Capitolo sesto La guerra del Cile 1549-1553
Si nota che in quest'ultima parte del racconto la grafia è
cambiata. Durante i primi mesi ho scritto di mio pugno, ma ora dopo
poche righe mi stanco e preferisco dettare a te; la mia calligrafia
assomiglia a un groviglio di mosche, la tua invece, Isabel, è
sottile ed elegante. Ti piace l'inchiostro color ossido, una novità
giunta dalla Spagna che rende faticosa la mia lettura, ma già che
mi fai la cortesia di aiutarmi, non posso importi il mio calamaio
nero. Procederemmo più speditamente se tu non mi assillassi con
tante domande, figlia mia. Mi diverte ascoltarti. Parli il
castigliano cantato e scivoloso del Cile; Rodrigo e io non siamo
riusciti a segnarti le dure gutturali e le zeta della lingua di
Castiglia. Così parlava il vescovo González de Marmolejo, che era
sivigliano. È morto da poco, ti ricordi di lui? Ti voleva bene come
un nonno, povero vecchietto. Diceva di avere settantasette anni, ma
sembrava un patriarca centenario con quella barba bianca e la
fissazione di annunciare l'Apocalisse che gli era venuta alla fine
dei suoi giorni. L'ossessione della fine del mondo non gli impedì
comunque di occuparsi di questioni d'ordine materiale, per fare
soldi riceveva un'ispirazione divina. Tra le sue fiorenti attività
commerciali va ricordato l'allevamento di cavalli di cui ero socia.
Avevamo sperimentato incroci e ne erano usciti animali forti,
eleganti, docili, i famosi puledri cileni, che ora sono noti in
tutto il continente perché sono nobili quanto i destrieri arabi, ma
più resistenti. Il vescovo venne a mancare lo stesso anno in cui
morì la mia cara Catalina; lui fu colpito da un male ai polmoni,
che nessuna pianta medicinale riuscì a guarire, e lei se ne andò
per una tegola caduta dal cielo durante un terremoto che la colpì
alla nuca. Fu una botta molto precisa: non fece nemmeno in tempo a
rendersi conto che la terra tremava. In quell'epoca morì anche
Villagra, talmente impensierito dai suoi peccati da aver iniziato a
vestire l'abito francescano. Fu governatore del Cile per un certo
periodo e sarà ricordato come uno dei più vigorosi e audaci
militari, anche se nessuno lo stimava perché era taccagno.
L'avarizia è un difetto che noi spagnoli, sempre munifici,
riteniamo ripugnante.
Non c'è tempo per i dettagli, figlia mia, perché se non acceleriamo questa storia rischia di rimanere incompiuta e a nessuno piace leggere centinaia di pagine per poi scoprire che non c'è un finale chiaro. Qual è il finale di questa? La mia morte, immagino, perché finché avrò un alito di vita avrò ricordi di cui riempire questi fogli; c'è tanto da raccontare di una vita come la mia. Avrei dovuto iniziare queste memorie tempo fa, ma ero troppo occupata: costruire e dare prosperità a una città non è un lavoro da poco. Non mi sono messa a scrivere finché non è morto Rodrigo, quando la tristezza mi ha tolto la voglia di dedicarmi ad altre cose che prima mi parevano urgenti. Senza di lui, le mie notti trascorrono quasi completamente in bianco, e l'insonnia è un grande vantaggio per la scrittura. Mi domando dove sia mio marito, se per caso mi stia aspettando da qualche parte o se non sia qui, in questa casa, a osservarmi nell'ombra, a prendersi cura di me con discrezione, come ha sempre fatto in vita. Come sarà morire? Cosa ci sarà nell'aldilà? Sarà solo notte e silenzio? Può darsi che morire sia essere scagliati come una freccia verso l'oscurità del firmamento, uno spazio infinito, dove dovrò cercare a una a una le persone che ho amato. Mi fa impressione constatare che ancora adesso, nonostante pensi intensamente alla morte, ho voglia di realizzare progetti e soddisfare ambizioni. Deve trattarsi solo ed esclusivamente d'orgoglio: lasciare fama e memoria di sé, come diceva Pedro. Ho il sospetto che in questa vita non si vada da nessuna parte, tanto meno se si va di fretta; si cammina solamente, un passo alla volta, verso la morte. E quindi, coraggio, andiamo avanti a raccontare fino a quando potrò farlo, che di materiale ne ho in abbondanza.
Dopo le nozze con Rodrigo decisi, almeno all'inizio, di evitare Pedro, fino a quando non si fosse placata la rabbia che aveva sostituito l'amore nutrito per dieci anni. Lo detestavo tanto quanto prima lo amavo. I suoi difetti si esaltarono ai miei occhi; non mi sembrava più nobile, ma solo ambizioso e superbo; prima era prestante, astuto e severo, ora era grasso, falso e crudele. Mi sfogai solo con Catalina, perché questa acredine nei confronti dell'antico amante mi sembrava riprovevole. Cercai di nasconderla a Rodrigo, la cui rettitudine gli impediva di cogliere la mia carica di cattivi sentimenti. Siccome a lui era sconosciuta la meschinità, non era in grado di immaginarla in altre persone. Se gli parve strano che non mi recassi a Santiago quando Pedro de Valdivia era in città, non me lo disse. Mi dedicai a rinnovare le nostre case di campagna dove prolungai i miei soggiorni il più possibile, con il pretesto delle semine, della coltivazione delle rose, dell'allevamento di cavalli e mule, anche se in fondo mi annoiavo e sentivo la mancanza del mio lavoro all'ospedale. Rodrigo veniva dalla città ogni settimana, maciullandosi le reni a furia di galoppare, per vedere me e sua figlia. L'aria aperta, il lavoro fisico, la tua compagnia, Isabel, e una cucciolata di cagnolini, figli del vecchio Baltasar, mi furono di grande aiuto. A quell'epoca pregavo molto, portavo Nuestra Señora del Socorro in giardino, ci sistemavamo sotto un albero e le confidavo le mie pene. Fu lei a farmi capire che il cuore è come una scatola: se è piena di robaccia manca lo spazio per altre cose. Non potevo amare Rodrigo e sua figlia se il mio cuore era colmo di amarezza, mi avvertiva la Vergine. Secondo Catalina, l'astio ingiallisce la pelle e genera cattivo odore, motivo per cui mi dava da bere tisane depurative. Con le preghiere e le tisane in due mesi guarii dal rancore nei confronti di Pedro. Una notte sognai che mi spuntavano artigli da condor, che mi avventavo su di lui e gli strappavo gli occhi. Fu un sogno stupendo, molto vivido, dal quale mi svegliai vendicata. All'alba mi alzai dal letto e constatai che non sentivo più quel dolore alle spalle e al collo che mi aveva tormentato per settimane; il peso inutile dell'odio era sparito. Ascoltai i rumori del risveglio: i galli, i cani, la scopa di saggina del giardiniere in terrazza, le voci delle domestiche. Era una mattina tiepida e chiara. Uscii nel patio a piedi nudi e la brezza mi accarezzò la pelle sotto la camicia. Pensai a Rodrigo, e la necessità di fare l'amore con lui mi fece venire i brividi, come in gioventù, quando scappavo negli orti di Plasencia per giacere con Juan de Málaga. Sbadigliai a pieni polmoni, mi stiracchiai come un gatto, con il viso al sole, e immediatamente diedi l'ordine di preparare i cavalli per tornare con te a Santiago quello stesso giorno, senz'altro bagaglio che i vestiti che indossavamo e le armi. Per paura delle bande di indios che si aggiravano nella valle, Rodrigo non ci permetteva di muoverci da casa senza protezione, ma partimmo ugualmente. Fummo fortunate e riuscimmo ad arrivare a Santiago al tramonto, senza incidenti. Le sentinelle della città diedero l'allarme dalle loro torrette quando videro il polverone sollevato dai cavalli. Rodrigo venne a ricevermi, spaventato, temendo che fosse successa una disgrazia, ma gli saltai al collo, lo baciai sulla bocca e lo condussi per mano fino al letto. Quella notte iniziò davvero il nostro amore, prima era stato solo allenamento. Nei mesi successivi imparammo a conoscerci e a darci piacere. L'amore che provavo per lui era diverso dal desiderio che sentivo per Juan de Málaga o dalla passione per Pedro de Valdivia, era un sentimento maturo e allegro, privo di conflitti, che con il trascorrere del tempo si fece più intenso, tanto che giunsi a non poter vivere senza di lui. Terminarono i miei viaggi solitari in campagna, ci separavamo solamente quando l'urgenza della guerra richiamava Rodrigo. Quell'uomo, così serio di fronte al mondo, in privato era tenero e scherzoso; ci coccolava, eravamo le sue due regine, ti ricordi? Così si compì la profezia delle conchiglie magiche di Catalina: sarei diventata regina. Nei trent'anni che avremmo condiviso insieme, Rodrigo a casa non perse mai il buonumore, per gravi che fossero le pressioni esterne. Condivideva con me i problemi relativi alla guerra, al governo e alla politica, le preoccupazioni e i dispiaceri, senza che nulla di ciò potesse danneggiare la nostra relazione. Aveva fiducia nel mio buon senso, sollecitava il mio parere, ascoltava i miei consigli. Con lui non erano necessari i giri di parole per evitare di offenderlo, come accadeva con Valdivia e succede in genere con gli uomini che solitamente, per quanto concerne la loro autorità, sono permalosi.
Immagino che tu non desideri che affronti questo argomento con te, Isabel, ma non posso farne a meno perché è un aspetto di tuo padre che devi conoscere. Prima di stare con me Rodrigo era convinto che per fare l'amore bastassero gioventù e vigore, errore molto diffuso. Fu una gran sorpresa per me la prima notte a letto, in cui sembrava avere la fretta di un quindicenne. Attribuii il comportamento al fatto che mi aveva aspettato molto tempo, amandomi in silenzio e senza speranza per nove anni, come mi avrebbe poi confessato, ma la sua goffaggine non diede segni di voler diminuire nelle notti successive. A quanto pareva, tua madre Eulalia, che lo amava gelosamente, non gli aveva insegnato nulla; il compito di educarlo ricadde su di me e, una volta libera dal rancore che provavo per Pedro, me ne feci carico con gioia, come puoi immaginare. La stessa cosa avevo fatto con Pedro de Valdivia anni prima, quando ci eravamo conosciuti a Cuzco. La mia esperienza di capitani spagnoli è limitata, ma posso dirti che quelli che mi toccarono erano assai poco preparati in materia amorosa, anche se molto ben disposti a imparare. Non ridere, figlia mia, è vero. Ti racconto tutte queste cose perché non si sa mai. Non so come sia la relazione amorosa fra te e tuo marito, ma se hai qualcosa di cui lagnarti, ti consiglio di parlare dell'argomento con me, perché dopo la mia morte non saprai con chi farlo. Gli uomini, come i cani e i cavalli, vanno addomesticati, ma sono poche le donne capaci di farlo, dato che loro stesse non sanno nulla, non avendo avuto Juan de Málaga come maestro. Per di più, la maggior parte si lascia irretire dagli scrupoli; ricordi la celebre camicia da notte con l'occhiello di Marina Ortiz de Gaete? È così che si diffonde quell'ignoranza che generalmente mette fine anche agli amori con le migliori prospettive.
Ero appena tornata a Santiago e iniziavo a coltivare il piacere e l'amore felice insieme a Rodrigo, quando un giorno la città si svegliò al suono della cornetta d'allarme della sentinella. Era stata trovata la testa di un cavallo infilzata nella picca servita nel corso degli anni a esporre tante teste umane. Esaminandola da vicino si scoprì che era quella di Sultán, il destriero preferito del governatore. Un grido di orrore rimase strozzato nel petto di noi tutti. Per evitare i furti, a Santiago era stato imposto il coprifuoco; nessun indio, nero o meticcio poteva circolare di notte; la trasgressione era punita con cento frustate sulla nuda carne nella piazza principale, la stessa pena che veniva applicata se facevano festa senza permesso, si ubriacavano o scommettevano al gioco, vizio riservato ai loro padroni. Il coprifuoco scagionava tutti i meticci, gli indigeni e i neri della città, ma nessuno riteneva possibile che a compiere tale aberrazione fosse stato uno spagnolo. Valdivia ordinò a Juan Gómez di ricorrere alle torture che riteneva necessarie pur di scoprire l'autore dell'oltraggio.
Benché fossi guarita dall'odio per Pedro de Valdivia, preferivo vederlo il meno possibile. Ci incontravamo comunque piuttosto spesso dato che il centro di Santiago è piccolo e vivevamo vicini, anche se non partecipavamo agli stessi eventi sociali. Gli amici facevano attenzione a non invitarci insieme. Quando ci incontravamo casualmente per strada o in chiesa, ci salutavamo con un discreto cenno del capo e null'altro. Il suo rapporto con Rodrigo invece non subì mutamenti; Pedro continuò a dargli tutta la sua fiducia e questi rispose con lealtà e affetto. Ovviamente io ero bersaglio di commenti maliziosi.
"Perché la gente deve essere così meschina e
pettegola, Inés?" commentò Cecilia.
"Gli dà fastidio che al posto di assumere il ruolo di amante
abbandonata mi sia trasformata in una moglie felice. Si rallegrano
di vedere donne forti, come te e me, umiliate. Non ci perdonano di
trionfare là dove molti soccombono" le spiegai.
"Non mi merito di essere paragonata a te, Inés, non ho la tua
tempra" rise Cecilia.
"La tempra è una virtù che viene apprezzata negli uomini, ma che si
considera un difetto nel nostro sesso. Le donne con una forte
tempra mettono in pericolo l'equilibrio del mondo, che pende dalla
parte degli uomini, i quali provano gusto a vessarle e
distruggerle. Ma sono come gli scarafaggi: ne schiacciano uno e
dagli angoli ne escono molti di più" le dissi.
Per quanto riguardava María de Encio, ricordo che nessuno dei
concittadini più prestigiosi la riceveva, nonostante fosse spagnola
e per giunta la donna del governatore. Si limitavano a trattarla
come la sua governante. Quanto all'altra, Juana Jiménez, la
prendevano in giro dicendo che la sua signora l'aveva istruita per
compiere a letto le piroette che lei non aveva lo stomaco di fare.
Se era vero, mi domando in quale vizi avessero invischiato Pedro,
che era uomo dalla sensualità sana e diretta, che non si era mai
interessato alle curiosità dei libretti francesi che Francisco de
Aguirre faceva circolare, tranne che all'epoca del giovane Escobar,
quando aveva cercato di attenuare il suo senso di colpa
abbassandomi alla condizione di meretrice. E a questo proposito,
non sia mai che dimentichi di dire in queste pagine che Escobar
effettivamente non arrivò in Perú, ma nemmeno morì di sete nel
deserto, come temevamo. Molti anni dopo venni a sapere che il
giovane yanacona che lo accompagnava l'aveva guidato per segreti
sentieri al villaggio dei genitori, nascosto tra le cime della
Cordigliera, dove entrambi oggi vivono. Prima di partire per
l'esilio Escobar aveva promesso a González de Marmolejo che se
fosse arrivato vivo in Perú si sarebbe fatto sacerdote, perché
senza dubbio Dio l'aveva protetto quando l'aveva salvato dalla
forca e poi dal deserto. Non mantenne la promessa, ebbe invece
diverse spose quechua e figli meticci, e propagò così, a suo modo,
la santa fede. Per tornare alle donne che Valdivia si era portato
da Cuzco, venni a sapere da Catalina che gli preparavano infusi di
chiodi di garofano. Forse Pedro temeva di perdere la virilità, per
lui importante tanto quanto il suo valore di soldato, e per questa
ragione beveva pozioni e ricorreva a due donne per farsi stimolare.
Non era ancora nell'età in cui il vigore è destinato a diminuire,
ma non era in salute e gli dolevano le antiche ferite. Il destino
di quelle due donne fu burrascoso. Dopo la morte di Valdivia, Juana
Jiménez sparì, si dice che venne rapita dai mapuche durante una
scorreria a sud. A María de Encio si inacidì il carattere e si
dedicò a torturare le sue indie; si dice che le ossa delle povere
sfortunate siano sepolte nella casa che ora appartiene al cabildo
della città e che di notte si sentano i loro gemiti, ma anche
questa è una delle tante storie che non faccio in tempo a
raccontare.
