sguardo che si erano scambiati Esteban aveva capito che l'aveva accettato e fu invaso dall'allegria. Salendo sulla carrozza, sorrideva senza poter credere alla sua fortuna e senza sapere perché una giovane così incantevole come Clara l'avesse accettato senza conoscerlo. Non sapeva che lei aveva visto il proprio destino, per questo l'aveva chiamato col pensiero ed era disposta a sposarsi senza amore.
Lasciarono trascorrere qualche mese per rispetto al lutto di Esteban, durante i quali lui la corteggiò all'antica, nello stesso modo in cui l'aveva fatto con sua sorella Rosa, senza sapere che Clara detestava le caramelle all'anice e gli acrostici la facevano ridere. A fine anno, vicino a Natale, annunciarono ufficialmente il loro fidanzamento sui giornali e si scambiarono gli anelli davanti ai parenti e agli amici intimi, durante un banchetto pantagruelico, in cui sfilarono vassoi con tacchini ripieni, i maiali caramellati, i gongri in acqua fredda, le aragoste gratinate, le ostriche vive, le torte di arance e limone delle Carmelitane, di mandorle e noci delle Domenicane, cioccolato e crème caramel delle Clarisse e casse di champagne fatte venire dalla Francia tramite il console, che faceva contrabbando grazie ai suoi privilegi diplomatici, ma il tutto presentato con gran semplicità dalle vecchie domestiche della casa, con i loro grembiuli neri di tutti i giorni, per dare al festino l'aspetto di una modesta riunione familiare, perché qualsiasi stravaganza era una prova di ciarlataneria ed era condannata come un peccato di vanità mondana, come un segno di cattivo gusto, per via dell'austerità degli antenati e un che di lugubre di quella società discendente dai più valorosi e grandi castigliani e baschi. Clara era una visione, in pizzo di Chantilly bianco e camelie naturali, che si liberava come un pappagallino felice dei nove anni di silenzio, ballando col suo fidanzato sotto i padiglioni e le luci, del tutto incurante degli avvisi degli spiriti che le facevano segnali disperati dalle tende, ma che nella ressa e nella confusione lei non vedeva. La cerimonia dello scambio degli anelli era rimasta immutata dai tempi della Colonia. Alle dieci di sera, un servitore passò fra gli invitati agitando un campanellino di cristallo, tacque la musica, si arrestò il ballo e gli invitati si riunirono nel salone principale. Un sacerdote piccolo e innocente, vestito dei paramenti della messa grande, lesse l'ingarbugliato discorso che aveva preparato, decantando confuse e impraticabili virtù. Clara non l'ascoltò, perché quando si erano spenti lo strepito della musica e il fruscio dei ballerini, prestò attenzione ai sussurri degli spiriti fra le tende e si rese conto che da molte ore non vedeva Barrabás. Lo cercò con lo sguardo, aveva i sensi all'erta, ma una gomitata della madre la restituì alla cerimonia. Il sacerdote terminò il suo discorso, benedisse gli anelli d'oro e subito Esteban ne infilò uno al dito della sua fidanzata e lei al suo.
In quel momento un grido di orrore scosse la folla. La gente si fece da parte aprendo un varco attraverso cui entrò Barrabás, più grosso e più nero che mai, con un coltello da macellaio infilato fino al manico nella schiena, dissanguandosi come un bue, con le lunghe zampe da puledro tremanti, il muso che sbavava un filo di sangue, gli occhi annebbiati dall'agonia, un passo dopo l'altro, trascinando una zampa dietro l'altra, in un'avanzata zigzagante da dinosauro finito. Clara cadde a sedere sul divano di seta francese. Il cagnone le si avvicinò, le posò la grossa testa da fiera millenaria sulla gonna e rimase a guardarla con i suoi occhi innamorati, che si andavano offuscando e diventando ciechi, mentre il bianco pizzo di Chantal e la seta francese del divano, il tappeto persiano e il palchetto s'inzuppavano di sangue. Barrabás si spense, morendo senza alcuna fretta, con gli occhi fissi su Clara, che gli accarezzava le orecchie e mormorava parole di conforto, finché non cadde e con un unico rantolo rimase stecchito. Allora tutti sembrarono svegliarsi da un incubo e un brusio di spavento percorse il salone, gli invitati cominciarono a salutare frettolosamente, a fuggire schivando le pozze di sangue, riprendendosi al volo le loro stole di pelliccia, i loro cappelli a bombetta, i loro bastoni, i loro ombrelli, le loro borse. Nel salone della festa rimasero solamente Clara con la bestia in grembo, i suoi genitori che si abbracciavano paralizzati dal cattivo presagio e il fidanzato che non capiva la causa di tanto scompiglio per un semplice cane morto, ma allorché si rese conto che Clara sembrava tramortita, la prese in braccio e la portò in deliquio nella sua stanza, dove le cure della Nana e i sali del dottor Cuevas impedirono che ricadesse nello stupore e nel mutismo. Esteban Trueba chiese aiuto al giardiniere e insieme gettarono nella carrozza il cadavere di Barrabás, che con la morte era aumentato di peso ed era ormai quasi impossibile sollevarlo.
L'anno trascorse nei preparativi delle nozze. Nivea si occupò del corredo di Clara, la quale non dimostrava il minimo interesse per il contenuto dei bauli di sandalo e continuava a far esperimenti col suo tavolino a tre gambe e le sue carte divinatrici. Le lenzuola ricamate con maestria, le tovaglie di lino e la biancheria intima che dieci anni prima avevano fatto le monache con le iniziali intrecciate di Trueba e del Valle, servirono per il corredo di Clara. Nivea ordinò a Buenos Aires, a Parigi e a Londra vestiti da viaggio, indumenti per la campagna, abiti da sera, cappellini alla moda, scarpe e borsette di pelle di lucertola e di camoscio, e altre cose che vennero riposte nella carta di seta e conservate con lavanda e canfora, senza che la fidanzata desse loro niente di più che un'occhiata distratta.
Esteban Trueba si mise alla testa di una squadra di muratori, falegnami e idraulici, per costruire la casa più solida, ampia e soleggiata che si potesse concepire, destinata a durare mille anni e a ospitare varie generazioni di una numerosa famiglia di Trueba legittimi. Ordinò il progetto a un architetto francese e fece venire la maggior parte dei materiali dall'estero affinché la sua casa fosse l'unica con vetrate tedesche, zoccoli scolpiti in Austria, rubinetteria di bronzo inglese, marmi italiani sui pavimenti e serrature richieste su catalogo negli Stati Uniti, che giunsero con le istruzioni sbagliate e senza chiavi. Férula, inorridita per le spese, fece in modo di evitare che continuasse a far pazzie comprando mobili francesi, lampadari a goccia e tappeti turchi, adducendo che avrebbero finito per rovinarsi e avrebbero di nuovo ripetuto la storia del Trueba stravagante che li aveva messi al mondo, ma Esteban le dimostrò che era sufficientemente ricco per permettersi quei lussi e la minacciò di foderare le porte d'argento se continuava a infastidirlo. Allora lei aggiunse che tanto spreco era sicuramente un peccato mortale e che Dio li avrebbe castigati tutti per avere speso in ciarlatanerie da nuovo ricco quello che sarebbe stato meglio impiegato per aiutare i poveri.
Malgrado Esteban Trueba non fosse amante delle innovazioni, anzi, al contrario, avesse molta sfiducia nella rivoluzione della modernità, aveva deciso che la sua casa doveva essere costruita come le palazzine d'Europa e del Nordamerica, con tutte le comodità, pur rispettando uno stile classico. Desiderava che fosse il più lontano possibile dall'architettura aborigena. Non voleva tre cortili, corridoi, fontane striminzite, stanze buie, pareti di mattoni imbiancate a calce, né tegole polverose, bensì due o tre piani arditi, file di bianche colonne, una scalinata signorile che facesse mezzo giro su se stessa e finisse su un ingresso di marmo bianco, finestre grandi e illuminate e, in generale, un aspetto di ordine e di armonia, di bellezza e di civiltà, tipico dei popoli stranieri e in consonanza con la sua nuova vita. La sua casa doveva essere il riflesso di lui, della sua famiglia e del prestigio che intendeva dare al nome che suo padre aveva macchiato. Voleva che lo splendore si vedesse fin dalla strada, perciò fece disegnare un giardino alla francese con un padiglione come a Versailles, aiuole di fiori, un prato liscio e perfetto, zampilli d'acqua e qualche statua raffigurante gli Dei dell'Olimpo e magari qualche prode indiano della storia americana, nudo e coronato di piume, per una concessione al patriottismo. Non poteva sapere che quella dimora solenne, cubica, compatta e presuntuosa, collocata come un cappello nel suo verde e geometrico contorno, avrebbe finito per riempirsi di protuberanze e di aggiunte, di molteplici scale a chiocciola che conducevano in luoghi vaghi, di torri, di finestrine che non si aprivano, di porte sospese nel vuoto, di corridoi ritorti e di occhi di bue che mettevano in comunicazione le stanze per parlarsi all'ora della siesta, secondo l'ispirazione di Clara, che ogniqualvolta aveva bisogno di sistemare un nuovo ospite faceva fabbricare un altro locale in qualunque punto e se gli spiriti le indicavano che c'era un tesoro nascosto o un cadavere insepolto nelle fondamenta, avrebbe fatto abbattere un muro, sino a trasformare la dimora in un labirinto incantato impossibile da pulire, che sfidava numerose leggi urbanistiche e municipali. Ma quando Trueba costruì quella che tutti chiamavano "la grande casa dell'angolo", aveva un desiderio di solennità, che cercava d'imporre a tutto quello che lo circondava, in ricordo delle privazioni della sua infanzia. Clara non andò mai a vedere la casa durante il periodo della costruzione. Sembrava che le interessasse come il suo corredo, e affidò le decisioni al suo fidanzato e alla sua futura cognata.
