Capitolo quarto Santiago della Nuova Estremadura 1541-1543
Dalla barella improvvisata su cui lo trasportavamo, don Benito
riconobbe da lontano la collina di Huelén, dove lui stesso, nel
precedente viaggio con Diego de Almagro, aveva piantato una
croce.
"Eccolo! Quello è il Giardino dell'Eden a cui per anni ho anelato!" gridò il vecchio, febbricitante per la ferita di una freccia che né le erbe né le stregonerie di Catalina e nemmeno le preghiere del cappellano erano riuscite a guarire.
Eravamo scesi su una collina molto dolce, fitta di querce e di altri alberi sconosciuti in Spagna, quillaie, boldi, alberi di maitén, coigües, tasmannie aromatiche. Era piena estate, ma le altissime montagne all'orizzonte erano ricoperte di neve. Colline e colline, dolci e dorate, circondavano la valle. A Pedro bastò uno sguardo per capire che don Benito aveva ragione: cielo azzurro intenso, aria luminosa, boschi lussureggianti e terra fertile, bagnata da ruscelli e da un ampio fiume, il Mapocho. Era questo il luogo scelto da Dio dove fondare il nostro primo villaggio, perché, oltre a essere bello e accogliente, si adattava al saggio statuto promulgato dall'imperatore Carlo V in materia di fondazione delle città nelle Americhe. "Non si scelgano luoghi da popolare in zone molto alte, per i danni arrecati dal vento e per le difficoltà dei servizi e dei trasporti, né in zone molto basse, che in genere non sono salubri; si fondino città nei luoghi di media altezza esposti ai venti del Nord e del Mezzogiorno; e ove vi fossero montagne o pendenze, che siano dalla parte di Levante o Ponente; e qualora si edifichi lungo il corso di un fiume, si disponga il villaggio in modo che il sole, sorgendo, batta sull'insediamento prima che sull'acqua." A quanto pareva i nativi del luogo erano perfettamente d'accordo con Carlo V, perché era una zona molto popolata; sorgevano diversi villaggi, molte piantagioni, canali d'irrigazione e strade. Non eravamo i primi ad apprezzare i vantaggi della valle.
I capitani Villagra e Aguirre andarono in avanscoperta con un distaccamento per sondare la reazione degli indigeni, mentre noi attendevamo in un luogo riparato. Tornarono portando la lieta notizia che gli indios, benché diffidenti, non avevano dato segni di ostilità. Vennero a sapere che anche lì era giunto l'impero inca e che il suo rappresentante, il curaca Vitacura, che controllava la zona, era disposto a cooperare, così aveva promesso, perché sapeva che i barbuti viracochas comandavano in Perú. "Non fidatevi, sono traditori e bellicosi" insistette don Benito, ma la decisione di stabilirci nella valle, anche a costo di dover sottomettere i nativi con la forza, era già stata presa. Il fatto che da generazioni fossero insediati lì, con le loro case e i loro campi coltivati, era un incentivo per gli energici conquistadores: significava che la terra e il clima erano favorevoli. Villagra calcolò a occhio che, sommando le baracche che si potevano vedere o indovinare, in quel luogo dovevano abitare all'incirca diecimila persone, per la maggior parte donne e bambini. Non c'era da preoccuparsi, a meno che non si ripresentassero le milizie di Michimalonko. Che cosa avranno provato gli abitanti quando ci videro arrivare e, in seguito, quando capirono che avevamo intenzione di stabilirci lì?
Tredici mesi dopo la nostra partenza da Cuzco, nel febbraio del 1541, Valdivia piantò lo stendardo della Castiglia ai piedi della collina di Huelén che battezzò col nome di Santa Lucía e prese possesso delle terre nel nome di sua maestà. Lì avrebbe fondato la città di Santiago della Nuova Estremadura. Dopo la messa, si procedette all'antico rito di segnare il perimetro della città. Siccome non avevamo la coppia di buoi e l'aratro, ricorremmo ai cavalli. Camminammo lentamente, in processione, dietro all'immagine della Vergine. Valdivia era talmente commosso che le sue guance si rigarono di lacrime; ma non era l'unico: la metà di quei valorosi soldati stava piangendo.