Tenni María e Juana a distanza. Non pensavo che avrei mai rivolto
loro la parola, ma cadendo da cavallo Pedro si fratturò una gamba e
allora mi chiamarono, perché nessuno era più esperto di me in quel
campo. Entrai per la prima volta nella casa che era stata mia,
costruita con le mie mani, e nonostante gli stessi mobili fossero
rimasti nella stessa posizione, non la riconobbi. Juana, una galega
di bassa statura, ma proporzionata e dai lineamenti piacevoli, mi
salutò con un inchino da domestica e mi condusse nella camera che
prima condividevo con Pedro. Lì si trovava María, intenta a
piagnucolare e a sistemare panni bagnati sulla fronte del ferito
sdraiato, più morto che vivo. María mi si gettò addosso per
baciarmi le mani, singhiozzando di gratitudine e paura – se Pedro
fosse morto, il suo destino sarebbe stato piuttosto incerto –, ma
la scostai con delicatezza, per non offenderla, e mi avvicinai al
letto. Quando sollevai il lenzuolo e vidi la gamba rotta in due
parti pensai che la cosa più opportuna fosse amputarla al di sopra
del ginocchio per evitare che andasse in cancrena, ma
quest'operazione mi ha sempre spaventato e non mi sentii in grado
di eseguirla su quel corpo che avevo amato. Mi raccomandai alla
Vergine e mi apprestai a porre il miglior rimedio possibile al
danno, con l'aiuto del veterinario e del fabbro, dato che il medico
si era rivelato un ubriacone buono a nulla. Era una di quelle
fratture multiple, difficili da comporre. Mi toccò sistemare ogni
osso tastando alla cieca e solo per miracolo ci riuscii abbastanza
bene. Catalina stordiva il paziente con le sue polverine magiche
dissolte nel liquore, ma anche se assopito il ferito urlava; ci
volevano diversi uomini per tenerlo fermo a ogni medicazione.
Svolsi il lavoro senza malanimo né rancore, cercando di ridurre al
minimo la sofferenza, anche se ciò fu impossibile. A dire la
verità, della sua ingratitudine non mi ricordavo neanche. Così
tante volte Pedro pensò di morire dal dolore, che dettò il
testamento a González de Marmolejo, lo sigillò e lo fece
conservare, chiuso a tre mandate, nell'ufficio del cabildo. Quando
lo aprirono, alla sua morte, fra le altre cose risultò che nominava
Rodrigo de Quiroga suo successore nella carica di governatore.
Riconosco che le due ragazze si occuparono di Pedro con grande cura
e grazie anche alle loro attenzioni riuscì a riprendere a
camminare, anche se avrebbe zoppicato per il resto dei suoi
giorni.
Non fu necessario che Juan Gómez torturasse qualcuno per scoprire l'autore dell'uccisione di Sultán; dopo mezz'ora si venne a sapere che era stato Felipe. All'inizio non riuscii a crederci, perché il giovane mapuche adorava l'animale. Ricordavo che quando Sultán era stato ferito dagli indios a Marga-Marga, Felipe l'aveva curato per settimane, aveva dormito con lui, gli aveva dato da mangiare dalla sua mano, lo aveva pulito e gli aveva fatto le medicazioni finché non si era ripreso. Era talmente forte il legame tra il ragazzo e il cavallo che Pedro ne era geloso, ma siccome nessuno si occupava di Sultán meglio di Felipe, aveva preferito non intervenire. L'abilità del giovane mapuche con i cavalli era arrivata a essere leggendaria e Valdivia aveva in mente, quando Felipe avesse raggiunto l'età adeguata, di nominarlo stalliere, professione molto rispettata in una colonia per la quale l'allevamento dei cavalli era fondamentale. Felipe aveva ucciso il suo nobile amico recidendogli la vena principale del collo, affinché non soffrisse, e poi lo aveva decapitato con un machete. Sfidando il coprifuoco e approfittando del buio aveva conficcato la testa sulla picca in piazza ed era fuggito dalla città. Aveva lasciato i suoi indumenti e i suoi pochi beni in un fagotto nella scuderia insanguinata. Era partito nudo, con al collo lo stesso amuleto che portava quando era arrivato anni prima. Lo immagino mentre corre a piedi nudi sulla terra morbida, mentre aspira a pieni polmoni le fragranze segrete del bosco, alloro, quillaia, rosmarino, guada pozze d'acqua e ruscelli cristallini, attraversa a nuoto le acque gelide dei fiumi, con il cielo infinito sopra di lui, finalmente libero. Perché commise un gesto così barbaro contro l'animale che tanto amava? La sibillina risposta di Catalina, che non l'aveva mai avuto in simpatia, si rivelò esatta: "Non vedi che il mapuche sta tornando dai suoi, mamitay?".
Immagino che Pedro esplose di rabbia quando lo venne a sapere, giurando di infliggere il più orribile castigo al suo scudiero preferito, ma poi dovette posticipare la vendetta perché aveva questioni più gravi da sbrigare. Aveva appena siglato un'alleanza con il suo principale nemico, il cacicco Michimalonko, e stava organizzando una campagna nel Sud del paese per sottomettere i mapuche. Il vecchio cacicco, per il quale gli anni sembravano non passare, aveva compreso che conveniva allearsi con gli huincas, visto che non era stato in grado di sconfiggerli. La lezione che gli aveva dato Aguirre l'aveva praticamente lasciato sprovvisto di uomini per le sue truppe; al Nord rimanevano solo donne e bambini, metà dei quali meticci. Tra morire o combattere contro i mapuche del Sud, con cui negli ultimi tempi aveva avuto problemi, dal momento che non era riuscito a tener fede alla promessa di distruggere gli spagnoli, scelse la seconda opzione, così, quanto meno, metteva in salvo la sua dignità e non doveva obbligare i suoi guerrieri a lavorare la terra e a estrarre oro per gli huincas.
Io, tuttavia, non riuscii a togliermi Felipe dalla mente. La morte di Sultán mi sembrò un atto simbolico: con quei colpi di machete aveva assassinato il governatore, un gesto definitivo, aveva completamente rotto con noi e se ne andava portando con sé le informazioni raccolte in anni di intelligente dissimulazione. Mi venne in mente il primo attacco degli indigeni alla nascente città di Santiago, nella primavera del 1541, e solo allora mi sembrò di capire come andava interpretato il ruolo svolto da Felipe nelle nostre vite. In quell'occasione gli indios si erano nascosti sotto coperte scure per avanzare di notte senza essere visti dalle sentinelle, esattamente come avevano fatto in Europa le truppe del marchese di Pescara con le lenzuola bianche sulla neve. Felipe aveva ascoltato Pedro raccontare in più di un'occasione questa storia e aveva parlato dello stratagemma ai toquis. Le sue frequenti sparizioni non erano casuali, rispondevano a un'inflessibile determinazione, quasi impossibile da immaginare nel bambino che allora era Felipe. Poteva uscire dalla città per andare a caccia senza essere aggredito dalle milizie ostili che ci tenevano sotto assedio perché era uno di loro. Le sue battute venatorie erano un pretesto per riunirsi alla sua gente e raccontare loro di noi. Era stato lui ad arrivare con la notizia che la gente di Michimalonko si era concentrata nei pressi di Santiago, era stato lui ad aiutarli a tendere l'imboscata per allontanare Valdivia e metà dei nostri, lui ad avvisare gli indios del momento propizio per attaccarci. Dove si trovava quel ragazzino durante l'assalto a Santiago? Nella confusione di quel giorno terribile ci eravamo dimenticati di lui. Si era nascosto o aveva aiutato i nostri nemici, forse aveva contribuito ad attizzare l'incendio? non lo so. Durante quegli anni Felipe si era dedicato a studiare i cavalli, a domarli e allevarli; ascoltava con attenzione i racconti dei soldati e apprendeva la strategia militare; sapeva usare le nostre armi, dalla spada, all'archibugio e al cannone; conosceva i nostri punti di forza e quelli di debolezza. Credevamo che ammirasse Valdivia, il suo Taita, che serviva meglio di chiunque altro, ma in realtà lo spiava, e dentro di sé coltivava il rancore contro gli invasori della sua terra. Successivamente venimmo a sapere che era figlio di un toqui, l'ultimo di una lunga stirpe di capi, orgoglioso del suo lignaggio di guerrieri quanto Valdivia lo era del proprio. Immagino quanto fosse profondo l'odio che offuscava il cuore di Felipe. E ora, quel mapuche diciottenne, forte e magro come un giunco, stava correndo nudo e veloce verso i boschi umidi del Sud, dove le tribù lo attendevano.
Il suo vero nome era Lautaro e arrivò a essere il più famoso toqui dell'Araucania, demonio temuto dagli spagnoli, eroe per i mapuche, principe dell'epica guerresca. Al suo comando, le disordinate milizie degli indios si organizzarono come i migliori eserciti d'Europa, in battaglioni, fanteria e cavalleria. Per abbattere i cavalli dei nemici senza ucciderli – erano preziosi per loro come per noi – utilizzò le boleadoras, pietre attaccate alle estremità di una corda, che si attorcigliavano alle zampe facendo cadere l'animale, o intorno al collo del cavaliere che veniva così disarcionato. Mandò i suoi uomini a rubare cavalli e si dedicò ad allevarli e a domarli; lo stesso fece con i cani. Addestrò i suoi uomini per trasformarli nei migliori cavallerizzi del mondo, come lui stesso era, e così la cavalleria mapuche diventò invincibile. Sostituì gli antichi randelli, che appesantivano e rendevano impacciati, con mazze corte, molto più efficaci. In ogni battaglia si impadroniva delle armi del nemico per utilizzarle e copiarle. Stabilì un sistema di comunicazione così efficiente che persino l'ultimo dei suoi guerrieri riceveva all'istante gli ordini dal suo toqui, e impose una disciplina ferrea, paragonabile solo a quella dei celebri battaglioni spagnoli. Trasformò le donne in feroci guerriere e mise i bambini a trasportare viveri, munizioni e a recapitare messaggi. Conosceva il terreno e per nascondere i suoi eserciti preferiva il bosco, ma quando fu necessario fece erigere fortini in luoghi inaccessibili all'interno dei quali preparava la sua gente mentre le spie lo informavano di ogni movimento del nemico, consentendogli di giocare d'anticipo. Non poté invece modificare la cattiva abitudine dei suoi guerrieri di ubriacarsi dopo ogni vittoria con chicha e muday fino a rimanere storditi. Se ci fosse riuscito, a sud i mapuche avrebbero sterminato il nostro esercito. Sono passati trent'anni, ma lo spirito di Lautaro è ancora alla testa delle sue milizie e il suo nome echeggerà per secoli, non potremo mai sconfiggerlo.
Venimmo a conoscenza dell'epopea di Lautaro più tardi, quando Pedro de Valdivia partì per l'Araucania per fondare nuove città, animato dal sogno di estendere la Conquista fino allo Stretto di Magellano. "Se Francisco Pizarro ha conquistato il Perú con un centinaio di soldati che si batterono contro i trentacinquemila uomini dell'esercito di Atahualpa, sarebbe umiliante essere fermati da dei selvaggi cileni" annunciò davanti al cabildo riunito. Contava su duecento soldati ben equipaggiati, quattro capitani, tra cui il valoroso Jerónimo de Alderete, centinaia di yanaconas, addetti al trasporto del carico, e inoltre era accompagnato da Michimalonko, che sul destriero ricevuto in dono stava alla testa delle sue indisciplinate ma intrepide brigate. I cavalieri indossavano un'armatura completa; i fanti, corazza e scudo, e persino gli yanaconas erano dotati di elmi con cui proteggere la testa dalle formidabili randellate dei mapuche. L'unico particolare che stonava con tanta superbia militare era che Valdivia doveva essere trasportato su un palanchino, come una cortigiana, perché il dolore alla gamba fratturata e non ancora guarita, gli impediva di montare a cavallo. Prima di partire inviò il temibile Francisco de Aguirre a ricostruire La Serena e a fondare altre città nella zona a nord, quasi spopolata dalle campagne di sterminio che lo stesso Aguirre aveva condotto e dalla ritirata in massa della gente di Michimalonko. Nominò suo rappresentante a Santiago Rodrigo de Quiroga, l'unico capitano obbedito e rispettato all'unanimità. Così, per uno di quegli strani rivolgimenti del destino, tornai a essere la governatrice, carica che ho sempre ricoperto nei fatti, malgrado non sia sempre stato il mio legittimo titolo.
Lautaro fugge da Santiago nella notte più buia dell'estate, senza essere visto dalle sentinelle e senza mettere in all'erta i cani, che lo conoscono. Corre sulla riva del Mapocho, nascosto tra le canne e le felci. Non usa il ponte di corde degli huincas, si tuffa nelle acque nere e nuota con un grido di gioia soffocato nel petto. L'acqua fredda lo lava sia dentro sia fuori, ripulendolo dall'odore degli huincas. A grandi bracciate attraversa il fiume ed emerge sull'altra sponda rinato. "Inche Lautaro! Sono Lautaro!" grida. Attende immobile sulla riva, mentre l'aria tiepida fa evaporare l'umidità del corpo. Sente il gracchio di un chon-chón, spirito dal corpo di uccello e volto d'uomo, e risponde con un richiamo simile; e allora avverte molto vicina la presenza della sua guida, Guacolda. Deve compiere uno sforzo per vederla, benché i suoi occhi si siano già abituati all'oscurità, perché lei possiede il dono del vento, è invisibile, può passare tra le fila nemiche, gli uomini non avvertono la sua presenza, i cani non la fiutano. Guacolda, cinque anni più grande di lui, la sua promessa. La conosce dall'infanzia e sa di appartenerle come lei appartiene a lui. L'ha vista ogni volta in cui è fuggito dalla città degli huincas per portare le informazioni alle tribù. Lei ha fatto da collegamento, da rapida messaggera. È stata lei a condurlo alla città degli invasori, quando non era che un ragazzino undicenne, con le precise istruzioni di dissimulare e vigilare; lei a osservarlo da vicino quando si appiccicò al frate vestito di nero e lo seguì. Nell'ultimo incontro Guacolda gli ha indicato di scappare nella prima notte senza luna, perché il suo tempo con il nemico si è concluso, lui sa già tutto e la sua gente lo aspetta. Quando lo vede arrivare quella notte, senza i vestiti da huinca, nudo, Guacolda lo saluta, "Mari mari", poi lo bacia per la prima volta sulla bocca, gli lecca il viso, lo tocca come fa una donna per stabilire il suo diritto su di lui. "Mari mari" risponde Lautaro, che sa già che è giunta la sua ora per l'amore, presto potrà rapire Guacolda dalla sua ruca, prendersela sulle spalle e ruggire con lei, come è uso. Glielo annuncia, lei sorride e poi lo conduce con una corsa leggera verso il Sud, sempre a sud. L'amuleto che Lautaro non si toglie mai dal collo è di Guacolda.
Alcuni giorni dopo i giovani arrivano finalmente a destinazione. Il padre di Lautaro, cacicco di grande riguardo, lo presenta agli altri toquis, affinché ascoltino ciò che il figlio ha da dire.
"Il nemico è in cammino, sono gli stessi huincas che hanno sconfitto i fratelli del Nord" spiega Lautaro. "Si avvicinano al fiume Bío-Bío, il fiume sacro, con i loro yanaconas, i cavalli e i cani. Con loro c'è Michimalonko, il traditore che guida il suo esercito di vigliacchi a combattere contro i fratelli del Sud. Morte a Michimalonko! Morte agli huincas!"
Lautaro parla per giorni, spiega che gli archibugi sono solo rumore e vento, debbono temere di più le spade, le lance, le asce e i cani; i capitani usano cotte di maglia, che non si lasciano trapassare da frecce e lance di legno; con loro vanno usate mazze per stordirli e lazi per disarcionarli; una volta a terra sono perduti, è facile trascinarli e straziarli perché sotto il ferro sono fatti di carne.
