Isabel Allende

La casa degli spiriti

(La casa de los espiritus, 1982)

Traduzione di Angelo Morino e Sonia Piloto Di Castri

 

 

 

A mia madre, a mia nonna e alle altre straordinarie donne di questa storia.

I.A.

 

 

Ma quanto vive l'uomo?

Vive mille anni o uno solo?

Vive una settimana o più secoli?

Quanto tempo muore l'uomo?

Che vuol dire per sempre?

(PABLO NERUDA)

 

 

1. ROSA, LA BELLA

 

Barrabás arrivò in famiglia per via mare, annotò la piccola Clara con la sua delicata calligrafia. Già allora aveva l'abitudine di scrivere le cose importanti e più tardi, quando rimase muta, scriveva anche le banalità, senza sospettare che, cinquant'anni dopo, i suoi quaderni mi sarebbero serviti per riscattare la memoria del passato, e per sopravvivere al mio stesso terrore. Il giorno in cui arrivò Barrabás era Giovedì Santo. Stava in una gabbia lercia, coperto dei suoi stessi escrementi e della sua stessa orina, con uno sguardo smarrito di prigioniero miserabile e indifeso, ma già si intuiva dal portamento regale della sua testa e dalla dimensione del suo scheletro il gigante leggendario che sarebbe diventato. Era quello un giorno noioso e autunnale, che in nulla faceva presagire gli eventi che la bimba scrisse perché fossero ricordati e che accaddero durante la messa delle dodici, nella parrocchia di San Sebastián, alla quale assistette con tutta la famiglia. In segno di lutto, i santi erano coperti di drappi viola, che le beghine toglievano ogni anno dalla polvere dell'armadio della sacrestia, e, sotto i lenzuoli funebri, la corte celeste sembrava un cumulo di mobili in attesa del trasloco, senza che le candele, l'incenso o i gemiti dell'organo potessero opporsi a questo pietoso effetto. Minacciose masse scure si ergevano al posto dei santi a grandezza naturale, con le loro facce tutte identiche dall'espressione raffreddata, le loro elaborate parrucche di capelli di morto, i loro rubini, le loro perle, i loro smeraldi di vetro colorato e i loro abiti da nobili fiorentini. L'unico favorito dal lutto era il patrono della chiesa, San Sebastiano, perché nella settimana santa veniva risparmiato ai fedeli lo spettacolo del suo corpo contorto in una posizione indecente, trafitto da mezza dozzina di frecce, grondante sangue e lacrime, come un omosessuale sofferente, le cui piaghe, miracolosamente fresche grazie al pennello di padre Restrepo, facevano tremare di ribrezzo Clara.

Era quella una lunga settimana di penitenza e di digiuno, non si giocava a carte, non si suonava musica che incitasse alla lussuria o all'oblio, e si osservava, nei limiti del possibile, la maggior tristezza e castità, nonostante proprio in quei giorni il pungolo del demonio tentasse con più insistenza la debole carne cattolica. Il digiuno consisteva in morbide torte di pasta sfoglia, in saporiti fritti di verdura, in soffici frittate e in grandi formaggi portati dalla campagna, con i quali le famiglie ricordavano la Passione del Signore, guardandosi bene dall'assaggiare neppure il più piccolo boccone di carne o di pesce, sotto pena di scomunica, come ripeteva padre Restrepo. Nessuno avrebbe osato disubbidirgli. Il sacerdote era provvisto di un lungo dito accusatore per indicare in pubblico i peccatori, e una lingua allenata a turbare i sentimenti.

Tu, ladro che hai rubato il denaro del culto! gridava dal pulpito segnalando un gentiluomo che fingeva di affannarsi a causa di un pelo sul suo bavero per non guardarlo in faccia. Tu, svergognata che ti prostituisci sui moli! e accusava donna Ester Trueba, invalida per via dell'artrite e devota alla Vergine del Carmine, che apriva gli occhi esterrefatta, senza sapere il significato di quella parola, né dove si trovavano i moli –. Pentitevi, peccatori, immonda carogna, indegni del sacrificio di Nostro Signore! Digiunate! Fate penitenza!

Travolto dall'entusiasmo dello zelo della sua vocazione, il sacerdote doveva contenersi per non entrare in aperta disobbedienza con le istruzioni dei suoi superiori ecclesiastici, scossi da ventate di modernismo, che si opponevano al cilicio e alla flagellazione. Lui era dell'idea di vincere le debolezze dell'anima con una buona frustata della carne. Era famoso per la sua oratoria sfrenata. I suoi fedeli lo seguivano di parrocchia in parrocchia, sudavano sentendolo descrivere i tormenti dei peccatori nell'inferno, le carni lacerate da ingegnose macchine di tortura, i fuochi eterni, gli uncini che trafiggevano i membri virili, i rettili ripugnanti che si introducevano negli orifizi femminili e altri molteplici supplizi che infilava in ogni sermone per seminare il terrore di Dio. Lo stesso Satana era descritto fin nelle sue intime anomalie con l'accento galiziano del sacerdote, la cui missione in questo mondo era di scuotere le coscienze degli indolenti creoli.

Severo del Valle era ateo e massone, ma aveva ambizioni politiche e non poteva permettersi il lusso di mancare alla messa che ogni domenica o festa comandata attraeva più gente, affinché tutti potessero vederlo. Sua moglie Nivea preferiva intendersi con Dio senza intermediari, aveva una profonda sfiducia nelle sottane e si annoiava alle descrizioni del cielo, del purgatorio e dell'inferno, ma seguiva suo marito nelle sue ambizioni parlamentari, con la speranza che se avesse occupato un posto al Congresso, lei avrebbe potuto ottenere il voto femminile, per il quale lottava da ormai dieci anni, senza che le sue numerose gravidanze riuscissero a scoraggiarla. Quel Giovedì Santo padre Restrepo aveva spinto gli ascoltatori al limite della resistenza con le sue visioni apocalittiche e Nivea cominciò a sentire giramenti di testa. Si chiese se non fosse di nuovo incinta. Nonostante i lavacri con aceto e le spugnature con ghiaccio, aveva dato alla luce quindici figli, dei quali ne restavano vivi solo undici, e aveva motivo di supporre che già stesse entrando nella maturità, dato che sua figlia Clara, la minore, aveva dieci anni. Sembrava che fosse infine venuto meno l'impegno della sua stupefacente fertilità. Cercò di attribuire il suo malessere al momento del sermone di padre Restrepo quando l'aveva additata parlando dei farisei che pretendevano di legalizzare i bastardi e il matrimonio civile, minando la famiglia, la patria, la proprietà e la Chiesa, dando alle donne la stessa posizione degli uomini, in aperta sfida alla legge di Dio, che in merito era molto precisa. Nivea e Severo occupavano, con i loro figli, tutta la terza fila dei banchi. Clara era seduta accanto alla madre e questa le stringeva la mano con impazienza quando il discorso del sacerdote si dilungava troppo sui peccati della carne, perché sapeva che ciò induceva la piccola a visualizzare aberrazioni che andavano oltre la realtà, com'era evidente dalle domande che faceva e alle quali nessuno sapeva rispondere. Clara era molto precoce e aveva la dilagante immaginazione che ereditarono tutte le donne della sua famiglia dal lato materno. La temperatura della chiesa era aumentata e l'odore penetrante dei ceri, dell'incenso e della folla stipata contribuivano a estenuare Nivea. Desiderava che la cerimonia terminasse una volta per tutte, per tornare nella sua casa fresca, per sedersi nel cortile delle felci e assaporare la caraffa di orzata che la Nana preparava nei giorni di festa. Guardò i suoi figli, i più piccoli erano stanchi, irrigiditi negli abiti della domenica, e i più grandi cominciavano a distrarsi. Posò lo sguardo su Rosa, la maggiore delle sue figliole vive, e, come sempre, si stupì. La sua strana bellezza aveva una qualità perturbante alla quale neppure lei riusciva a sottrarsi, sembrava fatta di un materiale diverso da quello della razza umana. Nivea sapeva che non era di questo mondo ancora prima che nascesse, perché l'aveva vista in sogno, perciò non si era sorpresa del fatto che la levatrice avesse cacciato un grido nel vederla. Appena nata Rosa era bianca, liscia, senza grinze, come una bambola di porcellana, con i capelli verdi e gli occhi gialli, la creatura più bella che fosse nata sulla terra dai tempi del peccato originale, come aveva detto la levatrice facendosi il segno della croce. Fin dal primo bagno la Nana le aveva lavato i capelli con infusi di camomilla, che ebbero il pregio di mitigare il colore, conferendogli una sfumatura di bronzo vecchio, e la esponeva nuda al sole, per rinforzarle la pelle, che era traslucida nelle zone più delicate del ventre e delle ascelle, dove si scorgevano le vene e il tessuto segreto dei muscoli. Quei trucchi da zingara, tuttavia, non furono sufficienti e presto corse voce che era nato un angelo. Nivea sperò che le ingrate tappe della crescita avrebbero conferito a sua figlia qualche imperfezione, ma nulla di ciò accadde, al contrario, a diciotto anni Rosa non era ingrassata e non le erano spuntati foruncoli, ma piuttosto si era accentuata la sua grazia marina. Il tono della sua pelle, dai morbidi riflessi azzurrognoli, e quello dei suoi capelli, la lentezza dei suoi gesti e il suo carattere silenzioso evocavano un'abitatrice dell'acqua. Aveva qualcosa del pesce e se avesse avuto una coda squamosa sarebbe stata sicuramente una sirena, ma le sue gambe la collocavano in un limite impreciso tra la creatura umana e l'essere mitologico. Nonostante tutto la ragazza aveva condotto una vita quasi normale, aveva un fidanzato e un bel giorno si sarebbe sposata, sicché la responsabilità della sua bellezza sarebbe passata ad altre mani. Rosa chinò la testa e un raggio filtrò attraverso la vetrata gotica della chiesa, disegnando un alone di luce intorno al suo profilo. Alcune persone si girarono per guardarla e si misero a parlottare, come di norma accadeva quando passava, ma Rosa non sembrava rendersi conto di nulla, era immune da vanità e quel giorno era più assente del solito, intenta a immaginare nuove bestie da ricamare sulla sua tovaglia, metà uccelli e metà mammiferi, coperte di piume iridescenti e munite di corna e artigli, così grasse e con ali così corte da sfidare le leggi della biologia e dell'aerodinamica. Di rado pensava al suo fidanzato, Esteban Trueba, non per mancanza d'amore ma per il suo temperamento distratto e perché due anni di separazione sono una lunga assenza. Lui stava lavorando nelle miniere del Nord. Le scriveva metodicamente e talvolta Rosa gli rispondeva inviando versi copiati e disegni di fiori su carta pergamena con inchiostro di china. Attraverso questa corrispondenza, che Nivea violava regolarmente, venne a conoscenza degli alti e bassi del lavoro di minatore, sempre minacciato da frane, all'inseguimento di filoni sfuggenti, in cerca di prestiti in nome della buona fortuna e nella speranza di trovare una meravigliosa vena d'oro che gli permettesse di fare una rapida fortuna per condurre Rosa all'altare, e trasformarsi così nell'uomo più felice dell'universo, come diceva sempre al termine delle sue lettere. Rosa, tuttavia, non aveva fretta di sposarsi e aveva quasi dimenticato l'unico bacio che si erano scambiati alla partenza, e non riusciva neppure a ricordare il colore degli occhi di quel fidanzato tenace. Sotto l'influenza dei romanzi romantici, che costituivano la sua unica lettura, le piaceva immaginarlo con stivali di cuoio, la pelle bruciata dai venti del deserto, mentre scavava la terra in cerca di tesori dei pirati, dobloni spagnoli e gioielli degli Incas, ed era inutile che Nivea cercasse di convincerla che le ricchezze delle miniere se ne stavano infilate tra le pietre, perché a Rosa sembrava impossibile che Esteban Trueba raccogliesse tonnellate di rocce nella speranza che, mentre poi le sottometteva a innocui procedimenti, sputassero un grammo d'oro. Intanto lo aspettava senza annoiarsi, imperturbabile nel gigantesco compito che si era imposta: ricamare la tovaglia più grande del mondo. Aveva cominciato con cani, gatti e farfalle, ma immediatamente la fantasia si era impossessata del suo ricamo e a poco a poco era apparso un paradiso di bestie impossibili che nascevano dal suo ago, davanti agli occhi preoccupati del padre. Severo pensava che fosse tempo che sua figlia si scrollasse il torpore e mettesse i piedi nella realtà, che imparasse qualche faccenda domestica e si preparasse al matrimonio, ma Nivea non condivideva quest'inquietudine. Preferiva non tormentare la figlia con esigenze terrene, perché aveva il presentimento che Rosa fosse un essere celestiale, che non era fatto per durare a lungo nell'andirivieni banale di questo mondo, sicché la lasciava in pace con i suoi fili da ricamo e non criticava quel giardino zoologico da incubo.

Una stecca del busto di Nivea si ruppe e la punta le si conficcò tra le costole. Sentì che soffocava dentro il vestito di velluto azzurro, dal collo di pizzo troppo alto, dalle maniche molto strette, la vita così attillata, che quando si slacciava il corsetto passava mezz'ora in contorcimenti di pancia finché le budella non si assestavano nella loro posizione normale. Ne avevano discusso minuziosamente lei e le sue amiche suffragette ed erano arrivate alla conclusione che, finché le donne non si fossero accorciate le gonne e i capelli e non si fossero tolte le sottogonne inamidate, era lo stesso se potevano studiare medicina o avere diritto al voto, perché in nessun modo avrebbero avuto la forza di farlo, ma lei stessa non aveva il coraggio di essere tra le prime ad abbandonare quella moda. Si accorse che la voce galiziana aveva smesso di martellarle il cervello. Si trovava in una di quelle lunghe pause del sermone cui il prete, consapevole dell'effetto di un silenzio imbarazzante, ricorreva con frequenza. I suoi occhi ardenti approfittavano di quei momenti per osservare i parrocchiani a uno a uno. Nivea lasciò la mano di sua figlia Clara e cercò un fazzoletto nella sua manica per asciugarsi una goccia che le scivolava lungo il collo. Il silenzio si fece denso, il tempo sembrò fermarsi nella chiesa, ma nessuno osò tossire o cambiare posizione, per non attirare lo sguardo di padre Restrepo. Le sue ultime frasi vibravano ancora tra le colonne.

E in quel momento, come avrebbe ricordato anni dopo Nivea, in mezzo alla trepidazione e al silenzio, si udì ben nitida la voce della piccola Clara.

Pst! Padre Restrepo! Se il racconto dell'inferno fosse tutta una bugia, saremmo proprio fregati...

Il dito indice del gesuita, che era rimasto a mezz'aria per indicare nuovi supplizi, rimase sospeso come un parafulmine sopra la sua testa. La gente smise di respirare e quelli che stavano con la testa a ciondoloni si ripresero. I coniugi del Valle furono i primi a reagire sentendo che li invadeva il panico e vedendo che i loro figli cominciavano ad agitarsi nervosi. Severo comprese che doveva far qualcosa prima che esplodesse la risata collettiva o si scatenasse qualche cataclisma celeste. Prese sua moglie per un braccio e Clara per il collo e uscì trascinandole a grandi falcate, seguito dagli altri figli che si precipitarono in gruppo verso la porta. Riuscirono a uscire prima che il sacerdote avesse potuto invocare un fulmine che li trasformasse in statue di sale, ma dalla soglia udirono la sua terribile voce di arcangelo offeso.

Indemoniata! Superba indemoniata!

Queste parole di padre Restrepo rimasero nella memoria della famiglia con la gravità di una profezia e, negli anni successivi, ebbero modo di ricordarle spesso. L'unica che non ci ripensò più fu proprio Clara, che si limitò a segnarle nel suo diario e poi se le dimenticò. I suoi genitori, invece, non poterono ignorarle sebbene fossero d'accordo sul fatto che la possessione demoniaca e la superbia erano due peccati troppo grandi per una bambina così piccola. Temevano la maledizione della gente e il fanatismo di padre Restrepo. Fino a quel giorno, non avevano dato un nome alle eccentricità della loro figlia minore, né le avevano messe in rapporto con influenze sataniche. Le prendevano come una caratteristica della bambina, come lo era l'andatura zoppa di Luis o la bellezza di Rosa. I poteri mentali di Clara non davano fastidio a nessuno e non causavano grandi disordini; si manifestavano quasi sempre in fatti di poca importanza e nella stretta intimità della casa. Certe volte, all'ora dei pasti, quando erano tutti riuniti nella grande sala da pranzo della casa seduti secondo uno stretto ordine di dignità e di gerarchia, la saliera cominciava a vibrare e subito si spostava sulla tavola tra bicchieri e piatti, senza l'intervento di alcuna fonte di energia conosciuta né di alcun trucco da illusionista. Nivea dava una tirata alle trecce di Clara e con quel sistema otteneva che sua figlia abbandonasse la sua distrazione lunatica e restituisse la normalità alla saliera, che di colpo recuperava la sua immobilità. I fratelli si erano organizzati in modo che, nel caso ci fossero state visite, quello che si trovava più vicino fermava con una manata ciò che si stava movendo sulla tavola prima che gli estranei se ne rendessero conto o avessero un sobbalzo. La famiglia continuava a mangiare senza far commenti. Si erano abituati anche ai presagi della sorella minore. Annunciava le scosse di terremoto con qualche anticipo, il che si rivelava molto pratico in quel paese di catastrofi, perché dava il tempo di mettere in salvo i servizi di porcellana e di tenere a portata di mano le pantofole per uscire di corsa nella notte. A sei anni Clara aveva predetto che il cavallo avrebbe gettato a terra Luis, ma lui non le aveva badato e da allora aveva un fianco sbilenco. Col tempo gli si era accorciata la gamba sinistra e doveva usare una scarpa speciale con un grande plantare che lui stesso si costruiva. In quell'occasione Nivea si era preoccupata, ma la Nana le aveva restituito la tranquillità dicendo che ci sono molti bambini che volano come le mosche, che hanno sogni divinatori e che parlano con le anime dei morti, ma che a tutti queste cose passano quando perdono l'innocenza.

Nessuno diventa grande così aveva spiegato. Aspetti che alla piccola vengano le mestruazioni e vedrà che la mania di far muovere i mobili e di annunciare disgrazie le passerà.

Clara era la preferita della Nana. L'aveva aiutata a nascere ed era l'unica che capiva realmente la natura stravagante della bambina. Quando Clara era uscita dal ventre di sua madre, la Nana l'aveva presa in braccio. l'aveva lavata e da quell'istante aveva amato disperatamente quella creatura fragile, con i polmoni pieni di muco, sempre sul punto di perdere il fiato e di diventare viola, che aveva dovuto far rivivere molte volte con il calore dei suoi grandi seni quando le mancava l'aria, perché lei sapeva che quello era l'unico rimedio per l'asma, di effetto molto più sicuro che non gli sciroppi a base alcolica del dottor Cuevas.

Quel Giovedì Santo, Severo passeggiava in salotto preoccupato per lo scandalo che sua figlia aveva scatenato a messa. Pensava che solo un fanatico come padre Restrepo poteva credere agli indemoniati in pieno secolo ventesimo, il secolo dei lumi, della scienza e della tecnica, nel quale il demonio era rimasto definitivamente screditato. Nivea lo interruppe per dire che non era questo il punto. La cosa grave era il fatto che se le prodezze di sua figlia fossero trapelate oltre le pareti di casa, e il prete avesse cominciato a indagare, tutti ne sarebbero venuti a conoscenza.

Verrà gente per guardarla come se fosse un fenomeno disse Nivea.

E il Partito Liberale andrà a remengo aggiunse Severo, il quale vedeva il danno che poteva comportare per la sua carriera politica un'affatturatrice in famiglia.

Stavano parlando di questo quando arrivò la Nana trascinando le sue ciabatte, col suo frufrù di sottovesti inamidate, per dire che nel portico c'erano alcuni uomini che scaricavano un morto. Proprio così. Erano entrati su un carro a quattro cavalli, che occupava tutto il primo cortile, schiacciando le camelie, sporcando di sterco il rilucente acciottolato, in un turbinio di polvere, in uno scalpitio di cavalli e un maledire di uomini superstiziosi che facevano gesti contro il malocchio. Portavano il cadavere dello zio Marcos con tutto il suo bagaglio. Dirigeva quel tumulto un ometto mellifluo, vestito di nero, con finanziera e un cappello troppo grande che iniziò un discorso solenne per spiegare le circostanze del caso, ma venne interrotto brutalmente da Nivea, che si lanciò sopra l'impolverata cassa che conteneva i resti del più amato fra i suoi fratelli. Nivea gridava che aprissero il coperchio per poterlo vedere con i suoi occhi. Le era già toccato di seppellirlo in una precedente occasione, e, per questo, aveva il dubbio che neppure quella fosse la volta definitiva della sua morte. Le sue grida richiamarono la folla della servitù di casa e tutti i figli, che accorsero all'udire il nome del loro zio risuonare fra lamenti di dolore.