Due settimane più tardi il nostro capomastro, un guercio di nome Gamboa, definì il tracciato classico della città. Dapprima disegnò la piazza principale e il luogo per l'albero della giustizia o patibolo. Da lì, in linea retta, col regolo, partì con le strade parallele e perpendicolari, che si incrociavano individuando lati da centotrentotto bracci a formare ottanta isolati, ognuno dei quali suddiviso in quattro terreni edificabili. I primi pali a essere piantati furono quelli della chiesa, nel punto più importante della piazza. "Un giorno questa modesta cappella sarà una cattedrale" predisse González de Marmolejo, con la voce tremante per l'emozione. Pedro riservò a noi l'isolato a nord della piazza e distribuì gli altri terreni a seconda del rango e della lealtà dei suoi capitani e soldati. Con l'aiuto dei nostri yanaconas e di alcuni indios della valle che si presentarono spontaneamente, iniziammo a costruire le case di legno, mattoni crudi e provvisori tetti di paglia – in attesa di poter fabbricare delle tegole – con muri spessi e finestre e porte strette che consentissero di mantenere una temperatura gradevole ma anche di difenderci in caso di attacco. Ci rendemmo conto che l'estate era calda, secca e salubre. Ci dissero che l'inverno sarebbe stato freddo e piovoso. Il guercio Gamboa e i suoi aiutanti tracciarono le strade, mentre altri dirigevano le squadre di operai per le costruzioni. Le fucine lavoravano ininterrottamente per la produzione di chiodi, cerniere, serrature, ribattini, squadre; il rumore dei martelli e delle seghe taceva solo di notte e durante la messa. La fragranza del legno appena tagliato impregnava l'aria. Aguirre, Villagra, Alderete e Quiroga riorganizzarono la nostra malridotta milizia, molto provata dal lungo viaggio. Valdivia e l'esperto capitano Monroy, che si vantava di possedere una certa abilità diplomatica, cercarono di parlamentare con gli indigeni. A me toccò il compito di rimettere in salute i feriti e i malati e dedicarmi a ciò che preferivo: fondare la città. Non mi ero mai occupata di niente di simile, ma non appena innalzammo il primo palo nella piazza scoprii una vocazione che non mi ha più abbandonato; da quel giorno ho contribuito a edificare ospedali, chiese, conventi, eremi, santuari, interi villaggi e, se avessi ancora tempo davanti a me, fonderei un orfanotrofio, di cui Santiago ha grandissimo bisogno: è scandaloso che ci siano così tanti bambini infelici per le strade, come ce n'erano in Estremadura. Questa è una terra fertile e i suoi frutti dovrebbero bastare per tutti. Mi assunsi con caparbietà il compito di fondare, ruolo che nel Nuovo Mondo spetta alle donne. Gli uomini, infatti, si limitano a costruire villaggi provvisori per lasciarci lì con i figli, mentre loro continuano a combattere contro gli indigeni del luogo. Ci sono voluti quarant'anni di morti, sacrifici, impegno e lavoro perché Santiago arrivasse a godere della vitalità che ora la contraddistingue. Non ho dimenticato l'epoca in cui non era che un agglomerato di baracche, che difendevamo con le unghie e coi denti. Misi le donne e i cinquanta yanaconas che Rodrigo de Quiroga mi aveva ceduto a costruire tavoli, sedie, letti, forni, telai, stoviglie di terracotta, utensili da cucina, recinti, pollai, e a cucire materassi, indumenti, tovaglie, coperte e l'indispensabile per una vita che potesse definirsi civile. Al fine di risparmiare sforzi e viveri all'inizio predisposi un sistema grazie al quale nessuno rimaneva senza mangiare. Si cucinava una volta al giorno e si serviva il cibo su tavolate nella piazza maggiore, che Pedro chiamò plaza de Armas, benché non avessimo un solo cannone per difenderla. Noi donne preparavamo empanadas, fagioli, patate, piatti di mais e stufato di uccelli e lepri che gli indios riuscivano a cacciare. A volte