"Attenzione! Sono uomini senza paura. La fanteria ha solo una protezione sul petto e sulla testa, e le frecce sono utili. Attenzione! Nemmeno loro hanno paura! Bisogna avvelenare le frecce affinché i feriti non riprendano a combattere. I cavalli sono fondamentali, debbono essere catturati vivi, soprattutto le giumente, per poterli allevare. Sarà necessario mandare dei bambini di notte in prossimità degli accampamenti degli huincas perché lancino della carne avvelenata ai cani, che sono sempre in catene. Costruiremo delle trappole. Scaveremo cavità profonde, le copriremo con rami e i cavalli che ci cadranno dentro rimarranno infilzati nelle picche piantate sul fondo. Il vantaggio dei mapuche è il numero, la velocità e la familiarità con il bosco" dice Lautaro. "Gli huincas non sono imbattibili, dormono più a lungo dei mapuche, mangiano e bevono troppo e hanno bisogno di portatori perché il peso dei loro equipaggiamenti li sfinisce. Li infastidiremo in continuazione, saremo come vespe e tafani;" ordina, "per prima cosa li stancheremo e poi li ammazzeremo. Gli huincas sono uomini, muoiono come i mapuche, ma si comportano come demoni. A nord hanno bruciato vive intere tribù. Pretendono che accettiamo il loro dio inchiodato su una croce, un dio della morte, che ci sottomettiamo al loro re, che non vive qui e non conosciamo, vogliono occupare la nostra terra e farci diventare loro schiavi. Perché? domando io alla gente. Per niente, fratelli. Non apprezzano la libertà. Non sanno nulla di orgoglio, obbediscono, mettono le ginocchia a terra, chinano la testa. Non sanno nulla di giustizia, né di reciprocità. Gli huincas sono pazzi, ma sono pazzi cattivi. Io vi dico, fratelli, che non saremo mai loro prigionieri, moriremo combattendo. Uccideremo gli uomini, ma prenderemo vivi donne e bambini. Loro saranno le nostre chiñuras e, se vogliono, scambieremo i bambini con i cavalli. È giusto. Saremo silenziosi e rapidi, come pesci, non sapranno mai che gli siamo vicini; e solo allora gli arriveremo addosso di sorpresa. Saremo pazienti cacciatori. Il conflitto sarà lungo. Che la gente si prepari."
Mentre il giovane Lautaro di giorno organizza la strategia e di notte si nasconde con Guacolda nel folto del bosco per amarla in segreto, le tribù scelgono i loro capi della guerra, che saranno al comando dei plotoni, e che a loro volta saranno agli ordini del ñidoltoqui il toqui dei toquis, Lautaro. Nella radura l'aria del pomeriggio è tiepida, ma appena scenderà la notte farà freddo. Con settimane di anticipo sono iniziati i tornei, i candidati hanno già gareggiato e si sono eliminati a uno a uno. Solo i più forti e resistenti, quelli di maggior tempra e volontà, possono aspirare al titolo di toqui della guerra. Uno dei più prestanti scende nell'arena. "Inche Caupolicán!" si presenta. È nudo, tranne che per un perizoma che gli copre il sesso, ed esibisce i lacci del suo rango legati intorno alle braccia e alla fronte. Due ragazzoni si avvicinano al tronco di faggio che hanno preparato e lo sollevano a fatica, uno per lato. Lo mostrano, affinché gli astanti lo valutino e ne calcolino il peso, e poi lo sistemano sulle salde spalle di Caupolicán. Il busto e le ginocchia dell'uomo si piegano sotto il peso del tremendo carico e per un momento sembra che stia per cadere schiacciato, ma immediatamente si raddrizza. I muscoli del corpo si tendono, la pelle brilla di sudore, le vene del collo si gonfiano, quasi sul punto di scoppiare. Un'esclamazione soffocata sfugge al cerchio di spettatori quando Caupolicán comincia a fare brevi passi, misurando le forze perché non lo abbandonino durante le ore successive. Il suo unico vantaggio è la feroce determinazione a morire durante la prova piuttosto che cedere il primo posto. Vuole guidare la sua gente, desidera che il suo nome venga ricordato, vuole avere figli da Fresia, la ragazza che ha scelto, e che questi siano orgogliosi di essere suoi discendenti. Sistema il tronco appoggiato alla nuca, sostenuto dalle spalle e dalle braccia. La ruvida corteccia gli ferisce la pelle e sottili rivoli di sangue scendono lungo l'ampia schiena. Aspira profondamente l'aroma intenso del bosco, sente il sollievo della brezza e della rugiada. Gli occhi neri di Fresia, che sarà sua moglie se uscirà vincitore dalla prova, si inchiodano nei suoi, senza ombra di compassione, innamorati. Con quello sguardo lei gli impone di trionfare: lo desidera, ma si sposerà solamente con il migliore. Tra i capelli esibisce un copihue, il fiore rosso dei boschi che cresce nell'aria, goccia di sangue della Madre Terra, regalo di Caupolicán, che ha scalato l'albero più alto per donarglielo.
Il guerriero cammina in tondo, con il peso del mondo sulle spalle, e dice: "Noi siamo il sogno della Terra, e lei sogna noi. Anche tra le stelle ci sono esseri che sono sognati e che hanno le loro meraviglie. Siamo sogni dentro altri sogni. Siamo sposi della Natura. Salutiamo la Santa Terra, madre nostra, a cui cantiamo nella lingua delle araucarie e delle tasmannie aromatiche, delle ciliegie e dei condor. Che giungano i venti fioriti a portare la voce degli avi affinché il nostro sguardo si indurisca. Che il coraggio degli antichi toquis navighi nel nostro sangue. Gli anziani dicono che è l'ora dell'ascia. I nonni dei nonni vigilano su di noi e sostengono il nostro braccio. È l'ora del combattimento. Dobbiamo morire. La vita e la morte sono la stessa cosa...". La voce tranquilla del guerriero continua a parlare per ore in un'incessante supplica, mentre il tronco oscilla sulle sue spalle. Invoca gli spiriti della Natura, affinché difendano la sua terra, le sue grandi acque, le sue aurore. Invoca gli avi affinché trasformino in lance le braccia degli uomini. Invoca i puma delle montagne affinché prestino alle donne la loro forza e il loro valore. Gli spettatori si stancano, si bagnano con la pioggerellina sottile della notte, alcuni accendono piccoli falò per fare luce, masticano grani di mais tostato, altri si addormentano o se ne vanno, ma poi tornano, ammirati. La vecchia machi spruzza Caupolicán con un ramo di tasmannia aromatica intinto nel sangue del sacrificio, per dargli fermezza. Ha paura, la donna, perché la notte prima le sono apparsi in sogno la biscia-volpe, ñeru-filù, e il serpente-gallo, piwichén, a dirle che il sangue della guerra sarà così copioso da tingere di rosso il Bío-Bío fino alla fine dei tempi. Fresia avvicina alle labbra secche di Caupolicán una zucca contenente acqua. Lui vede sul suo petto le dure mani dell'amata che gli tastano i muscoli di pietra, ma non le sente, come ormai non sente più né dolore né stanchezza. Continua a parlare in trance, continua a marciare come un sonnambulo. Così trascorrono le ore, la notte intera, così spunta l'alba, la cui luce filtra tra le foglie degli alti alberi. Il guerriero galleggia nella nebbia fredda che si sprigiona dalla terra, i primi raggi d'oro bagnano il suo corpo e lui continua ad accennare passi da ballerino, la schiena rossa di sangue, il discorso fluente. "Siamo nello hualán, il tempo sacro dei frutti, quando la Madre Terra ci dà nutrimento, il tempo del pinolo e delle cucciolate di animali e delle donne, figli e figlie di Ngenechén. Prima del tempo del riposo, del tempo del freddo, del sonno della Madre Terra, verranno gli huincas."
La voce si è sparsa per i monti, iniziano ad arrivare i guerrieri di altre tribù e la radura del bosco si riempie di gente. Il cerchio in cui si muove Caupolicán si fa più piccolo. Ora lo incoraggiano, la machi lo asperge di nuovo di sangue fresco, Fresia e altre donne gli lavano il corpo con pelli di coniglio umide, gli danno da bere, gli introducono del cibo masticato in bocca, affinché possa inghiottire senza interrompere il suo poetico discorso. I vecchi toquis si inchinano davanti al guerriero con rispetto, non hanno mai visto nulla di simile. Il sole scalda la terra e dissolve la nebbia, l'aria si riempie di farfalle trasparenti. Oltre la chioma degli alberi si staglia contro il cielo il profilo del vulcano con la sua eterna colonna di fumo. "Ancora acqua per il guerriero" ordina la machi. Caupolicán, che ha già vinto la competizione, non abbandona comunque il tronco e continua a camminare e a parlare. Il sole giunge al culmine e inizia a scendere fino a sparire tra gli alberi, ma lui non si ferma. Migliaia di mapuche sono arrivati durante quelle ore e la folla occupa la radura e il bosco intero, ne vengono altri dalle colline, suonano le trutrucas e i cultrunes annunciando l'impresa ai quattro venti. Gli occhi di Fresia non si staccano da quelli di Caupolicán, lo sostengono, lo guidano.
Alla fine, quando ormai è notte, il guerriero prende lo slancio e solleva il tronco sulla sua testa, lo trattiene così per qualche istante e poi lo scaglia lontano. Lautaro ha il suo luogotenente. "Oooooooooooom! Oooooooooooooom!" L'immenso grido percorre il bosco, risuona tra le montagne, viaggia per tutta la Araucania e arriva alle orecchie degli huincas, a molte leghe di distanza. "Ooooooooooooom!"
Valdivia impiegò quasi un mese per raggiungere il territorio mapuche e in quel lasso di tempo riuscì a rimettersi a sufficienza da poter ogni tanto cavalcare, se pur con grande difficoltà. Non appena ebbero allestito l'accampamento, iniziarono i quotidiani attacchi del nemico. I mapuche attraversavano a nuoto i fiumi che bloccavano il passaggio agli spagnoli, impossibilitati ad attraversarli senza imbarcazioni per via del peso delle armature e degli equipaggiamenti. Mentre alcuni affrontavano a petto nudo i cani, sapendo che sarebbero stati divorati vivi, ma determinati a realizzare la missione di impedire il transito, gli altri si scaraventavano sugli spagnoli. Abbandonavano dozzine di morti, si portavano via i feriti in grado di reggersi in piedi e sparivano nel bosco prima che i soldati riuscissero a organizzarsi per inseguirli. Valdivia diede ordine a metà del suo ridotto esercito di montare la guardia mentre l'altra metà riposava, a turni di sei ore. Nonostante le incessanti aggressioni il governatore continuò ad avanzare, vincendo ogni scaramuccia. Penetrò sempre di più nell'Araucania senza incontrare cospicui plotoni di indigeni, ma solo gruppi dispersi, i cui attacchi imprevedibili e fulminei fiaccavano i soldati ma non li fermavano, abituati com'erano ad affrontare nemici cento volte più numerosi. L'unico in ansia sembrava essere Michimalonko, che sapeva molto bene con chi avrebbero presto dovuto vedersela.
E così fu. Il primo scontro serio con i mapuche si verificò nel gennaio del 1550, quando gli huincas avevano raggiunto le rive del Bío-Bío, linea di demarcazione del territorio inviolabile dei mapuche. Gli spagnoli si accamparono nei pressi di un piccolo lago, un luogo sicuro perché le acque gelate e cristalline proteggevano loro le spalle. Non avevano previsto che i nemici potessero arrivare via acqua, rapidi e silenziosi lupi di mare. Le sentinelle non videro nulla, la notte sembrava tranquilla, ma all'improvviso sentirono un clamore di grida, urla, flauti e tamburi, e la terra fu scossa dai colpi dei piedi nudi di migliaia e migliaia di guerrieri, gli uomini di Lautaro. La cavalleria spagnola, che si teneva sempre pronta, andò loro incontro, ma gli indigeni non si intimorirono, come prima succedeva davanti all'impeto degli animali, anzi si disposero a costituire una muraglia di lance in resta. I cavalli si imbizzarrirono e i cavalieri dovettero ripiegare mentre gli archibugieri lanciavano la prima raffica. Lautaro aveva avvertito i suoi uomini che per caricare le armi da fuoco erano necessari alcuni minuti durante i quali il soldato rimaneva indifeso e ciò dava loro il tempo di attaccare. Sconcertato dall'assoluta mancanza di timore dei mapuche, che combattevano corpo a corpo contro soldati in armatura, Valdivia organizzò la sua truppa come aveva fatto in Italia, plotoni compatti protetti da corazze, irti di lance e spade, mentre della retroguardia si faceva carico Michimalonko con le sue milizie. Il feroce combattimento durò fino a notte inoltrata e terminò con la ritirata dell'esercito di Lautaro, che non si sparpagliò in una fuga precipitosa, ma ripiegò ordinatamente al segnale dei cultrunes.
"Nel Nuovo Mondo non si è mai visto niente di
simile a questi guerrieri" commentò Jerónimo de Alderete,
sfinito.
"In vita mia non ho mai incontrato nemici così feroci. Sono più di
trent'anni che servo sua maestà e ho combattuto contro molte
nazioni, ma non ho mai visto una tenacia paragonabile a quella
dimostrata nel combattere da questa gente" aggiunse
Valdivia.
"Ora che cosa faremo?"
"Fonderemo qui una città. È una posizione che offre molti vantaggi:
una baia salubre, un fiume ampio, legno, pesci."
"E anche migliaia di selvaggi" fece notare Alderete.
"Per prima cosa costruiremo un forte. Metteremo tutti, tranne i
feriti e le sentinelle, a tagliare alberi e a costruire baracche e
una muraglia con un fosso, come si deve. Vediamo se questi barbari
avranno ancora l'ardire."
Ebbero l'ardire, ovviamente. Non appena gli spagnoli terminarono di
costruire la muraglia, Lautaro si presentò con un esercito così
numeroso che le sentinelle terrorizzate valutarono in centomila
uomini. "Non saranno nemmeno la metà e possiamo sconfiggerli.
Santiago e Spagna!" così Valdivia arringò i suoi; era impressionato
dall'audacia e dal comportamento del nemico più che dal numero. I
mapuche marciavano con perfetta disciplina, in quattro divisioni al
comando dei loro toquis di guerra. Il grido terribile con cui
spaventavano il nemico era potenziato dal suono dei flauti fatti
con le ossa degli spagnoli caduti nella battaglia
precedente.
"Non riusciranno a superare il fosso e la muraglia. Li fermeremo
con gli archibugi" considerò Alderete.
"Se ci chiudiamo nel forte potranno assediarci fino a farci morire
di fame" argomentò Valdivia.
"Assediarci? Non credo che verrà loro in mente, non è una tattica
nota ai selvaggi."
"Temo che abbiano imparato molto da noi. Dobbiamo affrontarli in
campo aperto."
"Sono troppi, non ce la faremo."
"Ce la faremo, con il favore di Dio" replicò Valdivia.
Ordinò a Jerónimo de Alderete di uscire con cinquanta cavalieri per
affrontare il primo plotone mapuche, che avanzava a passo deciso
verso la porta nonostante la prima scarica degli archibugi ne
avesse lasciati molti a terra. Il capitano e i suoi soldati si
disposero a obbedire senza replicare, benché fossero certi di
andare incontro a morte sicura. Valdivia si congedò dall'amico con
un abbraccio emozionato. Si conoscevano da molti anni e insieme
erano sopravvissuti a inenarrabili pericoli.
I miracoli accadono, non c'è dubbio. Quel giorno ebbe luogo un miracolo, non v'è altra spiegazione, e come tale lo racconteranno per i secoli dei secoli i discendenti degli spagnoli che assistettero ai fatti, come sicuramente faranno anche i mapuche con le generazioni future.