Alla morte di sua madre, Férula si era trovata sola e senza niente di utile cui dedicare la sua vita, in un'età in cui non s'illudeva di potersi sposare. Per un certo tempo era andata a visitare i rioni popolari ogni giorno, in una frenetica opera pia che le procurò una bronchite cronica e non portò alcuna pace alla sua anima tormentata. Esteban avrebbe voluto che viaggiasse, che si comprasse abiti e che si divertisse per la prima volta nella sua malinconica esistenza, ma lei aveva l'abitudine dell'austerità ed era stata troppo tempo chiusa nella sua casa. Aveva paura di tutto. Il matrimonio del fratello la immergeva nell'incertezza, perché pensava che sarebbe stato un motivo in più di allontanamento per Esteban, che era il suo unico appoggio. Temeva di finire i suoi giorni lavorando all'uncinetto in un ricovero per zitelle di buona famiglia, perciò si sentì molto felice quando scoprì che Clara era incompetente in tutte le cose di carattere domestico e ogni volta che doveva affrontare una decisione assumeva un'aria distratta e vaga. "È un po' idiota", aveva concluso Férula soddisfatta. Era evidente che Clara era incapace di amministrare la grande casa che suo fratello stava costruendo e che aveva bisogno d'aiuto. In modo sottile e indiretto fece sapere a Esteban che la sua futura moglie era un'inetta, e che lei, col suo spirito di sacrificio così ampiamente dimostrato, avrebbe potuto aiutarla ed era disposta a farlo. Esteban non seguiva la conversazione quando prendeva questa piega. A mano a mano che si avvicinava la data del matrimonio e si presentava l'urgenza di decidere la sua sorte, Férula cominciò a disperarsi. Convinta che con suo fratello non avrebbe ottenuto nulla, cercò l'occasione di parlare da sola con Clara e la avvicinò un sabato alle cinque del pomeriggio quando la vide passeggiare per strada. L'invitò all'Hotel Francese a prendere il tè. Le due donne si sedettero circondate da pasticcini alla crema e porcellane di Baviera, mentre in fondo al salone un'orchestra di signorine interpretava un malinconico quartetto d'archi. Férula osservava con dissimulazione la sua futura cognata, che sembrava avere quindici anni e che aveva ancora la voce stridula, per via degli anni di silenzio, senza sapere come affrontare l'argomento. Dopo una lunghissima pausa durante la quale mangiarono un vassoio di paste e bevvero due tazze di tè al gelsomino a testa, Clara si sistemò una ciocca di capelli che le cadeva sugli occhi, sorrise e diede un colpetto affettuoso con la sua mano su quella di Férula.
– Non preoccuparti. Vivrai con noi e noi due saremo come due sorelle – disse la ragazza.
Férula ebbe un sussulto, chiedendosi se non fossero veri i pettegolezzi sull'abilità di Clara di leggere nel pensiero degli altri. La sua prima reazione fu di orgoglio e avrebbe rifiutato l'offerta non foss'altro che per la bellezza del gesto, ma Clara non gliene diede il tempo. Si chinò e la baciò sulle guance con un candore tale, che Férula perse il controllo e scoppiò in singhiozzi. Era molto tempo che non piangeva più e constatò stupita il bisogno che aveva di un gesto di tenerezza. Non ricordava l'ultima volta che qualcuno l'aveva toccata spontaneamente. Pianse a lungo, sfogando molte tristezze e solitudini passate, tenendo per mano Clara, che l'aiutava a soffiarsi il naso e tra un singhiozzo e l'altro le dava altri pezzi di dolce e sorsi di tè. Rimasero a piangere e a parlare fino alle otto e quella sera, all'Hotel Francese, sigillarono un patto di amicizia che durò molti anni.
Appena finì il lutto per la morte di donna Ester e la grande casa dell'angolo fu sistemata, Esteban Trueba e Clara del Valle si sposarono con una cerimonia discreta. Esteban regalò a sua moglie un diadema di brillanti, che lei trovò molto grazioso, lo mise in una scatola da scarpe e subito dimenticò dove l'aveva messo. Fecero un viaggio in Italia e due giorni dopo l'imbarco Esteban si sentiva innamorato come un adolescente, nonostante il movimento della nave avesse immerso Clara in un mal di mare incontrollabile e lo stare al chiuso le avesse provocato l'asma. Seduto al suo fianco nella stretta cabina, mentre le applicava pezzuole bagnate sulla fronte e la sorreggeva quando vomitava, si sentiva profondamente felice e la desiderava con un'intensità ingiustificata, se si pensa alle condizioni pietose in cui si trovava. Il quarto giorno si svegliò un po' rinfrancata e andarono in coperta a guardare il mare. Vedendola col naso arrossato dal vento e ridente per qualsiasi pretesto, Esteban giurò a se stesso che prima o poi lei l'avrebbe amato così come lui aveva bisogno di essere amato, anche se per ottenerlo avesse dovuto ricorrere agli espedienti più estremi. Si rendeva conto che Clara non gli apparteneva e che se lei avesse continuato ad abitare in un mondo di apparizioni, di tavolini a tre gambe che si muovono da soli e di carte che scrutano il futuro, la cosa più probabile era che non gli sarebbe mai appartenuta. Non gli bastava neppure la spregiudicata e impudica sensualità di Clara. Desiderava molto più del suo corpo, voleva appropriarsi di quella materia imprecisa e luminosa che c'era nel suo intimo e che gli sfuggiva anche nei momenti in cui sembrava agonizzare di piacere. Sentiva che le sue mani erano molto pesanti, la sua voce molto dura, la sua barba molto pungente, la sua abitudine di violentare e di frequentare prostitute molto radicata, ma avesse anche dovuto rovesciarsi come un guanto, era deciso a sedurla.
Tornarono dalla luna di miele tre mesi dopo. Férula li aspettava nella casa nuova, che aveva ancora l'odore di pittura e di cemento fresco, piena di fiori e di vassoi di frutta, così come Esteban le aveva ordinato. Varcando la soglia per la prima volta, Esteban prese in braccio la moglie. Sua sorella si sorprese di non provare gelosia e osservò che Esteban sembrava ringiovanito.
– Ti ha fatto bene il matrimonio – disse.
Portò Clara in giro per la casa. Lei sorvolava con lo sguardo e trovava tutto molto carino, con la stessa cortesia con cui aveva lodato un tramonto in alto mare, la piazza San Marco o il diadema di brillanti. Sulla soglia della stanza a lei destinata le chiese di chiudere gli occhi e la condusse per mano fin nel mezzo.
– Ora puoi aprirli – disse affascinato.
Clara si guardò intorno. Era una stanza grande con le pareti tappezzate di azzurro, mobili inglesi, grandi finestre con balconi aperti sul giardino e un letto con baldacchino e tende di velo che la facevano assomigliare a un veliero che navigasse sull'acqua quieta della seta azzurra.
– Molto carino – disse Clara.
Allora Esteban le indicò il punto dove posava i piedi. Era la meravigliosa sorpresa che le aveva preparato. Clara abbassò gli occhi e cacciò un grido spaventoso; se ne stava sulla schiena nera di Barrabás, che giaceva a gambe aperte, trasformato in tappeto, con la testa intatta e due occhi di vetro che la guardavano con l'espressione di abbandono propria della tassidermia. Suo marito fece in tempo a reggerla prima che cadesse al suolo.
– Te l'avevo detto che non le sarebbe piaciuto, Esteban – disse Férula.
Il corpo conciato di Barrabás venne rapidamente tolto dalla stanza e gettato in un angolo della cantina, insieme ai libri di magia dei bauli incantati dello zio Marcos e ad altri tesori, dove si difese dalle tarme e dall'abbandono con una tenacia degna di miglior causa, finché altre generazioni non lo riscattarono.
Ben presto divenne evidente che Clara era incinta. L'affetto che Férula sentiva per sua cognata si trasformò in una passione nel curarla, una dedizione nel servirla e una tolleranza illimitata nel resistere alle sue distrazioni ed eccentricità. Per Férula che aveva trascorso una vita a curare un'anziana che stava marcendo irrimediabilmente, badare a Clara fu come entrare nella gloria. Le faceva il bagno in acqua profumata al basilico e al gelsomino, la strofinava con una spugna, la frizionava con acqua di colonia, la incipriava con un piumino di cigno e le spazzolava i capelli fino a renderli brillanti e docili come una pianta marina, così come prima aveva fatto la Nana.
Molto prima che si calmasse la sua impazienza di marito novello, Esteban Trueba dovette tornare alle Tre Marie, dove non aveva più messo piede da oltre un anno e che, nonostante le cure di Pedro Secondo García, reclamavano la presenza del padrone. La proprietà che prima gli sembrava un paradiso, adesso era diventata una molestia. Guardava le mucche inespressive che ruminavano nei campi, il lento lavoro dei contadini che ripetevano gli stessi gesti ogni giorno per tutta la vita, l'immutabile cornice della cordigliera innevata e la fragile colonna di fumo del vulcano e si sentiva come prigioniero.