potevamo disporre di pesce e di frutti di mare, piuttosto maleodoranti, che gli indigeni della valle portavano dalla costa. Ognuno contribuiva con quel che aveva, esattamente con lo stesso metodo che avevo adottato anni prima sulla nave del capitano Manuel Martín. Questo sistema comunitario ebbe anche il vantaggio di unire la gente e mettere a tacere gli scontenti, almeno per un certo periodo. Ci dedicavamo con molta cura agli animali domestici: solo per occasioni speciali sacrificavamo un nostro volatile, dal momento che speravo di vedere nel giro di un anno i pollai pieni. I maiali, le galline, le oche e i lama erano importanti quanto i cavalli e certamente molto più dei cani. Durante il viaggio gli animali avevano sofferto come gli umani, motivo per cui ogni uovo e ogni cucciolata meritavano un festeggiamento. Preparai un semenzaio allo scopo di poter piantare nella primavera successiva nei terreni assegnati dal capomastro Gamboa, grano, verdura, alberi da frutta e anche fiori, perché non si poteva vivere senza fiori, l'unico lusso di quella rude esistenza. Invece di tentare di imitare i contadini di Piasencia, cercai di riproporre il metodo di coltivazione e irrigazione dei campi degli indios della valle, perché nessuno meglio di loro conosceva il terreno.
Non ho citato il mais, o frumento indiano, senza il quale non saremmo sopravvissuti. Questo cereale veniva seminato senza bisogno di pulire o arare il terreno, bastava tagliare i rami degli alberi che circondavano il campo in modo che il sole scaldasse senza ostacoli. Si facevano piccoli solchi nella terra con una pietra affilata, se non si poteva contare su uno zappone, si lanciavano i semi e questi provvedevano a crescere da sé. Le pannocchie mature potevano restare attaccate alle piante per settimane senza marcire, bastava separarle dal fusto senza romperlo, non c'era bisogno di trebbiare né di ventilare. Era così facile coltivarlo e così abbondante la produzione, che il mais bastava a nutrire gli indios, e anche noi spagnoli, in tutto il Nuovo Mondo.
Valdivia e Monroy ritornarono esultanti con la notizia che i loro tentativi diplomatici avevano avuto successo: Vitacura ci avrebbe fatto visita. Don Benito avvertì che quello stesso curaca aveva tradito Almagro e che conveniva essere preparati a qualche colpo basso, ma ciò non diminuì l'entusiasmo della gente. Eravamo stanchi di combattere. Gli uomini lucidarono gli elmi e le armature, decorammo la piazza con stendardi, sistemammo in cerchio i cavalli, operazione che impressionò molto gli indios, e ci preparammo a fare musica con gli strumenti disponibili. Per precauzione, Valdivia fece caricare gli archibugi e sistemò in un luogo nascosto Quiroga e un gruppo di tiratori pronti a intervenire in caso di emergenza. Vitacura si presentò con tre ore di ritardo, secondo le regole del protocollo inca, come ci spiegò Cecilia, adorno di piume multicolori, con una piccola ascia d'argento in mano, segno del potere, circondato dalla sua famiglia e da vari personaggi della corte, nello stile dei nobili del Perú. Erano disarmati. Si esibì in un discorso interminabile e molto contorto in quechua e Valdivia rispose con un'altra mezz'ora di salamelecchi in castigliano, che misero a dura prova i lenguas che dovevano tradurre in entrambi gli idiomi. Il curaca portò in dono alcune pepite d'oro che, a quanto disse, provenivano dal Perú, piccoli oggetti d'argento e coperte di lana d'alpaca e inoltre mise a disposizione un certo numero dei suoi uomini che ci potevano aiutare a erigere la città. In cambio il nostro capitano generale gli consegnò delle cianfrusaglie che venivano dalla Spagna, oltre a dei cappelli, molto apprezzati dai quechua. Feci servire un pranzo abbondante e ben annaffiato di chicha di fichi d'India e muday, un liquore forte di mais fermentato.