Jerónimo de Alderete si mise alla testa dei suoi cinquanta cavalieri schierati e a un suo segnale vennero immediatamente aperte le porte. Il mostruoso urlo degli indigeni accolse la cavalleria che uscì al galoppo. In pochi minuti una massa immensa di guerrieri circondò gli spagnoli e Alderete comprese che proseguire sarebbe stato un atto suicida. Diede ordine agli uomini di ricompattarsi, ma le boleadoras escogitate da Lautaro si impigliavano nelle zampe degli animali rendendoli ingovernabili.
Dalla muraglia, gli archibugieri spararono la seconda raffica di colpi, che non riuscì tuttavia a scoraggiare l'avanzata degli assalitori. Valdivia si predispose a uscire per dare rinforzo alla cavalleria, benché ciò implicasse lasciare il forte sguarnito, alla mercé delle altre tre divisioni indigene che lo circondavano, ma non poteva permettere che uccidessero cinquanta dei suoi uomini senza prestar loro aiuto. Per la prima volta durante la sua carriera militare temette di aver commesso un errore tattico irreparabile. L'eroe del Perú, che poco tempo prima aveva magistralmente sconfitto l'esercito di Gonzalo Pizarro, era disorientato da quei selvaggi. Le grida erano terrificanti, gli ordini non si sentivano e nella confusione uno dei soldati a cavallo cadde ucciso da un tiro di archibugio che aveva centrato il bersaglio sbagliato. All'improvviso, quando i mapuche del primo plotone avevano già guadagnato terreno, iniziarono a indietreggiare in ordine, seguiti quasi immediatamente dalle altre tre divisioni. In pochi minuti gli assalitori abbandonarono il campo e fuggirono nei boschi come lepri.
Sorpresi, gli spagnoli, non capirono cosa diavolo stesse succedendo e temettero che si trattasse di una nuova strategia del nemico, visto che non c'era altra spiegazione per una ritirata così improvvisa che segnava la fine di una battaglia appena iniziata. Valdivia fece ciò che la sua esperienza di soldato gli dettava: ordinò di inseguirli. Così descriveva gli eventi al re in una delle sue lettere: "Ed erano appena giunti quelli a cavallo quando gli indios ci diedero le spalle e gli altri tre plotoni fecero lo stesso. Vennero uccisi millecinquecento o forse perfino duemila indios, altrettanti ne vennero feriti con le lance e qualcuno fu catturato".
Chi era presente assicura che il miracolo fu evidente a tutti: una figura angelica, brillante come un lampo, scese sul campo illuminando il giorno con una luce soprannaturale. Qualcuno credette di poter riconoscere l'apostolo Santiago in persona che, a cavallo di un destriero bianco, affrontò i selvaggi rivolgendo loro un eloquente sermone e ordinando di arrendersi ai cristiani. Altri intravidero l'immagine di Nuestra Señora del Socorro, una dama bellissima vestita d'oro e d'argento, che galleggiava sulle cime dei monti. Gli indios prigionieri confessarono di aver visto una fiammata che aveva tracciato un ampio arco nel firmamento ed era esplosa fragorosamente, lasciando nell'aria una coda di stelle. Negli anni successivi i baccellieri hanno dato un'altra versione; dicono che si sia trattato di un corpo celeste, qualcosa di simile a una roccia che dopo essersi staccata dal Sole era caduta sulla Terra. Non ne ho mai visti, ma certamente mi meraviglia che assumano le fattezze di un apostolo o della Vergine, e che cadano proprio al posto giusto e nel momento giusto per favorire gli spagnoli. Miracolo o corpo celeste, non lo so, ma certo è che gli indios fuggirono spaventati e i cristiani rimasero padroni del campo a festeggiare un'immeritata vittoria.
Stando alle notizie che arrivarono a Santiago, Valdivia catturò all'incirca trecento prigionieri – benché al re avrebbe riferito solo di duecento – e ordinò di torturarli: tagliarono loro la mano destra con un colpo d'ascia e il naso con un coltello. Mentre alcuni soldati costringevano i prigionieri a sistemare il braccio su un ceppo, sul quale gli aguzzini neri assestavano il colpo d'ascia, altri cauterizzavano i moncherini immergendoli in sego bollente, così che le vittime non morissero dissanguate e potessero essere di monito alle loro tribù. Più in là, altri ancora mutilavano le facce dei poveri mapuche. Vennero riempiti canestri di mani e nasi mentre il sangue inzuppava la terra. Nella sua lettera al re, Valdivia riferì che, una volta fatta giustizia, radunò i prigionieri e parlò loro, perché c'erano alcuni cacicchi e indios illustri. Dichiarò di "aver agito così perché li aveva sollecitati molte volte a un accordo di pace e loro non avevano accettato". Oltre a tutto, dunque, i torturati dovettero anche sorbirsi una predica in castigliano. Quanti erano ancora in grado di tenersi in piedi si allontanarono vacillando verso il bosco per andare a mostrare i moncherini ai compagni. Molti amputati caddero svenuti, ma poi tornarono a sollevarsi e anch'essi se ne andarono, gonfi d'odio, senza dare ai loro persecutori la soddisfazione di vederli supplicare o gemere di dolore. A un certo punto i boia non riuscirono più a sollevare asce e coltelli per la fatica e la nausea, tanto che furono rimpiazzati dai soldati. Gettarono nel fiume i canestri di mani e nasi che presero a galleggiare verso il mare, trasportati dalla corrente insanguinata.
Quando venni a conoscenza dell'accaduto domandai a Rodrigo quale potesse essere la finalità di quella carneficina, che a mio giudizio avrebbe portato terribili conseguenze, perché dopo un evento del genere dai mapuche non potevamo aspettarci misericordia, ma solo la peggior vendetta. Rodrigo mi spiegò che talvolta simili azioni sono necessarie per intimorire il nemico.
"Anche tu avresti fatto una cosa del genere?" volli sapere.
"Credo di no, Inés, ma non mi trovavo lì e non
posso giudicare le decisioni del capitano generale."
"Sono stata con Pedro per dieci anni nei momenti buoni e in quelli
cattivi, Rodrigo, e tutto ciò non è consono alla persona che
conosco. Pedro è cambiato molto e, lascia che te lo dica, mi
rallegro che non faccia più parte della mia vita."
"La guerra è la guerra. Prego Dio che finisca presto e che si possa
fondare questa nazione in pace."
"Se la guerra è la guerra, allora possiamo anche giustificare le
mattanze di Francisco de Aguirre al Nord" gli dissi.
Dopo la selvaggia lezione, Valdivia fece radunare il cibo e gli
animali che riuscì a confiscare agli indios e li fece portare al
forte. Inviò dei messaggeri nelle città ad annunciare che in meno
di quattro mesi, con l'aiuto dell'apostolo Santiago e della
Vergine, aveva imposto con successo la pace su quella terra. Pensai
che stesse cantando vittoria troppo presto.
Nei tre anni di vita che gli rimanevano vidi Pedro de Valdivia molto poco ed ebbi sue notizie solo da terzi. Mentre Rodrigo e io ci arricchivamo senza quasi accorgercene, perché dove posavamo l'occhio l'allevamento prosperava, si moltiplicavano i raccolti e spuntava l'oro dalle pietre, il governatore si dedicò a costruire forti e a fondare città a sud. Per prima cosa piantavano la croce e lo stendardo, se c'era un prete si diceva una messa, poi erigevano l'albero della giustizia, o patibolo, e cominciavano a tagliare alberi per le mura di difesa e le case. La cosa più ardua era trovare chi popolasse questi luoghi, ma a poco a poco iniziarono ad arrivare soldati e famiglie. Così sorsero, fra le altre, Concepción, La Imperial e Villarrica, quest'ultima vicino alle miniere d'oro che vennero scoperte su un affluente del Bío-Bío. Queste miniere erano così ricche, che nel commercio non si utilizzava che polvere d'oro con cui si acquistavano pane, carne, frutta, ortaggi e tutto il resto; non c'era altra moneta che l'oro. Mercanti, tavernieri e venditori camminavano carichi di pesi e bilance per vendere e comprare. Così si avverò il sogno dei conquistadores e nessuno osò più chiamare il Cile "paese dei cenciosi" né "tomba degli spagnoli". Si fondò anche la città di Valdivia, così chiamata su insistenza dei capitani e non per vanità del governatore. Il suo scudo la descrive: "Un fiume e una città d'argento". I soldati raccontavano che nelle asperità della Cordigliera esisteva la famosa Città dei Cesari, interamente d'oro e pietre preziose, difesa da belle amazzoni, vale a dire, il mito di Eldorado, ma Pedro de Valdivia, uomo pratico, non perse né tempo né gente a cercarla.
In Cile arrivavano molti rinforzi militari via terra e via mare, ma erano comunque insufficienti per occupare quel vasto territorio di coste, boschi e montagne. Per ingraziarsi i suoi soldati, il governatore distribuiva terre e indios con l'abituale generosità, ma erano regali a parole, vaghe promesse, dato che le terre erano vergini e i nativi indomiti. Solo ricorrendo alla forza bruta si potevano obbligare i mapuche a lavorare. La sua gamba era guarita, anche se gli doleva sempre montare a cavallo. Percorreva senza posa l'immensità del Sud con il suo piccolo esercito, addentrandosi nei boschi umidi e ombrosi, sotto l'alta cupola verde tessuta dagli alberi più nobili e coronata dalla superba araucaria, che si stagliava contro il cielo con la sua dura geometria. Le zampe dei cavalli calpestavano un materasso fragrante di humus, mentre i cavalieri si aprivano la strada con le spade nella macchia, a volte impenetrabile, dei boschi di felci. Attraversavano ruscelli dalle acque fredde, in cui gli uccelli spesso rimanevano congelati sulle rive, le stesse acque in cui le madri mapuche immergevano i neonati. I laghi erano pristini specchi dell'azzurro intenso del cielo, così placidi che sul fondo si potevano contare le pietruzze. I ragni tessevano i loro pizzi, perlati di rugiada, tra i rami dei roveri, dei mirti e dei noccioli. Gli uccelli del bosco cantavano in coro, la diuca, il chincol, il cardellino, la colomba torraiola, lo storno, il tordo e persino il picchio, che segnava il ritmo con il suo incessante tac-tac-tac. Al passaggio dei cavalieri si sollevavano nuvole di farfalle e i cervi, curiosi, si avvicinavano a salutare. La luce filtrava tra le foglie e disegnava ombre nel paesaggio; la nebbia saliva dalla terra tiepida e avvolgeva il mondo in un alito di mistero. Pioggia e ancora pioggia, fiumi, laghi, cascate d'acqua bianca e spumosa, un universo liquido. E sul fondo, sempre, le montagne innevate, i vulcani fumanti, le nuvole viaggiatrici. In autunno il paesaggio era d'oro e di sangue, ingioiellato, magnifico. A Pedro de Valdivia traboccava l'anima e rimaneva avviluppata tra gli slanciati tronchi rivestiti di muschio, raffinato velluto. Il Giardino dell'Eden, la Terra promessa, il paradiso. Muto, umido di lacrime, il conquistador conquistato andava alla scoperta del luogo in cui la Terra finisce, il Cile.
Una volta si trovava con i suoi soldati in un bosco di noccioli quando dalle chiome degli alberi caddero frammenti d'oro. Increduli davanti a simile miracolo, i soldati smontarono in fretta e si lanciarono sulle pietruzze gialle, mentre Valdivia, stupito quanto i suoi uomini, cercava di impartire ordini. Si stavano disputando l'oro quando vennero circondati da cento arcieri mapuche. Lautaro aveva insegnato loro a colpire i punti vulnerabili del corpo, dove gli spagnoli non potevano contare sulla protezione del ferro. In meno di dieci minuti il bosco rimase disseminato di morti e feriti. Prima che i sopravvissuti potessero reagire, gli indigeni erano spariti con la stessa velocità con cui qualche momento prima erano comparsi. Poi si appurò che l'esca erano pietre del fiume ricoperte da una sottile lamina d'oro.
Alcune settimane dopo un altro distaccamento di spagnoli, intento a battere la regione, udì voci femminili. Avanzarono al trotto, scostarono le felci e si ritrovarono davanti a una scena incantevole: un gruppo di ragazze era a bagno nel fiume, coronate di fiori, con le lunghe chiome nere come unico abito. Le mitiche ondine proseguirono il loro bagno senza dare segni di timore quando i soldati spronarono i cavalli e si apprestarono ad attraversare il corso d'acqua profferendo grida cariche di aspettative. Non andarono lontano i lussuriosi barbuti perché le rive del fiume erano una palude in cui i cavalli sprofondarono sino ai fianchi. Gli uomini scesero con l'intenzione di tirare gli animali all'asciutto, ma imprigionati com'erano nelle pesanti armature cominciarono anch'essi ad affondare nel fango. In quel mentre apparvero ancora una volta gli implacabili arcieri di Lautaro a trafiggerli, mentre le nude beltà mapuche dall'altra riva festeggiavano la carneficina.
Valdivia si rese conto molto presto che si trovava davanti a un generale abile quanto lui, una persona che conosceva le debolezze degli spagnoli, ma non se ne preoccupò troppo. Era certo del trionfo. I mapuche, per agguerriti e scaltri che fossero, non potevano competere con la potenza militare dei suoi esperti capitani e soldati. Era solo questione di tempo, diceva, e l'Araucania sarebbe stata sua. Non impiegò molto a scoprire il nome che girava di bocca in bocca, Lautaro, il toqui che osava sfidare gli spagnoli. Lautaro. Non sospettò mai che potesse trattarsi di Felipe, il suo stalliere di un tempo: l'avrebbe scoperto solo il giorno della sua morte. Valdivia si tratteneva nelle isolate frazioni dei coloni e li arringava con il suo indomabile ottimismo. Lo accompagnava Juana Jiménez, come prima facevo io, mentre María de Encio si rodeva il fegato a Santiago. Il governatore scriveva al re lettere in cui ripeteva che i selvaggi avevano compreso la necessità di sottomettersi ai disegni di sua maestà e ai vantaggi del cristianesimo e che aveva domato quella terra bellissima, fertile e mite in cui l'unica cosa a mancare erano spagnoli e cavalli. Tra un paragrafo e l'altro sollecitava nuove prebende, richiesta cui l'imperatore non prestava attenzione.
Pastene, ammiraglio di una flotta composta da due vecchie imbarcazioni, continuava a esplorare la costa da nord a sud e viceversa, lottando contro correnti invisibili, terribili onde nere, venti orgogliosi che squarciavano le vele, nella vana ricerca del passaggio tra i due oceani. Sarebbe stato un altro capitano a trovare, nel 1554, lo Stretto di Magellano. Pedro de Valdivia morì senza saperlo e senza realizzare il suo sogno di estendere la Conquista fino a quel punto della carta geografica. Nel suo peregrinare, Pastene scoprì luoghi idilliaci che descriveva con eloquenza tutta italiana omettendo di riferire i soprusi che i suoi uomini commettevano. Tuttavia, le notizie di queste infamie, come alla lunga sempre succede, cominciarono a circolare. Un cronista che viaggiava con Pastene raccontò che in una rada remota i marinai erano stati ricevuti con cibo e regali da amabili indigeni che ripagarono violentando le donne, assassinando molti degli uomini e catturandone altri. Poi condussero i prigionieri incatenati a Concepción, dove li esibirono come animali da fiera. Valdivia considerò che questo incidente, come tanti di quelli in cui la soldataglia non faceva una gran bella figura, non meritava carta e inchiostro. Non ne fece menzione al re.
Altri capitani, quali Villagra e Alderete, andavano e venivano, galoppavano per le valli, si inerpicavano sulla Cordigliera, si inoltravano nei boschi, navigavano sui laghi e così stabilivano la loro vigorosa presenza in quella regione incantata. Affrontavano spesso brevi scaramucce con bande di indios, ma Lautaro faceva molta attenzione a non rivelare la vera entità della sua forza, e intanto si preparava con infinita cautela nel più profondo dell'Araucania. Michimalonko era morto in uno scontro con Lautaro e alcuni dei suoi guerrieri si erano alleati con i fratelli di razza, i mapuche, ma Valdivia riuscì a trattenerne con sé un buon numero. Il governatore insisteva nel voler proseguire la Conquista verso sud, ma quanto più territorio occupava, meno riusciva a controllarlo. Doveva lasciare dei soldati in ogni città a protezione dei coloni e destinarne altri a esplorare, a castigare gli indigeni e a rubare cibo e bestiame. L'esercito era diviso in piccoli gruppi che generalmente rimanevano isolati per mesi.