Mentre stava in campagna, la vita nella grande casa dell'angolo cambiava per adeguarsi a una dolce quotidianità senza uomini. Férula era la prima a svegliarsi, perché le era rimasta quest'abitudine di alzarsi all'alba dall'epoca in cui vegliava accanto alla madre malata, ma lasciava dormire sua cognata sin tardi. A metà mattina le portava personalmente la colazione a letto, apriva le tende di seta azzurra per far entrare il sole attraverso i vetri, riempiva la vasca da bagno di porcellana francese dipinta a ninfee, mentre Clara aveva il tempo di scrollarsi di dosso la sonnolenza salutando a turno gli spiriti presenti, avvicinandosi il vassoio e spalmando le fette tostate con la cioccolata densa. Poi la tirava fuori del letto accarezzandola con gesti da madre e riferendole le notizie piacevoli del giornale, che ogni giorno erano meno, sicché doveva riempire le lacune con pettegolezzi sui vicini, dettagli domestici e aneddoti inventati che Clara trovava molto carini e cinque minuti dopo non ricordava più, per cui era possibile raccontarle le stesse cose diverse volte e lei si divertiva come se fosse stata la prima.
Férula la portava a spasso perché prendesse aria, fa bene alla creatura, a fare compere, perché quando nascerà non gli manchi niente e abbia gli indumenti più fini del mondo; a pranzo al Club del Golf, perché tutti vedano come ti sei fatta carina da quando ti sei sposata con mio fratello, a trovare i tuoi genitori, perché non credano che li hai dimenticati, a teatro, perché non passi tutto il giorno chiusa in casa. Clara si lasciava guidare con una dolcezza che non era stupidaggine, bensì distrazione e consumava tutta la sua capacità di concentrazione in inutili tentativi di mettersi in contatto telepatico con Esteban, che non riceveva i messaggi e perfezionando la propria chiaroveggenza.
Per la prima volta dacché poteva ricordare, Férula si sentiva felice. Era più vicina a Clara di quanto non lo fosse stata con nessuno, neppure con sua madre. Una persona meno originale di Clara avrebbe finito per essere infastidita dalle moine eccessive e dalla costante preoccupazione di sua cognata, o avrebbe ceduto al suo carattere dominante e meticoloso. Ma Clara viveva in un altro mondo. Férula detestava il momento in cui suo fratello tornava dalla campagna e la sua presenza riempiva tutta la casa infrangendo l'armonia che si era stabilita durante la sua assenza. Con lui in casa, doveva mettersi in ombra ed essere più prudente nel modo di rivolgersi ai servitori, così come nelle premure che prodigava a Clara. Ogni notte, quando gli sposi si ritiravano nelle loro stanze, si sentiva invasa da un odio sconosciuto, che non poteva spiegare e che le riempiva l'animo di funesti presagi. Per distrarsi riprendeva la mania di recitare il rosario nei rioni popolari e di confessarsi con padre Antonio.
– Ave Maria Purissima.
– Concepita senza peccato.
– Ti ascolto, figliola.
– Padre, non so come cominciare. Credo che quello che ho fatto sia peccato...
– Della carne, figliola?
– Ah, la carne è secca, padre, ma lo spirito no. Mi tormenta il demonio.
– La misericordia di Dio è infinita.
– Lei non conosce i pensieri che ci possono essere nella mente di una donna sola, padre, una vergine che non ha conosciuto maschio, e non per mancanza di occasioni, bensì perché Dio ha mandato a mia madre una lunga malattia e ho dovuto curarla.
– Quel sacrificio è registrato in cielo, figlia mia.
– Anche se ho peccato col pensiero, padre?
– Bene, dipende dal pensiero...
– Di notte non posso dormire, mi sento soffocare. Per calmarmi mi alzo e cammino nel giardino, vago per la casa, vado nella stanza di mia cognata, accosto l'orecchio alla porta, talvolta entro in punta di piedi per vederla quando dorme, sembra un angelo, mi viene la tentazione d'infilarmi nel suo letto per sentire il tepore della sua pelle e del suo fiato.
– Prega, figliola. La preghiera aiuta.
– Aspetti, non le ho detto tutto. Mi vergogno.
– Non devi vergognarti di me, perché io sono solo uno strumento di Dio.
– Quando mio fratello torna dalla campagna è molto peggio padre. A nulla mi serve la preghiera, non riesco a dormire, sudo, tremo, infine mi alzo e giro per la casa al buio, scivolando lungo i corridoi molto attenta a non far scricchiolare il pavimento. Li ascolto attraverso la porta della loro camera da letto e una volta sono riuscita a vederli, perché la porta era rimasta socchiusa. Non posso raccontarle quello che ho visto, padre, ma deve essere un peccato terribile. Non è colpa di Clara, lei è innocente come un bambino. È mio fratello che la costringe. Lui verrà sicuramente dannato.
– Solo Dio può giudicare e dannare, figliola. Che cosa facevano?
E allora Férula poteva perdere mezz'ora nei dettagli. Era una grande narratrice, sapeva fare le pause, misurare il tono, spiegare senza gesti, dipingendo un quadro così vivido, che l'ascoltatore aveva l'impressione di star vivendolo, era incredibile come poteva percepire dalla porta socchiusa la qualità dei tremori, l'abbondanza degli umori, le parole mormorate all'orecchio, gli odori più segreti, un prodigio davvero. Dopo avere sfogato quei tumultuosi stati d'animo, rincasava con la sua maschera da idolo, impassibile e severa, e via a dar ordini, a contare le posate, decidendo il cibo, infilando la chiave, ordinando mi metta questo qui, non lo metta, cambiate i fiori dei vasi, li cambiavano, lavate i vetri, fate star zitti quegli uccelli del diavolo, che il cinguettio non lascia dormire la signora Clara e con tutto questo baccano le si spaventerà la creatura ed è possibile che nasca rintontita. Niente sfuggiva ai suoi occhi vigili ed era sempre in moto, contrariamente a Clara, che trovava tutto molto carino e per lei era lo stesso mangiare tartufi ripieni o minestra avanzata, dormire su un materasso di piume o seduta su una seggiola, fare il bagno in acqua profumata o non fare il bagno. A mano a mano che avanzava il suo stato di gravidanza, sembrava si andasse staccando irrimediabilmente dalla realtà ripiegandosi su se stessa, in un dialogo segreto e continuo con la sua creatura.
Esteban Trueba voleva un figlio che portasse il suo nome e trasmettesse alla sua discendenza il nome dei Trueba.
– È una bambina e si chiama Blanca – disse Clara fin dal primo giorno in cui annunciò il suo stato.
E così fu.
Il dottor Cuevas, nei confronti del quale Clara aveva finalmente perso ogni paura, calcolava che il parto avrebbe dovuto avvenire a metà ottobre, ma a metà novembre Clara continuava a portare in giro una pancia enorme, in stato di semisonnambulismo, sempre più distratta e stanca, asmatica, indifferente a tutto quello che la circondava, compreso suo marito, che talvolta non riconosceva nemmeno e gli chiedeva che cosa desidera? quando se lo trovava a fianco. Allorché il medico ebbe scartato ogni possibilità di errore nei suoi calcoli e fu evidente che Clara non aveva alcuna intenzione di partorire naturalmente, procedette ad aprire il ventre della madre e a estrarre Blanca che si rivelò una bambina più pelosa e più brutta del normale. Esteban ebbe un brivido quando la vide, convinto di essere stato schernito dal destino e invece del Trueba legittimo che aveva promesso a sua madre sul letto di morte, di avere generato un mostro e, per colmo, di sesso femminile. Ispezionò la bambina personalmente e constatò che aveva tutte le sue parti al posto giusto, perlomeno quelle visibili a occhio nudo. Il dottor Cuevas lo consolò con la spiegazione che l'aspetto ripugnante della creatura era dovuto al fatto che aveva passato più tempo del normale dentro la madre, alla sofferenza del cesareo e alla sua costituzione piccola, magra e bruna e alquanto pelosa. Clara, invece, era affascinata da sua figlia. Sembrò svegliarsi da un lungo torpore e scoprire la gioia di essere viva. Prese in braccio la bambina e non la depose mai, girava con lei attaccata al petto, allattandola di continuo, senza orario fisso e senza preoccuparsi delle buone maniere o del pudore, come un'indiana. Non volle fasciarla, tagliarle i capelli, farle i buchi nelle orecchie o assumere una balia perché la nutrisse e tanto meno ricorrere al latte di qualche laboratorio, come facevano tutte le signore che potevano permettersi questo lusso. Non accettò neppure il consiglio della Nana di darle latte di mucca diluito in acqua di riso, perché aveva concluso che se la natura avesse voluto che gli uomini fossero allevati così, avrebbe fatto in modo che i seni femminili secernessero quel tipo di prodotto. Clara parlava alla bambina in ogni momento, senza usare un linguaggio di vezzi e diminutivi, ma in corretto spagnolo, come se avesse dialogato con un'adulta, nella stessa forma pacata e ragionevole con la quale parlava agli animali e alle piante, convinta che se aveva avuto un buon risultato con la flora e la fauna, non c'era motivo che non dovesse fare lo stesso anche con la bambina. La combinazione di latte materno e conversazione ebbe la virtù di trasformare Blanca in una bambina sana e quasi bella, che non assomigliava in nulla all'armadillo di quando era nata.
Poche settimane dopo la nascita di Blanca, Esteban Trueba poté constatare, attraverso i giochi nel veliero nell'acqua calma di seta azzurra, che sua moglie non aveva perduto con la maternità l'incanto e la buona disposizione per fare all'amore, bensì il contrario. Da parte sua Férula, troppo impegnata a occuparsi della bambina, che aveva polmoni formidabili, carattere impulsivo e appetito vorace, non aveva tempo per andar a pregare nei rioni popolari, per confessarsi con padre Antonio e molto meno per spiare dalla porta socchiusa.