"C'è oro in questa regione?" domandò Alonso de
Monroy a nome del resto degli uomini, che non avevano altro
interesse.
"Di oro non ce n'è, ma sulle montagne c'è una miniera d'argento"
replicò Vitacura.
La notizia entusiasmò molto i soldati, ma rabbuiò Valdivia. Quella
sera, mentre tutti facevano progetti con l'argento che ancora non
possedevano, Pedro manifestava il suo rammarico. Ci trovavamo nella
nostra proprietà, sistemati nella tenda di Pizarro, perché non
avevamo ancora eretto i muri e il tetto della casa, e stavamo
facendo un bagno d'acqua fredda nella vasca per vincere il caldo
afoso della giornata.
"Che peccato che ci sia dell'argento, Inés. Avrei preferito che il
Cile fosse misero come dicevano. Sono venuto per dare vita a un
popolo lavoratore e dai sani principi. Non voglio che la ricchezza
facile lo corrompa."
"È ancora da dimostrare che la miniera esista, Pedro."
"Io spero di no, ma a ogni modo sarà impossibile impedire agli
uomini di andarla a cercare."
E così fu. Il giorno dopo erano già state organizzate diverse
squadre di soldati per perlustrare la regione alla ricerca della
maledetta miniera. Era esattamente ciò che più conveniva al nostro
nemico: che ci dividessimo in piccoli gruppi.
Il capitano generale convocò il primo cabildo, una sorta di consiglio cittadino, conferendo l'incarico di sindaci ai suoi più fedeli compagni, e si apprestò a ripartire sessanta donazioni di terre, compresi gli indios per lavorarle, agli uomini più valorosi della spedizione. Mi parve affrettato suddividere terre ed encomiendas che ancora non avevamo, soprattutto visto che non conoscevamo la vera estensione e ricchezza del Cile, ma si fa sempre così; si pianta una bandiera, si prende possesso con carta e inchiostro e poi viene il problema di tradurre quanto è scritto in beni, e per fare ciò è necessario depredare gli indigeni e persino obbligarli a lavorare per i nuovi padroni. Tuttavia mi sentii molto onorata, perché Pedro mi considerò il migliore dei suoi capitani e mi concesse la più grande donazione di terra, uomini compresi, argomentando che io avevo affrontato gli stessi pericoli alla stregua del più coraggioso dei soldati, avevo salvato la spedizione in ripetute occasioni e che se dure erano state le fatiche per un uomo, ciò valeva ancora di più per una fragile donna. Di fragile non avevo nulla, ovviamente, ma nessuno criticò ad alta voce la sua decisione. Tuttavia, Sancho de la Hoz si avvalse anche di questo pretesto per attizzare il fuoco del rancore tra i sediziosi. Pensai che se mai un giorno quelle immaginarie terre si fossero trasformate in realtà, io, una modesta estremegna, sarei diventata uno dei possidenti più ricchi del Cile. Come sarebbe stata felice di saperlo mia madre!
Durante i mesi successivi, la città germogliò come per miracolo. Verso la fine dell'estate erano sorte già parecchie case di bell'aspetto, avevamo piantato filari d'alberi per avere ombra e uccelli nelle strade, la gente stava raccogliendo le prime verdure dagli orti, gli animali sembravano sani e avevamo immagazzinato provviste per l'inverno. Tale prosperità irritava gli indios della valle, che si rendevano perfettamente conto che non eravamo lì di passaggio. Supponevano, e a ragione, che sarebbero arrivati altri huincas a sottrarre loro la terra e a trasformarli in schiavi. Mentre noi ci adoperavamo per stabilirci, loro si preparavano a cacciarci. Si mantenevano invisibili, ma iniziammo a sentire il lugubre richiamo della trutruca e dei pilloi, flauti ricavati dalle ossa delle gambe dei nemici uccisi. I guerrieri restavano nascosti: attorno a Santiago giravano solo vecchi, donne e bambini, ma noi stavamo comunque all'erta. Secondo don Benito, la visita di Vitacura aveva avuto come unico scopo quello di valutare quanto fosse forte il nostro esercito e sicuramente il curaca non era rimasto impressionato, a dispetto del teatrale dispiegamento di forze che per l'occasione avevamo allestito. Probabilmente se ne era andato piegato in due dal ridere una volta paragonato il nostro scarso contingente con le migliaia di indios che ci spiavano dai boschi limitrofi. Vitacura era un quechua del Perú, rappresentante degli inca, e non pensava di farsi coinvolgere nella contesa tra huincas e promaucaes del Cile. Aveva previsto che se fosse scoppiata una guerra lui ne sarebbe uscito vincitore. A fiume torbido, guadagno di pescatore, dicono a Plasencia.