Durante il rigido inverno, i conquistadores si rifugiavano nei villaggi dei coloni, che chiamavano città, perché risultava molto difficile spostarsi con i loro pesanti equipaggiamenti sul terreno paludoso, sotto una pioggia inclemente e con la brina del mattino, sopportando il vento gelido che spaccava le ossa. Da maggio a settembre la terra entrava in letargo, tutto era silente, solo l'acqua torrentizia dei fiumi, il picchiettio della pioggia e le tempeste di tuoni e lampi interrompevano il sonno dell'inverno. In quell'epoca di riposo e di buio precoce, Valdivia era circondato da demoni, e l'anima gli si offuscava con premonizioni e pentimenti. Quando non era in groppa a un cavallo, con la spada alla cintola, gli si incupiva l'anima e si convinceva di essere perseguitato dalla cattiva sorte. A Santiago giungevano voci che il governatore fosse molto cambiato, stava invecchiando in fretta e i suoi uomini non nutrivano più per lui la cieca fiducia di un tempo. Secondo Cecilia, la sua stella aveva cominciato a innalzarsi quando mi aveva conosciuto e a declinare quando si era separato da me, teoria terrificante, perché non desidero affatto avere la responsabilità dei suoi successi né la colpa delle sue sconfitte. Ognuno è artefice del proprio destino. Valdivia trascorreva quei mesi freddi al riparo di un tetto, avvolto in poncho di lana, riscaldandosi con un braciere e scrivendo lettere al re. Juana Jiménez gli serviva mate, un'infusione d'erba amara che lo aiutava a sopportare il dolore delle antiche ferite.
Nel frattempo i guerrieri di Lautaro, invisibili, dalla boscaglia spiavano gli huincas, come aveva ordinato loro il ñidoltoqui.
Nel 1552 Pedro de Valdivia tornò a Santiago. Non sapeva che sarebbe stata la sua ultima visita, ma lo sospettava, perché avevano ripreso a tormentarlo le fosche ossessioni notturne. Come prima, in sogno assisteva a carneficine e si svegliava tremante fra le braccia di Juana. Come faccio a saperlo? Perché si curava con corteccia di latué, per spaventare gli incubi. Si viene a sapere tutto in questo paese. Quando arrivò, trovò a riceverlo una città in festa, fiorente e ben organizzata, perché Rodrigo de Quiroga lo aveva sostituito con saggezza. In quel paio d'anni la qualità della nostra vita era migliorata. La casa di Rodrigo in piazza era stata ricostruita sotto la mia direzione ed era stata trasformata in una dimora degna del tenente governatore. Siccome avevo energia d'avanzo, ne feci costruire un'altra qualche isolato più in là, con l'idea di regalartela quando ti fossi sposata, Isabel. Inoltre, possedevamo case molto comode in campagna; mi piacciono grandi, dai soffitti alti, con verande e giardini per alberi da frutta, piante medicinali e fiori. Nel terzo patio sistemo gli animali domestici, ben al riparo perché non me li rubino. Cerco di fare in modo che la servitù abbia stanze decorose; mi irrita vedere come altri coloni diano alloggio migliore ai cavalli che alle persone. Siccome non mi sono dimenticata di essere di umile origine, ho buoni rapporti con la servitù che si è sempre dimostrata leale. Sono la mia famiglia. In quegli anni era Catalina, ancora forte e sana, a gestire le questioni domestiche, ma io tenevo gli occhi ben aperti affinché non si commettessero abusi contro i servi. Non avevo tempo per tutte le mie attività. Mi dedicavo a diversi compiti, costruire e aiutare Rodrigo nelle questioni del governo, oltre alle opere di carità che non sono mai sufficienti. La fila degli indios poveri che mangiavano quotidianamente nella nostra cucina girava tutta intorno alla plaza de Armas ed erano tali le lamentele di Catalina sulla grande affluenza e la sporcizia che decisi di inaugurare una mensa in un altro luogo. Su una nave proveniente da Panama era arrivata in Cile doña Flor, una nera senegalese, splendida cuoca, che si fece carico di questo progetto. Sai già a chi sto alludendo, Isabel, è la doña Flor che conosci. Arrivò in Cile scalza e oggi si veste di broccato e vive in una magione che è l'invidia delle dame più facoltose di Santiago. I suoi piatti erano così buoni che i signoroni cominciarono a lamentarsi del fatto che gli indigenti mangiassero meglio di loro; allora a doña Flor venne in mente che potevamo finanziare il pentolone per i poveri vendendo il cibo raffinato ai benestanti e guadagnarci anche qualcosa. Così si fece ricca, buon per lei, ma non risolvemmo il mio problema perché non appena le si riempirono le tasche d'oro dimenticò i mendicanti, che tornarono ad aspettare alla porta di casa mia. Ed è così ancora oggi.
Quando seppe che Valdivia era in viaggio per Santiago, notai che Rodrigo cominciò a preoccuparsi, non sapeva come affrontare la situazione senza offendere nessuno; era diviso tra la sua carica ufficiale, la lealtà verso l'amico e il desiderio di proteggermi. Da due anni non vedevamo il mio antico amante e la sua assenza ci era risultata molto comoda. Con il suo arrivo io cessavo di essere la governatrice e mi domandavo, divertita, se María de Encio sarebbe stata all'altezza delle circostanze. Facevo fatica a immaginarla al mio posto.
"So a cosa stai pensando, Rodrigo. Stai
tranquillo, non ci sarà nessun problema con Pedro" lo
rassicurai.
"Forse sarebbe meglio che tu andassi in campagna con Isabel..."
"Non ho intenzione di scappare, Rodrigo. Questa è anche la mia
città.
Mi asterrò dal partecipare alle questioni di governo finché starà qui, ma per il resto la mia vita rimarrà uguale. Sono sicura che potrò vedere Pedro senza che le ginocchia mi tradiscano" scoppiai a ridere.
"Sarà inevitabile che tu lo incontri spesso,
Inés."
"E non solo, Rodrigo. Dovremmo offrirgli un banchetto."
"Un banchetto, dici?"
"Certo! Siamo la seconda autorità del Cile, spetta a noi
organizzare un
festeggiamento. Lo inviteremo con la sua María de Encio e se vuole anche con l'altra. Com'è che si chiama la galega?"
Rodrigo rimase a guardarmi con l'espressione dubbiosa che le mie pensate in genere gli provocavano, ma gli stampai un rapido bacio sulla fronte e gli assicurai che non si sarebbe verificato nessun tipo di scandalo. In realtà avevo già affidato a diverse donne il compito di ricamare tovaglie, mentre doña Flor, assunta per l'occasione, radunava gli ingredienti per la cena, soprattutto per i dolci preferiti dal governatore. Le navi portavano melassa e zucchero che, se erano cari in Spagna, in Cile avevano prezzi esorbitanti, ma non tutti i dolci possono essere preparati con il miele, e dunque mi rassegnai a pagare quel che mi chiedevano. Volevo impressionare gli invitati con un dispiegamento di piatti mai visto nella nostra capitale. "Ma ti converrebbe di più pensare a quello che andrai indossando, señoray" mi ricordò Catalina. La misi a stirare un elegante abito di seta cangiante di una tonalità ramata, appena arrivato dalla Spagna, che faceva risaltare il colore dei miei capelli... Be', Isabel, non ho bisogno di confessarti che mantenevo vivo il colore con il ligustro, come le more e le gitane, perché lo sai già. Il vestito mi stava un poco stretto, è vero, dato che la vita piacevole e l'amore di Rodrigo mi avevano esaltato l'anima e il corpo, ma avrei fatto comunque miglior figura rispetto a María de Encio, che si vestiva come una battona e alla sua civettuola serva che non poteva certo competere con me. Non ridere, figlia mia. So che questi commenti sembrano meschini da parte mia, ma sono la verità: quelle erano donnette qualunque.
Pedro de Valdivia fece il suo ingresso trionfale a Santiago sotto archi di rami e fiori, acclamato dal cabildo e da tutta la popolazione. Rodrigo de Quiroga, i suoi capitani e i soldati, con le armature brunite e gli elmi impennacchiati, erano schierati in plaza de Armas. María de Encio, sulla porta della casa che era stata mia, attendeva il suo signore contorcendosi in leziose risatine e moine. Che donna odiosa! Evitai di farmi vedere, osservai lo spettacolo da lontano, spiando da una finestra. Mi parve che a Pedro fossero all'improvviso crollati addosso tutti gli anni, era appesantito e si muoveva con solennità, non so se per arroganza, per i chili di troppo o per la fatica del viaggio.
Quella notte il governatore riposò tra le braccia delle sue due concubine, immagino, e il giorno successivo si mise al lavoro con il vigore che gli era proprio. Ricevette da parte di Rodrigo una relazione completa e dettagliata sullo stato della colonia e della città, revisionò i conti del tesoriere, ascoltò le rimostranze del cabildo e ricevette uno per uno tutti gli abitanti che erano giunti con petizioni o in cerca di giustizia. Si era trasformato in un uomo pomposo, impaziente, altezzoso e tirannico, non sopportava di essere minimamente contraddetto senza esplodere in minacce. Non chiedeva più consiglio né condivideva le decisioni da prendere, si comportava da sovrano. Era stato troppo a lungo in guerra, si era abituato a essere obbedito senza obiezioni dalla truppa. Pare che trattasse allo stesso modo anche i capitani e gli amici, ma con Rodrigo de Quiroga fu amabile; intuì che lui, certamente, non avrebbe sopportato una mancanza di rispetto. Secondo Cecilia, a cui nulla sfuggiva, le concubine e la servitù erano terrorizzate perché su di loro Valdivia scaricava le sue frustrazioni, dai dolori articolari al silenzio ostinato del re che non rispondeva alle sue missive.
Il banchetto in onore del governatore fu uno dei più spettacolari fra quelli che mi è toccato offrire nel corso della mia lunga vita. Solo stilare la lista dei commensali fu compito gravoso, perché non potevamo includere i cinquecento abitanti della capitale e le loro famiglie. Molte persone illustri rimasero ad attendere il biglietto d'invito. Santiago ribolliva di commenti, tutti volevano intervenire alla festa, mi arrivavano regali inattesi e numerosi messaggi di amicizia da persone che il giorno prima neanche mi guardavano, ma dovemmo limitare la lista ai vecchi capitani che erano arrivati con noi in Cile nel 1540, ai funzionari reali e a quelli del cabildo. Richiamammo indios ausiliari dalle case di campagna e li vestimmo con impeccabili uniformi, ma non riuscimmo a far loro calzare le scarpe perché non le sopportavano. Illuminammo con centinaia di candele, lampade di sego e torce con resina di pino, che profumavano l'aria. La casa era splendida, carica di fiori, grandi vasi con frutti di stagione e gabbie di uccelli. Servimmo vino peruviano di buon vitigno e un vino cileno che io e Rodrigo avevamo iniziato a produrre. Facemmo sedere trenta invitati alla tavola principale e i restanti cento in altre sale o nei patii. Decisi che quella sera le donne sarebbero state a tavola con gli uomini, come avevo sentito dire che usava in Francia, invece di farle accomodare su cuscini a terra, come in Spagna. Sacrificammo porcellini e agnelli per offrire una grande varietà di piatti, oltre a volatili ripieni e a pesci della costa fatti arrivare ancora vivi in acqua di mare. C'era un tavolo solo per i dolci: torte, pasta sfoglia, meringhe, frittelle di vaniglia, dulce de leche, frutta. La brezza spandeva per la città gli odori del banchetto, aglio, carne arrostita, caramello. Gli invitati si presentarono con i loro vestiti di gala, e raramente c'erano occasioni per tirare fuori dal fondo dei bauli i vestiti di lusso. La donna più bella della festa era, ovviamente, Cecilia, con un abito azzurrino stretto in vita da una cintura d'oro e agghindata con i suoi gioielli da principessa inca. Portò con sé un piccolo nero che si sistemò dietro alla sua sedia a sventagliarla con un piumino, elegantissimo particolare che lasciò attoniti tutti noialtri, gente grezza. Valdivia fece la sua comparsa con María de Encio, che non era male, debbo ammetterlo, ma non si portò l'altra perché presentarsi con due concubine sarebbe stato uno schiaffo alla nostra piccola ma orgogliosa società. Mi baciò la mano e mi lodò con gli elogi propri di queste circostanze. Mi sembrò di cogliere nel suo sguardo un misto di tristezza e gelosia, ma può darsi che fosse solo una mia impressione. Quando ci sedemmo a tavola, levò il suo calice per brindare a Rodrigo e a me, gli anfitrioni, e fece un discorso sincero in cui ricordava la dura stagione della fame a Santiago, solo dieci anni prima, paragonandola a tutta quella abbondanza.
"In questo banchetto imperiale, splendida donna
Inés, manca solo una cosa..." concluse con il calice in alto e gli
occhi lucidi.
"Non dica altro, sua grazia" risposi.
In quel momento entrasti tu, Isabel, vestita di organza e coronata
da nastri e fiori, con un vassoio d'argento, coperto da un
tovagliolo di lino bianco, su cui riposava un'empanada per il
governatore. Un applauso unanime la festeggiò, perché nessuno aveva
dimenticato i tempi delle vacche magre, quando preparavamo
empanadas con tutto quel che ci capitava a portata di mano,
lucertole comprese.
Dopo la cena ci fu un ballo, ma Valdivia, che era stato un agile
ballerino, dotato di buon orecchio e grazia naturale, non partecipò
adducendo di avere male alle ossa. Una volta che gli invitati se ne
furono andati e i servi ebbero finito non solo di distribuire gli
avanzi ai poveri, giunti ad ascoltare il vociare della festa dalla
plaza de Armas, ma anche di chiudere la casa e spegnere le candele,
io e Rodrigo cademmo sfiniti sul letto. Appoggiai la testa sul suo
petto, come sempre, e dormii senza sognare per sei ore filate, che
per me, sempre insonne, sono un'eternità.
Il governatore rimase a Santiago tre mesi. In quel periodo prese una decisione a cui sicuramente aveva pensato molto: mandò Jerónimo de Alderete in Spagna a consegnare sessantamila pesos d'oro al re, il quinto corrispondente alla Corona, somma ridicola se paragonata ai galeoni carichi di quel metallo che salpavano dal Perú. Le lettere per il monarca contenevano diverse petizioni, tra le quali che gli venisse concesso un marchesato e l'Ordine di Santiago. Anche in questo Valdivia era cambiato, non era più l'uomo che si vantava di disprezzare titoli e onorificenze. Inoltre, proprio lui, a cui prima ripugnava la schiavitù, chiedeva il permesso per poter disporre di duemila schiavi neri senza pagare le imposte. La seconda parte della missione di Alderete consisteva nel far visita a Marina Ortiz de Gaete, che viveva ancora nella modesta proprietà di Castuera, consegnarle del denaro e invitarla a recarsi in Cile a occupare la carica di governatrice insieme al marito che non vedeva da diciassette anni. Non so cosa darei per sapere come presero la notizia María e Juana. Mi dispiace che Jerónimo de Alderete non sia riuscito a recapitare la positiva risposta del re. La sua assenza durò quasi tre anni, a quanto ricordo, a causa della lentezza della navigazione e perché l'imperatore non era uomo che andasse di fretta. Al suo ritorno, mentre stava attraversando l'Istmo di Panama, il capitano si prese una peste tropicale che lo spedì a miglior vita. Era un ottimo soldato e un amico leale questo Jerónimo de Alderete e spero che la Storia gli riservi lo scranno che gli spetta. Nel frattempo, Pedro de Valdivia moriva senza sapere che infine gli erano state concesse le prebende a lungo richieste.