4. IL TEMPO DEGLI SPIRITI
A un'età in cui la maggior parte dei bambini va in giro con pannolini e a quattro gambe, balbettando incoerenze e perdendo bave, Blanca sembrava una nana saggia, camminava a balzelli, ma sulle due gambe, parlava correttamente e mangiava da sola, a causa dell'abitudine di sua madre di trattarla come una persona adulta. Aveva tutti i denti e cominciava ad aprire gli armadi per buttarne all'aria il contenuto, quando la famiglia decise di passare l'estate alle Tre Marie, che Clara non conosceva se non per sentito dire. In questo periodo della vita di Blanca, la curiosità era più forte dell'istinto di sopravvivenza e Férula le andava sempre dietro di corsa per evitare che precipitasse dal secondo piano, s'infilasse nel forno, ingoiasse il sapone. L'idea di andare in campagna con la bambina le sembrava pericolosa, stancante e inutile, dato che Esteban poteva sistemarsi da solo alle Tre Marie, mentre loro avrebbero potuto godersi la vita civile della capitale. Ma Clara era entusiasta. La campagna le sembrava un'idea romantica, perché non era mai entrata in una stalla, come diceva Férula. I preparativi del viaggio tennero occupata tutta la famiglia per oltre due settimane e la casa si riempì di bauli, di ceste e di valigie. Affittarono un vagone speciale del treno per sistemarvi l'incredibile bagaglio e la servitù che Férula aveva considerato necessario portare, oltre alle gabbie degli uccelli che Clara non aveva voluto abbandonare e alla cassa di giocattoli di Blanca, piena di arlecchini meccanici, figurine di maiolica, animali di pezza, ballerine automatiche e bambole con capelli veri e articolazioni snodate che viaggiavano insieme ai loro vestiti, alle carrozze e alle porcellane. Vedendo quella folla agitata e nervosa e quella confusione di masserizie, Esteban si sentì sconfitto per la prima volta in vita sua, soprattutto quando scoprì tra i bagagli un Sant'Antonio a grandezza naturale, con gli occhi strabici e i sandali sbalzati. Guardava il caos che lo circondava, pentito della decisione di viaggiare con moglie e figlia, chiedendosi com'era possibile che lui avesse bisogno delle sue due valigie per girare il mondo e loro, al contrario, si portassero appresso quel carico di masserizie e quella processione di domestiche che nulla avevano a che vedere con lo scopo del viaggio.
A San Lucas presero tre carrozze per farsi condurre alle Tre Marie avvolti in una nube di polvere, come zingari. Nel cortile in fondo aspettavano per dargli il benvenuto tutti i mezzadri con in testa l'amministratore, Pedro Secondo García. Alla vista di quel circo ambulante, rimasero attoniti. Agli ordini di Férula cominciarono a scaricare le carrozze e a sistemare tutto in casa. Nessuno prestò attenzione a un bambino che aveva circa la stessa età di Blanca, nudo, raffreddato, con la pancia gonfia di parassiti, dotato di meravigliosi occhi neri d'adulto. Era il figlio dell'amministratore e si chiamava, per differenziarlo dal padre e dal nonno, Pedro Terzo García. Nella baraonda dell'installazione, dell'approccio con la casa, con l'orto, dei saluti a tutti, del disporre l'altare di Sant'Antonio e della caccia alle galline dai letti e dei topi dagli armadi, Blanca si tolse i vestiti e uscì correndo nuda con Pedro Terzo. Giocarono tra i fagotti, s'infilarono sotto i mobili, s'impiastrarono di baci bavosi, masticarono lo stesso pane, bevvero gli stessi moccoli, e si spalmarono con la stessa cacca, finché non si addormentarono abbracciati sotto il tavolo della sala da pranzo. Lì li trovò Clara alle dieci di sera. Li avevano cercati per ore con torce, i mezzadri in squadra avevano percorso la riva del fiume, i granai, i campi e le stalle, Férula aveva invocato in ginocchio Sant'Antonio, Esteban era sfinito a furia di chiamare. Quando li trovarono, il bambino era con le spalle a terra e Blanca stava accoccolata con la testa sul ventre rigonfio del suo nuovo amico. In quella stessa posizione sarebbero stati sorpresi molti anni dopo, per loro sventura, e non sarebbero vissuti abbastanza per scontarlo.
Fin dal primo giorno, Clara aveva capito che c'era un posto per lei alle Tre Marie e, come annotò nei quaderni in cui registrava la sua vita, sentì che aveva infine trovato la sua missione nel mondo. Non la colpirono la casa di mattoni, né la scuola, né l'abbondanza di cibo, perché la sua capacità di vedere l'invisibile individuò subito la diffidenza, la paura e il rancore dei mezzadri e l'impercettibile rumore che facevano quando voltava la faccia, il che le permise d'indovinare certe cose sul carattere e sui trascorsi di suo marito. Il padrone era cambiato, comunque. Tutti poterono notare che non andava più al Lampioncino Rosso, erano finite le sue notti di gazzarra di battaglie di galli, di scommesse, le sue violente arrabbiature e, soprattutto, il mal costume di aggredire ragazze nei campi di frumento. Lo attribuirono a Clara. Dal canto suo, anche lei cambiò. Da un momento all'altro abbandonò il suo languore, smise di trovare tutto molto carino e sembrò guarita dal vizio di parlare con esseri invisibili e muovere i mobili con mezzi soprannaturali. Si alzava all'alba con suo marito, facevano insieme la prima colazione vestiti, lui andava a sorvegliare i lavori e le fatiche della campagna, mentre Férula s'incaricava della casa, della servitù della capitale, che non si abituava ai disagi e alle mosche della campagna, e di Blanca. Clara divideva il suo tempo tra il laboratorio di cucito, l'emporio e la scuola, in cui installò il suo quartier generale per distribuire medicine contro la rogna e paraffina contro i pidocchi, sviscerare i misteri del sillabario, insegnare ai bambini a cantare ho una vacca proprio bella, una vacca che è una fontanella, alle donne a far bollire il latte, a curare la diarrea e a candeggiare la biancheria. La sera, prima del ritorno degli uomini dai campi, Férula riuniva le contadine e i bambini per recitare il rosario. Ci andavano per simpatia, più che per fede e davano alla zitella l'occasione di ricordare i bei tempi dei rioni popolari. Clara aspettava che sua cognata terminasse le mistiche litanie di padrenostri e delle avemarie e approfittava della riunione per ripetere le frasi che aveva udito sua madre dire quando s'incatenava alle cancellate del Congresso in sua presenza. Le donne l'ascoltavano ridendo e vergognose, per lo stesso motivo per cui pregavano con Férula: per non dare un dispiacere alla padrona. Ma quelle frasi infiammate sembravano loro cose da pazzi. "Non si è mai visto che un uomo non possa pestare la moglie, se non gliele suona, vuol dire che non le vuole bene o che non è un vero uomo. Dove mai si è visto che quello che guadagna un uomo o che produce la terra o fanno le galline sia di tutt'e due, se chi comanda è lui? Dove mai si è visto che una donna possa fare le stesse cose che un uomo, se la donna è nata con la fica e senza coglioni, per parlare chiaro, donna Clarita?", aggiungevano. Clara si disperava. Le altre si davano colpi di gomito e sorridevano timide, con le loro bocche sdentate e gli occhi pieni di rughe, incartapecorite dal sole e dalla vita grama, sapendo in partenza che, se avessero avuto la peregrina idea di mettere in pratica i consigli della padrona, i loro mariti le avrebbero ammazzate di busse. E meritate, di certo, come Férula stessa sosteneva. Di lì a poco Esteban venne a sapere della seconda parte delle riunioni pie e andò in collera. Era la prima volta che si arrabbiava con Clara e la prima che lei lo vedeva in uno dei suoi famosi attacchi di rabbia. Esteban gridava come un ossesso, camminando avanti e indietro per la sala a grandi passi e dando pugni ai mobili, dicendo che, se Clara pensava di seguire la strada di sua madre, avrebbe dovuto vedersela con un maschio ben piantato che le avrebbe tirato giù le mutandine e le avrebbe dato una sculacciata per farle passare le maledette voglie di andare in giro ad arringare la gente, che le proibiva decisamente le riunioni per pregare o per qualunque altro fine e che lui non era uno zimbello che la moglie poteva mettere in ridicolo. Clara lo lasciò strillare e dar colpi ai mobili, finché non si fu stancato e dopo, distratta com'era sempre, gli chiese se era capace di muovere le orecchie.