Con l'aiuto dei gesti e delle poche parole in quechua che sapevamo, io e Catalina riuscivamo a commerciare nei dintorni. Scambiavamo volatili e guanachi, animali simili ai lama che danno buona lana, con cianfrusaglie pescate in fondo ai miei bauli o con la cura dei loro malati. Eravamo brave a ricomporre le ossa rotte, cauterizzare le ferite e assistere ai parti, e tutto ciò ci tornò utile. Nelle capanne degli indigeni conobbi due machis o guaritrici, che scambiarono erbe e fatture con Catalina e che ci insegnarono le proprietà delle piante cilene, diverse da quelle del Perú.
Il resto dei "medici" della valle erano stregoni che con nostra grande meraviglia estraevano vermi dal ventre dei malati. Offrivano piccoli sacrifici e terrorizzavano la gente con le loro pantomime, metodo che, come ebbi modo di constatare, a volte dava eccellenti risultati. Catalina, che a Cuzco aveva lavorato con uno di questi camascas, "eseguì un intervento" su don Benito quando ormai tutti i rimedi erano risultati vani. Con molta discrezione, aiutate da un paio di indie fidate del seguito di Cecilia, portammo il vecchio nel bosco, dove Catalina officiò la cerimonia. Lo intontì con una pozione di erbe, lo stordì col fumo e procedette a massaggiare la ferita alla coscia che non si era ancora cicatrizzata bene. Per il resto della sua vita don Benito avrebbe raccontato a chi era disposto ad ascoltarlo di aver visto con i suoi occhi estrarre dalla ferita le lucertole e le serpi che gli avevano avvelenato la gamba e di come in seguito fosse completamente guarito. Rimase zoppo, è vero, ma non morì di cancrena come temevamo. Non mi parve il caso di spiegargli che Catalina aveva i rettili morti nascosti nelle maniche. "Se la magia funziona, si continui così" disse Cecilia.
Dal canto suo la principessa, che fungeva da ponte tra la cultura quechua e la nostra, tramite le sue serve organizzò una rete di comunicazione. Andò persino a trovare il curaca Vitacura che cadde in ginocchio e con la fronte al suolo quando capì che era la sorella minore dell'inca Atahualpa. Cecilia venne così a sapere che in Perú la situazione era molto confusa; correva persino voce che Pizarro fosse morto. Mi affrettai a riferirlo a Pedro, in gran segreto.
"Come fai a sapere se è vero, Inés?"
"Così dicono i chasquis. Non posso assicurarti
che sia vero, ma conviene prendere precauzioni, non
credi?"
"Fortunatamente siamo lontani dal Perú."
"Sì, ma che cosa ne sarà del tuo titolo se Pizarro muore? Tu sei il
suo tenente governatore."
"Se Pizarro muore sono certo che Sancho de la Hoz e altri non
esiteranno a mettere di nuovo in dubbio la mia
legittimità."
"Diverso sarebbe se tu fossi governatore, vero?"
suggerii.
"Non lo sono, Inés."