Era un paio d'anni che Clara non vedeva suo zio Marcos, ma lo ricordava molto bene. Era l'unica immagine perfettamente nitida della sua infanzia e per evocarla non aveva bisogno di consultare il dagherrotipo del salotto dove lo si vedeva vestito da esploratore appoggiato a un fucile a due canne di vecchio modello, col piede destro sopra il collo di una tigre della Malesia, nello stesso atteggiamento trionfante che lei aveva osservato nella Vergine dell'altare maggiore, nell'atto di schiacciare col piede il demonio vinto, tra nubi di gesso e angeli pallidi. A Clara bastava chiudere gli occhi per vedere suo zio in carne ed ossa, incartapecorito dalle inclemenze di tutti i climi del pianeta, magro, con un paio di baffi da filibustiere, tra i quali spuntava il suo strano sorriso dai denti di pescecane. Sembrava impossibile che stesse dentro quel cassone nero in mezzo al cortile.

Ogni volta che Marcos aveva fatto visita in casa di sua sorella Nivea, si era fermato per vari mesi, provocando la gioia dei nipoti, specialmente di Clara, e una tempesta nella quale l'ordine familiare perdeva il suo baricentro. La casa si riempiva di bauli, di animali imbalsamati, di lance indiane, di fagotti da marinaio. Dappertutto la gente andava inciampando nei suoi arnesi inauditi, comparivano insetti mai visti, che avevano fatto il viaggio da terre remote, per finire schiacciati sotto la scopa implacabile della Nana in un angolo qualsiasi della casa. Il modo di comportarsi dello zio Marcos era quello di un cannibale, come diceva Severo. Passava la notte facendo movimenti incomprensibili nel salotto, che, si seppe poi, erano esercizi destinati a perfezionare il controllo della mente sul corpo e a migliorare la digestione. Faceva esperimenti di alchimia in cucina, riempiendo tutta la casa di fumate fetide e rovinava le pentole con sostanze solide che non si potevano staccare dal fondo. Mentre quasi tutti cercavano di dormire, trascinava le sue valigie per i corridoi, provava suoni acuti con strumenti selvaggi e insegnava a parlare spagnolo a un pappagallo la cui lingua materna era di origine amazzonica. Di giorno dormiva in un'amaca che aveva steso tra due colonne dell'atrio, senza altri indumenti che un perizoma che metteva di pessimo umore Severo, ma che Nivea giustificava perché Marcos l'aveva convinta che così predicava il Nazzareno. Clara ricordava perfettamente, sebbene allora fosse molto piccola, la prima volta che suo zio Marcos era arrivato a casa di ritorno da uno dei suoi viaggi. Si era installato come se avesse dovuto rimanerci per sempre. Di lì a poco, stufo di presentarsi a riunioni di signorine dove la padrona di casa suonava il piano, di giocare a carte e di eludere le insistenze dei suoi parenti affinché mettesse la testa a posto e cominciasse a lavorare come aiutante nello studio legale di Severo del Valle, si era comprato un organetto e si era messo a girare per le strade, deciso a sedurre sua cugina Antonieta e, al tempo stesso, a rallegrare il pubblico con la sua musica a manovella. La macchina altro non era che una grande cassa rognosa munita di ruote, ma lui l'aveva dipinta con motivi marinari e gli aveva messo un falso fumaiolo da nave. Aveva l'aria di una cucina a carbone. L'organetto suonava alternativamente una marcia militare e un valzer e, tra un giro di manovella e l'altro, il pappagallo, che aveva imparato lo spagnolo, sebbene conservasse ancora il suo accento straniero, richiamava la folla con strida acute. Inoltre, da una cassettina tirava fuori col becco certi foglietti per vendere il futuro ai curiosi. I fogli rosa, verdi e azzurri erano così ben congegnati, che coincidevano sempre con i più segreti desideri del cliente. Oltre ai fogli della fortuna, vendeva palline di segatura per divertire i bambini e polveri contro l'impotenza che smerciava a bassa voce ai passanti affetti da quel male. L'idea dell'organetto era nata come ultimo e disperato stratagemma per conquistare la cugina Antonieta, dopo che altre forme più convenzionali di corteggiamento erano fallite. Aveva pensato che nessuna donna in pieno possesso delle sue facoltà mentali avrebbe potuto rimanere impassibile di fronte a una serenata di organetto. Aveva fatto così. Si era piazzato sotto la sua finestra un pomeriggio verso l'imbrunire, suonando la sua marcia militare e il suo valzer, nel momento in cui lei prendeva il tè con un gruppo di amiche. Antonieta non gli aveva badato finché il pappagallo non aveva cominciato a chiamarla col suo nome di battesimo e allora si era affacciata alla finestra. La sua reazione non era stata quella che il suo innamorato sperava. Le sue amiche si erano prese la briga di diffondere la notizia in tutti i salotti della città e, il giorno dopo, la gente aveva cominciato a passeggiare per le strade del centro nella speranza di vedere con i propri occhi il cognato di Severo del Valle che suonava l'organetto e vendeva palline di segatura con un pappagallo tarmato, semplicemente per il piacere di constatare che anche nelle migliori famiglie c'erano buoni motivi per vergognarsi. Di fronte all'imbarazzo familiare Marcos aveva dovuto rinunciare all'organetto e scegliere metodi meno impegnativi per attrarre la cugina Antonieta, ma non aveva certo rinunciato ad assediarla. Comunque, non aveva avuto successo, perché la giovane si era sposata di punto in bianco con un diplomatico di vent'anni più vecchio, che se l'era portata a vivere in un paese tropicale il cui nome nessuno era in grado di ricordare, ma che evocava negritudine, banane e palmizi, grazie al quale era riuscita a vincere il ricordo di quel pretendente che aveva rovinato i suoi diciassette anni con quella marcia militare e quel valzer. Marcos era sprofondato nello sconforto per due o tre giorni, al termine dei quali aveva annunciato che non si sarebbe sposato mai e che se ne andava a fare il giro del mondo. Aveva venduto l'organetto a un cieco e lasciato il pappagallo in eredità a Clara, ma la Nana l'aveva segretamente avvelenato con un'overdose di olio di fegato di merluzzo, perché non poteva sopportare il suo sguardo lussurioso, le sue pulci e i suoi urli stonati che offrivano foglietti della fortuna, palline di segatura e polveri per l'impotenza.

Era stato quello il viaggio più lungo di Marcos. Era tornato con un carico di casse enormi che si erano affastellate nell'ultimo cortile, tra il pollaio e il deposito della legna, sino alla fine dell'inverno. Al sopraggiungere della primavera, le aveva fatte trasferire al Parco delle sfilate, un terreno enorme dove la gente si radunava durante la festa nazionale per vedere i militari che marciavano al passo dell'oca copiato dai prussiani. Quando le avevano aperte si era visto che le casse contenevano pezzi confusi di legno, di metallo e di stoffa dipinta. Marcos aveva trascorso due settimane a montare le varie parti seguendo le istruzioni di un manuale in inglese, che decifrava con la sua indomita immaginazione e con l'aiuto di un dizionario tascabile. Finito il lavoro, si era rivelato trattarsi di un uccello di dimensioni preistoriche, con un muso d'aquila furiosa dipinto sulla parte anteriore, ali mobili e un'elica sul dorso. Aveva suscitato scalpore. Le famiglie dell'oligarchia avevano dimenticato l'organetto e Marcos si era trasformato nella novità del momento. La gente durante le passeggiate domenicali andava a vedere l'uccello, i venditori di ghiottonerie e i fotografi ambulanti facevano affari d'oro. Tuttavia, di lì a poco, l'interesse del pubblico aveva cominciato a diminuire. Allora Marcos aveva annunciato che non appena si fosse schiarito il tempo aveva intenzione di sollevarsi con l'uccello e attraversare la cordigliera. La notizia si era sparsa in poche ore e si era trasformata nel fatto più discusso dell'anno. La macchina giaceva con la pancia a terra, pesante e goffa, con l'aspetto più di un papero ferito, che di uno di quei moderni aeroplani che si cominciavano a costruire in Nordamerica. Niente della sua apparenza faceva supporre che avrebbe potuto muoversi e tanto meno sollevarsi e attraversare le montagne innevate. I giornalisti e i curiosi erano accorsi in massa. Marcos sorrideva impassibile dinanzi alla valanga di domande e posava per i fotografi senza dare alcuna spiegazione tecnica o scientifica sul modo in cui pensava di compiere l'impresa. C'era gente venuta dalla provincia per vedere lo spettacolo. Quarant'anni dopo, suo nipote Nicolás, che Marcos non aveva fatto in tempo a conoscere, riesumò l'iniziativa di volare che era stata sempre latente negli uomini della sua stirpe. Nicolás ebbe l'idea di farlo a fini commerciali, in una salsiccia gigantesca piena d'aria calda, che avrebbe recato impressa una scritta pubblicitaria di bibite gassose. Ma, quando Marcos aveva proclamato il suo viaggio in aeroplano, nessuno credeva che quell'invenzione potesse servire a qualcosa di utile. Lui lo faceva per spirito d'avventura. Il giorno stabilito per il volo si era annunciato nuvoloso, ma l'aspettativa era tanta, che Marcos non se la sentiva di spostare la data. Si era presentato puntualmente sul posto e non aveva lanciato nemmeno uno sguardo al cielo che si copriva di grigi nuvoloni. La folla attonita aveva invaso tutte le strade adiacenti, si era arrampicata sui tetti delle case vicine e si era ammassata nel parco. Nessun comizio politico aveva mai riunito tanta gente finché, mezzo secolo dopo il primo candidato marxista non avrebbe tentato, con mezzi totalmente democratici, di occupare la sedia presidenziale. Clara avrebbe ricordato per tutta la vita quel giorno di festa. La gente aveva indossato abiti primaverili, anticipando un po' l'inaugurazione ufficiale della stagione, gli uomini in completo di lino bianco e le signore con cappellini di paglia italiana che quell'anno facevano furore. Gruppi di scolari sfilavano con i loro maestri, portando fiori all'eroe. Marcos accettava i fiori e scherzava accusandoli di sperare che lui si schiantasse per portargli fiori al funerale. Il vescovo in persona, senza che nessuno gliel'avesse chiesto, era comparso con due turiferari per benedire l'uccello e la banda della gendarmeria aveva suonato musica allegra e senza pretese, adatta al gusto popolare. La polizia a cavallo e con le lance aveva avuto difficoltà a trattenere la folla lontano dal centro del parco, dove si trovava Marcos, vestito con una tuta da meccanico, grandi occhiali da automobilista e il suo casco da esploratore. Per il volo portava, inoltre, una bussola, un cannocchiale e certe strane carte di navigazione aerea che lui stesso aveva tracciato basandosi sulla teoria di Leonardo da Vinci e sulle conoscenze astrali degli Incas. Contro ogni logica, al secondo tentativo l'uccello si era sollevato senza contrattempi e persino con una certa eleganza, tra gli scricchiolii del suo scheletro e i rantoli del suo motore. Era salito cabrando e si era perso tra le nuvole, salutato da uno scoppio di applausi, fischi, fazzoletti, bandiere, rulli di tamburo della banda e aspersioni di acqua benedetta. A terra era rimasto il parlottio della folla attonita e degli uomini più istruiti che tentavano di dare una spiegazione razionale al miracolo. Clara aveva continuato a guardare il cielo fino a molto dopo che suo zio era diventato invisibile. Aveva creduto di individuarlo dieci minuti dopo, ma era solo un passero in volo. Tre giorni dopo, l'euforia provocata dalla prima traversata aerea nel paese era svanita e nessuno aveva più ripensato all'episodio, eccetto Clara che scrutava instancabilmente le cime dei monti.

Trascorsa una settimana senza notizie dello zio volante, si era pensato che fosse salito fino a perdersi nello spazio siderale, e i più ignoranti prospettavano l'idea che sarebbe arrivato sulla luna. Severo giunse alla conclusione, con un misto di tristezza e di sollievo, che suo cognato era caduto con la sua macchina in qualche fenditura della cordigliera, dove non sarebbe mai stato ritrovato. Nivea aveva pianto sconsolatamente e aveva acceso alcune candele a Sant'Antonio, patrono delle cose perdute. Severo si era opposto all'idea di far dire qualche messa perché non credeva a quel mezzo per guadagnarsi il cielo e tanto meno per tornare in terra e sosteneva che le messe e le offerte, così come le indulgenze e il traffico di santini e di scapolari, erano un commercio disonesto. Per tale motivo, Nivea e la Nana avevano fatto recitare il rosario di nascosto a tutti i bambini per nove giorni. Frattanto, gruppi di esploratori e di alpinisti volontari lo cercavano instancabilmente per picchi e dirupi della cordigliera, finché non erano tornati trionfanti e avevano consegnato alla famiglia un nero e modesto feretro suggellato. Avevano sotterrato l'intrepido viaggiatore con un funerale grandioso. La sua morte l'aveva trasformato in un eroe e il suo nome era rimasto vari giorni nei titoli di tutti i giornali. La stessa folla, che si era riunita per salutarlo il giorno in cui si era sollevato con l'uccello era sfilata davanti al suo feretro. Tutta la famiglia l'aveva pianto come si meritava, meno Clara, che aveva continuato a scrutare il cielo con pazienza d'astronomo. Una settimana dopo la sepoltura sulla soglia della casa di Nivea e Severo del Valle, era comparso proprio lo zio Marcos, in persona, con un allegro sorriso fra i baffi da pirata. Grazie ai rosari clandestini delle donne e dei bambini come lui stesso ammise, era vivo e in possesso di tutte le sue facoltà, compresa quella del buon umore. Nonostante la nobile origine delle sue mappe aeree, il volo era stato un fallimento, aveva perduto l'aeroplano e aveva dovuto tornare a piedi, ma non aveva alcun osso rotto e serbava intatto il suo spirito d'avventura. Questo fatto rafforzò per sempre la devozione della famiglia per Sant'Antonio e non servì da lezione alle generazioni future che avrebbero tentato di volare con mezzi diversi. Legalmente, tuttavia, Marcos era un cadavere. Severo del Valle dovette impiegare tutta la sua conoscenza delle leggi per restituire al cognato la vita e la condizione di cittadino. All'apertura del feretro, davanti alle autorità competenti, si vide che avevano sepolto un sacco di sabbia. Questo fatto macchiò il prestigio, fino ad allora incorrotto, degli esploratori e degli alpinisti volontari: da quel giorno furono considerati poco meno che malfattori.

L'eroica resurrezione di Marcos finì per far dimenticare a tutti la storia dell'organetto. Tornarono a invitarlo a tutti i ricevimenti della città e, almeno per un certo tempo, il suo nome fu riabilitato. Marcos visse nella casa di sua sorella per qualche mese. Una notte se ne andò senza salutare nessuno, lasciando i bauli, i libri, le armi, gli stivali e tutte le sue cianfrusaglie. Severo e persino Nivea stessa respirarono di sollievo. La sua ultima visita era durata troppo. Clara si sentì tanto addolorata, che trascorse una settimana camminando come una sonnambula e succhiandosi il dito. La bimba che allora aveva sette anni, aveva imparato a leggere i libri di storie di suo zio e gli era vicina più di qualunque altro membro della famiglia per via delle sue facoltà divinatorie. Marcos sosteneva che la rara virtù di sua nipote poteva essere una fonte d'introiti e una buona occasione per sviluppare anche la sua chiaroveggenza. Era della teoria che quest'attitudine fosse presente in tutti gli esseri umani, specialmente in quelli della sua famiglia, e che se non si manifestava in modo proficuo era solo per mancanza di allenamento. Comprò al Mercato persiano una sfera di vetro, che, secondo lui, aveva proprietà magiche e veniva dall'Oriente, ma che più tardi si rivelò essere solo un galleggiante di barca da pesca, la collocò sopra un pezzo di velluto nero e annunciò che avrebbe potuto vedere il futuro, scongiurare il malocchio, leggere nel passato e migliorare la qualità dei sogni, il tutto per cinque centesimi. I suoi primi clienti furono le serve del vicinato. Una di queste era stata accusata di essere una ladra, perché la sua padrona aveva smarrito un anello. La sfera di vetro indicò il posto dove si trovava: il gioiello era rotolato sotto un armadio. Il giorno dopo c'era la coda davanti alla porta di casa. Arrivarono i vetturini, i commercianti, i venditori di latte e d'acqua e più tardi comparvero di soppiatto alcuni impiegati del municipio e alcune signore distinte che scivolavano con discrezione lungo le pareti, cercando di non essere riconosciute. La clientela veniva ricevuta dalla Nana, che sistemava tutti nella sala d'aspetto e riscuoteva gli onorari. Questo lavoro la teneva occupata quasi tutto il giorno al punto da assorbirla tanto che trascurava le faccende di cucina e in famiglia avevano cominciato a lamentarsi perché l'unica cosa che c'era a cena era fagioli secchi e marmellata di cotogne. Marcos aveva aggiustato la rimessa con certi tendaggi logori che in altri tempi erano appartenuti al salotto, ma che l'abbandono e la vecchiaia avevano trasformato in polverosi stracci. Lì accoglieva il pubblico insieme a Clara. I due indovini vestivano tuniche "del colore degli uomini della luce", come Marcos chiamava il giallo. La Nana aveva tinto le tuniche con polvere di zafferano, facendole bollire nella pentola destinata al biancomangiare. Marcos indossava, oltre alla tunica, un turbante legato alla testa e un amuleto egizio appeso al collo. Si era fatto crescere la barba e i capelli ed era più magro che mai. Marcos e Clara erano assai convincenti, soprattutto perché la bambina non aveva bisogno di guardare la sfera di vetro per indovinare quello che ciascuno desiderava udire. Lo sussurrava all'orecchio dello zio Marcos, il quale trasmetteva il messaggio al cliente e improvvisava i consigli che gli parevano azzeccati. Così la sua fama si era diffusa, perché tutti quelli che arrivavano al consultorio abbacchiati e tristi, ne uscivano pieni di speranza, gli innamorati che non erano corrisposti ottenevano un consiglio per accattivarsi il cuore indifferente e i poveri si portavano via sistemi infallibili per scommettere alle corse del cinodromo. L'affare era diventato così proficuo che la sala d'aspetto era sempre stipata di gente e alla Nana cominciarono a venire capogiri a furia di stare in piedi. In quell'occasione Severo non aveva avuto bisogno d'intervenire per porre fine all'iniziativa imprenditoriale di suo cognato, perché i due indovini, rendendosi conto che le loro intuizioni potevano modificare il destino della clientela, che seguiva alla lettera le loro parole, si erano spaventati e avevano deciso che quello era un mestiere da ciarlatani. Abbandonarono l'oracolo della rimessa e si spartirono equamente i guadagni, anche se invero l'unica interessata all'aspetto materiale dell'affare era la Nana.

Fra tutti i fratelli del Valle, Clara era quella che aveva più resistenza e più interesse ad ascoltare i racconti di suo zio. Li poteva ripetere tutti, sapeva a memoria diverse parole nei dialetti stranieri degli indiani, conosceva i loro costumi e poteva descrivere il modo in cui si trapassano le labbra e i lobi delle orecchie con pezzetti di legno, così come i riti di iniziazione e i nomi dei serpenti più velenosi e i loro antidoti. Lo zio era così convincente, che la bambina poteva sentire nella sua stessa carne il bruciante morso delle vipere, vedere il rettile strisciare sul tappeto tra le gambe della credenza di palissandro e ascoltare le grida dei pappagalli fra le tende della sala. Si ricordava senza incertezze il percorso di Lope de Aguirre nella sua ricerca di El Dorado, i nomi difficili da pronunciare della flora e della fauna visitata o inventata dal suo meraviglioso zio, sapeva che i lama bevono tè salato con grasso di yak e poteva descrivere nei dettagli le opulenti indigene della Polinesia, le risaie della Cina e le bianche pianure dei paesi del Nord, dove il gelo perenne ammazza le bestie e gli uomini che si distraggono, pietrificandoli in pochi minuti. Marcos possedeva molti diari di viaggio dove scriveva i suoi percorsi e le sue impressioni e così pure una collezione di carte geografiche e di libri di racconti, di avventure e perfino di fate, che custodiva nei suoi bauli nella stanza delle cianfrusaglie, in fondo al terzo cortile della casa. Di lì uscirono per popolare i sogni dei suoi discendenti finché non furono bruciati per sbaglio un secolo dopo, in una pira infame.