Quando ricevette l'invito del marito per mettersi in viaggio verso questo regno, che lei, chissà perché, immaginava come Venezia, e i settemilacinquecento pesos d'oro per le spese, Marina Ortiz de Gaete si comprò un trono dorato, un corredo imperiale e si fece accompagnare da un impressionante seguito che comprendeva diversi membri della sua famiglia. La poveretta arrivò in Cile trasformata in vedova; qui scoprì che Pedro l'aveva lasciata in rovina e, per colmo dei mali, nel giro di sei mesi tutti i nipoti che lei adorava morirono nella guerra contro gli indios. Non posso non compatirla.
Durante il periodo in cui Pedro rimase a Santiago, ci vedemmo poco e solo in occasioni sociali, circondati da altre persone che ci osservavano con malizia sperando di cogliere tra noi un gesto d'intimità o cercando di indovinare i nostri sentimenti. In questa città non si poteva muovere un passo senza essere spiati dalle finestre e criticati. Perché parlo al passato? Siamo nel 1580 e la gente continua a essere pettegola allo stesso modo. Dopo aver condiviso con Pedro gli anni più intensi della mia gioventù, in sua presenza provavo uno strano senso di distacco, mi sembrava che l'uomo da me amato con passione disperata fosse un altro. Poco prima che annunciasse il suo ritorno al Sud, dove pensava di far visita alle nuove città e di continuare a cercare lo sfuggente Stretto di Magellano, venne a trovarmi González de Marmolejo.
"Sono venuto a raccontarti, figliola, che il
governatore ha fatto richiesta presso il re che io sia nominato
vescovo del Cile" mi disse.
"Lo sa già tutta Santiago, padre. Mi dica il vero motivo della sua
visita."
"Ma che sfacciataggine, Inés!" scoppiò a ridere il
religioso.
"Coraggio, vuoti il sacco, padre."
"Il governatore desidera avere una conversazione privata con te e
come è logico non può avvenire né a casa tua, né a casa sua, né in
un luogo pubblico. Le apparenze vanno salvate. Gli ho offerto di
incontrarsi con te a casa mia..."
"Rodrigo è al corrente?"
"Il governatore non ritiene necessario disturbare tuo marito con
questa sciocchezza, Inés."
Mi insospettirono il messaggero, la comunicazione e la segretezza e
quindi decisi di raccontare tutto a Rodrigo quello stesso giorno,
per evitare problemi, ma scoprii che Rodrigo ne era già informato
perché Valdivia gli aveva chiesto il permesso di darmi un
appuntamento da soli. Perché allora voleva che non ne parlassi con
mio marito? E perché Rodrigo non me ne aveva fatto menzione?
Immagino che il primo volesse mettermi alla prova, ma non credo che
tali fossero le intenzioni del secondo: Rodrigo era incapace di
simili maneggi.
"Sai perché Pedro desidera parlare con me?" domandai a mio
marito.
"Desidera spiegarti perché si è comportato come ha fatto,
Inés."
"Sono passati più di tre anni! E viene a spiegarmelo adesso? Mi
sembra molto strano."
"Se non vuoi parlare con lui glielo dirò apertamente."
"Non ti dà fastidio che mi veda da sola con lui?"
"Ho piena fiducia in te, Inés. Non ti offenderei mai con la
gelosia."
"Tu non sei spagnolo, Rodrigo. Mi sa che nelle tue vene scorre
sangue olandese."
Il giorno dopo mi recai a casa di González de Marmolejo, la più
grande e lussuosa del Cile dopo la mia. La fortuna del religioso
era senz'altro di origine miracolosa. Mi ricevette la governante
quechua, una donna molto saggia, profonda conoscitrice delle piante
medicinali e tanto amica mia da non dover dissimulare la vita
maritale che conduceva da anni con il futuro vescovo. Attraversammo
diversi saloni, che comunicavano grazie a doppie porte intagliate
che il religioso aveva fatto arrivare dal Perú, e giungemmo in una
piccola stanza, dove c'era lo scrittoio e la maggior parte dei suoi
libri. Il governatore, vestito con ricercatezza, giubba rosso scuro
dalle maniche sfrangiate, calzamaglia verdastra e berretto di seta
nera con una piuma civettuola, si fece avanti per salutarmi. La
governante si ritirò con discrezione e chiuse la porta. Allora,
ritrovandomi da sola con Pedro, sentii che mi pulsavano le tempie e
che il cuore perdeva il controllo, pensai che non sarei stata in
grado di sostenere lo sguardo di quegli occhi azzurri, le cui
palpebre avevo baciato così spesso mentre dormiva. Per quanto Pedro
fosse cambiato, c'era stato un momento in cui era l'amante che
avevo seguito fino alla fine del mondo. Pedro mi mise le mani sulle
spalle e mi fece girare verso la finestra, per osservarmi alla
luce.
"Sei così bella, Inés! Com'è possibile che per te il tempo non
passi?" sospirò, commosso.
"Hai bisogno di lenti da vista" gli dissi, facendo un passo
indietro per liberarmi dalle sue mani.
"Dimmi che sei felice. Per me è molto importante che tu lo
sia."
"Perché? Sensi di colpa, forse?"
Sorrisi, e sorrise anche lui e allora respirammo sollevati, il
ghiaccio era rotto. Mi raccontò nel dettaglio del processo che
aveva dovuto affrontare in Perú e della condanna di La Gasca;
l'idea di farmi sposare con qualcuno era venuta in mente a lui,
come unico modo per salvarmi dall'esilio e dalla povertà.
"Quando proposi a La Gasca questa soluzione mi affondai una daga
nel petto, Inés, e sanguino ancora. Ti ho sempre amata, sei l'unica
donna della mia vita, le altre non contano. Saperti sposata con un
altro mi provoca un dolore atroce."
"Sei sempre stato geloso."
"Non prenderti gioco di me, Inés. Soffro molto per non averti con
me, ma sono felice che tu sia ricca e abbia sposato il migliore
hidalgo di questo regno."
"In quell'occasione, quando lo inviasti a darmi la notizia,
Gonzàlez de Marmolejo insinuò che avevi scelto qualcuno per me. Era
Rodrigo?"
"Ti conosco troppo bene per cercare di importi qualcosa, Inés, e
tanto meno un marito" confessò in modo evasivo.
"Allora, per tua tranquillità, ti dirò che la soluzione da te
escogitata è stata eccellente. Sono felice e amo molto
Rodrigo."
"Più di me?"
"Non ti amo più con quel genere d'amore, Pedro."
"Ne sei davvero sicura, Inés dell'anima mia?"
Mi prese di nuovo per le spalle e mi attirò a sé cercandomi le
labbra. Sentii il pizzicare della sua barba bionda e il calore del
suo respiro, girai il viso e lo respinsi dolcemente.
"Ciò che più apprezzavi di me, Pedro, era la mia lealtà. Mi è
rimasta, ma ora la debbo a Rodrigo" gli dissi con tristezza perché
presentii che in quel momento ci stavamo congedando per sempre.
Pedro de Valdivia ripartì per riprendere la Conquista e rinforzare le sette città e i forti appena fondati. Vennero scoperte miniere dai ricchi filoni, che attirarono nuovi coloni e persino abitanti di Santiago che decisero di abbandonare le loro fertili haciendas nella valle del Mapocho per dirigersi con le loro famiglie nei boschi misteriosi del Sud, abbagliati dalla presenza dell'oro e dell'argento. C'erano ventimila indios al lavoro nelle miniere e la produzione era buona quasi quanto quella del Perú. Tra i coloni che partirono figurava l'alguacil Juan Gómez, ma Cecilia e i figli non lo seguirono. "Io resto a Santiago. Se vuoi andare a sprofondare in quelle paludi, fa' pure!" gli disse Cecilia, senza immaginare che quelle parole si sarebbero rivelate profetiche.
Congedandosi da Valdivia, Rodrigo gli consigliò di non occupare più terreno di quanto riuscisse a controllare. Alcuni forti erano dotati a malapena di un pugno di soldati e diverse città erano prive di protezione.
"Non c'è pericolo, Rodrigo, gli indios ci hanno
dato pochissimi problemi. Il territorio è sottomesso."
"Mi sembra strano che i mapuche, la cui fama di indomiti ci era
giunta fino in Perú, prima che intraprendessimo la Conquista del
Cile, non ci abbiano combattuto come ci aspettavamo."
"Hanno capito che siamo un nemico troppo potente per loro e si sono
dispersi" gli spiegò Valdivia.
"Se è così, tanto meglio, ma presta attenzione."
Si abbracciarono e Valdivia partì senza dare peso agli avvertimenti
di Quiroga. Per mesi non ricevemmo sue notizie dirette, ma ci
giunsero voci secondo le quali menava la vita di un pascià,
sdraiato tra cuscini a ingrassare nella sua casa di Concepción che
chiamava "palazzo d'inverno". Si diceva che Juana Jiménez
nascondesse l'oro delle miniere, che arrivava su grandi vassoi, per
non doverlo dividere né dichiarare agli ufficiali del re.
Aggiungevano, gli invidiosi, che era talmente tanto l'oro
accumulato e quello che rimaneva da estrarre nelle miniere di
Quilacoya che Valdivia era più ricco di Carlo V. La gente è sempre
molto precipitosa quando si tratta di giudicare il prossimo. Ti
ricordo, Isabel, che alla sua morte Valdivia non aveva nemmeno un
maravedì. A meno che Juana Jiménez, invece di essere stata rapita
dagli indios, come si dice, non fosse riuscita a rubare quella
fortuna e a scappare da qualche parte, il tesoro di Valdivia non
esistette mai.
Tucapel era il nome di uno dei forti destinati a scoraggiare gli
indigeni e a proteggere le miniere d'oro e d'argento, benché
contasse solo su una dozzina di soldati che passavano i giorni a
vigilare la macchia, annoiandosi. Il capitano che aveva in carico
il forte sospettava che i mapuche stessero tramando qualcosa,
nonostante la sua relazione con loro fosse pacifica. Una o due
volte alla settimana gli indios portavano provviste al forte; erano
sempre gli stessi e i soldati, che già li conoscevano, erano soliti
scambiarsi segni affettuosi con loro. Tuttavia, qualcosa nel
comportamento degli indios indusse il capitano a catturarne diversi
e, mediante la tortura, scoprì che si stava organizzando una grande
insurrezione delle tribù. Sarei pronta a scommettere che gli indios
confessarono solo ciò che Lautaro desiderava che gli huincas
sapessero, perché i mapuche non sono mai stati piegati dai
supplizi. Il capitano chiese dei rinforzi, ma Pedro de Valdivia
diede talmente poca importanza a questa informazione che tutto
l'ausilio mandato al forte di Tucapel consisteva in cinque soldati
a cavallo.
Correva la primavera del 1553 nei boschi odorosi dell'Araucania.
L'aria era tiepida e al passare dei cinque soldati si sollevarono
nugoli di insetti trasparenti e stormi di uccelli rumorosi.
All'improvviso, un grido infernale ruppe la pace idilliaca del
paesaggio e immediatamente gli spagnoli si ritrovarono circondati
da una multitudine di aggressori. Tre di loro caddero trafitti
dalle lance, ma due riuscirono a girare su se stessi e galopparono
a spron battuto verso il forte più vicino a chiedere
aiuto.
Nel frattempo a Tucapel si presentavano i soliti indigeni che
portavano le vettovaglie, salutando con l'aria più sottomessa del
mondo, come se fossero ignari del supplizio dei compagni. I soldati
aprirono le porte del forte e li lasciarono entrare con i loro
involti. Una volta nel cortile, i mapuche aprirono i sacchi,
estrassero le armi che portavano nascoste e si avventarono sui
soldati. Questi riuscirono a riprendersi dalla sorpresa e a volare
in cerca di spade e corazze per difendersi. Nei minuti successivi
ci fu una strage di mapuche e molti vennero fatti prigionieri, ma
lo stratagemma diede il suo risultato, perché mentre gli spagnoli
erano impegnati con questi indios all'interno della costruzione,
migliaia di altri indigeni avevano circondato il forte. Il capitano
uscì con otto dei suoi uomini a cavallo per affrontarli, ma il
nemico era troppo numeroso. Al termine di un combattimento eroico,
i soldati ancora vivi si ritirarono nel forte, dove l'impari
battaglia continuò per il resto del giorno finché alla fine, con il
calare del buio, gli attaccanti si ritirarono. Nel forte di Tucapel
rimasero sei soldati, gli unici spagnoli sopravvissuti, molti
yanaconas e gli indios prigionieri. Il capitano ricorse a uno
stratagemma disperato per spaventare i mapuche che attendevano
l'alba per attaccare di nuovo. Aveva udito la leggenda secondo la
quale avevo salvato la città di Santiago lanciando le teste dei
cacicchi contro le truppe indigene e decise di copiare l'idea. Fece
decapitare i prigionieri e poi gettò le teste al di sopra delle
mura. Un lungo ruggito, come un'onda terribile del mare in
tempesta, accolse il gesto.
Durante le ore successive l'assedio mapuche intorno al forte si
rafforzò e alla fine i sei spagnoli capirono che la loro unica
possibilità di salvezza era cercare, con la protezione della notte,
di attraversare a cavallo le file nemiche e arrivare al forte più
vicino, a Purén. Ciò significava abbandonare al loro destino gli
yanaconas, privi di cavalli. Non so come gli spagnoli riuscirono a
portare a buon fine il loro audace piano perché il bosco brulicava
di indigeni accorsi da lontano, richiamati da Lautaro per la grande
insurrezione. Può darsi che avessero deciso di lasciarli passare
con qualche subdolo proposito. A ogni modo, alle prime luci
dell'alba, gli indios che avevano atteso tutta la notte nei
dintorni, irruppero nel forte abbandonato di Tucapel e si
imbatterono nei resti dei loro compagni nel cortile insanguinato. I
poveri yanaconas, rimasti nel forte, vennero annientati.
La notizia del primo attacco vittorioso raggiunse Lautaro grazie al
sistema di comunicazione da lui stesso ideato. Il giovane
ñidoltoqui dopo aver pagato la dote corrispondente, aveva appena
formalizzato la sua unione con Guacolda. Non prese parte
all'ubriacatura di festeggiamento perché non apprezzava l'alcol ed
era molto impegnato a progettare il secondo passo della sua
campagna. Il suo obiettivo era Pedro de Valdivia.
Juan Gómez, arrivato a sud solo da una settimana, non riuscì nemmeno a pensare alle miniere d'oro che lo avevano indotto a separarsi dalla sua famiglia, giacché ricevette il grido di soccorso dal forte di Purén, dove i sei soldati sopravvissuti a Tucapel si erano riuniti agli undici che si trovavano lì. Come tutti gli encomenderos aveva l'obbligo di recarsi in guerra quando veniva chiamato e non esitò a farlo. Gómez galoppò fino a Purén e si mise alla testa del piccolo distaccamento. Dopo aver ascoltato i particolari di quanto era accaduto a Tucapel, ebbe la certezza che non si trattava di una scaramuccia come le tante del passato, ma di una rivolta in massa delle tribù del Sud. Si preparò il meglio possibile a resistere, ma non poteva fare molto a Purén con i pochi mezzi che aveva a disposizione.
Alcuni giorni dopo, all'alba, udirono l'abituale grido, e le sentinelle videro ai piedi della collina un plotone mapuche che pur minacciando con urla, rimaneva immobile. Juan Gómez calcolò la proporzione di cinquecento nemici per ognuno dei suoi uomini, ma loro avevano il vantaggio delle armi, dei cavalli e della disciplina, che tanta fama aveva dato ai soldati spagnoli. Era molto esperto di battaglie contro gli indios e sapeva che era meglio combatterli in campo aperto, dove si poteva utilizzare la cavalleria e gli archibugieri facevano la differenza. Decise di uscire ad affrontare il nemico con quanto disponeva: diciassette soldati a cavallo, quattro archibugieri e all'incirca duecento yanaconas. Le porte del forte si aprirono e il distaccamento con Juan Gómez alla testa uscì. A un suo segnale, presero a scendere la collina al galoppo, brandendo le terribili spade, ma questa volta ricevettero la sorpresa di non assistere all'usuale sbandamento degli indigeni, che rimasero schierati ad attenderli. Non erano più nudi: il busto era protetto da una pettorina e la testa da un cappuccio di pelle di foca, resistenti come le armature spagnole. Impugnavano lance lunghe tre braccia, che puntavano al petto degli animali, e pesanti mazze dal manico corto, molto più maneggevoli dei randelli di un tempo. Non si mossero dalla loro posizione e ricevettero frontalmente l'impatto della cavalleria, che si ritrovò infilzata dalle lance. Diversi cavalli rimasero agonizzanti ma i soldati si ripresero rapidamente. Nonostante lo spaventoso numero di morti prodotti dalle armi spagnole, i mapuche non si scoraggiarono.