L'idea rimase sospesa nell'aria, dal momento che Pedro sapeva
perfettamente che non sarei rimasta impassibile. Approfittai della
mia amicizia con Rodrigo de Quiroga e Juan Gómez per mettere in
giro la voce che Valdivia doveva essere nominato governatore. Dopo
pochi giorni, come avevo previsto, a Santiago non si parlava
d'altro. Fu allora che si scatenarono le prime piogge dell'inverno,
le acque del Mapoche tracimarono e la nascente città si ritrovò
trasformata in una fangaia, ma ciò non impedì che, con grande
solennità, in una capanna si riunisse il cabildo. Il fango arrivava
alle caviglie dei capitani che si erano riuniti per nominare
Valdivia governatore. Quando giunsero a casa nostra ad annunciare
la decisione, Pedro parve talmente sorpreso che quasi mi spaventai.
Forse avevo esagerato con quel mio vizio di leggergli nel
pensiero.
"Mi emoziona che riponiate tanta fiducia in me, ma questa mi pare
una risoluzione precipitosa. Non siamo certi della morte del
marchese Pizarro, nei confronti del quale sono debitore. Non posso
assolutamente prescindere dalla sua autorità. Mi rammarico, miei
cari amici, ma non posso accettare il grande onore che volete
farmi."
Non appena se ne furono andati, Pedro mi spiegò che la sua era
un'astuta manovra per proteggersi, giacché, in futuro, avrebbero
potuto accusarlo di tradimento nei confronti del marchese, ma era
certo che i suoi amici sarebbero tornati alla carica. Ed
effettivamente i membri del cabildo tornarono con una petizione
scritta firmata da tutti gli abitanti di Santiago. Addussero la
motivazione che ci trovavamo molto lontano dal Perú e ancora più
distanti dalla Spagna, non potevamo comunicare, eravamo relegati
alla fine del mondo, ed era per questo che supplicavano Valdivia di
diventare il nostro governatore. Morto o non morto che fosse
Pizarro, volevano comunque che lui occupasse quella carica.
Dovettero insistere tre volte, finché non convinsi Pedro che si era
fatto pregare abbastanza, e che i suoi amici potevano irritarsi e
finire col nominare qualcun altro; non mancavano certo gli
onorevoli capitani che sarebbero stati felici di essere eletti
governatori, come mi risultava dai pettegolezzi delle indie.
Finalmente si degnò di accettare: visto che tutti glielo
chiedevano, non poteva opporsi, la voce del popolo è la voce di
Dio, obbediva umilmente alla volontà collettiva per meglio servire
sua maestà eccetera eccetera. Venne redatto un opportuno documento,
che lo metteva in salvo da qualsiasi accusa futura, e fu così che
venne nominato il primo governatore del Cile, per volontà popolare
e non con certificazione reale. Valdivia designò Monroy suo tenente
governatore e io divenni Governatrice, proprio così, con la
maiuscola, carica che la gente mi attribuisce da quarant'anni a
questa parte. Agli effetti pratici, più che un onore, è stata una
gravosa responsabilità. Divenni in tal modo la madre del nostro
piccolo villaggio, colei cui spettava vegliare sul benessere di
ognuno degli abitanti, da Pedro de Valdivia all'ultima gallina del
pollaio. Non c'era riposo per me, dovevo sovraintendere a ogni
minimo dettaglio della vita quotidiana, dal cibo, agli indumenti,
ai raccolti e agli animali. Fortunatamente non ho mai avuto bisogno
di più di tre o quattro ore di sonno, e così disponevo di più tempo
rispetto agli altri per compiere il mio lavoro. Mi ero prefissata
di conoscere per nome ogni soldato e ogni yanacona e feci sapere
che la mia porta era sempre aperta per riceverli e ascoltare
qualsiasi problema. Feci in modo che non ci fossero castighi
ingiusti né sproporzionati, soprattutto nei confronti degli indios.
Pedro si fidava del mio buon senso e in genere mi ascoltava prima
di emettere una sentenza. Credo che a quell'epoca la maggior parte
dei soldati mi avesse ormai perdonata per il tragico episodio di
Escobar e mi portasse rispetto, perché avevo curato molte febbri e
ferite, avevo dato da mangiare a tutti alla tavola comune e li
avevo aiutati a rendere vivibili le loro case.
La notizia che Pizarro era morto non si rivelò vera, ma profetica.