Dal suo ultimo viaggio, Marcos tornò in una cassa da morto. Era deceduto a causa di una misteriosa pestilenza africana che l'aveva a poco a poco fatto diventare rugoso e giallo come una pergamena. Sentendosi malato aveva intrapreso il viaggio di ritorno nella speranza che le cure di sua sorella e la saggezza del dottor Cuevas gli avrebbero restituito la salute e la giovinezza, ma non aveva resistito ai sessanta giorni di traversata in nave e all'altezza di Guayaquil era morto consumato dalla febbre delirando di donne profumate di muschio e di tesori nascosti. Il capitano della nave, un inglese di nome Longfellow, era stato lì lì per gettarlo in mare avvolto in una bandiera, ma Marcos si era guadagnato l'amicizia di molti e aveva fatto innamorare tante donne a bordo del transatlantico, nonostante il suo aspetto inselvatichito e il suo delirio, che i passeggeri glielo avevano impedito e Longfellow aveva dovuto immagazzinarlo insieme alle verdure del cuoco cinese, per preservarlo dal calore e dagli insetti del tropico, finché il falegname di bordo non gli aveva improvvisato una cassa. Al Callao si era trovato un feretro consono e qualche giorno dopo il capitano, furioso per le noie causate da quel passeggero alla Compagnia di Navigazione e a lui personalmente, l'aveva scaricato senza tanti riguardi sul molo, stupito che nessuno si presentasse a reclamarlo né a pagare le spese straordinarie. Più tardi si era reso conto che il servizio postale in quelle latitudini non aveva la stessa affidabilità di quello della sua lontana Inghilterra e che i suoi telegrammi si erano volatilizzati lungo il cammino. Fortunatamente per Longfellow si era presentato un avvocato della dogana che conosceva la famiglia del Valle e si era offerto di incaricarsi della faccenda, sistemando Marcos e il suo complesso bagaglio in una carrozza presa a nolo e portandolo in città, l'unico domicilio fisso che conosceva: la casa di sua sorella.

Per Clara quello sarebbe stato uno dei momenti più dolorosi della sua vita, se Barrabás non fosse arrivato mescolato agli arnesi dello zio. Ignorando la confusione che regnava nel cortile, il suo istinto la guidò direttamente nell'angolo dove avevano spinto la gabbia. Dentro c'era Barrabás. Era un ammasso di ossicini coperti da un pelame di colore indefinibile, pieno di chiazze spelate che facevano infezione, con un occhio chiuso e l'altro cisposo di pus, immobile come un cadavere in mezzo alle sue stesse sporcizie. Nonostante l'aspetto, la bambina non ebbe difficoltà a riconoscerlo.

Un cagnolino! strillò.

Si prese cura dell'animale. Lo tolse dalla gabbia, lo cullò tenendolo contro il petto e con attenzioni da missionaria riuscì a lavargli il muso gonfio e secco. Nessuno si era preoccupato di dargli da mangiare da quando il capitano Longfellow, che come tutti gli inglesi trattava meglio gli animali dei cristiani, l'aveva depositato con i bagagli sul molo. Finché il cane era rimasto a bordo accanto al padrone moribondo, il capitano gli aveva dato da mangiare con le sue stesse mani, e l'aveva portato a spasso in coperta, prodigandogli tutte le cure che aveva lesinato a Marcos, ma una volta arrivato in terra ferma, era stato trattato come parte del bagaglio. Clara divenne una madre per l'animale, senza che nessuno le contendesse quest'incerto privilegio, e riuscì a rianimarlo. Un paio di giorni dopo, una volta calmata la tempesta dell'arrivo del cadavere e della sepoltura dello zio Marcos, Severo notò la bestia pelosa che sua figlia teneva in braccio.

Cos'è quella roba? chiese.

Barrabás disse Clara.

Consegnalo al giardiniere, che se ne liberi. Può attaccarci qualche malattia ordinò Severo.

Ma Clara l'aveva adottato.

È mio, papà. Se me lo toglie, giuro che smetto di respirare e muoio.

Rimase in casa. Di lì a poco correva da ogni parte, divorando i fiocchi delle tende, i tappeti e le gambe dei mobili. Si riprese dalla sua agonia con grande rapidità e cominciò a crescere. Facendogli il bagno si seppe che era nero, con la testa quadrata, le zampe molto lunghe e il pelo raso. La Nana suggerì di mozzargli la coda, perché sembrasse un cane di razza, ma Clara fece un tale schiamazzo che degenerò in un attacco di asma e nessuno parlò più della faccenda. Barrabás rimase con la coda intera che col tempo raggiunse la lunghezza di un bastone da golf, dotata di movimenti incontrollabili che spazzavano via le porcellane dai tavoli e rovesciavano i lumi. Era di razza sconosciuta. Non aveva niente in comune con i cani che giravano vagabondi per la strada e tanto meno con le creature di pura razza che allevavano alcune famiglie aristocratiche. Il veterinario non seppe dire qual era la sua origine e Clara pensò che venisse dalla Cina, perché la maggior parte del contenuto dei bagagli di suo zio era ricordi di quel lontano paese. Possedeva un'illimitata capacità di crescita. A sei mesi aveva le dimensioni di una pecora, e a un anno le proporzioni di un puledro. La famiglia disperata si chiedeva fino a che punto sarebbe cresciuto e cominciava a dubitare che fosse veramente un cane, diceva che poteva trattarsi di un animale esotico catturato dallo zio esploratore in qualche regione remota del mondo, e che probabilmente allo stato naturale era feroce. Nivea ne osservava le unghie da coccodrillo e i denti affilati e il suo cuore di madre trasaliva al pensiero che la bestia avrebbe potuto strappare la testa a un adulto con un morso e a maggior ragione a qualunque dei suoi figli. Invece Barrabás non mostrava alcuna ferocia. Aveva le affettuosità di un gattino. Dormiva abbracciato a Clara, nel suo letto, con la testa sul cuscino di piume e coperto fino al collo perché era freddoloso, ma in seguito, quando ormai non ci stava più nel letto, si stendeva sul pavimento dalla sua parte, col muso da cavallo appoggiato sulla mano della bambina. Non lo si era mai sentito abbaiare o ringhiare. Era nero e silenzioso come una pantera, gli piacevano il prosciutto e la frutta candita e ogni volta che c'erano visite e si dimenticavano di rinchiuderlo, entrava silenziosamente nella sala da pranzo e girava intorno alla tavola, prelevando con delicatezza i suoi bocconi preferiti dai piatti senza che nessuno dei commensali osasse impedirglielo. Nonostante la sua mansuetudine da donzella, Barrabás ispirava terrore. I fornitori fuggivano precipitosamente quando si affacciava in strada e una volta la sua presenza provocò panico tra le donne che facevano la fila davanti al carretto che distribuiva il latte, spaventando il cavallo da tiro che si mise a correre imbizzarrito in mezzo a un fracasso di recipienti di latte sparsi sull'acciottolato. Severo dovette pagare tutti i danni e ordinò che il cane fosse legato in cortile, ma Clara ebbe un'altra delle sue convulsioni e la decisione fu rinviata a tempo indefinito. La fantasia popolare e la mancata conoscenza della sua razza attribuirono a Barrabás caratteristiche mitologiche. Raccontavano che continuava a crescere e che, se la brutalità di un macellaio non avesse posto fine alla sua esistenza, sarebbe arrivato ad avere le dimensioni di un cammello. La gente lo credeva l'incrocio di un cane con una giumenta, immaginava che potessero spuntargli ali, corna e respiro sulfureo da drago, come le bestie che Rosa ricamava sulla sua interminabile tovaglia. La Nana, stufa di raccogliere porcellane rotte e di sentire i pettegolezzi insinuanti secondo cui si trasformava in lupo nelle notti di luna piena, adottò con lui lo stesso sistema che aveva adottato col pappagallo, ma l'overdose di olio di fegato di merluzzo non lo uccise, gli provocò soltanto una caccarella di quattro giorni che lordò la casa da cima a fondo e che lei stessa dovette pulire.

 

Erano tempi difficili. Io avevo allora quasi venticinque anni, eppure mi sembrava di avere poco tempo davanti a me per costruirmi un futuro e avere la posizione cui ambivo. Lavoravo come una bestia e le poche volte che mi sedevo a riposare, costretto dal tedio di qualche domenica, sentivo che stavo perdendo momenti preziosi e che ogni minuto di ozio era un secolo di lontananza da Rosa. Vivevo alla miniera, in una baracca fatta di assi col tetto di zinco che io stesso mi ero costruito con l'aiuto di un paio di manovali. Era di una sola stanza in cui avevo sistemato le mie cose, con una finestrina su ogni parete perché circolasse l'aria afosa del giorno e con imposte per chiuderle di notte quando soffiava il vento glaciale. Tutto il mio mobilio consisteva in una seggiola, una branda militare, un tavolo rustico, una macchina per scrivere e una pesante cassaforte che avevo dovuto far portare a dorso di mulo attraverso il deserto, nella quale custodivo le paghe dei minatori, alcuni documenti e un sacchetto di tela in cui brillavano piccole pepite d'oro che rappresentavano il frutto di tanti sforzi. Non era comoda, ma io ero abituato alle scomodità. Non mi ero mai lavato con acqua calda e i ricordi che avevo della mia infanzia erano di fredda solitudine e un eterno vuoto nello stomaco. In quel luogo mangiai, dormii e scrissi per due anni, senz'altra distrazione se non qualche libro letto molte volte, un fascio di giornali vecchi, alcuni testi in inglese che mi servivano per imparare i primi rudimenti di quella magnifica lingua e un cassetto chiuso a chiave dove conservavo la corrispondenza che intrattenevo con Rosa. Mi ero abituato a scriverle a macchina con una copia che mettevo da parte per me e che conservavo in ordine di data insieme alle poche lettere che ricevevo da lei. Mangiavo lo stesso rancio che veniva cucinato per i minatori e avevo proibito che circolassero alcolici nella miniera. E neppure ne avevo in casa mia, perché ho sempre pensato che la solitudine e la noia finiscono per trasformare l'uomo in un alcolizzato. Forse il ricordo di mio padre, col colletto sbottonato, la cravatta allentata e sudicia, gli occhi torbidi e il fiato pesante, con un bicchiere in mano, ha fatto di me un astemio. Non sono uno fatto per bere, mi ubriaco con facilità. L'ho scoperto a diciassette anni e non l'ho mai dimenticato. Una volta mia nipote mi ha chiesto come ho potuto vivere così a lungo da solo e tanto lontano dalla civiltà. Non lo so. Ma in verità deve essere stato più facile per me che per altri, perché non sono una persona socievole, non ho molti amici, non mi piacciono le feste o la confusione, al contrario, sto meglio da solo. Faccio molta fatica a prendere confidenza con la gente. In quell'epoca non avevo ancora vissuto con una donna, sicché non potevo nemmeno sentire la mancanza di quello che non conoscevo. Non avevo gli amori facili, non li ho mai avuti, sono fedele di natura nonostante mi basti l'ombra di un braccio, la curva della vita, la piega di un ginocchio femminile, per farmi venire in testa certe idee anche oggi, che sono così vecchio che guardandomi allo specchio non mi riconosco. Sembro un albero contorto. Non cerco di giustificare i miei peccati di gioventù con la storia che non potevo controllare l'impeto dei miei desideri, e via dicendo. A quell'età ero abituato ai rapporti senza futuro con donne leggere, dato che non avevo possibilità di averne con altre. Nella mia generazione facevamo una distinzione tra le donne per bene e le altre e inoltre dividevamo le donne per bene tra le nostre e quelle degli altri. Non avevo mai pensato all'amore prima di conoscere Rosa, e il romanticismo mi sembrava pericoloso e inutile e se talvolta mi era piaciuta qualche ragazzina non avevo mai osato avvicinarmi a lei per timore di essere respinto e del ridicolo. Sono sempre stato orgoglioso e a causa del mio orgoglio ho sofferto più degli altri.

È passato più di mezzo secolo, ma ancora ho impresso nella memoria il momento preciso in cui Rosa, la bella, entrò nella mia vita, come un angelo distratto che passando mi rubò l'anima. Camminava con la Nana e un'altra creatura, probabilmente una sorella minore. Credo che indossasse un vestito lilla, ma non ne sono sicuro, perché non ho l'occhio per gli abiti da donna e perché era così bella, che se anche avesse avuto addosso una cappa di ermellino avrei potuto guardare solo il suo volto. Normalmente non casco ai piedi delle donne, ma avrei dovuto essere un cretino per non notare quell'apparizione che passando provocava un tumulto e rallentava il traffico, con quell'incredibile capigliatura verde che le incorniciava il volto come un cappello fantastico, il suo incedere da fata e quella maniera di muoversi come se stesse volando. Mi passò davanti senza vedermi ed entrò, ondeggiando, nella pasticceria della Plaza de Armas. Rimasi in strada, stupefatto, mentre lei comprava caramelle all'anice, scegliendole a una a una, con la sua risata squillante come un sonaglio, mettendosene una in bocca e dandone un'altra alla sorella. Non fui l'unico a essere ipnotizzato, in pochi minuti si era formato un capannello di uomini che sbirciavano attraverso la vetrina. Allora reagii. Non mi passò nemmeno per la testa che ero molto lontano dall'essere il pretendente ideale per quella giovane celestiale, dato che non avevo mezzi, ero tutt'altro che un bel ragazzo, e avevo davanti a me un futuro incerto. E nemmeno la conoscevo! Ma ero abbagliato e decisi proprio in quel momento che era l'unica donna degna di essere la mia sposa e che se non avessi potuto ottenerla, avrei preferito il celibato. Le andai dietro per tutto il tragitto di ritorno a casa. Salii sullo stesso tram e mi sedetti dietro di lei, senza poter distogliere lo sguardo dalla sua nuca perfetta, dal suo collo tondo, dalle sue spalle tenere accarezzate dai riccioli verdi che le sfuggivano dall'acconciatura. Non sentivo le scosse del tram perché mi muovevo come in sogno. Improvvisamente scivolò nel corridoio, e passandomi accanto le sue stupefacenti pupille d'oro si fermarono un istante nelle mie. Per un attimo fui come morto. Non potevo respirare e il battito del cuore si arrestò. Quando recuperai la padronanza di me stesso, dovetti balzare sul marciapiedi a rischio di rompermi qualche osso, e correre in direzione della strada che lei aveva preso. Indovinai dove abitava quando scorsi una macchia color lilla che svaniva dentro un portone. Da quel giorno montai la guardia davanti a casa sua, passeggiando lungo l'isolato come un cane randagio, spiando, facendomi amico il giardiniere, facendo parlare le donne di servizio, finché non riuscii a parlare con la Nana e lei, santa donna, ebbe compassione di me e accettò di farle pervenire i biglietti d'amore, i fiori, le innumerevoli scatole di caramelle all'anice con cui cercavo di conquistare il suo cuore. Le mandavo anche degli acrostici. Non so scrivere versi, ma c'era un libraio spagnolo che era un genio in fatto di rima, al quale ordinavo di comporre poesie, canzoni, qualsiasi cosa la cui materia prima fosse inchiostro e carta. Mia sorella Férula mi aiutò ad avvicinarmi alla famiglia del Valle, scoprendo remote parentele tra i nostri cognomi, e cercando occasioni per salutarci all'uscita dalla messa. Fu così che riuscii ad andare a far visita a Rosa. Il giorno che entrai in casa sua, e l'ebbi a portata della mia voce, non mi venne in mente nulla da dirle. Rimasi muto col cappello in mano e la bocca aperta, finché i suoi genitori, che conoscevano quei sintomi non mi tolsero d'impiccio. Non so cosa avesse potuto vedere Rosa in me, e neppure perché, col tempo, mi accettò come sposo. Riuscii a essere il suo fidanzato ufficiale senza compiere alcuna prodezza soprannaturale, perché, nonostante la sua bellezza sovrumana e le sue innumerevoli virtù, Rosa non aveva pretendenti. Sua madre mi fornì la spiegazione: disse che nessun uomo si sentiva abbastanza forte da passare la vita a difendere Rosa dalle bramosie degli altri. Molti le avevano gironzolato intorno perdendo la ragione per lei, ma finché io non ero apparso all'orizzonte nessuno si era ancora deciso. La sua bellezza intimoriva, per questo l'ammiravano da lontano, senza avvicinarsi. Io non ci avevo mai pensato, a dire il vero. Il mio problema era che non avevo un soldo, ma mi sentivo capace, per la forza dell'amore, di trasformarmi in un uomo ricco. Mi guardai intorno cercando una strada veloce, entro i limiti dell'onestà in cui ero stato educato, e vidi che per riuscire avevo bisogno di protettori, di studi speciali o di un capitale. Non era sufficiente avere un nome rispettabile. Credo che, se avessi avuto denaro per cominciare, avrei giocato alle carte o scommesso sui cavalli ma poiché questo non era il mio caso dovetti pensare a lavorare in qualcosa che, seppure rischiosa, avrebbe potuto farmi fare fortuna. Le miniere d'oro e d'argento erano la fortuna degli avventurieri: potevano farli sprofondare nella miseria, ammazzarli di tubercolosi o trasformarli in uomini potenti. Era questione di fortuna. Ottenni la concessione di una miniera del Nord con l'aiuto del prestigio del cognome di mia madre che servì affinché la banca mi concedesse un prestito. Feci il fermo proposito di cavarne fino all'ultimo grammo del prezioso metallo, anche se avessi dovuto spremere la montagna con le mie stesse mani e triturare le rocce a pedate. Per Rosa ero disposto a questo e a molto di più.

 

Alla fine dell'autunno, quando la famiglia si era tranquillizzata circa le intenzioni di padre Restrepo, il quale dovette placare la sua vocazione di inquisitore dopo che il vescovo in persona lo ebbe diffidato a lasciare in pace la piccola Clara del Valle, e quando tutti si erano rassegnati all'idea che lo zio Marcos era realmente morto, cominciarono a definirsi i piani politici di Severo. Per anni aveva lavorato a questo fine. Per lui fu un trionfo allorché lo invitarono a presentarsi come candidato del Partito Liberale alle elezioni parlamentari, in rappresentanza di una provincia del Sud dove non era mai stato e che nemmeno avrebbe potuto individuare con facilità su una mappa. Il partito aveva molto bisogno di gente e Severo era ansiosissimo di occupare un seggio al Congresso, sicché non ebbero molte difficoltà a convincere gli umili elettori del Sud, a nominare Severo loro candidato. L'invito fu accompagnato da un maiale arrostito, roseo e monumentale, che venne inviato dagli elettori a casa della famiglia del Valle. Era stato messo sopra un grande vassoio di legno, profumato e lustro, con un po' di prezzemolo sul grugno, una carota nel culo, disteso su un letto di pomodori. Aveva una grossa cucitura nella pancia e dentro era ripieno di pernici, che a loro volta erano ripiene di prugne. Arrivò accompagnato da un orciolo che conteneva mezzo gallone della migliore grappa del paese. L'idea di diventare deputato, o, meglio ancora, senatore, era un sogno lungamente blandito da Severo. Aveva continuato a condurre le cose fino a quella meta con un minuzioso lavoro di contatti, di amicizie, di conciliaboli, di pubbliche apparizioni discrete ma efficaci, di denaro e di favori che faceva alle persone giuste nel momento giusto. Quella provincia del Sud, sebbene remota e sconosciuta, era quanto stava aspettando.

La faccenda del maiale avvenne di martedì. Il venerdì, quando già del maiale rimanevano solo la pelle e le ossa che Barrabás rosicchiava in cortile, Clara annunciò che ci sarebbe stato un altro morto in casa.

Ma sarà un morto per sbaglio disse.

Il sabato ebbe una brutta notte e si svegliò gridando. La Nana le diede un infuso di tiglio e nessuno le badò più, perché tutti erano presi dai preparativi del viaggio del padre per il Sud e perché la bella Rosa si era svegliata con la febbre. Nivea aveva ordinato che lasciassero Rosa a letto e il dottor Cuevas aveva detto che non era nulla di grave, che le dessero una limonata tiepida ben zuccherata, con uno schizzo di liquore, perché si facesse una bella sudata. Severo andò a trovare la figlia e la trovò arrossata e con gli occhi lucidi, immersa nei pizzi color burro delle sue lenzuola. Le portò in regalo un carnet da ballo e autorizzò la Nana ad aprire l'orciolo della grappa e a mettergliene un po' nella limonata. Rosa bevve la limonata, si avvolse nello scialle di lana e immediatamente si addormentò vicino a Clara, con la quale divideva la camera da letto.