Le vacanze si protrassero e le riunioni nella scuola continuarono. Finì l'estate e l'autunno coprì di fuoco e d'oro la campagna cambiando il paesaggio. Cominciarono i primi giorni freddi, le piogge e il fango, senza che Clara desse segno di voler tornare in città, malgrado le pressioni esercitate da Férula, che odiava la campagna. D'estate si era lamentata delle sere calde trascorse a scacciare le mosche, del polverone del cortile, che insudiciava la casa come se vivessero nel pozzo di una miniera, dell'acqua sporca della vasca da bagno, dove i sali profumati si trasformavano in una zuppa cinese, dei maggiolini che s'infilavano tra le lenzuola, degli andirivieni dei topi e delle formiche, dei ragni che venivano sorpresi a zampettare nel bicchiere dell'acqua sul comodino, delle galline insolenti che deponevano le uova nelle scarpe e cacavano sulla biancheria nell'armadio. Quando il clima cambiò, ebbe altre calamità di cui lagnarsi, la fanghiglia del cortile, le giornate più corte, alle cinque era buio e non c'era più niente da fare, se non affrontare la lunga notte solitaria, il vento e il raffreddore, che lei combatteva con cataplasmi di eucalipto, senza poter evitare che si contagiassero l'un l'altro in una catena senza fine. Era stufa di lottare contro gli elementi senza altra distrazione che veder crescere Blanca, la quale sembrava un antropofago, come diceva, sempre lì a giocare con quel bambinello sudicio, Pedro Terzo, ed era il colmo che la piccola non avesse qualcuno della sua classe da frequentare, stava imparando brutte maniere, andava in giro con le guance lerce e con croste secche sulle ginocchia, "guardate come parla, sembra un indiano, sono stufa di toglierle i pidocchi dalla testa e di metterle blu di metilene sulla rogna." Nonostante i brontolii, conservava la sua rigida dignità, la sua camicetta inamidata, e il mazzo di chiavi appeso alla cintura, non sudava mai, non si grattava e aveva sempre il suo profumo di lavanda e limone. Nessuno pensava che qualcosa avrebbe potuto alterare il suo autocontrollo, fino al giorno in cui sentì una puntura sulla spalla. Era una puntura così forte, che non poté evitare di grattarsi facendo finta di niente, ma niente poteva darle sollievo. Infine se ne andò in bagno e si tolse il corsetto, che indossava anche nei giorni di maggior lavoro. Come ebbe sciolte le stringhe, cadde al suolo un topo rintontito che era rimasto lì tutta la mattina cercando inutilmente di sgusciare verso l'uscita, tra le stecche dure del busto e la carne oppressa della sua padrona. Férula ebbe la prima crisi nervosa della sua vita. Alle sue grida accorsero tutti e la trovarono dentro la vasca da bagno, livida di terrore e ancora seminuda che indicava con un dito il piccolo roditore, il quale si metteva faticosamente in piedi e cercava di avanzare verso un luogo sicuro. Esteban disse che era la menopausa e che bisognava non badarle. Non le badarono nemmeno quando ebbe il secondo attacco. Era il compleanno di Esteban. Era spuntata una domenica di sole e c'era molta agitazione nella casa, perché per la prima volta avrebbero dato una festa alle Tre Marie, dai giorni dimenticati in cui donna Ester era una ragazzina. Invitarono diversi parenti e amici, che fecero il viaggio in treno dalla capitale, e tutti i proprietari terrieri della zona, senza dimenticare i maggiorenti del villaggio. Con una settimana di anticipo prepararono il banchetto: mezzo bue arrostito nel cortile, pasticcio di rognoni, intingolo di gallina, frittata di granoturco, torta di biancomangiare e lumache e i migliori vini dell'annata. A mezzogiorno cominciarono ad arrivare gli invitati in carrozza o a cavallo e la grande casa in muratura si riempì di chiacchiere e di risate. Férula si distrasse un momento per correre in bagno, uno di quegli immensi bagni della casa in cui il gabinetto era nel mezzo della stanza, circondato da un deserto di ceramica bianca. Se ne stava installata su quel sedile solitario come un trono, quando si aprì la porta ed entrò uno degli invitati, niente meno che il sindaco del villaggio mentre si sbottonava i calzoni, e un po' allegro per l'aperitivo. Alla vista della signora rimase paralizzato per la confusione e dalla sorpresa e quando riuscì a reagire, l'unica cosa che gli venne in mente fu di avanzare con un sorriso forzato, attraversare tutta la stanza, tendere la mano e salutarla con un cenno amichevole.
– Zorobabel Blanco Jamasmié, ai suoi ordini – si presentò.
"In nome di Dio! Nessuno può vivere tra gente così rozza. Se volete fermarvi voi in questo purgatorio d'incivili, per quel che mi riguarda me ne torno in città, voglio vivere come una cristiana, come ho sempre vissuto", esclamò Férula quando riuscì a parlare del fatto senza piangere. Ma non se ne andò. Non voleva separarsi da Clara, era arrivata ad adorare perfino l'aria che lei esalava e sebbene ormai non avesse più occasione di farle il bagno e di dormire con lei, faceva in modo da dimostrarle la sua tenerezza con mille piccoli dettagli ai quali dedicava la sua esistenza. Quella donna severa e così poco compiacente con se stessa e con gli altri poteva essere dolce e sorridente con Clara e talvolta, per estensione, anche con Blanca. Solo con lei si concedeva il lusso di cedere di fronte al suo dilagante desiderio di servire e di essere amata, con lei poteva manifestare, seppure velatamente, i più segreti e delicati aneliti della sua anima. Dopo tanti anni di solitudine e di tristezza aveva a poco a poco acquietato le emozioni e sfoltito i sentimenti, fino a ridurli ad alcune, poche, magnifiche passioni, che la occupavano completamente. Non era fatta per i piccoli turbamenti, i rancori meschini, le invidie dissimulate, le opere di carità, gli affetti logorati, la cortesia amabile o le considerazioni banali. Era uno di quegli esseri nati per la grandezza di un solo amore, per l'odio esagerato, per la vendetta apocalittica e per l'eroismo più sublime, ma non aveva potuto concretizzare il suo destino secondo la sua romantica vocazione, e questo era trascorso piatto e grigio, tra le pareti della stanza di un'ammalata, tra miseri rioni popolari, tra tortuose confessioni, in cui questa donna grossa, opulenta, dal sangue ardente, fatta per la maternità, per l'abbondanza, per l'azione e per l'ardore, si era andata consumando. In quell'epoca aveva circa quarantacinque anni, la sua splendida razza e i suoi lontani ascendenti moreschi la conservavano tersa, con i capelli ancora neri e serici, con una sola ciocca bianca sulla fronte, il corpo forte e sottile e l'andatura disinvolta della gente sana, ma il deserto della sua vita le dava un aspetto molto più anziano. Ho un ritratto di Férula preso in quegli anni durante un compleanno di Blanca. È una vecchia fotografia color seppia, stinta dal tempo, in cui, tuttavia, la si può vedere chiaramente. Era una bella matrona, ma aveva una smorfia amara sul volto che tradiva la sua tragedia interiore. Probabilmente quegli anni accanto a Clara furono gli unici felici per lei, perché solo con Clara era riuscita a diventare amica. Fu lei la depositaria delle sue emozioni più sottili e a lei poté dedicare la sua enorme capacità di sacrificio e di venerazione. Una volta osò dirglielo e Clara annotò sul suo diario che Férula l'amava molto più di quanto lei meritava o poteva contraccambiarla. Per questo amore smisurato Férula non se ne volle andare dalle Tre Marie neppure quando esplose la piaga delle formiche, che era cominciata con un ronzio nei campi, un'ombra scura che scivolava con rapidità mangiandosi tutto, le pannocchie di granoturco, le piantagioni di frumento, l'erba medica e la ginestrella. Le bagnavano con benzina e appiccavano il fuoco, ma ricomparivano con nuova lena. Pitturavano di calce viva i tronchi degli alberi, ma le formiche salivano senza arrestarsi e non rispettavano né pere né mele e neppure le arance, s'infilavano nell'orto e rovinavano i meloni, entravano nella latteria e il latte veniva ritrovato acido e pieno di minuscoli cadaveri, s'introducevano nei pollai e divoravano i polli vivi, lasciando un residuo di piume e qualche pietoso ossicino. Tracciavano strade dentro la casa, entravano attraverso le tubature, s'impossessavano della dispensa, tutto quello che veniva cucinato bisognava mangiarlo subito, perché se rimaneva per qualche minuto in tavola, arrivavano in processione e lo divoravano. Pedro Secondo García le combatté con l'acqua e col fuoco e sotterrò spugne inzuppate di miele d'api, per farle ammassare attratte dal dolce e ammazzarle a man salva, ma tutto era stato inutile. Esteban Trueba andò al villaggio e tornò carico di pesticidi di tutte le marche conosciute, in polvere, liquidi, in pillole e ne gettò così tanto dappertutto, che non si poteva mangiare la verdura perché faceva venire crampi alla pancia. Ma le formiche continuarono ad arrivare e a moltiplicarsi, ogni giorno più insolenti e decise. Esteban si recò un'altra volta al villaggio e inviò un telegramma in città. Tre giorni dopo sbarcò alla stazione Mister Brown, un gringo nano, provvisto di una valigia misteriosa che Esteban presentò come tecnico di agricoltura ed esperto in insetticidi. Dopo essersi rinfrescato con una caraffa di vino alla frutta, aprì la sua valigia sul tavolo. Tirò fuori un arsenale di strumenti mai visti e proseguì prendendo una formica, e osservandola minuziosamente con un microscopio.
– Perché le guarda tanto, Mister, se sono tutte uguali? – disse Pedro Secondo García.
Il gringo non gli rispose. Quando ebbe terminato d'identificare la razza, il modo di vivere, l'ubicazione dei loro nidi, le loro abitudini e persino le loro più segrete intenzioni, era trascorsa una settimana e le formiche si stavano infilando nei letti dei bambini, si erano mangiate le riserve alimentari per l'inverno e cominciavano ad attaccare i cavalli e le mucche. Allora Mister Brown spiegò che bisognava affumicarle con un prodotto di sua invenzione che faceva diventare sterili i maschi, sicché finivano di moltiplicarsi e poi bisognava irrorarle con un altro veleno, anche questo di sua invenzione, che causava una malattia mortale nelle femmine, e così, assicurò, il problema sarebbe stato risolto.