Un'ora dopo si sentì il tam-tam inconfondibile dei cultrunes e la massa indigena si fermò e indietreggiò, perdendosi nel bosco e lasciando il campo disseminato di morti e feriti. Il sollievo degli spagnoli non durò che qualche minuto, perché un altro migliaio di guerrieri rimpiazzò quelli che si erano ritirati. Ai soldati non rimaneva che continuare a combattere. I mapuche ripeterono l'operazione ogni ora: suonavano i tamburi, scomparivano le milizie affaticate e ne entravano in battaglia di fresche, mentre gli spagnoli erano sempre più sfiniti. Juan Gómez comprese che era impossibile opporsi a quell'abile tattica col suo ridotto numero di soldati. I mapuche, divisi in quattro plotoni, si impegnavano a rotazione in modo che mentre un gruppo combatteva, gli altri tre aspettavano il loro turno riposando. Dovette dare l'ordine di ritirarsi nel forte, perché i suoi uomini, quasi tutti feriti, avevano bisogno d'acqua e di riprendere fiato.
Nelle ore successive, curarono al meglio i feriti e mangiarono. All'imbrunire Juan Gómez considerò che dovevano tentare un nuovo attacco, per non dare al nemico l'opportunità di riprendersi durante la notte. Diversi degli uomini feriti dichiararono che preferivano morire in battaglia; sapevano che qualora gli indios fossero penetrati nel forte la morte sarebbe stata inevitabile e priva di gloria. Questa volta Gómez contava solo su una dozzina di soldati a cavallo e mezza di fanti, ma ciò non lo scoraggiò. Fece schierare i suoi e li arringò con parole di fuoco, si raccomandò a Dio e all'apostolo di Spagna e immediatamente ordinò di attaccare.
Lo scontro tra le lame spagnole e le mazze durò meno di mezz'ora, i mapuche sembravano scoraggiati, si battevano senza la ferocia della mattina e prima di quanto sperato si ritirarono al richiamo dei cultrunes. Gómez attese che arrivasse la seconda ondata a sostituirli, come alla mattina, ma ciò non avvenne e, confuso, ordinò il rientro nel forte. Non aveva perso nessuno dei suoi uomini. Durante quella notte e il giorno successivo gli spagnoli attesero senza dormire, con indosso le armature e le armi in pugno, l'attacco del nemico che tuttavia non diede segnali di vita, e alla fine si convinsero che non sarebbero tornati; inginocchiati nel cortile ringraziarono l'apostolo per una così strana vittoria. Li avevano sconfitti senza sapere come. Juan Gómez giunse alla conclusione che non potevano rimanere isolati all'interno del forte attendendo sui tizzoni ardenti l'orribile grido che annunciava il ritorno dei mapuche. L'alternativa migliore era approfittare della notte, momento in cui raramente gli indigeni agivano, per timore degli spiriti maligni, e inviare un paio di veloci emissari a Pedro de Valdivia ad annunciargli l'inspiegabile trionfo ma anche ad avvertirlo che si trovavano di fronte a una ribellione di massa delle tribù, che se non fosse stata immediatamente sedata, avrebbe messo in pericolo tutti i territori conquistati a sud del Bío-Bío. Gli emissari galopparono quanto più in fretta la fitta boscaglia e il buio permettessero loro, con la paura che gli indios gli si avventassero contro in un qualsiasi punto, ma non ci fu nessun attacco; riuscirono a viaggiare senza incidenti e ad arrivare a destinazione all'alba. Ebbero l'impressione che durante il tragitto i mapuche li stessero sorvegliando tra le felci ma, siccome non vennero attaccati, pensarono che tali timori fossero da imputarsi ai loro nervi tesi. Non potevano immaginare che Lautaro desiderava che Valdivia ricevesse il messaggio e che fu solo per questo motivo che li lasciò passare, esattamente come fece con i messaggeri che portavano la lettera di risposta del governatore, nella quale si indicava a Gómez di riunirsi con lui nelle rovine del forte Tucapel il giorno di Natale. Così aveva minuziosamente pianificato il ñidoltoqui, informato dalle spie presenti ovunque del contenuto della missiva, e sorrise compiaciuto: avrebbe avuto Valdivia dove desiderava. Mandò un plotone ad assediare il forte di Purén, per rinchiudere Juan Gómez e impedirgli di eseguire le istruzioni ricevute, mentre lui faceva scattare la trappola per il Taita a Tucapel.
Valdivia aveva trascorso i pigri mesi invernali a Concepción, a guardar piovere e a passare il tempo giocando a carte, ben accudito da Juana Jiménez. Aveva cinquantatré anni, ma la zoppia e l'eccesso di peso lo avevano fatto invecchiare anzitempo. Era abile con le carte, la fortuna nel gioco lo accompagnava e così vinceva quasi sempre. Gli invidiosi assicuravano che all'oro delle miniere si sommasse quello che sottraeva agli altri giocatori e che l'insieme andava a finire in quei misteriosi bauli di Juana che fino a oggi non sono stati trovati. La primavera era già sbocciata con germogli e uccelli quando arrivarono le confuse notizie di una sollevazione indigena che a lui parvero esagerate. Più per compiere il suo dovere che per convinzione, mise insieme cinquanta soldati e di malavoglia si apprestò a riunirsi con Juan Gómez a Tucapel, intenzionato a schiacciare gli sfrontati mapuche, come aveva fatto in precedenza.
Fece il viaggio di quindici leghe, con mezzo centinaio di soldati a cavallo e millecinquecento yanaconas, a passo lento, perché doveva tenere quello dei portatori. Dopo poco si preoccupò dell'indolenza con cui aveva intrapreso la marcia, perché il suo istinto di soldato lo avvertì del pericolo. Si sentiva osservato da occhi nascosti nella boscaglia. Da più di un anno pensava alla sua morte ed ebbe il presentimento che potesse giungere in fretta, ma non volle inquietare i suoi uomini con il sospetto di essere spiati. Per precauzione mandò in avanscoperta un gruppo di cinque soldati a perlustrare la strada e continuò a cavalcare al passo, mentre cercava di calmare i nervi inspirando la brezza tiepida e l'intenso aroma dei pini. Dopo un paio d'ore i suoi cinque soldati non avevano ancora fatto ritorno e il presentimento si acuì. Una lega dopo un soldato a cavallo indicò con un'esclamazione d'orrore qualcosa che pendeva da un ramo. Si trattava di un braccio, ancora dentro alla manica di una giubba. Valdivia diede l'ordine di proseguire con le armi pronte. Poco più avanti videro una gamba infilata nello stivale, anch'essa appesa a un albero, e oltre, altri trofei, gambe, braccia e teste, sanguinanti frutti del bosco. "Vendichiamoli!" gridavano furiosi i soldati, disposti a lanciarsi al galoppo a caccia degli assassini, ma Valdivia li obbligò a mordere il freno. La cosa peggiore che potevano fare era separarsi, dovevano rimanere insieme fino a Tucapel, decise.
Il forte si trovava sulla cima di una collina ormai brulla, perché gli spagnoli avevano tagliato gli alberi per costruirlo, ma la base del dosso era circondata di vegetazione. Dall'alto si poteva vedere un ampio fiume. La cavalleria salì sulla collina e arrivò per prima alla rovine avvolte dal fumo, seguita dalle lente file di yanaconas con gli equipaggiamenti. Seguendo le istruzioni ricevute da Lautaro, i mapuche attesero fino a quando l'ultimo uomo fu arrivato in cima per annunciarsi con il suono raccapricciante dei flauti di ossa umane.
Il governatore, che aveva appena fatto in tempo a scendere da cavallo, si affacciò fra i tronchi bruciati delle mura e vide i guerrieri schierati in plotoni compatti, protetti da scudi e con le lance a terra. I toquis di guerra si trovavano sul fronte, protetti da una guardia formata dagli uomini migliori. Sconcertato pensò che i barbari avessero scoperto per istinto il metodo di combattimento degli antichi eserciti romani, quello stesso cui ricorrevano le milizie spagnole. Il capo dei ribelli non poteva che essere quel toqui del quale tanto aveva sentito parlare durante l'inverno: Lautaro. Fu scosso da una vampata d'ira e si rese conto di essere completamente bagnato di sudore. "Infliggerò la morte più atroce a quel maledetto!" esclamò.
Una morte atroce. Ce ne sono state tante di morti del genere nel nostro regno e ci peseranno per sempre sulla coscienza. Debbo fare una pausa per precisare che Valdivia non ebbe modo di dare corso alla sua minaccia contro Lautaro, che morì alcuni anni dopo combattendo al fianco di Guacolda. In breve tempo quel genio militare seminò il panico nelle città spagnole del Sud, che dovettero essere evacuate e riuscì ad arrivare con le sue truppe nei dintorni di Santiago. A quell'epoca la popolazione mapuche era stata decimata dalla fame e dalla peste, ma Lautaro continuò a combattere con un piccolo esercito, molto disciplinato, che comprendeva donne e bambini. Condusse la guerra con magistrale astuzia e superbo coraggio per pochi anni, sufficienti comunque a infiammare l'insurrezione mapuche che si è protratta fino a ora. A quanto mi diceva Rodrigo de Quiroga, ben pochi generali della Storia universale possono essere paragonati a questo ragazzo che seppe trasformare un'accozzaglia di nude tribù nell'esercito più temibile delle Americhe. Dopo la sua morte, venne rimpiazzato da Caupolicán, valoroso quanto lui ma meno sagace, che fu fatto prigioniero e condannato a morire impalato. Giurano che quando sua moglie Fresia lo vide trascinato in catene, gli buttò ai piedi il figlio di pochi mesi esclamando che non voleva allattare il discendente di uno sconfitto. Ma mi pare che si tratti dell'ennesima leggenda di guerra, come quella della Vergine che apparve in cielo durante la battaglia. Caupolicán sopportò senza un gemito l'orribile supplizio del palo affilato che gli trapassava lentamente le viscere, come racconta nei suoi versi il giovane Zurita. O era Zúñiga? Dio mio, mi sfuggono i nomi, chissà quanti errori ci sono in questa narrazione. Fortunatamente non ero presente quando torturarono Caupolicán, come non mi è toccato assistere al frequente castigo di "disgovernamento" tramite il quale, con un colpo d'ascia, si mozza mezzo piede destro agli indigeni ribelli. Ciò non riesce a scoraggiarli; zoppi continuano a combattere. E quando a un altro cacicco, Galvarino, tagliarono entrambe le mani, questi si fece legare le armi alle braccia per tornare alla battaglia. Dopo tali orrori non possiamo aspettarci clemenza dagli indigeni. La crudeltà genera altra crudeltà in un ciclo senza fine.
Valdivia divise la sua gente in gruppi, capeggiati dai soldati a cavallo, seguiti dagli yanaconas e ordinò loro di scendere la collina. Non poté lanciare la cavalleria al galoppo, come era usuale, perché comprese che sarebbe rimasta infilzata nelle lance dei mapuche, che a quanto pareva avevano imparato le tattiche degli europei. Prima doveva disarmare i lancieri. Nel primo scontro, gli spagnoli e gli yanaconas risultarono in vantaggio e dopo una lotta intensa e spietata, ma breve, i mapuche ripiegarono in direzione del fiume. Un grido di trionfo festeggiò la ritirata e Valdivia ordinò di rientrare nel forte. I suoi soldati si sentivano certi della vittoria, ma lui rimase molto inquieto, perché i mapuche si erano mossi in perfetto ordine. Dalla cima della collina li vide bere e lavarsi le ferite nel fiume, sollievo che ai suoi uomini era negato. In quel momento si sentì l'urlo e dal bosco emersero nuove truppe indigene, fresche e disciplinate, esattamente come era successo a Purén contro la gente di Juan Gómez, particolare che Valdivia ignorava. Per la prima volta il capitano generale dovette farsi un quadro della situazione: fino a quel momento si era creduto il padrone dell'Araucania.
Durante il resto del giorno la battaglia proseguì allo stesso modo. Gli spagnoli, feriti, assetati e sfiniti affrontavano a ogni cambio una truppa mapuche riposata e ben nutrita, mentre quelli che avevano ripiegato si rinfrescavano nel fiume. Passavano le ore, gli spagnoli e gli yanaconas cadevano e i tanto attesi rinforzi di Juan Gómez non arrivavano.
Nessuno in Cile ignora i fatti di quel tragico Natale del 1553, ma circolarono diverse versioni e io li racconterò come li ho uditi dalle labbra di Cecilia. Mentre Valdivia e la sua truppa si difendevano a fatica a Tucapel, Juan Gómez era imprigionato a Purén, dove i mapuche lo tennero sotto assedio fino al terzo giorno, senza dare segnali di vita. Trascorsero la mattina e parte del pomeriggio in ansiosa attesa, finché Juan Gómez non resistette più e uscì con un drappello a perlustrare il bosco. Niente. Nemmeno un indio in vista. Allora sospettò che l'assedio del forte fosse stato uno stratagemma per distrarli e impedire loro di riunirsi a Pedro de Valdivia, come questi aveva ordinato. Così, mentre loro erano inattivi a Purén, il governatore li attendeva a Tucapel, e se era stato attaccato, come era da temere, la sua situazione doveva essere disperata. Senza esitare Juan Gómez ordinò ai quattordici uomini sani che gli rimanevano di montare sui migliori cavalli e di seguirlo immediatamente verso Tucapel.
Cavalcarono tutta la notte e il giorno dopo si trovarono nei pressi del forte. Riuscirono a vedere la collina, il fumo dell'incendio e gruppi dispersi di mapuche, ebbri di guerra e di muday, che brandivano teste e membra umane: i resti degli spagnoli e degli yanaconas sconfitti il giorno prima. Inorriditi, i quattordici uomini capirono di essere circondati e che gli sarebbe toccata la stessa sorte di quelli di Valdivia, ma gli indigeni ubriachi stavano festeggiando la vittoria e non li affrontarono. Gli spagnoli spronarono le loro affaticate cavalcature e salirono sulla collina, aprendosi il passaggio a suon di fendenti tra i pochi ubriachi che si frapposero. Il forte era ridotto a una catasta di legna fumante. Cercarono Pedro de Valdivia tra i cadaveri e i brandelli di corpi squartati, ma non lo trovarono. Una giara d'acqua sporca permise di saziare la loro sete e quella dei cavalli, ma non ci fu tempo per fare altro, perché proprio in quel momento cominciarono a salire sul pendio migliaia e migliaia di indigeni. Non erano gli ubriachi che avevano visto prima: questi erano usciti dal bosco sobri e in perfetto ordine.
Gli spagnoli, che non potevano difendersi nel forte in rovina, dove sarebbero rimasti intrappolati, tornarono a montare le bestie rassegnate e si lanciarono giù per la collina, pronti ad aprirsi un varco tra i nemici. In un istante si videro avvolti dai mapuche ed ebbe inizio una lotta senza quartiere che sarebbe durata tutto il resto del giorno. Sembra impossibile credere che quegli uomini e i cavalli, che avevano galoppato da Purén per tutta la notte, possano aver resistito ora dopo ora in battaglia per tutto quel fatidico giorno, ma io ho visto combattere gli spagnoli e ho lottato insieme a loro, e so di cosa siano capaci. Alla fine i soldati di Juan Gómez riuscirono a raggrupparsi e a fuggire, inseguiti da presso dalle milizie di Lautaro. I cavalli non ce la facevano più e il bosco, disseminato di tronchi caduti e altri ostacoli, impediva alle bestie di correre, ma non agli indios, che spuntavano fra gli alberi e affrontavano i cavalieri.