La mattina della tragica domenica, la Nana si alzò presto come sempre. Prima di andare a messa andò in cucina a preparare la colazione per la famiglia. La stufa a legna e a carbone era stata preparata fin dal giorno prima e lei accese il fuoco con i residui della brace ancora caldi. Mentre scaldava l'acqua e faceva bollire il latte, si mise a sistemare i piatti per portarli in sala da pranzo. Cominciò a cuocere l'avena, a filtrare il caffè, a tostare il pane. Sistemò i vassoi, uno per Nivea, che faceva sempre colazione a letto, e un altro per Rosa, che in quanto malata aveva lo stesso diritto. Coprì il vassoio di Rosa con un tovagliolo di lino ricamato dalle suore, affinché non si raffreddasse il caffè e non vi entrassero mosche, e si affacciò sul cortile per vedere che Barrabás non fosse lì intorno. Aveva la mania di saltarle addosso quando passava con la colazione. Lo vide distratto, intento a giocare con una gallina, e ne approfittò per iniziare il suo lungo viaggio attraverso cortili e corridoi dalla cucina, verso il fondo della casa, fino alla stanza delle bambine, all'altra estremità. Davanti alla porta di Rosa esitò, colpita dalla forza del presentimento. Entrò senza bussare all'uscio, com'era sua abitudine, e in quel momento si accorse che c'era profumo di rose nonostante non fosse l'epoca di quei fiori. Allora la Nana seppe che era accaduta una disgrazia irreparabile. Depose con attenzione il vassoio sul tavolino da notte e camminò lentamente fino alla finestra. Aprì le pesanti tende e il pallido sole del mattino entrò nella stanza. Si volse angosciata e non si sorprese vedendo sul letto Rosa morta, più bella che mai, con i capelli decisamente verdi, la pelle color del marmo nuovo, e i suoi occhi gialli come il miele, aperti. Ai piedi del letto c'era la piccola Clara che osservava sua sorella. La Nana s'inginocchiò accanto al letto, prese la mano di Rosa e cominciò a pregare. Continuò a pregare finché non si udì in tutta la casa un terribile lamento di nave dispersa. Fu la prima e l'ultima volta che Barrabás cacciò fuori la voce. Ululò alla morta tutto il giorno, fino a distruggere i nervi agli abitanti della casa e ai vicini, che accorsero attirati da quel gemito di naufragio.

Al dottor Cuevas bastò gettare uno sguardo al corpo di Rosa, per sapere che la morte era dovuta a qualcosa di molto più grave che una banale febbre. Cominciò a fiutare da ogni parte, ispezionò la cucina, passò le dita nelle casseruole, aprì i sacchi di farina, quelli dello zucchero, le scatole della frutta secca, buttò all'aria tutto e si lasciò dietro un disastro da uragano. Frugò nei cassetti di Rosa, interrogò i servitori a uno a uno, vessò la Nana finché non la fece uscir dai gangheri e al termine le sue indagini lo condussero all'orciolo di grappa che requisì senza tanti riguardi. Non comunicò a nessuno i suoi dubbi, ma si portò il recipiente nel laboratorio. Tre ore dopo era di ritorno con un'espressione di orrore che trasformava il suo rubicondo viso da fauno in una maschera pallida che non lo abbandonò durante tutta quella terribile faccenda. Si diresse verso Severo, lo prese per un braccio e lo tirò da parte.

In questa grappa c'era veleno sufficiente per avvelenare un toro gli disse a labbra strette. Ma per essere sicuro del fatto che sia stato questo a uccidere la ragazza, devo fare un'autopsia.

Intende dire che l'aprirà? gemette Severo.

Non completamente. La testa non la toccherò, solo il sistema digestivo spiegò il dottor Cuevas.

A Severo venne la nausea.

A quell'ora Nivea era sfinita dal pianto, ma quando venne a sapere che pensavano di portare sua figlia all'obitorio, recuperò di colpo l'energia. Si calmò solamente col giuramento che avrebbero portato Rosa direttamente dalla casa al Cimitero Cattolico. Allora accettò di bere il laudano che le aveva prescritto il medico e dormì per venti ore.

All'imbrunire, Severo dispose i preparativi. Mandò a letto i suoi figli e autorizzò la servitù a ritirarsi presto. A Clara, che era troppo impressionata per via dell'accaduto, concesse di passare la notte nella stanza di un'altra sorella. Dopo che tutte le luci furono spente e la casa si acquietò, giunse l'aiutante del dottor Cuevas, un giovane allampanato e miope, che quando parlava balbettava. Aiutarono Severo a trasportare il corpo di Rosa in cucina e lo adagiarono con delicatezza sul marmo dove la Nana impastava il pane e tritava le verdure. Nonostante la sua forza di carattere, Severo non poté sopportare il momento in cui tolsero la camicia da notte a sua figlia e apparve la sua splendida nudità da sirena. Uscì barcollante, ubriaco di dolore, e stramazzò nel salotto piangendo come un bambino. Anche il dottor Cuevas, che aveva visto nascere Rosa e la conosceva come il palmo della sua mano, ebbe un sobbalzo nel vederla senza niente addosso. Il giovane aiutante, da parte sua, cominciò ad ansimare per l'impressione e continuò ad ansimare negli anni seguenti, ogni volta che ricordava lo spettacolo incredibile di Rosa che dormiva nuda sopra la tavola della cucina, con i suoi lunghi capelli che cadevano fino a terra come una cascata vegetale.

Mentre lavoravano alla loro terribile incombenza, la Nana, stufa di piangere e di pregare, e col presentimento che qualcosa di strano stava succedendo nei suoi territori del terzo cortile, si alzò, si avvolse in uno scialle e si mise a girare per la casa. Vide luce nella cucina, ma la porta e le imposte delle finestre erano chiuse. Proseguì lungo i corridoi silenziosi e gelidi, attraversando i tre blocchi della casa, fino ad arrivare nel salotto. Attraverso la porta socchiusa intravide il suo padrone che passeggiava per la stanza con aria desolata. Il fuoco del caminetto si era spento. La Nana entrò.

Dov'è la piccola Rosa? chiese.

Il dottor Cuevas è con lei, Nana. Resta qui e bevi un sorso con me supplicò Severo.

La Nana rimase in piedi, con le braccia incrociate che le stringevano lo scialle al petto. Severo le indicò il divano e lei si avvicinò con timidezza. Si sedette al suo fianco. Era la prima volta che stava così vicino al padrone da quando viveva in quella casa. Severo versò un bicchiere di jerez a testa e bevve il suo d'un sorso. Affondò la testa tra le dita strappandosi i capelli e masticando tra i denti un'incomprensibile e triste litania. La Nana che stava rigidamente seduta sull'orlo della seggiola, vedendolo piangere si rilassò. Allungò la mano ruvida e con un gesto automatico gli lisciò i capelli con la stessa carezza che in vent'anni aveva usato per consolargli i figli. Lui alzò la testa e osservò la faccia senza età, gli zigomi indigeni, la crocchia nera, l'ampio grembo dove aveva visto piagnucolare e dormire tutti i suoi discendenti e sentì che quella donna calda e generosa come la terra poteva consolarlo. Appoggiò la fronte sulla sua gonna, aspirò il tenero odore del suo grembiule inamidato e proruppe in singhiozzi come un bambino, versando tutte le lacrime che aveva trattenuto nella sua vita d'uomo. La Nana gli grattò la schiena, gli diede colpetti consolatori con la mano, gli parlò con quel linguaggio dimezzato che usava per addormentare i bambini e gli cantò in un sussurro le sue ballate campagnole, finché non riuscì a tranquillizzarlo. Rimasero seduti molto vicini, bevendo jerez, piangendo a intervalli e ricordando i tempi felici in cui Rosa correva nel giardino per acchiappare farfalle con la sua bellezza da mare profondo.

In cucina, il dottor Cuevas e il suo aiutante prepararono i loro sinistri strumenti e le loro bottiglie fetide, si misero grembiuli di tela cerata, si rimboccarono le maniche e iniziarono a frugare nell'interno della bella Rosa, fino a provare, senza lasciar adito a dubbi, che la giovane aveva ingerito una dose superlativa di veleno per topi.

Era destinato a Severo concluse il dottore lavandosi le mani nel lavandino.

L'aiutante, troppo emozionato dalla bellezza della morta, non si rassegnava a vederla cucita come un sacco e suggerì di sistemarla un poco. Allora entrambi si dedicarono al compito di preservare il corpo con unguenti e di riempirlo con impiastri da imbalsamatori. Lavorarono fino alle quattro del mattino, ora in cui il dottor Cuevas si diede per vinto dalla stanchezza e dalla tristezza e uscì. Nella cucina Rosa rimase in mano all'aiutante, che la lavò con una spugna togliendole le macchie di sangue, le mise addosso la sua camicia ricamata per nascondere la cucitura che le andava dalla gola al sesso e le riordinò i capelli. Dopo ripulì le tracce del suo lavoro.

Il dottor Cuevas trovò nel salotto Severo in compagnia della Nana, ebbri di pianto e di jerez.

È pronta disse andiamo a sistemarla un po' perché sua madre possa vederla.

Spiegò a Severo che i suoi sospetti erano fondati e che nello stomaco di sua figlia aveva trovato la stessa sostanza mortale che c'era nella grappa regalata. Allora Severo si ricordò della predizione di Clara e perdette l'ultimo ritegno che gli restava, incapace di rassegnarsi all'idea che sua figlia era morta al posto suo. Crollò gemendo che era lui il colpevole, per la sua ambizione e le sue fanfaronate, che nessuno gliel'aveva detto di mettersi in politica, che stava molto meglio quando era un semplice avvocato e padre di famiglia, che rinunciava da quell'istante e per sempre alla maledetta candidatura al Partito Liberale, ai suoi fasti e alle sue opere, che sperava che nessuno dei suoi discendenti si sarebbe più mescolato con la politica, che quello era un affare da macellai e da banditi, finché il dottor Cuevas non si commosse e finì di ubriacarlo. Lo jerez fu più forte della pena e della colpa. La Nana e il dottore se lo portarono traballante nella sua camera, lo spogliarono e lo infilarono nel letto. Poi andarono in cucina, dove l'aiutante stava terminando di sistemare Rosa.

Nivea e Severo del Valle si svegliarono tardi il mattino dopo. I familiari avevano addobbato la casa per i riti della morte, le tende erano accostate e ornate di crespo nero e lungo le pareti erano allineate le corone di fiori e il loro aroma dolce riempiva l'aria. Avevano allestito una cappella ardente nella sala da pranzo. Sopra la grande tavola, coperta da un panno nero con fiocchi dorati, stava la bianca bara con borchie d'argento. Dodici ceri gialli, in candelabri di bronzo, illuminavano la giovane con un diffuso alone. L'avevano vestita col suo abito da sposa e le avevano messo la corona di zagare di cera che teneva da parte per il giorno delle nozze.

A mezzogiorno cominciò la sfilata dei familiari, degli amici e dei conoscenti per fare le condoglianze e per stare accanto ai del Valle nel loro dolore. Si presentarono a casa perfino i più accaniti nemici politici e Severo del Valle li guardò tutti, cercando di scoprire in ogni paio d'occhi che vedeva, il segreto dell'assassino, ma in tutti, anche in quelli del presidente del Partito Conservatore, vide lo stesso dolore e la stessa innocenza.

Durante la veglia, i gentiluomini giravano per i saloni e i corridoi della casa, parlando a bassa voce delle loro faccende d'affari. Serbavano un rispettoso silenzio quando si avvicinava qualcuno della famiglia. Nel momento di entrare nella sala da pranzo e di avvicinarsi alla bara per dare un'ultima occhiata a Rosa, tutti trasalivano perché la bellezza non aveva fatto che aumentare in quelle ore. Le signore passavano nel salotto, dove disponevano le seggiole della casa in modo da formare un circolo. Lì stavano comode a piangere con agio, sfogando, nel rispetto della morte estranea, altre loro tristezze. Il pianto era abbondante ma dignitoso e silente. Alcune sussurravano preghiere a bassa voce. Il personale della casa circolava per i saloni e i corridoi offrendo tazze di tè, coppe di cognac, fazzoletti puliti per le signore, dolci casalinghi e piccole compresse inzuppate in sali ammoniacali per le signore che tendevano ad avere svenimenti a causa del chiuso, dell'odore delle candele e della pena. Tutte le sorelle del Valle meno Clara, che era ancora molto giovane, erano vestite in stretto lutto, sedute intorno alla madre come una cerchia di corvi. Nivea, che aveva pianto tutte le sue lacrime, si teneva rigida sulla seggiola, senza un sospiro, senza una parola, senza il sollievo dei sali perché ne era allergica. I visitatori che arrivavano passavano a farle le condoglianze. Alcuni la baciavano sulle guance, altri l'abbracciavano stringendola per qualche secondo, ma lei sembrava non riconoscere nemmeno i più intimi. Aveva visto morire altri figli nella prima infanzia o alla nascita, ma nessuno le aveva dato la sensazione di perdita che provava in quel momento.

Ogni fratello si accomiatò da Rosa con un bacio sulla fronte gelida, meno Clara che non aveva voluto avvicinarsi alla sala da pranzo. Non avevano insistito, perché conoscevano la sua estrema sensibilità e la sua tendenza a soffrire di sonnambulismo quando le si alterava l'immaginazione. Rimase nel giardino accovacciata accanto a Barrabás, rifiutandosi di mangiare e di partecipare alla veglia funebre. Solo la Nana l'aveva notata e aveva cercato di consolarla, ma Clara l'aveva respinta.

Nonostante le precauzioni prese da Severo per mettere a tacere i mormorii, la morte di Rosa fu uno scandalo pubblico. Il dottor Cuevas diede, a chi glielo chiedeva, una spiegazione perfettamente ragionevole della morte della giovane, dovuta, a sentir lui, a una polmonite fulminante. Ma corse la voce che era stata avvelenata per errore, invece di suo padre. Gli assassinii politici erano sconosciuti nel paese a quei tempi e il veleno, comunque, era uno stratagemma da donnicciole, qualcosa di spregevole e che non si usava più dall'epoca della Colonia, perché perfino i crimini passionali si risolvevano a faccia aperta. Si levò un clamore di protesta per l'attentato e, prima che Severo avesse potuto evitarlo, la notizia venne pubblicata su un giornale dell'opposizione, che accusava velatamente l'oligarchia e aggiungeva che i conservatori erano capaci perfino di questo, in quanto non potevano perdonare a Severo del Valle che, malgrado la sua classe sociale, fosse passato dalla parte liberale. La polizia tentò di seguire la pista dell'orciolo di grappa, ma l'unica cosa chiarita fu che non aveva la stessa origine del maiale ripieno di pernici e che gli elettori del Sud non avevano nulla a che vedere col fatto. Il misterioso orciolo era stato trovato per caso alla porta di servizio della casa del Valle, lo stesso giorno dell'arrivo del maiale arrosto. La cuoca aveva immaginato che facesse parte dello stesso regalo. Né lo zelo della polizia, né le indagini che Severo fece compiere per conto proprio, tramite un investigatore privato, riuscirono a scoprire l'assassino e l'ombra di questa vendetta in sospeso rimase presente nelle generazioni successive. Quello fu il primo di molti atti di violenza che segnarono il destino della famiglia.

 

Me ne ricordo perfettamente. Era stato un giorno molto felice per me, perché era emersa una nuova vena, la pingue e meravigliosa vena che avevo inseguito in tutto quel tempo di sacrifici, di assenza e di attesa, e che poteva rappresentare la ricchezza che desideravo. Ero sicuro che in sei mesi avrei avuto denaro sufficiente per sposarmi e che in un anno avrei potuto considerarmi un uomo ricco. Avevo avuto molta fortuna perché, negli affari delle miniere, erano più quelli che si rovinavano che quelli che ce la facevano, come stavo dicendo in una lettera a Rosa quella sera, così euforico, così impaziente che mi si imbrogliavano le dita sulla vecchia macchina per scrivere e le parole venivano fuori appiccicate. Ero così intento quando udii alla porta i colpi che mi tolsero il respiro per sempre. Era un mulattiere con un paio di muli che portava dal paese un telegramma, spedito da mia sorella Férula, che mi annunciava la morte di Rosa.

Dovetti leggere quel pezzo di carta tre volte per capire l'immensità della mia desolazione. L'unica idea che non mi era mai passata per la testa era che Rosa fosse mortale. Avevo sofferto molto pensando che lei, stufa di aspettarmi, poteva decidere di sposarsi con un altro, oppure che non sarebbe mai emerso il maledetto filone che avrebbe fatto la mia fortuna, o che la miniera sarebbe franata schiacciandomi come uno scarafaggio. Avevo contemplato tutte queste possibilità e qualche altra ancora, ma mai la morte di Rosa, nonostante il mio proverbiale pessimismo, che mi fa sempre prevedere il peggio. Sentii che senza Rosa la vita non aveva significato per me. Mi afflosciai, come un pallone bucato, tutto l'entusiasmo mi abbandonò. Rimasi seduto sulla seggiola a guardare il deserto attraverso la finestra, chissà per quanto tempo, finché lentamente l'anima non mi tornò in corpo. La mia prima reazione fu d'ira. Mi scagliai con i pugni contro i deboli tramezzi di legno della casa fino a farmi sanguinare le nocche, stracciai in mille pezzi le lettere, i disegni di Rosa e le copie delle mie lettere che avevo conservato, cacciai velocemente i miei indumenti, le mie carte nella borsa di tela dove c'era l'oro, e poi andai a cercare il capocantiere per consegnargli le paghe degli operai e le chiavi dell'ufficio. Il mulattiere si offrì di accompagnarmi fino al treno. Dovemmo viaggiare per buona parte della notte sul dorso delle bestie, con coperte di Castiglia come unico riparo contro la camanchaca, quella fitta nebbia di montagna, procedendo con lentezza in quelle interminabili solitudini dove solo l'istinto della mia guida garantiva che saremmo arrivati a destinazione, perché non c'era alcun punto di riferimento. La notte era chiara e stellata, sentivo il freddo trafiggermi le ossa, intirizzirmi le mani, infilarsi nella mia anima. Andavo avanti pensando a Rosa e desiderando con veemenza irrazionale che la sua morte non fosse vera, chiedendo al cielo che fosse tutto un errore o che, rianimata dalla forza del mio amore, recuperasse la vita e si alzasse dal suo letto di morte come Lazzaro. Avanzavo piangendo dentro, immerso nella mia pena e nel gelo della notte, sputando bestemmie contro il mulo che andava così piano, contro Férula portatrice di disgrazie, contro Rosa per essere morta, e contro Dio per averlo permesso, finché l'orizzonte non cominciò a schiarirsi e vidi scomparire le stelle e sorgere i primi colori dell'alba, che tingevano di rosso e di arancione il paesaggio del Nord e, con la luce, mi tornò un po' di buon senso. Cominciai a rassegnarmi alla mia disgrazia e a chiedere, non più che resuscitasse, bensì solamente che io ce la facessi ad arrivare in tempo per vederla prima che la seppellissero. Allungammo il passo e un'ora dopo il mulattiere mi salutò nella minuscola stazione dove passava il treno a scartamento ridotto che univa il mondo civile con quel deserto in cui avevo trascorso due anni.

Viaggiai più di trenta ore senza fermarmi neppure per mangiare, dimentico perfino della sete, ma riuscii ad arrivare a casa della famiglia del Valle prima del funerale. Dicono che entrai in casa coperto di polvere, senza cappello, sporco e con la barba lunga, assetato e furioso, chiedendo a grida della mia fidanzata. La piccola Clara, che allora era una bambina magra e brutta, mi corse incontro quando entrai nel cortile, mi prese per mano e mi condusse in silenzio nella sala da pranzo. Lì tra bianche nuvole di raso bianco nella sua bianca bara c'era Rosa, che al terzo giorno dalla morte si era conservata intatta ed era mille volte più bella di come la ricordavo, perché Rosa nella morte si era sottilmente trasformata nella sirena che era sempre stata in segreto.

Maledizione! L'ho perduta! dicono che dissi, gridai, cadendo in ginocchio al suo lato, scandalizzando i congiunti, perché nessuno poteva comprendere la mia frustrazione di avere trascorso due anni a scavare la terra per diventare ricco, con l'unico proposito di condurre un giorno all'altare quella giovane che la morte mi aveva soffiato.