– In quanto tempo? – domandò Esteban Trueba che dall'impazienza stava passando alla furia.
– Un mese – disse Mister Brown.
– Tra un mese si saranno mangiate anche gli uomini, Mister Brown – disse Pedro Secondo García. – Se me lo permette, padrone, vado a chiamare mio padre. Sono tre settimane che sta dicendomi di conoscere un rimedio per la piaga. Io credo che siano cose da vecchio, ma non ci rimettiamo niente a fare la prova.
Chiamarono il vecchio Pedro García, che arrivò strascicando i piedi, così nero, rimpicciolito e sdentato, che Esteban ebbe un sussulto a quello spettacolo del trascorrere del tempo. Il vecchio ascoltò col cappello in mano, guardando in terra e masticando l'aria con le gengive nude. Poi chiese un fazzoletto bianco, che Férula tirò fuori dall'armadio di Esteban, e uscì di casa, attraversò il cortile, andò dritto all'orto seguito da tutti gli abitanti della casa e dal nano straniero, che sorrideva con disprezzo, questi barbari, oh, god! L'anziano si accovacciò con difficoltà e cominciò a riunire formiche. Quando ne ebbe una manciata, le mise dentro il fazzoletto, annodò le quattro cocche e mise l'involtino nel suo cappello.
– Vado a farvi vedere la strada, perché ve ne andiate, formiche, e perché vi portiate via le altre – disse.
Il vecchio salì su un cavallo e si allontanò al passo mormorando consigli e raccomandazioni alle formiche, preghiere di saggezza, formule d'incantesimo. Lo videro sparire verso i confini della proprietà. Il gringo si sedette per terra ridendo come un matto, finché Pedro Secondo García non lo scosse.
– Vada a ridere di sua nonna, Mister, guardi che il vecchio è mio padre – lo avvertì.
A sera Pedro García ritornò. Scese lentamente, disse al padrone che aveva messo le formiche sulla strada giusta e se ne andò a casa. Era stanco. Il mattino dopo videro che non c'erano formiche in cucina, nemmeno nella dispensa, cercarono nel granaio, nella stalla, nei pollai, andarono nei campi, arrivarono sino al fiume, guardarono dappertutto e non ne trovarono neanche una per campione. Il tecnico divenne frenetico.
– Dovete dirmi come fare questo! – gridava.
– Parlandogli, appunto, Mister. Gli dica che se ne vadano, che qui stanno dando fastidio e loro capiscono – spiegò Pedro García, il vecchio.
Clara fu l'unica a trovare naturale il procedimento. Férula si attaccò a questo per dire che vivevano in un buco, in una regione disumana, dove non funzionavano le leggi di Dio e nemmeno il progresso della scienza, che un giorno avrebbero cominciato a volare con la scopa, ma Esteban Trueba la fece stare zitta: non voleva che cacciassero nuove idee in testa a sua moglie. Negli ultimi tempi Clara aveva ripreso le sue attività stravaganti, parlava con i fantasmi e trascorreva ore a scrivere sui quaderni in cui annotava la sua vita. Quando perse interesse per la scuola, per il laboratorio di cucito e per le riunioni femministe e riprese a dire che tutto era molto carino, capirono che era di nuovo incinta.
– Per colpa tua – gridò Férula a suo fratello.
– Lo spero proprio – rispose lui.
Fu subito chiaro che Clara non era in grado di passare la gravidanza in campagna e di partorire al villaggio, sicché organizzarono il ritorno in città. La cosa consolò un po' Férula, che sentiva la gravidanza di Clara come un affronto personale. Si mise in viaggio per prima con la maggior parte dei bagagli e dei servi, per aprire la grande casa dell'angolo e predisporre l'arrivo di Clara. Esteban accompagnò qualche giorno dopo sua moglie e la figlia di ritorno in città e nuovamente lasciò le Tre Marie in mano a Pedro Secondo García, che era diventato l'amministratore, sebbene non ne traesse maggiori privilegi, solo maggior lavoro.
Il viaggio dalle Tre Marie alla capitale consumò le rimanenti forze di Clara. Io la vedevo sempre più pallida, asmatica, con le occhiaie. Con le scosse dei cavalli e poi con quelle del treno, la polvere della strada e la sua tendenza naturale ai capogiri, stava perdendo energie a vista d'occhio e io non potevo fare molto per aiutarla, perché quando stava male preferiva che non le parlassero. Mentre scendeva alla stazione dovetti sorreggerla perché le gambe non la sostenevano.
– Mi sembra di essere sul punto di sollevarmi – disse.
– Non qui – le gridai spaventato all'idea che si mettesse a volare sopra le teste dei passeggeri sul marciapiede.
Ma lei non si riferiva concretamente alla levitazione, bensì al salire a un livello che le consentisse di staccarsi dal disagio, dal peso della sua gravidanza e dalla profonda fatica che le si cacciava nelle ossa. Entrò in un altro dei suoi lunghi periodi di silenzio, credo sia durato qualche mese, durante i quali si serviva della lavagnetta, come ai tempi del mutismo. In quell'occasione non mi allarmai, perché pensavo che avrebbe recuperato la normalità com'era successo dopo la nascita di Blanca e, d'altra parte, avevo finito per capire che il silenzio era l'ultimo e inviolabile rifugio di mia moglie, e non una malattia mentale, come sosteneva il dottor Cuevas. Férula la curava nello stesso modo ossessivo in cui prima curava nostra madre, la trattava come fosse stata un'invalida, non voleva lasciarla mai da sola e aveva trascurato Blanca, che piangeva tutto il giorno perché voleva tornare alle Tre Marie. Clara girava per casa come un'ombra grossa e silenziosa, con un disinteresse da buddista nei confronti di tutto quello che la circondava. Non mi guardava neppure, mi passava accanto come se fossi stato un mobile e quando le rivolgevo la parola sembrava sulla luna, come se non mi udisse o non mi conoscesse. Non avevamo più ripreso a dormire insieme. I giorni d'ozio nella città e l'atmosfera irrazionale che si respirava nella casa mi facevano venire i nervi a fior di pelle. Facevo in modo da tenermi occupato, ma non bastava: ero sempre di cattivo umore. Uscivo tutti i giorni per sorvegliare i miei affari. In quell'epoca cominciai a speculare alla Borsa di Commercio e passavo ore a studiare gli alti e bassi dei valori internazionali, mi dedicai a fare investimenti, a fondare società, alle ditte di importazione. Passavo molte ore al club. Cominciai a interessarmi anche di politica e mi abbonai anche a una palestra di ginnastica, dove un gigantesco allenatore mi obbligava a esercitare muscoli che non sospettavo di avere in corpo. Mi avevano raccomandato di fare massaggi, ma non mi erano mai piaciuti: detesto che mi tocchino mani mercenarie. Niente di tutto questo poteva però riempirmi la giornata, ero imbarazzato e annoiato, volevo tornare in campagna, ma non osavo lasciare la casa, dove c'era un gran bisogno della presenza di un uomo ragionevole tra quelle donne isteriche. Inoltre Clara stava ingrossando troppo. Aveva una pancia sproporzionata che reggeva a stento con la sua fragile ossatura. Si vergognava che la vedessi nuda, ma era mia moglie e non potevo permettere che avesse pudore con me. L'aiutavo a fare il bagno, a vestirsi, quando Férula non mi precedeva, e sentivo una pena infinita per lei, così piccola e sottile, con quella mostruosa pancia, mentre si avvicinava pericolosamente il momento del parto. Molte volte mi ero svegliato pensando che avrebbe potuto morire nel travaglio e mi appartavo col dottor Cuevas per discutere il modo migliore di aiutarla. Eravamo rimasti d'accordo che se le cose non si presentavano bene, era meglio farle un altro taglio cesareo, ma io non volevo che la portassero in una clinica e lui si rifiutava di farle un'operazione come la prima nella sala da pranzo della casa. Diceva che non c'erano comodità, ma a quei tempi le cliniche erano un focolaio d'infezioni, dove erano più quelli che morivano di quelli che guarivano.
Un giorno, quando mancava poco alla data del parto, Clara discese senza preavviso dal suo rifugio braminico e riprese a parlare. Chiese una tazza di cioccolata e mi chiese di portarla a passeggio. Il mio cuore ebbe un sobbalzo. Tutta la casa si riempì di allegria, stappammo champagne, feci mettere fiori freschi in tutti i vasi, le ordinai camelie, i suoi fiori preferiti e ne tappezzai la sua camera, finché non cominciò a venirle l'asma e dovemmo toglierle subito. Corsi a comprarle una spilla di diamanti nella via dei gioiellieri ebrei. Clara la ricevette con effusioni, la trovò molto carina, ma non gliel'ho mai vista addosso. Immagino che sia andata a finire in qualche luogo impensabile dove l'aveva messa e poi dimenticata, come quasi tutti i gioielli che le ho comprato durante la nostra lunga vita in comune. Chiamai il dottor Cuevas che si presentò col pretesto di prendere il tè, ma in verità veniva a esaminare Clara. La portò nella sua camera e poi disse a Férula e a me che sebbene sembrasse guarita dalla sua crisi mentale, doveva prepararsi a un parto difficile perché il bambino era molto grosso. In quel momento Clara entrò in salotto e dovette udire l'ultima frase.
– Andrà tutto bene, non preoccupatevi – disse.
– Spero che questa volta sia un maschio, così porterà il mio nome – scherzai.