Questi quattordici uomini, i più prodi dei prodi, decisero allora di sacrificarsi a uno a uno per bloccare il nemico, mentre i compagni tentavano di avanzare. Non lo stabilirono, non tirarono a sorte, nessuno glielo impose. Il primo gridò addio agli altri, fermò il cavallo e si girò per affrontare gli inseguitori. Gli si avventò contro, facendo sprigionare scintille alla spada, determinato a combattere fino all'ultimo respiro, giacché essere fatto prigioniero era una sorte mille volte peggiore. In pochi minuti cento mani lo disarcionarono e lo attaccarono con le stesse spade e i coltelli sottratti agli spagnoli di Valdivia sconfitti. I brevi minuti che quell'eroe regalò agli amici permisero loro di avanzare per un breve tratto, ma ben presto i mapuche li raggiunsero di nuovo. Un secondo soldato decise di immolarsi, gridò anch'egli un ultimo addio e si fermò davanti alla massa di indios avidi di sangue. E subito dopo lo fece un terzo. E così, a uno a uno caddero sei soldati. Gli otto restanti, alcuni dei quali feriti, proseguirono nella disperata corsa fino ad arrivare a una strettoia dove un altro dovette sacrificarsi per far passare i compagni. Anche lui venne ucciso in pochi minuti. A quel punto il cavallo di Juan Gómez, stremato e sanguinante per le numerose frecce ricevute ai fianchi, cadde bocconi a terra. Era già notte fonda nel bosco e avanzare risultava praticamente impossibile.
"Salite in groppa al mio, capitano!" offrì uno
dei soldati.
"No, continuate ad andare avanti e non perdete tempo a causa mia!"
ordinò Juan Gómez, che sapeva di essere ferito e aveva calcolato
che il cavallo non avrebbe retto il peso di due uomini.
I soldati dovettero obbedire, proseguirono a tentoni nel buio,
persi, mentre lui si addentrava nella boscaglia. Dopo molte e
davvero terribili ore, i sei sopravvissuti riuscirono ad arrivare
al forte di Purén e ad avvisare i compagni prima di stramazzare al
suolo dalla fatica. Lì attesero solo il tempo necessario per
tamponare il sangue delle ferite, dare riposo alle cavalcature e
poi ripartirono, con una marcia forzata, verso La Imperial, che
allora era solo un villaggio. Gli yanaconas trasportavano sulle
amache i feriti con qualche speranza di vita, ma ai moribondi venne
riservata una fine rapida e onorevole affinché i mapuche non li
trovassero vivi.
Nel frattempo, Juan Gómez sprofondava, perché le piogge
dell'inverno appena conclusosi avevano trasformato il terreno in
una densa palude. Nonostante stesse sanguinando per le molte frecce
ricevute, fosse stremato, assetato, e non mangiasse da giorni, non
si arrese alla morte. La visibilità era quasi nulla, doveva
procedere con grande fatica, alla cieca, tra gli alberi e le
sterpaie. Non poteva attendere l'alba, la notte era la sua unica
alleata. Quando i mapuche trovarono il suo cavallo caduto, Juan
Gómez sentì con chiarezza le loro grida di vittoria e pregò che il
nobile animale, che lo aveva accompagnato in tante battaglie, fosse
già morto. Gli indios erano soliti torturare le bestie ferite per
vendicarsi dei loro padroni. L'odore di fumo gli indicò che gli
inseguitori avevano acceso le torce e lo stavano cercando nella
vegetazione, certi che il cavaliere non potesse essere andato
lontano. Si tolse l'armatura e i vestiti e li fece sparire nel
fango e poi, nudo, si addentrò nella palude. I mapuche erano già
molto vicini, poteva sentire le loro voci e intravedere la luce
delle torce.
Ed è questo il punto della narrazione in cui Cecilia, il cui
macabro senso dell'umorismo sembra spagnolo, si piegò in due dal
ridere raccontandomi di quella spaventosa notte. "Mio marito
sprofondò nella palude esattamente come gli avevo detto che sarebbe
successo" disse la principessa. Con la spada Juan Gómez tagliò una
canna e subito dopo si immerse nella putrida fangaia. Non riuscì a
valutare quante ore trascorse nel fango, nudo, con le ferite
aperte, raccomandando l'anima a Dio e pensando ai suoi figli e a
Cecilia, quella splendida donna che aveva abbandonato una reggia
per seguirlo fino alla fine del mondo. I mapuche passarono diverse
volte di fianco a lui, sfiorandolo, senza immaginare che l'uomo che
stavano cercando era sepolto nel fango, abbracciato alla sua spada,
e respirava a stento grazie alla cavità della canna.
Nella tarda mattinata del giorno successivo, gli uomini che
marciavano verso La Imperial, videro una creatura da incubo,
ricoperta di sangue e fango, trascinarsi tra la folta vegetazione.
Dalla spada, che non aveva mai abbandonato, riconobbero Juan Gómez,
il capitano dei quattordici soldati che passarono alla Storia.
Per la prima volta dalla morte di Rodrigo stanotte ho potuto riposare alcune ore. Nel dormiveglia dell'alba ho sentito una pressione sul petto che mi schiacciava il cuore e mi rendeva difficoltosa la respirazione, ma non ho provato angoscia, bensì un senso di pace e di gioia, perché avevo capito che era il braccio di Rodrigo, addormentato al mio fianco, come ai bei tempi. Sono rimasta immobile, a occhi chiusi, grata di quel dolce peso. Desideravo chiedere a mio marito se finalmente era venuto a prendermi, dirgli che mi aveva reso molto felice nei trent'anni che avevamo vissuto insieme e che mi rammaricavo solo delle sue lunghe assenze da guerriero. Ma ho temuto che parlandogli potesse svanire; in questi mesi di solitudine ho capito che gli spiriti sono molto timidi. Alla prima luce dell'alba, che è filtrata dalle fessure delle imposte, Rodrigo si è allontanato, lasciando l'impronta del suo braccio su di me e il suo odore sul cuscino. Quando sono arrivate le domestiche di lui non c'era più traccia nella stanza. Nonostante la gioia che questa inattesa notte di amore mi ha dato, a quanto pare devo essermi svegliata con una brutta cera, perché le donne sono venute a chiamarti, Isabel. Non sono ammalata, figlia mia, non mi duole nulla, non mi sono mai sentita così bene, e dunque non guardarmi con quella faccia da funerale; ma rimarrò a letto ancora un poco, perché ho freddo. Se non ti dispiace, vorrei approfittarne per continuare a dettarti.
Come sai, Juan Gómez è sopravvissuto a quella prova, benché abbia impiegato dei mesi a riprendersi dalle ferite infette. Abbandonò l'idea dell'oro, tornò a Santiago e ancora oggi vive con la sua splendida moglie, che ormai avrà circa sessant'anni, ma è identica a quando ne aveva trenta, senza rughe né capelli bianchi, non so se per miracolo o stregoneria. Quel fatidico dicembre segnò l'inizio dell'insurrezione dei mapuche, una guerra senza quartiere che in trent'anni non è cessata e non ha motivo di terminare; finché ci saranno anche un solo indio e un solo spagnolo vivi, il sangue scorrerà. Dovrei odiarli, Isabel, ma non posso. Sono i miei nemici, ma li ammiro; se fossi stata al loro posto sarei morta combattendo per la mia terra, come muoiono loro.
Da vari giorni sto cercando di evitare il momento in cui raccontare la fine di Pedro de Valdivia. Per ventisette anni ho cercato di non pensarci, ma immagino che sia giunta l'ora di farlo. Mi piacerebbe poter credere alla versione meno crudele; che Pedro si batté fino a essere abbattuto da una mazzata sulla testa, ma Cecilia mi aiutò a scoprire la verità. Solamente uno yanacona era riuscito a sopravvivere alla tragedia di Tucapel e poté raccontare quanto era successo in quel giorno di Natale, ma non sapeva nulla del governatore. Due mesi dopo, Cecilia venne a trovarmi per dirmi che una ragazza mapuche, appena giunta dall'Araucania, era a servizio in casa sua. Cecilia sapeva che l'india, che non parlava una parola di castigliano, era stata trovata nei pressi di Tucapel. Ancora una volta, il mapudungu appreso da Felipe, ora Lautaro, mi risultò utile. Cecilia l'accompagnò da me e potei parlarle. Era una ragazza all'incirca diciottenne, bassa, dai lineamenti fini, ben piantata. Siccome non capiva la nostra lingua sembrava tonta, ma quando le parlai in mapudungu mi resi conto che era molto sveglia. Ecco cosa ho potuto appurare grazie allo yanacona sopravvissuto a Tucapel e a questa mapuche, che assistette all'esecuzione di Valdivia.
Il governatore si trovava tra le rovine del forte, combatteva alla disperata con una manciata di valorosi contro migliaia di mapuche, che si rinnovavano in freschi plotoni, mentre loro non potevano concedere tregua alle spade. Trascorsero l'intera giornata a battersi. Al tramonto, Valdivia perse la speranza che Juan Gómez potesse arrivare con i rinforzi. La sua gente era stremata, i cavalli sanguinavano tanto quanto gli uomini e dalle colline arrivavano di continuo nuovi distaccamenti nemici.
"Signori, cosa facciamo?" domandò Valdivia ai
nove uomini che rimanevano in piedi.
"Che cosa vuole che facciamo, sua grazia, se non combattere e
morire?" replicò uno dei soldati.
"Allora facciamolo con onore, signori!"
E i dieci tenaci spagnoli, seguiti dai pochi yanaconas
sopravvissuti, si lanciarono ad affrontare il nemico, spade in
alto, con il nome dell'apostolo Santiago sulle labbra. In pochi
minuti otto soldati furono strappati alle loro cavalcature con lazi
e boleadoras, trascinati a terra e annientati da centinaia di
mapuche. Solamente Pedro de Valdivia, un frate e un fedele yanacona
riuscirono a rompere l'assedio e a fuggire per l'unica via libera
davanti a loro, essendo le altre bloccate dal nemico. Nascosto nel
forte c'era un altro yanacona che resistette al fumo dell'incendio
da sotto un mucchio di macerie e riuscì a fuggire due giorni dopo,
quando ormai i mapuche si erano ritirati. Il sentiero aperto
davanti a Valdivia era stato abilmente predisposto da Lautaro. Era
una strada senza uscita, che conduceva attraverso il bosco oscuro a
una palude in cui le zampe dei cavalli si impantanarono,
esattamente come Lautaro aveva previsto. I fuggitivi non potevano
indietreggiare perché avevano il nemico alle spalle. Alla luce
dell'imbrunire videro uscire dalla fratta centinaia di indigeni,
mentre loro sprofondavano irrimediabilmente in quel fango putrido
che sprigionava un infernale alito sulfureo. Prima che la palude se
li inghiottisse, i mapuche li liberarono perché non era questa la
fine che pensavano di dar loro.
Vedendosi perduto, Valdivia cercò di negoziare la propria libertà
con il nemico, promettendo che avrebbe abbandonato le città fondate
a sud, che gli spagnoli se ne sarebbero andati via dall'Araucania
per sempre e che avrebbe anche dato loro pecore e altri beni. Lo
yanacona dovette tradurre, ma prima che potesse finire gli indios
gli furono addosso e lo ammazzarono. Avevano imparato a disprezzare
le promesse degli huincas. Al frate, che aveva costruito una croce
con due bastoni e cercava di dare l'estrema unzione allo yanacona,
che prima aveva somministrato anche al governatore, spaccarono la
testa con un colpo di mazza. E allora iniziò il martirio di Pedro
de Valdivia, il più odiato nemico, l'incarnazione di tutti gli
abusi e le crudeltà inflitte al popolo mapuche. Non avevano
dimenticato le migliaia di morti, gli uomini bruciati, le donne
violentate, i bambini sfracellati, le centinaia di mani che il
fiume si era portato via, i piedi e i nasi mozzati, le frustate, le
catene e i cani.
Obbligarono il prigioniero ad assistere al supplizio degli
yanaconas sopravvissuti a Tucapel e alla profanazione dei cadaveri
degli spagnoli. Lo trascinarono per i capelli, nudo, verso la
capanna dove lo attendeva Lautaro. Nel tragitto, le pietre e i rami
affilati del bosco gli scorticarono la pelle e quando fu buttato ai
piedi dello ñidoltoqui era un relitto coperto di fango e sangue.
Lautaro ordinò che gli dessero da bere, perché si riprendesse dallo
svenimento, e che fosse legato a un palo. Come simbolico gesto di
scherno, spezzò in due la spada toledana e la piantò a terra, ai
piedi del prigioniero. Una volta che questi si fu ripreso a
sufficienza da poter aprire gli occhi, si ritrovò faccia a faccia
con l'antico servo.
"Felipe!" esclamò speranzoso perché almeno era un viso conosciuto e
poteva parlare in castigliano.
Lautaro lo fissò negli occhi, con infinito disprezzo.
"Non mi riconosci Felipe? Sono il Taita" insistette il
prigioniero.
Lautaro gli sputò in faccia. Aspettava quel momento da ventidue
anni.
A un ordine del ñidoltoqui i mapuche, infiammati, sfilarono davanti
a Pedro de Valdivia e con affilate valve di vongola gli estirparono
brandelli di corpo. Accesero un fuoco e con le stesse valve gli
strapparono i muscoli delle braccia e delle gambe, li arrostirono e
se li mangiarono davanti a lui. Questa macabra orgia durò tre
giorni e tre notti, durante i quali la madre Morte non soccorse
l'infelice prigioniero. Alla fine, all'alba del terzo giorno,
quando Lautaro vide che Valdivia stava per morire, gli versò oro
liquefatto nella bocca perché si saziasse del metallo che tanto
amava e tanta sofferenza causava agli indios nelle
miniere.
Che dolore! Che immenso dolore! Questi ricordi sono un colpo di
lancia qui in mezzo al petto. Che ora è, figlia mia? Perché non c'è
più luce? Le ore sono tornate indietro, deve essere di nuovo
l'alba. Credo che sarà per sempre l'aurora...
Non furono mai ritrovati i resti di Pedro de Valdivia. Si dice che
i mapuche divorarono il suo corpo in un rito improvvisato, che
fecero flauti delle sue ossa e che il suo cranio ancora oggi serva
come recipiente per il muday dei toquis. Mi domandi, figlia mia,
perché mi ostino a credere alla versione della serva di Cecilia,
piuttosto che all'altra, più misericordiosa, secondo la quale
Valdivia fu giustiziato con un colpo di mazza sulla testa, come
scrisse il poeta e come usa tra gli indios del Sud. Te lo posso
spiegare. Durante quei tre funesti giorni del dicembre del 1553 mi
ammalai gravemente. Fu come se la mia anima sapesse ciò che la
mente ancora ignorava. Immagini orrende sfilavano davanti ai miei
occhi, come in un incubo dal quale non riuscivo a svegliarmi. Mi
sembrava di vedere dentro casa mia le ceste piene di mani e di nasi
amputati, nel mio patio gli indios gravati dalle catene e quelli
che vennero impalati; l'aria sapeva di carne umana abbrustolita e
la brezza della notte mi portava gli schiocchi delle frustate.
Questa Conquista ha causato immense sofferenze... Nessuno può
perdonare tanta crudeltà, e men che meno i mapuche, che non
dimenticano mai le offese, come neppure i favori ricevuti. Mi
tormentavano i ricordi, ero come posseduta dal demonio. Sai già,
Isabel, che fatta eccezione per qualche sussulto del cuore, sono
sempre stata sana, con il favore di Dio, e quindi non ho altre
spiegazioni per la malattia che mi afflisse in quei giorni. Mentre
Pedro sopportava la sua orrenda fine, da lontano la mia anima lo
accompagnava e piangeva per lui e per tutte le vittime di questi
anni. Rimasi prostrata da un vomito così intenso e da febbri
talmente alte che temettero per la mia vita. Nel mio delirio
sentivo con chiarezza le grida di Pedro de Valdivia e la sua voce
che prendeva commiato da me per l'ultima volta: "Addio, Inés
dell'anima mia...".