Qualche momento dopo arrivò il carro funebre, una carrozza enorme, nera e rilucente, trainata da sei corsieri impennacchiati come si usava allora, e guidata da due conducenti in livrea. Uscì di casa a metà pomeriggio, sotto una tenue guazza, seguita da una processione di carrozze che trasportavano i parenti, gli amici e le corone di fiori. Per consuetudine, le donne e i bambini non assistevano alle sepolture, che erano faccende da uomini, ma Clara riuscì a mescolarsi all'ultimo momento al corteo, per accompagnare la sorella Rosa. Avvertii la sua manina inguantata stretta nella mia e per tutto il tragitto l'ebbi al mio fianco, piccola ombra silenziosa che agitava nel mio animo una tenerezza sconosciuta. In quel momento nemmeno io mi resi conto che Clara non aveva detto neanche una sola parola in due giorni e che ne sarebbero trascorsi altri tre prima che la famiglia si allarmasse del suo silenzio.

Severo del Valle e i suoi figli portarono a spalla la bara bianca con borchie d'argento di Rosa e loro stessi la depositarono nella nicchia aperta nel mausoleo. Erano vestiti a lutto, silenziosi e senza lacrime, come lo esigono le norme di tristezza in un paese abituato alla dignità del dolore. Dopo che furono chiusi i cancelli della tomba e i congiunti, gli amici e i becchini se ne furono andati, rimasi lì tra i fiori sfuggiti all'appetito di Barrabás e che avevano accompagnato Rosa al cimitero. Dovevo avere l'aspetto di uno scuro uccello invernale, con i lembi della giacca che ballavano nel vento, alto e magro, com'ero allora, prima che mi colpisse la maledizione di Férula e cominciassi a rimpicciolirmi. Il cielo era grigio e minacciava pioggia, credo che facesse freddo, però non lo sentivo, perché la rabbia stava consumandomi. Non potevo staccare gli occhi dal piccolo rettangolo di marmo dove avevano inciso il nome di Rosa, la bella, e le date che segnavano il limite del suo breve passaggio in questo mondo, a grandi caratteri gotici. Pensavo che avevo perduto due anni sognando Rosa, lavorando per Rosa, scrivendo a Rosa, desiderando Rosa e infine non avevo neppure la consolazione di essere seppellito vicino a lei. Pensai agli anni da vivere che mi rimanevano e pensai che senza di lei non valevano la pena, perché non avrei trovato, in tutto l'universo, un'altra donna con i suoi capelli verdi, con la sua bellezza marina. Se mi avessero detto che sarei vissuto più di novant'anni, mi sarei sparato un colpo.

Non udii i passi del guardiano del cimitero che mi si avvicinò da dietro. Per questo trasalii quando mi toccò la spalla.

Come si permette di toccarmi? ruggii.

Indietreggiò spaventato, pover'uomo. Alcune gocce di pioggia bagnavano tristemente i fiori dei morti.

Mi scusi, signore, sono le sei e devo chiudere credo che mi avesse detto.

Cercò di spiegarmi che il regolamento proibiva alle persone estranee al personale di rimanere nel recinto dopo il tramonto, ma non lo lasciai terminare, gli misi in mano qualche banconota e lo spinsi via affinché se ne andasse e mi lasciasse in pace. Lo vidi allontanarsi guardandomi da sopra la spalla. Deve aver pensato che ero un pazzo, uno di quei dementi necrofili che talvolta gironzolano per i cimiteri.

Fu una lunga notte, forse la più lunga della mia vita. La trascorsi seduto accanto alla tomba di Rosa, parlando con lei, accompagnandola nella prima parte del suo viaggio verso l'Aldilà, quando è più difficile staccarsi dalla terra e si ha bisogno dell'amore di chi rimane vivo, per andarsene almeno con la consolazione di avere seminato qualcosa nel cuore altrui. Ricordavo il suo viso perfetto e maledicevo la mia sorte. Rinfacciai a Rosa gli anni che avevo passato dentro un buco nella miniera, sognando di lei. Non le dissi che, in tutto quel tempo, non avevo più visto donne, all'infuori di qualche miserabile prostituta invecchiata e distrutta, che serviva metà dell'accampamento più per buona volontà che per merito. Le dissi invece che avevo vissuto tra uomini rudi e senza legge, mangiando ceci e bevendo acqua putrida, lontano dalla civiltà, pensando a lei notte e giorno, recando nell'animo la sua immagine come uno stendardo che mi dava la forza di continuar a picconare la montagna, anche se il filone si era perso, malato di stomaco per la maggior parte dell'anno, intirizzito dal freddo di notte, allucinato dal caldo di giorno, tutto ciò all'unico scopo di sposarmi con lei, ma lei se n'era andata ed era morta a tradimento, prima che io potessi portare a termine i miei sogni, lasciandomi un'inguaribile desolazione. Le dissi che si era presa gioco di me, l'accusai che non eravamo stati mai veramente soli, che l'avevo potuta baciare una volta sola. Avrei dovuto tessere l'amore con ricordi e desideri opprimenti, ma impossibili da soddisfare, con lettere arretrate e sbiadite che non potevano riflettere la passione dei miei sentimenti né il dolore della sua assenza, perché non ho facilità col genere epistolare e molto meno per scrivere le mie emozioni. Le dissi che quegli anni alla miniera erano una perdita irrimediabile, che, se io avessi saputo che sarebbe rimasta così poco in questo mondo, avrei rubato il denaro necessario per sposarmi con lei e costruire un palazzo arredato con i tesori del fondo del mare: coralli, perle, madrepore, dove l'avrei tenuta rinchiusa e dove io solo avrei potuto entrare. L'avrei amata ininterrottamente per un tempo quasi infinito, perché ero sicuro che se fosse stata con me, non avrebbe bevuto il veleno destinato a suo padre e sarebbe vissuta mille anni. Le parlai delle carezze che le avevo riserbato, i regali con i quali l'avrei sorpresa, il modo in cui l'avrei fatta innamorare e resa felice. Le dissi, insomma, tutte le follie che non le avrei mai detto se avesse potuto udirmi e che non ho mai ripetuto a nessun'altra donna.

Quella notte credetti di avere perso per sempre la capacità d'innamorarmi, che mai più avrei potuto ridere o inseguire un'illusione. Però mai più è molto tempo. E l'ho potuto sperimentare in questa lunga vita.

Ebbi la visione della rabbia che cresceva dentro di me come un tumore maligno, insudiciava le ore migliori della mia esistenza, rendendomi impotente alla tenerezza o alla clemenza. Ma, al di sopra della confusione e dell'ira, il sentimento più forte che ricordo di avere provato quella notte fu il desiderio frustrato, perché mai più avrei potuto soddisfare l'ansia di toccare Rosa in ogni parte con le mani, di penetrare i suoi segreti, di sciogliere il verde sorgivo dei suoi capelli e immergermi nelle sue acque più profonde. Evocai con disperazione l'ultima immagine che avevo di lei, stagliata fra le nubi di raso della sua bara verginale, con le zagare da sposa che le coronavano la testa e un rosario tra le dita. Non sapevo che proprio così, con le zagare e il rosario, l'avrei rivista per un attimo fugace molti anni dopo.

Alle prime luci dell'alba tornò il guardiano. Deve avere provato pena per quel pazzo intirizzito che aveva trascorso la notte fra i lividi fantasmi del cimitero. Mi tese la sua borraccia.

Tè caldo. Ne beva un poco, signore mi offrì.

Ma io lo rifiutai con una manata e mi allontanai imprecando, a grandi falcate rabbiose, tra le file di tombe e di cipressi.

 

La notte in cui il dottor Cuevas e il suo aiutante sventrarono in cucina il cadavere di Rosa per trovare la causa della sua morte, Clara era nel letto con gli occhi aperti, tremante nell'oscurità. Aveva il terribile dubbio che sua sorella fosse morta perché lei l'aveva detto. Credeva che così come la forza della sua mente poteva far muovere la saliera, allo stesso modo poteva essere la causa delle morti, dei terremoti e di altre disgrazie maggiori. Invano sua madre le aveva spiegato che non poteva provocare gli eventi, ma solo vederli con qualche anticipo. Si sentiva desolata e colpevole e le venne in mente che se avesse potuto stare con Rosa, si sarebbe sentita meglio. Si alzò scalza, in camicia da notte, e andò nella stanza che aveva diviso con la sua sorella maggiore, ma non la trovò nel letto dove l'aveva vista per l'ultima volta. Uscì a cercarla per la casa. Tutto era buio e silenzio. Sua madre dormiva drogata dal dottor Cuevas e i suoi fratelli e la servitù si erano ritirati presto nelle loro stanze. Percorse i saloni, scivolando appiccicata ai muri, spaventata e intirizzita. I mobili pesanti, gli spessi tendaggi drappeggiati, i quadri alle pareti, la carta da parati con i suoi fiori dipinti sulla tela scura, le lampade spente che oscillavano dal soffitto e i cespugli di felci sulle colonne di maiolica le sembravano minacciosi. Notò che nel salone brillava un po' di luce da uno spiraglio sotto la porta e fu sul punto di entrare, ma temeva d'incontrare suo padre che l'avrebbe rimandata a letto. Si diresse allora in cucina, pensando che sul petto della Nana avrebbe trovato conforto. Attraversò il cortile principale tra le camelie e gli aranci nani, passò per i saloni del secondo blocco della casa e i tetri corridoi aperti dove la tenue luce delle lampade a gas restava accesa tutta la notte, per consentir di uscire a tentoni e per spaventare i pipistrelli e gli altri animali notturni, e arrivò nel terzo cortile, dove c'erano gli alloggi della servitù e la cucina. Lì la casa perdeva la sua prestanza signorile e cominciava il disordine dei canili, dei pollai e delle stanze dei domestici. Più oltre c'era la stalla dei cavalli dov'erano chiusi i vecchi cavalli che Nivea usava ancora, nonostante Severo del Valle fosse stato uno dei primi a comprare un'automobile. La porta e le imposte della cucina erano chiuse. L'istinto avvertì Clara che qualcosa di anormale avveniva lì dentro, tentò di affacciarsi, ma il suo naso non arrivava al davanzale della finestra, dovette trascinare una cassa e avvicinarla al muro, si arrampicò e poté guardare da una fessura tra l'imposta di legno e la cornice della finestra che l'umidità e il tempo avevano deformato. E allora vide dentro.

Il dottor Cuevas, quell'omaccione bonario e dolce, dalla grande barba e dal ventre opulento, che l'aveva aiutata a nascere e che l'aveva curata in tutte le sue piccole malattie dell'infanzia e nei suoi attacchi di asma, si era trasformato in un vampiro grasso e fosco come quelli delle illustrazioni dei libri dello zio Marcos. Era curvo sulla tavola dove la Nana preparava da mangiare. Al suo fianco c'era un giovane sconosciuto, pallido come la luna, con la camicia macchiata di sangue e gli occhi smarriti d'amore. Vide le gambe bianchissime di sua sorella e i suoi piedi nudi. Clara cominciò a tremare. In quel momento il dottor Cuevas si scansò e lei poté vedere l'orrendo spettacolo di Rosa distesa sul marmo, squarciata da un taglio profondo, con gli intestini messi a lato, dentro la ciotola per l'insalata. Rosa aveva la testa volta in direzione della finestra dalla quale lei stava spiando, i suoi lunghissimi capelli verdi scendevano come felci dalla tavola fino alle piastrelle del pavimento, macchiate di rosso. Aveva gli occhi chiusi, ma la bambina, per effetto delle ombre, della distanza o dell'immaginazione, credette di scorgervi un'espressione supplicante e umiliata.

Clara, immobile sopra la cassa, non poté smettere di guardare sino alla fine. Rimase a sbirciare dalla fessura per un lungo tempo, intirizzendosi senza rendersene conto, finché i due uomini non ebbero finito di vuotare Rosa, di iniettarle liquido nelle vene, di lavarla dentro e fuori con aceto aromatico ed essenza di lavanda. Rimase lì finché non l'ebbero riempita di impiastri da imbalsamatore e cucita con un ago ricurvo da materassaio. Rimase lì finché il dottor Cuevas non si fu nettato nel lavandino e sciacquato via le lacrime, mentre l'altro puliva il sangue e le viscere. Rimase lì finché il medico non fu uscito infilandosi la sua giacchetta nera con un gesto di mortale tristezza. Rimase lì finché il giovane sconosciuto non ebbe baciato Rosa sulle labbra, sul collo, sui seni, tra le gambe, finché non l'ebbe lavata con una spugna, finché non le ebbe infilato la sua camicia da notte ricamata e sistemato i capelli, ansimante. Rimase lì finché non furono arrivati la Nana e il dottor Cuevas e finché non l'ebbero vestita col suo abito bianco e incoronata con la corona di zagare che custodiva dentro carta di seta per il giorno delle nozze. Rimase lì finché l'aiutante non l'ebbe sollevata fra le braccia con la stessa commovente tenerezza con cui l'avrebbe sollevata per attraversare per la prima volta la soglia di casa se fosse stata la sua sposa. E non poté muoversi finché non furono apparse le prime luci. Allora scivolò fino al suo letto, sentendo dentro tutto il silenzio del mondo. Il silenzio la occupò interamente e non parlò più fino a nove anni dopo, quando tirò fuori la voce per annunciare che si sarebbe sposata.

 

 

2. LE TRE MARIE

 

Nella sala da pranzo della sua casa, tra mobili antiquati e malconci, che in un lontano passato erano stati dei bei pezzi vittoriani, Esteban Trueba mangiava con sua sorella Férula la stessa minestra unta di tutti i giorni e lo stesso pesce scipito di tutti i venerdì. Erano serviti dalla domestica che da sempre si era occupata di loro, secondo la tradizione di schiavi a pagamento di allora. La vecchia donna andava e veniva tra la cucina e la sala, curva e mezza cieca, ma ancora energica, portando e togliendo i piatti con solennità. Donna Ester Trueba non faceva compagnia ai suoi figli a tavola. Passava le mattinate immobile sulla seggiola guardando dalla finestra il movimento della strada e vedendo come il passar degli anni andava deteriorando il quartiere che ai tempi della sua gioventù era distinto. Dopo pranzo la trasferivano nel suo letto, sistemandola affinché potesse rimanere semiseduta, unica posizione che le permetteva l'artrite, senz'altra compagnia che la lettura pia dei suoi libretti devoti sulla vita e sui miracoli dei santi. Rimaneva lì fino al giorno dopo, quando si ripeteva la stessa routine. La sua unica uscita in strada era per assistere alla messa della domenica nella chiesa di San Sebastián, a due isolati da casa, dove la portavano Férula e la domestica sulla sua seggiola a rotelle.

Esteban finì di spolpare la carne biancastra del pesce tra il groviglio di spine e lasciò le posate nel piatto. Si sedeva rigidamente, così come camminava, molto sostenuto, con la testa leggermente china all'indietro e un po' piegata di lato, guardando di sbieco con una mescolanza di alterigia, sfiducia e miopia. Questo portamento sarebbe stato sgradevole se i suoi occhi non fossero stati sorprendentemente dolci e chiari. Il suo modo di muoversi, così teso, era più adatto a un uomo grosso e basso che avesse voluto sembrare più alto, mentre lui era alto un metro e ottanta ed era magro. Tutte le linee del suo corpo erano verticali e ascendenti, dall'affilato naso aquilino e dalle sopracciglia a punta fino all'alta fronte coronata da una chioma da leone che si pettinava all'indietro. Aveva ossa lunghe e mani dalle dita a spatola. Camminava a grandi passi, si muoveva con energia e sembrava molto forte, senza mancare, tuttavia, di una certa grazia nei gesti. Aveva un volto molto armonioso, nonostante le espressioni aduste e ombrose e la sua frequente smorfia di malumore. La sua indole predominante era il cattivo carattere e la tendenza a diventare violento e a perdere la testa, caratteristica che aveva fin dall'infanzia, quando si gettava a terra, con la bocca piena di schiuma, senza poter respirare dalla rabbia, sferrando calci come un indemoniato. Bisognava immergerlo nell'acqua gelata per fargli recuperare il controllo. Più tardi imparò a dominarsi, ma gli era rimasta per tutta la vita quell'ira sempre pronta, cui bastava un piccolo stimolo per cedere in attacchi terribili.

Non tornerò alla miniera disse.

Era la prima frase che scambiava con sua sorella a tavola. L'aveva deciso la notte prima, quando si era reso conto che non aveva senso continuare a fare una vita da anacoreta in cerca di una rapida ricchezza. La concessione della miniera gli valeva ancora per due anni, tempo sufficiente per sfruttare bene il meraviglioso filone che aveva scoperto, ma pensava che seppure il capocantiere avesse rubato un po', o non avesse saputo lavorare come avrebbe fatto lui, non c'era alcun motivo per andare a seppellirsi nel deserto. Non desiderava diventare ricco a costo di tanti sacrifici. Aveva davanti a sé tutta la vita per arricchirsi se poteva, per annoiarsi e aspettare la morte, senza Rosa.

Dovrai pur fare qualche lavoro, Esteban, replicò Férula. Sai bene che noi spendiamo poco, quasi nulla, ma le medicine della mamma sono care.

Esteban guardò sua sorella. Era ancora una bella donna, con forme opulente e un viso ovale da matrona romana, ma, attraverso la sua pelle pallida dai riflessi di pesca e i suoi occhi pieni d'ombre, già s'intravedeva la bruttezza della rassegnazione. Férula aveva accettato il ruolo d'infermiera di sua madre. Dormiva nella stanza attigua a quella di donna Ester, pronta in qualsiasi momento ad accorrere immediatamente al suo capezzale per somministrarle le sue pozioni, metterle la padella, sistemare i cuscini. Aveva un animo tormentato. Provava piacere nelle umiliazioni e nelle fatiche abiette, credeva che si sarebbe guadagnata il cielo al prezzo terribile di soffrire iniquità, perciò si compiaceva nel pulire le pustole delle gambe malate di sua madre, lavandola, mescolandosi ai suoi odori e alle sue miserie, scrutando il suo orinale. E così come odiava se stessa per quei tortuosi e inconfessabili piaceri, odiava sua madre perché le serviva da strumento. Si occupava di lei senza lagnarsi, ma faceva in modo da farle pagare impercettibilmente il prezzo della sua invalidità. Senza che fosse detto, era presente tra loro due il fatto che la figlia aveva sacrificato la sua vita per curare la madre ed era rimasta zitella per quel motivo. Férula aveva respinto due pretendenti col pretesto della malattia della madre. Non ne parlava, ma tutti lo sapevano. Aveva un modo di fare brusco e sgraziato con lo stesso brutto carattere di suo fratello, ma era costretta dalla vita e dalla sua condizione di donna a dominarlo e a mordere il freno. Sembrava tanto perfetta, che arrivò ad avere fama di santa. La citavano come esempio per la dedizione che prodigava a donna Ester e per il modo in cui aveva allevato il suo unico fratello quando la madre si era ammalata e il padre era morto lasciandoli in miseria. Férula aveva adorato suo fratello Esteban quand'era bambino. Dormiva con lui, gli faceva il bagno, lo portava a passeggio, lavorava giorno e notte cucendo per gli altri per pagargli la scuola e aveva pianto di rabbia e d'impotenza il giorno in cui Esteban aveva dovuto entrare a lavoro in uno studio notarile perché in casa quello che lei guadagnava non bastava per mangiare. L'aveva curato e servito come ora faceva con sua madre e aveva avvolto anche lui nella rete invisibile della colpevolezza e dei debiti di gratitudine non pagati. Il ragazzo aveva cominciato ad allontanarsi da lei non appena aveva indossato i pantaloni lunghi. Esteban poteva ricordare il momento esatto in cui si era reso conto che sua sorella era un'ombra fatidica. Era stato quando aveva riscosso il suo primo stipendio. Aveva deciso che si sarebbe tenuto cinquanta centesimi per realizzare un sogno che accarezzava fin dall'infanzia: bere un caffè viennese. Aveva visto attraverso le finestre dell'Hotel Francese, i camerieri che passavano con i vassoi sospesi sulle teste portando tesori: alte coppe di cristallo coronate di panna montata e decorate con una bella ciliegia ghiacciata. Il giorno della sua prima paga era passato davanti al locale molte volte prima di avere il coraggio di entrare. Infine aveva varcato con timidezza la soglia, col berretto in mano ed era avanzato nella lussuosa sala, tra lampadari a gocce e mobili in stile, con la sensazione che tutti lo stessero guardando, che mille occhi giudicassero il suo abito troppo stretto e le sue scarpe troppo vecchie. Si era seduto sul bordo della seggiola, con le orecchie bollenti, e aveva fatto l'ordinazione al cameriere con un filo di voce. Aveva aspettato impaziente, spiando negli specchi l'andirivieni della gente, assaporando in anticipo quel piacere tante volte immaginato. Ed era arrivato il suo caffè viennese, molto più impressionante di quanto avesse immaginato, superbo, delizioso, accompagnato da tre biscottini al miele. L'aveva ammirato a lungo affascinato. Infine aveva osato afferrare il lungo cucchiaino e, con un sospiro di gioia, l'aveva affondato nella panna. Aveva l'acquolina in bocca. Era disposto a far durare quell'istante il più a lungo possibile, a prolungarlo all'infinito. Aveva cominciato a rimestare per vedere come si mescolava il liquido scuro del bicchiere con la spuma della panna. Aveva rimestato, rimestato, rimestato... E, improvvisamente, la punta del cucchiaino aveva urtato contro il vetro, aveva aperto un orifizio da dove il caffè era schizzato fuori a pressione. Gli si era rovesciato sui vestiti. Esteban, inorridito, aveva visto tutto il contenuto del bicchiere spargersi sul suo unico abito, davanti allo sguardo divertito dei clienti agli altri tavoli. Si era levato, pallido di frustrazione, ed era uscito dall'Hotel Francese con cinquanta centesimi in meno, lasciandosi dietro un rigagnolo di caffè sui soffici tappeti. Era giunto a casa macchiato, furioso, sconvolto. Quando Férula aveva saputo quello che era successo, aveva commentato acidamente: "Questo ti capita per aver sprecato il denaro delle medicine della mamma per i tuoi capricci. Dio ti ha punito." In quel momento Esteban aveva visto con chiarezza i meccanismi che sua sorella usava per dominarlo, il modo in cui riusciva a farlo sentire colpevole e aveva capito che doveva mettersi in salvo. Nella misura in cui lui si andava allontanando dalla sua tutela, Férula lo andava prendendo in antipatia. La libertà che lui esibiva le faceva male come un rimprovero, come un'ingiustizia. Quando si era innamorato di Rosa e l'aveva visto sconvolto come un bambinetto, chiedendole aiuto, bisognoso di lei, sempre fra i suoi piedi in tutta la casa per supplicarla che si avvicinasse alla famiglia del Valle, che parlasse con Rosa, che imbonisse la Nana, Férula si era di nuovo sentita importante per Esteban. Per un certo tempo sembrarono riconciliati. Ma quel fugace riavvicinamento non era durato molto e Férula non ci aveva messo molto a rendersi conto di essere stata usata. Si era sentita contenta quando aveva visto partire il fratello per la miniera. Da quando aveva cominciato a lavorare, a quindici anni, Esteban aveva mantenuto la famiglia e aveva preso l'impegno di farlo sempre, ma a Férula non bastava. Le dava fastidio dover restare chiusa fra quelle pareti puzzolenti di vecchiaia e di medicine, tenuta sveglia dai gemiti dell'ammalata, attenta all'orologio per somministrarle le sue noiose medicine, stanca, triste, mentre suo fratello ignorava quegli obblighi. Lui poteva avere un destino luminoso, libero, pieno di successo. Avrebbe potuto sposarsi, avere figli, conoscere l'amore. Il giorno che aveva inviato il telegramma, che annunciava la morte di Rosa, aveva provato uno strano prurito, quasi di allegria.