– Non è uno, sono due – replicò Clara. – I gemelli si chiameranno Jaime e Nicolás rispettivamente – aggiunse.
Questo era troppo per me. Credo di essere esploso per la pressione accumulata negli ultimi mesi. Divenni furioso, dissi che quelli erano nomi da commercianti stranieri, che nessuno si chiamava così nella mia famiglia né nella sua, che almeno uno doveva chiamarsi Esteban come me e come mio padre, ma Clara spiegò che i nomi ripetuti creano confusione nei diari e rimase inflessibile nella sua decisione. Per spaventarla ruppi con una manata un vaso di porcellana che, mi pare, era l'ultimo vestigio dei tempi splendidi del mio bisnonno, ma lei non si commosse e il dottor Cuevas sorrise dietro la sua tazza di tè, il che mi fece andare in bestia. Uscii sbattendo la porta e me ne andai al club.
Quella notte mi ubriacai. In parte perché ne avevo bisogno, in parte per vendetta, andai al bordello più conosciuto della città, che aveva un nome storico. Desidero chiarire che non sono un uomo da prostitute e che solo nei periodi in cui ho dovuto vivere solo per un lungo periodo vi sono ricorso. Non so cosa mi successe quel giorno, ero irritato con Clara, ero arrabbiato, avevo un eccesso di energie, mi lasciai tentare. In quegli anni gli affari del Cristoforo Colombo erano fiorenti, ma non aveva ancora acquisito il prestigio internazionale che avrebbe raggiunto quando sarebbe apparso sulle carte di navigazione delle compagnie inglesi e nelle guide turistiche, e sarebbe stato ripreso dalla televisione. Entrai in un salone con mobili francesi, di quelli con le gambe tortili, dove mi ricevette una maitresse nazionale che imitava alla perfezione l'accento di Parigi e che cominciò a farmi vedere la lista dei prezzi e immediatamente a chiedermi se avevo in mente qualcosa di speciale. Le dissi che la mia esperienza si limitava al Lampioncino Rosso e a qualche squallido lupanare di minatori nel Nord, sicché qualsiasi donna giovane e pulita mi sarebbe andata bene.
– Lei mi è simpatico, monsiùr – disse lei. – Le porterò il meglio della casa.
Alla sua chiamata accorse una donna avvolta in un vestito di raso nero troppo stretto, che a fatica conteneva l'esuberanza della sua femminilità. Aveva i capelli tirati in parte sopra un orecchio, una pettinatura che non mi è mai piaciuta, e al suo passaggio spandeva un terribile profumo di muschio che rimaneva sospeso nell'aria, persistente come un gemito.
– Felice di vederla padrone – salutò e allora la riconobbi, perché la voce era l'unica cosa che non era cambiata a Tránsito Soto.
Mi condusse per mano in una stanza chiusa come una tomba, con la finestra coperta da tendaggi scuri, dove non era penetrato un raggio di luce naturale da tempi remoti, ma che, comunque, sembrava un palazzo in confronto alle sordide installazioni del Lampioncino Rosso. Lì sfilai personalmente il vestito di raso nero a Tránsito, sciolsi la sua orribile pettinatura e potei constatare che in quegli anni era cresciuta, ingrassata e imbellita.
– Vedo che hai fatto grandi progressi – le dissi.
– Grazie ai suoi cinquanta pesos, padrone. Mi sono serviti per cominciare – mi rispose. – Adesso posso restituirglieli rivalutati, perché con l'inflazione non valgono come prima.
– Preferisco che tu mi debba un favore, Tránsito! – risi.
Terminai di toglierle le sottovesti e constatai che non rimaneva quasi nulla della ragazza sottile con i gomiti e le ginocchia sporgenti, che lavorava al Lampioncino Rosso, eccetto la sua instancabile disposizione alla sensualità e la sua voce da uccello rauco. Aveva il corpo depilato e la sua pelle era stata sfregata con limone e miele di amamelis, come mi spiegò, sino a ridurla tenera e bianca come quella di un bambino. Aveva le unghie dipinte di rosso e un serpente tatuato intorno all'ombelico, che poteva muovere in tondo mentre conservava il resto del corpo perfettamente immobile. Mentre mi dimostrava la sua abilità nel far ondulare il serpente, mi raccontò la sua vita.
– Se fossi rimasta al Lampioncino Rosso che ne sarebbe stato di me, padrone? Non avrei più denti, sarei una vecchia. In questa professione una donna si sciupa molto, bisogna curarsi. E meno male che non lavoro in strada! Non mi è mai piaciuto, è molto pericoloso. In strada bisogna avere un magnaccia, altrimenti si corrono molti rischi. Nessuno rispetta una donna sola. Ma perché dare a un uomo quello che costa tanto guadagnare? In questo senso le donne sono molto sciocche. Sono figlie del rigore. Hanno bisogno di un uomo per sentirsi sicure e non si rendono conto che chi bisogna temere è proprio l'uomo. Non si sanno amministrare, hanno bisogno di sacrificarsi per qualcuno. Le puttane sono la peggior feccia, padrone, mi creda. Passano la vita a lavorare per un magnaccia, sono contente quando le picchia, si sentono orgogliose se lo vedono ben vestito, con denti d'oro, con anelli e quando le lascia e se ne va con un'altra più giovane glielo perdonano perché "è un uomo". No, padrone, io non sono così. Nessuno mi ha mantenuta, perciò neanche fossi matta mi metterei a mantenere un altro. Lavoro per me, quello che guadagno me lo spendo come voglio. Mi è costato molto, non creda che sia stato facile, perché alle padrone dei postriboli non piace trattare con le donne, preferiscono intendersela con i magnaccia. Non ne aiutano nessuna. Non hanno considerazione.
– Ma sembra che qui ti apprezzino, Tránsito. Mi hanno detto che eri la migliore della casa.
– Lo sono. Ma quest'impresa andrebbe a rotoli se non fosse per me, che lavoro come un asino – disse lei. – Le altre sono già degli stracci. Qui vengono solo vecchi, non è più come prima. Bisogna modernizzare tutto, per attirare gli impiegati pubblici, che non hanno niente da fare a mezzogiorno, i giovani, gli studenti. Bisogna ampliare le installazioni, dare più allegria al locale e pulire. Pulire a fondo! Così la clientela avrebbe fiducia e non avrebbe paura di prendersi una malattia venerea, no? Questo è un porcile. Non puliscono mai. Guardi, alzi il cuscino e sicuramente salterà fuori una cimice. Glielo dico alla madama, ma lei non mi dà retta. Non ha occhio per gli affari.
– E tu ce l'hai?
– Come no, padrone! A me vengono in mente un milione di cose per migliorare il Cristoforo Colombo. Io ci metto entusiasmo in questa professione. Non sono di quelle che stanno sempre lì a lamentarsi dando la colpa alla sfortuna quando va male. Non vede dove sono arrivata? Sono già la migliore. Se mi metto d'impegno posso avere la migliore casa del paese, glielo giuro.
Stava facendomi divertire molto. Sapevo apprezzarla, perché, a furia di vedere l'ambizione nello specchio quando mi facevo la barba alla mattina, avevo finito per imparare a riconoscerla quando la vedevo negli altri.
– Mi sembra un'idea eccellente, Tránsito. Perché non ti metti in proprio? Io ci metto il capitale – le offrii, affascinato dall'idea di ampliare i miei interessi commerciali in quella direzione, a che punto ero ubriaco!
– No grazie, padrone – rispose Tránsito accarezzando il suo serpente con un'unghia dipinta con lacca cinese. – Non mi conviene liberarmi da un capitalista per cascare sotto un altro. Quello che bisogna fare è una cooperativa e mandare al diavolo la madama. Non ne ha mai sentito parlare? Faccia attenzione, guardi che, se i suoi dipendenti formano una cooperativa in campagna, lei è fregato. Quello che voglio è una cooperativa di puttane. Possono essere puttane e finocchi, per dare più ampiezza all'affare. Noi ci mettiamo tutto, il capitale e il lavoro. Perché dovremmo avere un padrone?
Facemmo all'amore nel modo violento e feroce che avevo quasi dimenticato a forza di navigare nel veliero delle acque quiete della seta azzurra. In quel disordine di cuscini e di lenzuola, stretti nella viva nudità del desiderio, avvinghiandoci sino a smarrirci, mi risentii di vent'anni, contento di avere tra le braccia quella femmina selvaggia e bruna, che non si scioglieva tra le mani quando la montavano, una puledra forte da cavalcare senza tante storie, senza che le mani sembrassero diventare troppo pesanti, la voce troppo dura, i piedi troppo grandi, la barba troppo ispida, e che mi scaricava una sfilza di parolacce all'orecchio e non mi faceva sentire il bisogno di essere cullato con tenerezze né ingannato da adulazioni. Poi, assopito e felice, riposai un momento accanto a lei, ammirando la curva solida del suo fianco e il tremito del suo serpente.
– Ci rivedremo, Tránsito – dissi, dandole la mancia.
– È proprio quello che le ho detto una volta, padrone, si ricorda? – mi rispose con un ultimo movimento del serpente.
In realtà, non avevo intenzione di tornare a trovarla. Avrei semmai preferito dimenticarla.
Non avrei parlato di quest'episodio se Tránsito Soto non avesse avuto una parte così importante per me molto tempo dopo, perché, come ho già detto, non sono un uomo da prostitute. Ma questa storia non avrebbe potuto essere scritta se lei non fosse intervenuta per salvarci e salvare, al tempo stesso, i nostri ricordi.