Dovrai pur fare qualche lavoro ripeté Férula.

Non vi mancherà mai niente fintanto che vivrò disse.

È facile dirlo rispose Férula togliendosi una spina di pesce dai denti.

Credo che andrò in campagna, alle Tre Marie.

Ma è tutto una rovina, Esteban. Ti ho sempre detto che è meglio vendere la terra, però tu sei testardo come un mulo.

Non bisogna mai vendere la terra. È l'unica cosa che rimane quando il resto si esaurisce.

Non sono d'accordo. La terra è un'idea romantica, ciò che arricchisce gli uomini è l'occhio buono per gli affari soggiunse Férula. Ma tu l'hai sempre detto che un bel giorno saresti andato a vivere in campagna.

Ora è arrivato quel giorno. Odio questa città.

Perché non dici invece che odi questa casa?

Anche rispose brutalmente.

Mi sarebbe piaciuto nascere uomo, per potermene andare anch'io disse piena di odio.

E a me non sarebbe piaciuto nascere donna disse.

Finirono di mangiare in silenzio.

I fratelli erano molto distanti e l'unica cosa che ancora li univa era la presenza della madre e il ricordo confuso del bene che si erano voluti durante l'infanzia. Erano cresciuti in una casa cadente, assistendo al deterioramento morale ed economico del padre e poi alla lenta malattia della madre. Donna Ester aveva cominciato a soffrire di artrite fin da giovane, era andata facendosi rigida al punto di muoversi con grande difficoltà, come imbalsamata in vita, e, da ultimo, quando non aveva più potuto piegare le ginocchia, si era installata definitivamente sulla seggiola a rotelle, nella sua vedovanza e nella sua desolazione. Esteban ricordava la sua infanzia e la sua giovinezza, i suoi abiti stretti, il cordone di San Francesco che lo costringevano a portare per via di chissà quale fioretto di sua madre o di sua sorella, le sue camicie rammendate con cura e la sua solitudine. Férula, di cinque anni maggiore, lavava e inamidava un giorno sì e uno no le sue due uniche camicie, affinché fosse sempre in ordine e di bella presenza, e gli ricordava che dal lato materno portava il cognome più nobile e di alto lignaggio del Vicereame di Lima. Trueba era stato solo un miserabile incidente nella vita di donna Ester, che era destinata a sposarsi con qualcuno della sua classe sociale, ma si era innamorata perdutamente di quel perdigiorno, immigrato di prima generazione, che in pochi anni aveva dilapidato la sua dote e poi la sua eredità. Ma a Esteban il passato di sangue blu non serviva a nulla, se in casa sua non c'era di che pagare il conto del droghiere e doveva andare a scuola a piedi, perché non aveva un centesimo per il tram. Ricordava che lo mandavano a lezione col petto e le spalle foderate con carta di giornale, perché non aveva maglie di lana, e il suo cappotto faceva pietà, e che soffriva al pensiero che i suoi compagni potessero sentire, come lui lo sentiva, lo scricchiolio della carta mentre si sfregava contro la pelle. D'inverno, nella casa di sua madre l'unica fonte di calore era un braciere intorno al quale si riunivano in tre per risparmiare le candele e il carbone. Era stata un'infanzia di privazioni, di disagi, di asprezze, di interminabili rosari notturni, di paure e di colpe. Di tutto questo gli erano rimasti solo la rabbia e un orgoglio smisurato.

Due giorni dopo Esteban Trueba partì per la campagna. Férula lo accompagnò alla stazione. Salutandolo lo baciò freddamente sulle guance e attese che salisse sul treno con le sue valigie di cuoio con fermagli d'ottone, le stesse che aveva comprato per andare alla miniera e che dovevano durargli tutta la vita, come aveva assicurato il venditore. Gli raccomandò di stare attento e di fare in modo di andarle a trovare di tanto in tanto, rispose che l'avrebbe certamente fatto, ma entrambi sapevano che erano destinati a non vedersi per molti anni e in fondo provavano un certo sollievo.

Avvisami se la mamma peggiora! gridò Esteban dal finestrino quando il treno si mise in movimento.

Non preoccuparti! rispose Férula, agitando il fazzoletto dal marciapiede.

Esteban Trueba si appoggiò allo schienale rivestito di velluto rosso e apprezzò l'iniziativa degli inglesi di costruire vetture di prima classe, dove si poteva viaggiare da signori, senza dover sopportare le galline, le ceste, gli involti di cartone legati con lo spago e il frignare dei bambini altrui. Si congratulò per avere deciso di comprare un biglietto più caro, per la prima volta in vita sua, e decise che era nei dettagli che si vedeva la differenza tra un signore e uno zoticone. Per questo, anche se si fosse trovato in una situazione difficile, da quel giorno in poi avrebbe speso per le piccole comodità che lo facevano sentire ricco.

Non voglio più essere povero! decise, pensando al filone d'oro.

Dal finestrino del treno vide passare il paesaggio della vallata centrale. Vasti campi dispiegati ai piedi della cordigliera, vasti appezzamenti di vigneti, di frumento, di erba medica e di meraviglie. La confrontò con le erme pianure del Nord, dove aveva trascorso due anni dentro un buco, in mezzo a una natura aspra e lunare la cui terrificante bellezza non si stancava di ammirare, affascinato dai colori del deserto, dagli azzurri, dai viola, dai gialli, dai minerali a fior di terra.

La mia vita sta cambiando mormorò.

Chiuse gli occhi e si addormentò.

 

Scese dal treno alla stazione di San Lucas. Era un posto squallido. A quell'ora non si vedeva nemmeno un'anima sul marciapiede di legno, con una pensilina rovinata dalle intemperie e dalle formiche. Di lì si poteva vedere tutta la vallata attraverso una bruma impalpabile che si levava dalla terra bagnata dalla pioggia della notte. Le montagne lontane si perdevano tra le nubi di un cielo coperto e solo la punta del vulcano si distingueva nitidamente, stagliata sul paesaggio e illuminata da un timido sole invernale. Si guardò intorno. Nella sua infanzia, nell'unica epoca felice che poteva ricordare, prima che suo padre finisse di rovinarsi e cedesse all'alcol e alla sua stessa vergogna, aveva percorso a cavallo quella regione con lui. Ricordava che alle Tre Marie aveva giocato d'estate, ma erano poi trascorsi tanti anni che la memoria l'aveva cancellato e non poteva riconoscere il posto. Cercò con lo sguardo il villaggio di San Lucas, ma riuscì solo a vedere un agglomerato di casupole lontane, scolorito nell'umidità del mattino. Attraversò la stazione. L'unico ufficio era chiuso con un lucchetto. C'era un cartello, scritto a matita, ma era così sbiadito che non poté leggerlo. Udì che alle sue spalle il treno si metteva in moto e cominciava ad allontanarsi lasciandosi dietro una colonna di fumo bianco. Era solo in quel luogo silenzioso. Prese le sue valigie e si avviò verso il fango e le pietre di un sentiero che portava al paese. Camminò più di dieci minuti, contento perché non pioveva, perché poteva avanzare a fatica con le sue pesanti valigie per quella strada e capiva che la pioggia l'avrebbe ridotta in pochi minuti in una fangaia intransitabile. Mentre si avvicinava alle casupole vide fumo su qualche comignolo e sospirò di sollievo, perché all'inizio aveva avuto l'impressione che fosse un villaggio abbandonato, tali erano lo sfacelo e la solitudine.

Si fermò all'inizio del paese, senza vedere anima viva. Nell'unica strada fiancheggiata da modeste case di mattoni, regnava il silenzio ed ebbe la sensazione di camminare in sogno. Si avvicinò alla prima casa che trovò, che non aveva alcuna finestra e la cui porta era aperta. Lasciò le valigie sul marciapiede ed entrò chiamando a voce alta. Dentro era buio, perché la luce entrava solo dalla porta, sicché gli ci vollero alcuni secondi per adattare la vista e abituarsi alla penombra. Allora scorse due bambini, che giocavano sul pavimento di terra battuta, che lo guardavano con grandi occhi spaventati, e nel cortile di dietro una donna che avanzava asciugandosi le mani nel grembiule. Vedendolo abbozzò un gesto istintivo per sistemarsi una ciocca di capelli che le cadeva sulla fronte. La salutò e lei rispose coprendosi la bocca con la mano per parlare in modo da nascondere le sue gengive senza denti. Trueba le spiegò che aveva bisogno di noleggiare un carretto, ma lei sembrò non capire e si limitò a nascondere i bambini fra le pieghe del grembiule, con uno sguardo senza espressione. Lui uscì, prese le sue valigie e proseguì il cammino.

Quando ebbe percorso quasi tutto il paese senza vedere nessuno e cominciava a disperarsi, sentì alle sue spalle il rumore degli zoccoli di un cavallo. Era un carretto sconquassato guidato da un legnaiolo. Gli si mise davanti e costrinse il conducente a fermarsi.

Può portarmi alle Tre Marie? La pagherò bene! gridò.

Cosa va a fare laggiù, signore? chiese l'uomo. Quella è terra di nessuno, un ammasso di pietre senza legge.

Ma accettò di portarlo e lo aiutò a sistemare le sue valigie tra due fascine di legna. Trueba gli si sedette accanto a cassetta. Da alcune case uscirono dei bambini che si misero a correre dietro il carretto. Trueba si sentì più solo che mai.

A undici chilometri dal villaggio di San Lucas, in una strada devastata, invasa dalle erbacce e piena di buchi, apparve un'insegna di legno col nome della proprietà. Pendeva da una catena rotta e il vento la sbatacchiava contro il palo con un rumore sordo che gli sembrò simile a un tamburo a lutto. Gli fu sufficiente un'occhiata per capire che ci voleva un Ercole per riscattare quel posto dalla desolazione. La gramigna si era ingoiata il sentiero e ovunque guardava vedeva pietre, erbacce e bosco. Non c'era nemmeno il ricordo di campi cintati, né resti dei vigneti che ricordava, nessuno che gli venisse incontro a salutarlo. Il carretto avanzò lentamente, seguendo una traccia che il passo delle bestie e degli uomini aveva segnato nella macchia. Di lì a poco scorse in fondo la casa che ancora si teneva in piedi, ma sembrava una visione da incubo piena di macerie, di rete del pollaio caduta in terra, di immondizia. Aveva metà delle tegole rotte e c'era un'edera selvatica che s'infilava nelle finestre e copriva quasi tutte le pareti. Intorno alla casa vide qualche baracca di mattoni senza tinta, senza finestre e coi tetti di paglia, neri di fuliggine.

Lo strepito delle ruote del carretto e le bestemmie del legnaiolo richiamarono gli abitanti delle baracche, che cominciarono a spuntare a poco a poco. Guardavano i sopraggiunti con sorpresa e diffidenza. Avevano trascorso quindici anni senza vedere alcun padrone e avevano semplicemente dedotto che non l'avevano. Non potevano riconoscere in quell'uomo alto e autoritario il bambino dai riccioli castani che molto tempo prima giocava in quello stesso cortile. Esteban li guardò e neppure lui poté ricordarli. Formavano un gruppo squallido. Vide diverse donne di età indefinibile, con la pelle screpolata e secca, alcune apparentemente incinte, tutte vestite di stracci scoloriti e scalze. Calcolò che c'erano perlomeno una dozzina di bambini di tutte le età. I piccoli erano nudi. Altri volti si affacciavano alle soglie delle baracche, senza osar uscire. Esteban abbozzò un gesto di saluto, ma nessuno rispose. Alcuni bambini corsero a nascondersi dietro le donne.

Esteban scese dal carretto, scaricò le sue due valigie e tese una moneta al legnaiolo.

Se vuole l'aspetto, padrone, disse l'uomo.

No. Rimango qui.

Si diresse verso la casa, aprì la porta con una spinta ed entrò. Dentro c'era abbastanza luce, perché la mattina entrava dalle imposte rotte e dai fori del tetto dove le tegole avevano ceduto. Era pieno di polvere e di ragnatele, con un'aria di abbandono completo, ed era evidente che in quegli anni nessuno dei contadini aveva osato lasciare la sua baracca per sistemarsi nella grande casa padronale vuota. Non avevano toccato i mobili, erano gli stessi della sua infanzia, negli stessi posti di sempre, però più brutti, lugubri e sgangherati di quanto poteva ricordare. Tutta la casa era tappezzata da uno strato d'erba, di polvere e di foglie secche. Puzzava di tomba. Un cane scheletrito gli abbaiò furiosamente contro, ma Esteban Trueba non gli badò e infine il cane, stanco, si gettò in un angolo a grattarsi le pulci. Lasciò le sue valigie sopra un tavolo e andò in giro per la casa, lottando contro la tristezza che cominciava a invaderlo. Passò da una stanza all'altra, vide il deterioramento che il tempo aveva causato in ogni cosa, la povertà, il sudiciume, e sentì che quello era un buco assai peggiore di quello della miniera. La cucina era un ampio locale lercio, dal tetto alto e dalle pareti annerite dal fumo della legna e del carbone, ammuffita, cadente, pendevano ancora da alcuni chiodi alle pareti le casseruole e le padelle di rame e di ferro che non erano state usate per quindici anni e che nessuno aveva toccato in tutto quel tempo. Le camere avevano gli stessi letti e gli stessi armadi con specchi comprati da suo padre in altri tempi, ma i materassi erano un mucchio di lana marcia e i vermi vi avevano fatto il nido per generazioni. Ascoltò lo zampettare discreto dei topi nei cassoni del tetto. Non riuscì a scoprire se il pavimento era di legno o di piastrelle, perché in nessun punto era visibile e il sudiciume lo copriva tutto. Lo strato grigio della polvere cancellava il contorno dei mobili. In quello che era stato il salotto, si vedeva ancora il piano tedesco con una gamba rotta e i tasti gialli, che suonava come un clavicembalo stonato. Sul palchetto erano rimasti alcuni libri illeggibili con le pagine mangiate dall'umidità, e in terra resti di riviste molto vecchie, che il vento aveva sparpagliato. Le poltrone avevano le molle allo scoperto, e c'era un nido di topi nella poltrona dove sua madre si sedeva a lavorare a maglia prima che la malattia le riducesse le mani come uncini.

Quando ebbe finito il suo giro, Esteban aveva le idee più chiare. Sapeva di avere davanti a sé un lavoro titanico, perché se la casa si trovava in quello stato di abbandono, non poteva sperare che il resto della proprietà fosse in migliori condizioni. Per un istante ebbe la tentazione di caricare le sue due valigie sul carretto e di tornarsene da dove era venuto, ma cancellò quel pensiero con un colpo di spugna e decise che se c'era qualcosa che poteva calmare la pena e la rabbia di avere perso Rosa era proprio rompersi la schiena su quella terra in rovina. Si tolse il cappotto, respirò profondamente e uscì nel cortile dove c'era ancora il legnaiolo insieme ai contadini riuniti a una certa distanza, con la riservatezza propria della gente di campagna. Si osservarono l'un l'altro con curiosità. Trueba fece alcuni passi verso di loro e percepì nel gruppo un lieve movimento all'indietro, fece correre lo sguardo sui cenciosi campagnoli e cercò di abbozzare un sorriso amichevole ai bambini sporchi di moccio, ai vecchi cisposi e alle donne senza speranza, ma gli venne fuori come una smorfia.

Dove sono gli uomini? domandò.

L'unico uomo giovane fece un passo avanti. Probabilmente aveva la stessa età di Esteban Trueba, ma sembrava più vecchio.

Se ne sono andati disse.

Come ti chiami?

Pedro Secondo García, signore rispose l'altro.

Sono io il padrone adesso. È finita la festa. Dobbiamo lavorare. A chi non garba l'idea, se ne vada subito. A chi rimane non mancherà da mangiare, ma dovrà sgobbare. Non voglio gente fiacca e neppure insolente, mi avete sentito?

Si guardarono sorpresi. Non avevano capito nemmeno la metà del discorso, ma sapevano riconoscere la voce del padrone quando la udivano.

Abbiamo sentito, padrone, disse Pedro Secondo García. Non sappiamo dove andare, siamo sempre vissuti qui. Ci restiamo.

Un bambino si accovacciò e si mise a fare la cacca e un cane rognoso si avvicinò ad annusarlo. Esteban, schifato, diede ordine di portare via il bambino, lavare il cortile e ammazzare il cane. Così cominciò la nuova vita che, col tempo, gli avrebbe fatto dimenticare Rosa.

 

Nessuno mi leverà dalla testa l'idea che sono stato un buon padrone. Chiunque avesse visto Le Tre Marie ai tempi dell'abbandono e le vedesse ora, che è un'azienda modello, dovrebbe essere d'accordo con me. Per questo non posso tollerare che mia nipote venga a parlarmi della lotta di classe, perché, se stiamo ai fatti, quei poveri contadini stanno molto peggio adesso che non cinquant'anni fa. Ero come un padre per loro. Con la riforma agraria siamo stati fottuti.

Per togliere Le Tre Marie dalla miseria avevo investito tutto il capitale risparmiato per sposarmi con Rosa e tutto quello che mi mandava il capocantiere dalla miniera, ma non è stato il denaro a salvare quella terra, bensì il lavoro e l'organizzazione. Corse la voce che alle Tre Marie c'era un nuovo padrone e che stavamo togliendo le pietre con buoi e arando i campi per seminare. Immediatamente cominciarono ad arrivare uomini a offrirsi come braccianti, perché io li pagavo bene, davo loro pasti abbondanti. Comprai animali. Gli animali erano sacri per me e benché dovessimo passare un anno senza assaggiare carne, non venivano uccisi. Così crebbe l'allevamento. Organizzai gli uomini in squadre e dopo avere lavorato nei campi, ci mettevamo a ricostruire la casa padronale. Non erano falegnami né muratori, ho dovuto insegnar loro io ogni cosa con l'aiuto di qualche manuale che avevo comprato. Con quest'aiuto riuscimmo a fare persino il lavoro da idraulico, aggiustammo i tetti, dipingemmo tutto a calce, ripulimmo fino a rendere la casa splendente dentro e fuori. Distribuii i mobili tra gli operai, tranne il tavolo della sala da pranzo, che era ancora indenne nonostante le tarme avessero infettato tutto, e il letto di ferro forgiato a mano che era stato dei miei genitori. Rimasi a vivere nella casa vuota senz'altri mobili che quelle due cose e alcune casse sulle quali mi sedevo, finché Férula non mi mandò dalla capitale i mobili nuovi che le avevo ordinato. Erano mobili grossi, pesanti, pomposi, adatti a resistere per molte generazioni e consoni alla vita della campagna, prova ne sia che ci volle un terremoto per distruggerli. Li sistemai contro le pareti, pensando alla praticità e non all'estetica, e una volta che la casa fu confortevole, cominciai ad abituarmi all'idea che avrei trascorso molti anni, forse tutta la vita, alle Tre Marie.

Le donne dei mezzadri si davano il turno per servire nella casa padronale e si occupavano del mio orto. Presto vidi i primi fiori nel giardino che avevo tracciato con le mie stesse mani e che, con pochissime modifiche, è lo stesso che c'è oggi. A quell'epoca la gente lavorava senza fiatare. Credo che la mia presenza avesse restituito loro la sicurezza e videro che a poco a poco quella terra si trasformava in un luogo rigoglioso. Era gente buona e semplice, non c'erano ribelli. C'è anche da dire che erano molto poveri e ignoranti. Prima che io fossi arrivato si limitavano a coltivare i loro piccoli poderi familiari che producevano l'indispensabile perché non morissero di fame, sempre che non fossero colpiti da qualche catastrofe, come siccità, gelata, grandine, formiche o lumache, allora le cose si mettevano molto male per loro. Con me tutto questo cambiò. Recuperammo i terreni a uno a uno, ricostruimmo il pollaio e le stalle e cominciammo a tracciare un sistema d'irrigazione affinché le semine non dipendessero dal clima, ma piuttosto da qualche meccanismo scientifico. Però la vita non era facile. Era molto dura. Talvolta io andavo in paese e tornavo con un veterinario che controllava le vacche e le galline e, al tempo stesso, dava un'occhiata ai malati. Non è detto che io condividessi il principio che se le conoscenze del veterinario erano sufficienti per gli animali potevano servire anche per i poveri, come dice mia nipote quando vuol farmi imbestialire. Il fatto è che non si trovavano medici in quelle terre sperdute. I contadini consultavano una fattucchiera indigena che conosceva il potere delle erbe e della suggestione, nella quale avevano una grande fiducia. Molto più che nel veterinario. Le partorienti davano alla luce i figli con l'aiuto delle vicine, della preghiera e della levatrice che non arrivava quasi mai in tempo, perché doveva fare il viaggio su un asino, ma che serviva sia per far nascere un bambino sia per tirar fuori da una vacca un vitello podalico. I malati gravi, quelli che né gli incantesimi della fattucchiera né le pozioni del veterinario potevano guarire, venivano portati su un carretto, da Pedro Secondo García o da me, all'ospedale delle monache, dove talvolta c'era qualche medico di turno che li aiutava a morire. I morti andavano a riposare le loro ossa in un piccolo cimitero vicino alla parrocchia abbandonata, ai piedi del vulcano, dove ora c'è un cimitero come Dio comanda. Una o due volte all'anno trovavo un sacerdote che veniva a benedire le unioni, gli animali e le macchine, a battezzare i bambini e a dire qualche preghiera in ritardo per i defunti. Gli unici diversivi erano castrare i maiali e i tori, le lotte dei galli, il gioco del mondo e le incredibili storie di Pedro García, il vecchio, che riposi in pace. Era il padre di Pedro Secondo, e diceva che suo nonno aveva combattuto nelle file dei patrioti che avevano scacciato gli spagnoli dall'America. Insegnava ai bambini a lasciarsi pungere dai ragni e a bere orina di donna gravida per immunizzarsi. Conosceva tante erbe quasi quante la fattucchiera, ma si confondeva al momento di decidere della loro applicazione e commetteva qualche errore irreparabile. Per togliere i molari, tuttavia, riconosco che aveva un sistema insuperabile che gli aveva procurato giusta fama in tutta la zona, era una mistura di vino rosso e di padrenostri, che faceva sprofondare il paziente in un trance ipnotico. A me aveva tolto un molare senza farmi male e, se fosse vivo, sarebbe il mio dentista.

Ben presto cominciai a sentirmi a mio agio in campagna. I miei vicini più prossimi stavano a una buona distanza a dorso di cavallo, ma a me non interessava la vita sociale, mi piaceva la solitudine e inoltre avevo molto lavoro per le mani. Stavo trasformandomi in un selvaggio, dimenticavo le parole, mi si era ridotto il vocabolario, ero diventato molto autoritario. Siccome non avevo bisogno di far bella figura davanti a nessuno, mi si era accentuato il cattivo carattere che avevo sempre avuto. Tutto mi irritava, mi arrabbiavo se vedevo i bambini girare nelle cucine per rubare il pane, se le galline schiamazzavano in cortile, se i passeri invadevano i campi di granoturco. Quando il cattivo umore cominciava a darmi fastidio e mi sentivo a disagio nella mia stessa pelle, andavo a caccia. Mi alzavo molto prima dell'alba e partivo con un fucile in spalla, il mio tascapane e il mio bracco. Mi piacevano le cavalcate al buio, il freddo dell'alba, i lunghi appostamenti nell'ombra, il silenzio, l'odore della polvere da sparo e del sangue, sentire l'arma rinculare con un colpo secco contro l'omero e vedere la preda cadere scuotendo le zampe, tutto questo mi tranquillizzava e quando tornavo da una partita di caccia, con quattro miserabili conigli nel tascapane e qualche pernice così sforacchiata che non serviva per essere cucinata, mezzo morto di fatica e pieno di fango, mi sentivo sollevato e felice.

Quando penso a quei tempi, mi viene una grande tristezza. La vita mi è passata molto in fretta. Se dovessi ricominciare non farei certi errori, ma in genere non mi pento di niente. Sì, sono stato un buon padrone, su questo non ci sono dubbi.

 

Nei primi mesi Esteban Trueba era stato così occupato a canalizzare l'acqua, a scavare pozzi, a togliere pietre, a ripulire i campi e a riparare i pollai e le stalle, che non aveva avuto il tempo di pensare a niente. Andava a letto distrutto e si alzava all'alba, faceva una magra colazione in cucina e se ne andava a cavallo a controllare i suoi lavori nei campi. Non tornava fino al tramonto. A quell'ora faceva l'unico pasto completo della giornata, solo nella sala da pranzo della casa. Nei primi mesi aveva fatto il proponimento di farsi il bagno e cambiarsi gli indumenti ogni giorno all'ora di cena, come aveva udito dire che facevano i coloni inglesi nei lontani villaggi dell'Asia e dell'Africa, per non perdere la dignità e il prestigio. Si vestiva con i suoi abiti migliori, si radeva e metteva sul grammofono ogni sera le stesse arie delle sue opere preferite. Ma a poco a poco si lasciò vincere dalla rusticità e accettò l'idea che non aveva la vocazione del figurino, specialmente se non c'era nessuno che poteva apprezzare il suo sforzo. Smise di radersi, si tagliava i capelli quando gli arrivavano alle spalle, e continuò a fare il bagno solo perché ne aveva l'abitudine molto radicata, però si disinteressò dei suoi vestiti e dei suoi modi di fare. Si ridusse a un barbaro. Prima di dormire leggeva un po' o giocava a scacchi, aveva sviluppato l'abilità di gareggiare con un libro senza fare imbrogli e di perdere le partite senza arrabbiarsi. Tuttavia, la stanchezza del lavoro non era stata sufficiente a soffocare la sua natura forte e sessuale. Cominciò a passar male le notti, le coperte gli sembravano molto pesanti, le lenzuola troppo leggere. Il suo cavallo gli giocava brutti scherzi e improvvisamente si trasformava in una femmina formidabile, una dura e selvaggia montagna di carne, sulla quale cavalcava fino a triturarsi le ossa. I tiepidi e profumati meloni dell'orto gli parevano straordinari seni di donna e si sorprendeva a seppellire la faccia nella coperta della sua sella, cercando nell'acre odore di sudore della bestia la somiglianza con quell'aroma lontano e proibito delle sue prime prostitute. Di notte si eccitava con incubi di frutti di mare marci, di pezzi enormi di bue squartato, di sangue, di sperma, di lacrime. Si svegliava teso, con il sesso come un pezzo di ferro tra le gambe, più furente che mai. Per trovare sollievo, correva a gettarsi nudo nel fiume e s'immergeva nelle acque gelide fino ad avere il fiato mozzo, ma allora gli sembrava di sentire mani invisibili che gli accarezzavano le gambe. Vinto, si lasciava galleggiare alla deriva, sentendosi abbracciare dalla corrente, baciare dai girini, fustigare dalle canne della riva. Di lì a poco il suo impellente bisogno era noto, non si calmava né con tuffi notturni nel fiume, né con infusi di cannella, né mettendo acciarini sotto il materasso e neppure con le manipolazioni vergognose che nel collegio rendevano pazzi i giovani, li riducevano ciechi, li facevano sprofondare nella condanna eterna. Quando cominciò a guardare con occhi concupiscenti le galline del recinto, i bambini che giocavano nudi nell'orto e perfino la pasta cruda del pane, capì che la sua virilità non si sarebbe calmata con sostituti da sacrestano. Il suo senso pratico gli suggerì che doveva trovarsi una donna e, una volta presa la decisione, l'ansia che lo consumava si acquietò e la sua rabbia parve rasserenarsi. Quel giorno si svegliò sorridendo per la prima volta dopo molto tempo.

Pedro García, il vecchio, lo vide avviarsi verso la stalla fischiettando e scosse la testa inquieto.

Il padrone fu per tutto il giorno occupato nell'aratura di un terreno che aveva appena finito di far ripulire e che aveva destinato a una semina di granoturco. Poi se ne andò con Pedro Secondo García ad aiutare una vacca che in quel momento stava per partorire e aveva il vitello messo di traverso. Dovette infilarle il braccio fino al gomito e girare il piccolo e aiutarlo a uscire di testa. La vacca comunque morì, ma questo non lo mise di cattivo umore. Ordinò che nutrissero il vitello con un poppatoio, si lavò in un catino e risalì a cavallo. Normalmente era l'ora del suo pasto, ma non aveva fame. Non aveva alcuna premura, perché aveva già fatto la sua scelta.

Aveva visto molte volte la ragazza mentre portava appoggiato sul fianco il suo fratellino moccoloso, con un sacco sulle spalle e una giara d'acqua di pozzo sulla testa. L'aveva osservata mentre faceva il bucato, accovacciata sulle pietre piatte del fiume, con le sue gambe brune lucide d'acqua, intenta a sfregare gli stracci scoloriti con le sue ruvide mani da contadina. Aveva le ossa grandi e un viso da indiana, con le fattezze larghe e la pelle scura, dall'espressione gradevole e dolce, la sua grande bocca carnosa aveva ancora tutti i denti e quando sorrideva s'illuminava, ma lo faceva di rado. Possedeva la bellezza della prima giovinezza, sebbene lui potesse prevedere che si sarebbe avvizzita molto presto, come accade alle donne nate per partorire molti figli, lavorare senza tregua e seppellire i morti. Si chiamava Pancha García e aveva quindici anni.

Quando Esteban Trueba era andato a cercarla, faceva già sera ed era più fresco. Percorse al passo col suo cavallo i lunghi filari di pioppi che dividevano i campi, chiedendo di lei a chi passava, finché non la vide sul sentiero che portava alla sua baracca. Camminava piegata in due sotto il peso di una fascina di sterpi per il focolare della cucina, senza scarpe, a testa bassa. La guardò dall'alto del suo cavallo e sentì immediatamente l'urgenza del desiderio che l'aveva molestato per tanti mesi. Si avvicinò al trotto fino a mettersi al suo fianco, lei lo udì, ma continuò a camminare senza guardarlo, secondo l'abitudine ancestrale di tutte le donne della sua stirpe di chinare la testa davanti al maschio. Esteban si abbassò e le tolse il fardello, lo tenne un momento sospeso in aria e poi lo scagliò con violenza sul bordo del sentiero, afferrò con un braccio la ragazza per la cintola e la sollevò con un respiro bestiale, sistemandola davanti alla sella, senza che lei opponesse alcuna resistenza. Spronò il cavallo e partirono al galoppo in direzione del fiume. Scesero senza scambiare nemmeno una parola e si fissarono negli occhi. Esteban si slacciò l'alto cinturone di cuoio e lei indietreggiò, ma lui l'afferrò con una manata. Caddero abbracciati tra le foglie degli eucalipti.

Esteban non si tolse i vestiti. La aggredì con fierezza gettandolesi addosso senza preamboli, con una brutalità inutile. Si rese conto troppo tardi, dagli schizzi di sangue sul suo vestito, che la ragazza era vergine, ma l'umile condizione di Pancha, e le impellenti esigenze del suo appetito, non gli permisero di avere tanti riguardi. Pancha García non si difese, non si lamentò, non chiuse gli occhi. Rimase di spalle, guardando il cielo con espressione spaventata, finché non sentì l'uomo crollare con un gemito al suo fianco. Allora cominciò a piangere debolmente. Prima di lei sua madre, e prima di sua madre sua nonna, avevano subìto lo stesso destino di cagna. Esteban Trueba si sistemò i pantaloni, si allacciò il cinturone, l'aiutò a rimettersi in piedi e la mise a sedere in groppa al cavallo. Ripresero la via del ritorno. Lui fischiettava. Lei continuava a piangere. Prima di lasciarla alla sua baracca, il padrone la baciò sulla bocca.

Da domani voglio che tu lavori a casa mia disse.

Pancha annuì senza alzare lo sguardo. Anche sua madre e sua nonna avevano servito nella casa padronale.

Quella notte Esteban Trueba dormì come un angelo, senza sognare Rosa. Al mattino si sentiva pieno di energia, più grande e potente. Se ne andò nei campi canticchiando e al suo ritorno, Pancha era in cucina, affannata a rimestare il biancomangiare in una pentola di rame. Quella notte l'aspettò con impazienza e quando si acquietarono i rumori domestici nel vecchio casamento di mattoni e cominciarono gli andirivieni notturni dei topi, avvertì la presenza della ragazza sulla soglia della porta.

Vieni, Pancha la chiamò. Non era un ordine, bensì una supplica.

Questa volta Esteban si prese il tempo di godersela e di farla godere. La frugò tranquillamente, imparando a memoria l'odore affumicato del suo corpo e della sua biancheria lavata con la cenere e stirata col ferro a carbone, conobbe la trama dei suoi capelli neri e lisci, della sua pelle morbida nei punti più reconditi e aspra e callosa negli altri, delle sue labbra fresche, del suo sesso sereno e del suo ventre ampio. La desiderò con calma e la iniziò alla scienza più segreta e più antica. Probabilmente fu felice quella notte e qualche altra ancora, mentre ruzzavano come due cuccioli nel grande letto di ferro forgiato a mano che era appartenuto al primo Trueba e che era già mezzo zoppo, ma poteva ancora sopportare gli assalti dell'amore.

A Pancha García crebbero i seni e si arrotondarono i fianchi. A Esteban Trueba migliorò per un certo tempo l'umore e cominciò a interessarsi dei suoi mezzadri. Li andò a trovare nelle loro abitazioni di miseria. Nella penombra di una delle casupole, scoprì un cassone pieno di carta di giornale in cui dividevano il sonno un bambino poppante e un cane appena nato. In un'altra, vide una vecchia che stava morendo da quattro anni e aveva le ossa che le spuntavano dalle spalle per le piaghe. In un cortile ebbe modo di vedere un adolescente idiota, pieno di bave, con una corda al collo, legato a un palo, che diceva cose dell'altro mondo, nudo e con un sesso da mulo che sfregava instancabilmente in terra. Si rese conto, per la prima volta, che la rovina peggiore non era quella della terra e degli animali, bensì quella degli abitanti delle Tre Marie, vissuti nell'abbandono dall'epoca in cui suo padre aveva perso al gioco la dote e l'eredità della madre. Decise che era tempo di portare un po' di civiltà in quell'angolo sperduto tra la cordigliera e il mare.

 

Alle Tre Marie cominciò una febbre di attività che ne scosse il torpore. Esteban Trueba mise i contadini a lavorare come mai l'avevano fatto. Ogni uomo, donna, anziano, bambino che si teneva in piedi venne occupato dal padrone, ansioso di recuperare in pochi mesi gli anni dell'abbandono. Fece costruire un granaio e delle dispense per conservare le provviste per l'inverno, fece salare la carne di cavallo e affumicare quella di maiale e mise le donne a fare marmellate e conserve di frutta. Modernizzò la latteria che era solo un ripostiglio pieno di sterco e di mosche, e fece in modo che le vacche producessero latte a sufficienza. Iniziò la costruzione di una scuola di sei aule, perché ambiva che tutti i bambini e gli adulti delle Tre Marie imparassero a leggere, scrivere e far di conto, sebbene non fosse dell'idea che acquisissero altre conoscenze, affinché non si riempissero la testa d'idee inadatte al loro stato e alla loro condizione. Tuttavia non riuscì a trovare un maestro disposto a lavorare in luoghi così lontani, e di fronte alla difficoltà di acciuffare i ragazzini con la promessa di frustate e di caramelle per alfabetizzarli, lui stesso abbandonò quell'illusione e destinò la scuola ad altri usi. Sua sorella Férula gli mandava dalla capitale i libri che le commissionava. Era una letteratura pratica. Grazie a questi imparò a fare punture iniettandole nelle gambe e fabbricò una radio a galena. Spese i suoi primi guadagni per comprare stoffe grezze, una macchina per cucire, una scatola di pillole omeopatiche con un manuale d'istruzioni, un'enciclopedia e un carico di sillabari, di quaderni e di matite. Accarezzò l'idea di costruire un refettorio dove tutti i bambini ricevessero un pasto completo al giorno affinché crescessero forti e sani e potessero lavorare fin da piccoli, ma capì che era da pazzi costringere i bambini a spostarsi da ogni estremo della proprietà per un piatto di cibo, sicché cambiò il progetto con quello di un laboratorio di cucito. Pancha García fu l'addetta a sviscerare i misteri della macchina per cucire. Dapprima, credeva che fosse uno strumento del diavolo dotato di vita propria e si rifiutava di avvicinarsi, ma lui fu inflessibile e lei finì per dominarla. Trueba organizzò un emporio. Era una modesta bottega dove gli operai potevano comprare il necessario senza dover fare il viaggio sul carretto fino a San Lucas. Il padrone comprava le cose all'ingrosso e le rivendeva allo stesso prezzo ai suoi lavoranti. Impose un sistema di buoni di acquisto, che dapprima funzionò come una forma di credito e col tempo finì per rimpiazzare il denaro legale. Con i suoi fogli rosa si comprava qualsiasi cosa all'emporio e si pagavano i salari. Ogni lavoratore aveva diritto, oltre ai famosi fogli, a un pezzo di terra da coltivare nel tempo libero, sei galline all'anno per famiglia, una razione di sementi, una parte del raccolto per coprire il suo fabbisogno, pane e latte giornalieri e cinquanta pesos che venivano distribuiti tra gli uomini a Natale e nelle feste nazionali. Le donne non avevano questo bonifico, sebbene lavorassero al pari degli uomini, perché non erano considerate capofamiglia, tranne il caso delle vedove. Il sapone da bucato, la lana da lavorare e lo sciroppo per rinforzare i polmoni venivano distribuiti gratuitamente, perché Trueba non voleva intorno a sé gente sporca, infreddolita o malata. Un giorno lesse sull'enciclopedia i vantaggi di una dieta equilibrata e diede inizio alla sua mania per le vitamine, che avrebbe dovuto durargli per tutta la vita. Si arrabbiava ogni volta che constatava che i contadini davano ai figli solo pane e nutrivano i maiali con uova e latte. Cominciò a indire riunioni obbligatorie nella scuola per parlar loro delle vitamine e, al tempo stesso, per informarli sulle notizie che riusciva a captare nei suoi maneggi con la radio a galena. Ben presto si annoiò di cercare l'onda col filo di ferro e ordinò in capitale una radio transoceanica provvista di due enormi batterie. Con quella poteva captare messaggi coerenti, in mezzo a un'assordante confusione di suoni d'oltremare. Così venne a sapere della guerra in Europa e seguì le avanzate delle truppe su una mappa che aveva appeso alla lavagna della scuola e che via via segnava con spilli. I contadini lo osservavano stupefatti, senza capire neppure lontanamente il significato di infilare uno spillo nel colore azzurro e il giorno dopo spostarlo nel color verde. Non potevano immaginare il mondo della grandezza di un foglio attaccato alla lavagna, né gli eserciti ridotti alla capocchia di uno spillo. In realtà, della guerra, delle invenzioni della scienza, del progresso dell'industria, del prezzo dell'oro e delle stravaganze della moda a loro non importava niente. Erano racconti di fate che non modificavano in nulla la ristrettezza della loro esistenza. Per quell'impavido uditorio, le notizie della radio erano lontane ed estranee, e l'apparecchio perse prestigio rapidamente quando fu evidente che non poteva pronosticare le variazioni del tempo. L'unico a dimostrare interesse per i messaggi provenienti dall'aria era Pedro Secondo García.