Pochi giorni dopo, quando il dottor Cuevas stava preparandosi psicologicamente al fatto di dover aprire di nuovo la pancia a Clara, Severo e Nivea del Valle morirono, lasciando diversi figli e quarantasette nipoti vivi. Clara lo venne a sapere prima degli altri tramite un sogno, ma non lo disse a nessuno se non a Férula, la quale cercò di tranquillizzarla spiegandole che la gravidanza crea uno stato di agitazione in cui i brutti sogni sono frequenti. Raddoppiò le sue attenzioni, la frizionava con olio di mandorle dolci per evitare le smagliature della pelle del ventre, le metteva miele d'api sui capezzoli perché non s'inaridissero, le dava da mangiare gusci d'uovo tritati perché le venisse un buon latte e non le si cariassero i denti e recitava orazioni di Betlemme per il buon parto. Due giorni dopo il sogno, Esteban Trueba rincasò più presto del solito, pallido e agitato, afferrò per un braccio sua sorella Férula e si chiuse con lei in biblioteca.
– I miei suoceri sono morti in un incidente – le disse brevemente. – Non voglio che Clara lo venga a sapere fin dopo il parto. Bisogna alzare un muro di censura intorno a lei, né giornali, né radio, né visite, niente! Stai attenta alla servitù, che nessuno glielo dica.
Ma le sue buone intenzioni si scontrarono con la forza delle premonizioni di Clara. Quella notte sognò di nuovo che i suoi genitori camminavano in un campo di cipolle e che Nivea era senza testa, sicché seppe tutto quello che era successo senza bisogno di leggerlo sul giornale né di ascoltarlo alla radio. Si svegliò molto eccitata e chiese a Férula che l'aiutasse a vestirsi, perché doveva andare in cerca della testa di sua madre. Férula corse da Esteban e questi chiamò il dottor Cuevas, il quale, anche a rischio di danneggiare i gemelli, le somministrò una pozione per i pazzi destinata a farla dormire due giorni, ma che su di lei non ebbe il minimo effetto.
I coniugi del Valle morirono proprio come Clara aveva sognato e così come, per scherzo, Nivea aveva poco tempo prima annunciato che sarebbero morti.
– Un giorno o l'altro ci ammazzeremo con questa macchina infernale – aveva detto Nivea indicando la vecchia automobile di suo marito.
Severo del Valle aveva avuto fin da giovane un debole per le invenzioni moderne. L'automobile non era stata un'eccezione. Ai tempi in cui tutti si muovevano a piedi, in carrozza, a cavallo o su velocipedi, lui aveva comprato la prima automobile che era arrivata nel paese e che era stata esposta come curiosità in una vetrina del centro. Era un prodigio meccanico che si spostava alla velocità suicida di quindici, anche venti chilometri all'ora, fra lo stupore dei pedoni e le maledizioni di chi al suo passaggio rimaneva schizzato di fango o coperto di polvere. Dapprima venne combattuto come un pericolo pubblico. Eminenti scienziati avevano spiegato sulla stampa che l'organismo umano non era fatto per sopportare una velocità di venti chilometri all'ora e che il nuovo ingrediente che chiamavano benzina poteva prendere fuoco e produrre una reazione a catena che avrebbe distrutto la città. Persino la Chiesa si occupò del fatto. Padre Restrepo, che aveva preso di mira la famiglia del Valle a partire dal deplorevole fattaccio di Clara alla messa del Giovedì Santo, si elesse guardiano dei buoni costumi e fece udire la sua voce galiziana contro gli "amicis rerum novarum", amici delle cose nuove, come quei macchinari satanici che paragonò al carro di fuoco su cui il profeta Elia scomparve in direzione del cielo. Ma Severo aveva ignorato lo scandalo e di lì a poco altri gentiluomini seguirono il suo esempio, finché lo spettacolo delle automobili non cessò di essere una novità. L'aveva usata per oltre dieci anni, rifiutandosi di cambiare modello quando la città si era riempita di auto moderne che erano più efficienti e sicure, per la stessa ragione per cui sua moglie non aveva voluto eliminare i cavalli da tiro finché non erano morti di vecchiaia. La Sunbeam aveva tendine di pizzo e due vasi di vetro ai lati, nei quali Nivea metteva sempre fiori freschi, era tutta foderata di legno lucido e di cuoio rosso e le rifiniture di bronzo erano brillanti come oro. Nonostante il suo nome britannico era stata battezzata con un nome indigeno, Covadonga. Era perfetta, davvero, a parte il fatto che i freni non avevano mai funzionato. Severo era orgoglioso della sua destrezza meccanica. L'aveva smontata più volte per cercare di aggiustarla e altrettante l'aveva consegnata al Gran Cornuto, un meccanico italiano che era il migliore del paese. Doveva il suo soprannome a una tragedia che gli aveva rabbuiato la vita. Dicevano che sua moglie, stufa di fargli le corna senza che egli se la prendesse, l'aveva abbandonato in una notte tempestosa, ma prima di andarsene aveva legato un paio di corna di bue comprate in macelleria sulle punte della cancellata del laboratorio meccanico. Il giorno dopo, quando l'italiano era arrivato al lavoro, aveva trovato una coda di bambini e di vicini che si stavano burlando di lui. Quel dramma, tuttavia, non sminuì per niente il suo prestigio professionale, ma nemmeno lui era riuscito a regolare i freni del Covadonga. Severo aveva deciso di portarsi in automobile una pietra grande e quando parcheggiava in pendenza, un passeggero schiacciava il pedale del freno e l'altro scendeva rapidamente e metteva la pietra davanti alle ruote. Il sistema in genere dava buoni risultati, ma quella domenica fatale, segnata dal destino come l'ultima della loro vita, non fu così. I coniugi del Valle erano andati a passeggio nei dintorni della città come facevano in ogni giornata di sole. D'improvviso i freni avevano cessato di funzionare completamente e prima che Nivea facesse in tempo a saltare dall'auto per sistemare la pietra, o Severo a far manovra, l'automobile se n'era scivolata giù per la china. Severo aveva tentato di farla deviare o di bloccarla, ma il diavolo si era impossessato della macchina che aveva volato senza controllo fino a sfracellarsi contro un carro carico di ferro per costruzioni. Una lamiera era entrata nel parabrezza e aveva decapitato Nivea di netto. La sua testa era schizzata via di colpo e nonostante le ricerche della polizia, dei guardaboschi e della gente dei dintorni, che erano andati a cercarla con i cani, era stato impossibile trovarla per due giorni. Al terzo, i corpi avevano cominciato a puzzare e si era dovuto sotterrarli incompleti in un funerale magnifico al quale assistette la tribù del Valle e un numero incredibile di amici e di conoscenti, oltre alle delegazioni di donne che andarono a salutare i resti mortali di Nivea, considerata allora la prima femminista del paese e della quale i suoi nemici ideologici dissero che, se aveva perduto la testa in vita, non c'era motivo per cui la conservasse nella morte. Clara, reclusa nella sua casa, circondata da donne di servizio che si occupavano di lei, con Férula come guardiana e drogata dal dottor Cuevas, non assistette alla sepoltura. Non fece alcun commento che indicasse che era a conoscenza del raccapricciante fatto della testa perduta, per rispetto di tutti quelli che avevano cercato di risparmiarle quell'ultimo dolore, ma, quando ebbero termine i funerali e la vita parve tornare alla normalità, Clara convinse Férula ad accompagnarla a cercarla e fu inutile che sua cognata le desse più medicine e pillole, perché non rinunciò al suo proposito. Vinta, Férula comprese che non era possibile continuare a sostenere che la storia della testa era un brutto sogno e che la cosa migliore era aiutarla nei suoi piani, prima che l'ansia finisse per minarne la stabilità. Aspettarono che Trueba uscisse. Férula l'aiutò a vestirsi e chiamò un'automobile a nolo. Le istruzioni che Clara diede all'autista furono alquanto imprecise.
– Lei vada avanti che io le dirò via via la strada – gli disse, guidata dal suo istinto di vedere l'invisibile.
Uscirono dalla città ed entrarono nello spazio aperto dove le case si rarefacevano e cominciavano le colline e i dolci avvallamenti, si diressero su indicazione di Clara lungo un cammino laterale e proseguirono tra betulle e campi di cipolle finché lei non ordinò all'autista che si fermasse accanto a certi sterpeti.
– È qui – disse.
– Non è possibile! Siamo lontanissimi dal luogo dell'incidente! – mise in dubbio Férula.
– Ti dico che è qui! – insistette Clara, scendendo dall'automobile con difficoltà, bilanciando il suo enorme ventre, seguita dalla cognata, che masticava preghiere e dall'uomo, che non aveva la minima idea dell'obiettivo del viaggio. Cercò di infilarsi tra i cespugli ma glielo impedì il volume dei gemelli.
– Mi faccia il favore, signore, entri lì e mi passi la testa di donna che troverà – chiese all'autista.
Lui si trascinò sotto i rami spinosi e trovò la testa di Nivea che sembrava un melone solitario. La prese per i capelli e uscì con questa camminando a quattro zampe. Mentre l'uomo vomitava appoggiato a un albero vicino, Férula e Clara ripulirono Nivea dalla terra e dai sassolini che le si erano infilati nelle orecchie, nel naso e nella bocca e le sistemarono i capelli che le si erano scompigliati un po', ma non riuscirono a chiuderle gli occhi. L'avvolsero in uno scialle e tornarono all'auto.
– Si sbrighi, signore, perché credo di star per partorire! – disse Clara all'autista.