Esteban Trueba spartì con lui molte ore, dapprima accanto alla radio a galena, e poi con quella a batteria, in attesa del miracolo di una voce anonima e remota che li mettesse in contatto con la civiltà. Tuttavia questo non riuscì a ravvicinarli. Trueba sapeva che quel rude contadino era più intelligente degli altri. Era l'unico che sapeva leggere ed era capace di sostenere una conversazione di più di tre frasi. Era il più simile a un amico nel raggio di cento chilometri, ma il suo monumentale orgoglio gli impediva di riconoscergli altre virtù se non quelle proprie della sua condizione di buon manovale. E non era neppure favorevole alla familiarità con i suoi subalterni. Da parte sua Pedro Secondo lo odiava, sebbene non avesse mai dato nome a quel sentimento tormentoso che gli bruciava l'animo e lo riempiva di confusione. Era un miscuglio di paura e di rancorosa ammirazione. Aveva il presentimento che non avrebbe mai osato tenergli testa, perché era il padrone. Avrebbe dovuto sopportare le sue ire, i suoi ordini sconsiderati e la sua prepotenza per il resto della vita. Negli anni in cui le Tre Marie erano state abbandonate, lui aveva assunto in forma naturale il comando della piccola tribù sopravvissuta in quelle terre dimenticate. Egli era abituato a essere rispettato, a comandare, a prendere decisioni e ad avere solo il cielo sopra la testa. L'arrivo del padrone gli aveva cambiato la vita, ma non poteva non ammettere che ora vivevano meglio, che non soffrivano la fame e che erano più protetti e sicuri. Qualche volta Trueba credette di vedergli negli occhi un lampo assassino, ma non poté mai rinfacciargli un'insolenza. Pedro Secondo obbediva senza fiatare, lavorava senza lamentarsi, era onesto e sembrava leale. Se vedeva passare sua sorella Pancha nel corridoio della casa padronale, col fare pesante della femmina soddisfatta, chinava il capo e taceva.

Pancha García era giovane e il padrone forte. Il risultato prevedibile della loro alleanza cominciò a notarsi dopo pochi mesi. Le vene delle gambe della ragazza risaltavano come lombrichi sulla sua pelle bruna, i suoi movimenti si erano fatti più lenti e lo sguardo lontano, aveva perso interesse nei divertimenti impudichi del letto di ferro forgiato e rapidamente le si era ingrossata la vita e le erano caduti i seni per il peso di una nuova vita che cresceva dentro di lei. Esteban ci impiegò molto ad accorgersene, perché non la guardava quasi mai e, passato l'entusiasmo dei primi tempi, non l'accarezzava neppure. Si limitava a utilizzarla come una misura igienica che alleviava la tensione del giorno e gli offriva una notte senza sogni. Ma giunse un momento in cui la gravidanza di Pancha divenne evidente anche per lui. Ne ebbe ripugnanza. Cominciò a vederla come un'enorme botte che conteneva una sostanza informe e gelatinosa, che non poteva riconoscere come figlio suo. Pancha abbandonò la casa del padrone e fece ritorno alla baracca dei suoi genitori, dove non le fecero domande. Continuò a lavorare nella cucina padronale, impastando il pane e cucendo a macchina, ogni giorno più deforme per la maternità. Non servì più alla tavola di Esteban ed evitò di incontrarlo, dato che ormai non avevano più niente da spartire. Una settimana dopo che lei se n'era andata dal suo letto, riprese a sognare Rosa e a svegliarsi con le lenzuola umide. Guardò dalla finestra e vide una bambina magra che stava stendendo il bucato. Sembrava non avere più di tredici o quattordici anni, ma era completamente sviluppata. In quel momento si volse e lo guardò: aveva lo sguardo di una donna.

Pedro García vide il padrone avviarsi verso la stalla fischiettando, e scosse la testa inquieto.

 

Nel corso dei dieci anni successivi, Esteban Trueba si trasformò nel padrone più rispettato della regione, costruì case di mattoni per i suoi lavoranti, trovò un maestro per la scuola e alzò il livello di vita di tutti nelle sue terre. Le Tre Marie erano un buon affare che non aveva bisogno dell'aiuto del filone d'oro, ma, al contrario, erano servite da garanzia per ottenere la proroga della concessione della miniera. Il cattivo carattere di Trueba si trasformò in una leggenda che si accentuò fino a divenire scomoda anche per lui. Non accettava che gli rispondessero e non tollerava di essere contraddetto, considerava il più piccolo disaccordo come una provocazione. Inoltre era aumentata la sua concupiscenza. Non c'era ragazza che passasse dalla pubertà all'età adulta senza che lui le facesse provare il bosco, la riva del fiume o il letto di ferro forgiato. Quando non ci furono più donne disponibili alle Tre Marie, prese a inseguire quelle delle altre fattorie, violentandole in un batter d'occhio in qualunque punto della campagna, generalmente sul far della sera. Non si preoccupava di farlo di nascosto, perché non aveva paura di nessuno. Talvolta erano arrivati alle Tre Marie, un fratello, un padre, un marito o un proprietario a chiedergli ragione, ma davanti alla sua violenza incontrollata, queste visite di giustizia o di vendetta erano ogni volta meno frequenti. La fama della sua brutalità si diffuse in tutta la zona e suscitava invidiosa ammirazione tra i maschi della sua classe. I contadini nascondevano le ragazze e serravano i pugni inutilmente, dato che non potevano tenergli testa. Esteban Trueba era più forte e aveva l'impunità. Due volte erano stati rinvenuti cadaveri di contadini di altre fattorie crivellati da colpi di fucile e nessuno aveva evitato di pensare che bisognasse cercare il colpevole alle Tre Marie, ma i gendarmi locali si erano limitati a registrare il fatto sul loro libro dei verbali, con la stentata calligrafia dei semianalfabeti, aggiungendo che erano stati sorpresi mentre rubavano. La cosa non ebbe seguito. Trueba continuò a edificare il suo prestigio di spaccamondo, seminando la regione di bastardi, raccogliendo l'odio e immagazzinando colpe che non lo sfioravano nemmeno, perché gli si era indurita l'anima e la coscienza l'aveva messa a tacere col pretesto del progresso. Invano Pedro Secondo García e il vecchio prete dell'ospedale delle monache avevano cercato di fargli capire che non erano le casette di mattoni e neppure i litri di latte a fare un buon padrone, o un buon cristiano, ma piuttosto dare alla gente una paga decente invece di foglietti rosa, un orario di lavoro che non demolisse loro le reni e un po' di rispetto e di dignità. Trueba non voleva sentire parlare di queste cose che, secondo lui, puzzavano di comunismo.

Sono idee degenerate diceva tra i denti. Idee bolsceviche per sobillarmi i mezzadri. Non si rendono conto che questa povera gente non ha cultura né educazione, non possono assumersi delle responsabilità, sono bambini. Come possono sapere quello che è bene per loro? Senza di me sarebbero perduti, prova ne sia che quando giro la testa, va tutto in malora e cominciano a fare asinate. Sono molto ignoranti. La mia gente sta benissimo, che cosa vuole di più? Hanno tutto. Se si lamentano, è per pura ingratitudine. Hanno una casa di mattoni, mi preoccupo di far soffiare il naso e togliere i parassiti ai loro figli, di farli vaccinare e di far sì che imparino a leggere. C'è un'altra tenuta qui che abbia una scuola? No. Quando posso, li porto dal prete perché dica loro qualche messa, così non so perché il prete viene a parlarmi di giustizia. Non deve ficcare il naso in quello che non sa e che non è di sua competenza. Lo vorrei vedere a capo di questa proprietà! Vorrei vedere se farebbe tanti complimenti! Con questi poveri diavoli bisogna avere la mano dura, è l'unico linguaggio che capiscono. Se uno s'impietosisce non lo rispettano. Non dico che molte volte non sono stato molto severo, ma sono sempre stato giusto. Ho dovuto insegnar loro tutto, perfino a mangiare, perché da soli si sarebbero nutriti di solo pane. Se non sto attento, danno il latte e le uova ai maiali. Non sanno pulirsi il sedere e chiedono il diritto di voto! Se non sanno dove si trovano, come possono saperne di politica? Sono capaci di votare per i comunisti, come i minatori del Nord, che con i loro scioperi danneggiano tutto il paese, proprio quando il prezzo del minerale è al massimo. Inviare i militari è quello che io farei nel Nord, perché gli sparino contro, così si vedrebbe se la imparano una volta per tutte. Disgraziatamente la pena di morte è l'unica cosa che funziona in questi paesi. Non siamo in Europa. Qui, quello che ci vuole è un governo forte, un padrone forte. Sarebbe bello che fossimo tutti uguali, ma non lo siamo. Questo balza all'occhio. Qui l'unico che sa lavorare sono io e vi sfido a provarmi il contrario. Mi alzo per primo e vado a letto per ultimo in questa dannata terra. Se fosse stato per me avrei spedito tutti al diavolo e me ne sarei andato a vivere come un principe nella capitale, ma devo restare qui, perché se mi allontano, sia pure per una settimana, crolla tutto e questi disgraziati cominciano a morire di fame. Ricordatevi com'era quando sono arrivato nove o dieci anni fa: una desolazione. Era una rovina di pietre e di avvoltoi. Una terra di nessuno. Tutti i campi erano abbandonati. A nessuno era venuto in mente di canalizzare l'acqua. Si accontentavano di piantare quattro sporche lattughe nei loro cortili e hanno lasciato che il resto sprofondasse nella miseria. Era necessario che arrivassi io perché qui ci fossero ordine, legge, lavoro. Perché non dovrei esserne orgoglioso? Ho lavorato così bene, che ho già comprato i due fondi vicini e questa proprietà è la più grande e la più ricca di tutta la zona, l'invidia di tutti, un esempio, una tenuta modello. E adesso che la strada passa accanto, ne è duplicato il valore, se volessi venderla potrei andarmene in Europa a vivere delle mie rendite, ma non me ne vado, resto qui, a rodermi il fegato. Lo faccio per questa gente. Senza di me sarebbero perduti. A ben guardare, non sanno neanche fare le compere: sono come bambini. Non ce n'è uno che possa fare quello che deve fare senza che io non gli debba star dietro a pungolarlo. E poi mi vengono a raccontare la storia che siamo tutti uguali! C'è da morir dal ridere, cazzo...

A sua madre e a sua sorella mandava cassette di frutta, carni salate, uova fresche, galline vive e sotto aceto, farina, riso e sacchi di grano, formaggio campagnolo e tutto il denaro di cui potevano avere bisogno, perché non gliene mancava. Le Tre Marie e la miniera rendevano bene per la prima volta da quando Dio le aveva messe nel pianeta, come gli piaceva dire a chi voleva ascoltarlo. A donna Ester e a Férula dava quello che non si erano mai sognate, ma non aveva mai avuto il tempo, in tutti quegli anni, di andarle a trovare, sebbene fosse stato di passaggio in qualcuno dei suoi viaggi al Nord. Era così preso dalla campagna, dalle nuove terre che aveva comprato e da altri affari, che stava cominciando a prendere in considerazione che non poteva sprecare tempo accanto al letto di una malata. Inoltre esisteva la posta che li teneva in contatto e il treno che gli consentiva di mandare tutto quello che voleva. Non aveva bisogno di vederle. Si poteva dire tutto per lettera. Tutto, meno quello che non voleva che sapessero, come la fila di bastardi che continuavano a nascere come per magia. Bastava gettare a terra una ragazza nei campi e rimaneva immediatamente incinta, doveva esserci lo zampino del demonio, tanta fertilità era insolita, era sicuro che la metà dei figli non erano suoi. Perciò decise che a parte il figlio di Pancha García, che si chiamava Esteban come lui e che non c'era dubbio che sua madre fosse vergine quando l'aveva posseduta, gli altri potevano essere suoi figli o potevano non esserlo ed era sempre meglio pensare che non lo fossero. Quando arrivava a casa sua qualche donna con un bambino in braccio per reclamare il cognome o qualche aiuto, la mandava via con un paio di banconote in mano e la minaccia che se tornava a importunarlo l'avrebbe scacciata a frustate, affinché le passasse la voglia di dimenare la coda al primo uomo che vedeva e poi dare la colpa a lui. In tal modo non era mai venuto a conoscenza del numero esatto dei suoi figli e la faccenda non lo interessava proprio. Pensava che quando avesse voluto avere dei figli, avrebbe cercato una sposa della sua classe con benedizione della Chiesa, perché gli unici che contavano erano quelli che avevano il cognome del padre, gli altri era come se non esistessero. Che non venissero a raccontargli la panzana secondo cui tutti nascono con gli stessi diritti ed ereditano allo stesso modo, perché in questo caso tutto andrebbe a remengo e la civiltà regredirebbe all'Età della Pietra. Si ricordava di Nivea, la madre di Rosa, che quando suo marito aveva rinunciato alla politica, terrorizzato dalla grappa avvelenata, aveva iniziato la propria campagna politica. Si legava con catene insieme ad altre signore alle inferriate del Congresso e della Corte Suprema, offrendo uno spettacolo che metteva in ridicolo i loro mariti. Sapeva che Nivea usciva di notte ad attaccare manifesti suffragisti sui muri della città ed era capace di passeggiare per il centro in piena luce di una domenica a mezzogiorno, con una scopa in mano e una cuffia da notte sulla testa, chiedendo che le donne avessero i diritti degli uomini, che potessero votare ed entrare nelle università, chiedendo inoltre che tutti i bambini godessero della protezione della legge, seppure bastardi.

Quella donna è matta! diceva Trueba. Sarebbe come andare contro natura. Se le donne non sanno contare due più due, tanto meno potrebbero usare un bisturi. La loro funzione è la maternità, il focolare. Di questo passo, un bel giorno chiederanno di diventare deputati, giudici, perfino presidente della repubblica! E intanto provocano una confusione e un disordine che può finire in un disastro. Stanno pubblicando pamphlet indecenti, parlano alla radio, s'incatenano nei luoghi pubblici e deve andare la polizia con un fabbro a tagliare i lucchetti per poterle portar via agli arresti, che è quello che si meritano. Peccato che ci sia sempre un marito influente, un giudice di poca energia o un parlamentare con idee rivoluzionarie, che le mette in libertà... Una mano forte è quello che ci vuole anche in questo caso!

La guerra in Europa era finita e i vagoni pieni di morti erano un clamore lontano, ma che ancora non si spegneva. Di là stavano arrivando le idee sovversive portate dai venti incontrollabili della radio, del telegrafo e delle navi cariche di emigranti che arrivavano come una frotta attonita, sfuggendo alla fame della loro terra, inariditi dal ruggito delle bombe e dai morti che marcivano nei solchi dei campi. Era anno di elezioni presidenziali e di ansia per il verso che stavano prendendo gli eventi. Il Paese si svegliava. L'ondata di malcontento che agitava il popolo stava assestando duri colpi alla solida struttura di quella società oligarchica. In campagna ci fu di tutto: siccità, lumache, afta. Nel Nord c'era disoccupazione e nella capitale si sentiva l'effetto della guerra lontana. Fu un anno di miseria in cui l'unica cosa che mancò per completare il disastro fu un terremoto.

La classe alta, tuttavia, padrona del potere e della ricchezza non si rese conto del pericolo che minacciava il fragile equilibrio della sua posizione. I ricchi si divertivano ballando il charleston e i nuovi ritmi del jazz, il fox-trot e certe rumbe da negri che erano una meravigliosa indecenza. Ripresero i viaggi in nave in Europa, che erano stati sospesi durante i quattro anni di guerra e divennero di moda altri in Nordamerica. Arrivò la novità del golf, che riuniva la migliore società per dare colpi con un bastone a una pallina così come duecento anni prima facevano gli indiani in quegli stessi luoghi. Le signore si mettevano collane di perle false fino alle caviglie e cappelli a cloche calcati sulle sopracciglia, si erano tagliate i capelli come gli uomini e si truccavano come puttane, avevano soppresso il busto e fumavano mostrando le gambe. I signori erano affascinati dall'invenzione delle automobili nordamericane, che arrivavano nel paese al mattino e si vendevano lo stesso giorno alla sera nonostante costassero una piccola fortuna e fossero solo uno strepito di fumo e un ammasso di viti che correvano a velocità suicida lungo strade fatte per i cavalli e altre bestie naturali ma assolutamente non per macchine fantastiche. Sui tavoli da gioco si puntavano le eredità e le facili ricchezze del dopoguerra, si stappava lo champagne ed era arrivata la novità della cocaina per i più raffinati e viziosi. La follia collettiva sembrava non avere fine.

Ma in campagna le nuove automobili erano una realtà così lontana come i vestiti corti e quelli che si erano liberati delle lumache e dell'afta l'avevano segnato come un buon anno. Esteban Trueba e altri proprietari terrieri della regione si riunirono nel circolo del paese per tracciare l'azione politica prima delle elezioni. I contadini vivevano ancora come ai tempi coloniali e non avevano sentito parlare di sindacati, né di domeniche festive, né del salario minimo, ma già cominciavano a infiltrarsi nei fondi i delegati dei nuovi partiti di sinistra, che entravano mascherati da evangelisti, con una bibbia sotto un'ascella e un fazzoletto marxista sotto l'altra, predicando contemporaneamente la vita ascetica e la morte per la rivoluzione. Questi pranzi a base di conciliaboli dei padroni finivano con bevute impressionanti o con battaglie di galli e al sopraggiungere della notte prendevano d'assalto il Lampioncino Rosso, dove le prostitute di dodici anni e Carmelo, l'unica checca del bordello e del paese, ballavano al suono di una pianola antidiluviana, sotto lo sguardo vigile della Sofia, che ormai non era più adatta a quelle baraonde, ma che ancora aveva energia per reggerle con pugno di ferro e per impedire che i gendarmi si mettessero a rompere le scatole e i padroni a farsela con le ragazze, disturbando senza pagare. Fra tutte, Tránsito Soto era quella che ballava meglio e quella che sopportava meglio le impertinenze degli ubriachi, era instancabile e non si lamentava mai di niente, come se avesse avuto la virtù tibetana di lasciare il suo misero scheletro di adolescente in mano a un cliente e trasferire la sua anima in una contrada lontana. A Esteban Trueba piaceva perché non aveva remore nelle innovazioni e nelle brutalità dell'amore, sapeva cantare con voce da uccello rauco, e perché una volta lei gli aveva detto che sarebbe arrivata molto lontano e questo l'aveva divertito.

Non rimarrò al Lampioncino Rosso tutta la vita, padrone. Me ne andrò alla capitale, perché voglio diventare ricca e famosa.

Esteban andava al lupanare perché era l'unico posto di divertimento del paese, ma non era uomo da prostitute. Non gli piaceva pagare per quello che poteva ottenere con altri mezzi. Tuttavia apprezzava Tránsito Soto. La ragazza lo faceva ridere.

Un giorno, dopo aver fatto all'amore, si sentì generoso, cosa che non accadeva quasi mai, e chiese a Tránsito Soto se le sarebbe piaciuto che le facesse un regalo.

Prestami cinquanta pesos, padrone chiese allora lei.

È una bella somma. Perché la vuoi?