Il Perú stava vivendo un momento tranquillo, ma un mese più tardi
un gruppo di "cenciosi cileni", vale a dire di antichi soldati
della spedizione di Almagro, fece irruzione nel palazzo del
marchese governatore e gli tolse la vita a coltellate. In sua
difesa accorsero un paio di servitori, mentre i cortigiani e le
sentinelle fuggivano dai balconi. La gente di Ciudad de los Reyes
non si dispiacque dell'accaduto perché ne aveva fin sopra i capelli
degli eccessi dei fratelli Pizarro, e in meno di due ore il
marchese governatore venne rimpiazzato dal figlio di Diego de
Almagro, un ragazzo inesperto, che il giorno prima non possedeva
neanche un maravedì per mangiare e dalla sera alla mattina si
ritrovò a capo di un immenso impero. Quando in Cile, mesi più
tardi, venne confermata la notizia, Valdivia si era già assicurato
la sua carica di governatore.
"Sei davvero una strega, Inés..." mormorò Pedro, spaventato, quando
venne a saperlo.
Durante l'inverno l'ostilità degli indios della valle si manifestò
apertamente. Pedro diede ordine che nessuno abbandonasse la città
senza un valido motivo e senza protezione. Finirono dunque le mie
visite alle machis e ai mercati, ma credo che Catalina continuò a
rimanere in contatto con i villaggi perché non cessarono le sue
discrete sparizioni notturne. Cecilia venne a sapere che
Michimalonko si stava preparando per attaccarci e che per
incentivare i suoi guerrieri aveva promesso loro i cavalli e le
donne di Santiago. Le sue milizie si andavano ingrossando e c'erano
già sei toquis con la loro gente accampati in uno dei suoi fortini,
pucara, in attesa del momento migliore
per dare inizio allo scontro.
Valdivia ascoltò da Cecilia i particolari, si consultò con i suoi
capitani e decise di prendere l'iniziativa. Lasciò il grosso della
truppa a protezione di Santiago e partì con Alderete, Quiroga e un
distaccamento dei migliori soldati per affrontare Michimalonko sul
suo terreno. La pucara era una costruzione di argilla, pietra e
legna, circondata da una staccionata di tronchi, che dava
l'impressione di essere stata eretta di fretta, come protezione
temporanea. Inoltre, era posizionata in un punto vulnerabile e mal
difesa, così che i soldati spagnoli non ebbero grosse difficoltà ad
avvicinarsi di notte e ad appiccare il fuoco. Attesero che i
guerrieri uscissero, soffocati dal fumo, e ne massacrarono un
numero impressionante. La sconfitta degli indigeni fu rapida e i
nostri catturarono diversi cacicchi, tra cui Michimalonko. Li
vedemmo arrivare a piedi, legati ai finimenti dei cavalli dei
capitani che li trascinavano, pesti e vinti, ma comunque superbi.
Correvano di fianco ai cavalli senza dar segno di paura o
stanchezza. Erano uomini di bassa statura, ma ben proporzionati,
dai piedi e dalle mani delicati, dalla schiena e dalle membra
robuste e dal portamento fiero. I lunghi capelli neri erano
intrecciati con lacci colorati e avevano i volti dipinti di giallo
e blu. Venni a sapere che il toqui Michimalonko aveva più di
settant'anni, ma si faticava a crederci perché aveva tutti i denti
ed era vigoroso come un ragazzo. I mapuche che non muoiono
incidentalmente o in guerra possono vivere in splendida forma fino
a cento anni e oltre. Sono forti, intrepidi e temerari, resistono
alle temperature glaciali, alla fame e al caldo. Il governatore
ordinò di lasciare i toquis ai ceppi nella capanna destinata a
fungere da prigione; i suoi capitani avevano in mente di torturarli
per sapere se nella regione ci fossero miniere d'oro, visto che il
curaca Vitacura poteva aver mentito.
"Cecilia dice che è inutile infliggere supplizi ai mapuche, non si
riuscirà mai a farli parlare. Gli inca ci hanno provato diverse
volte, ma nemmeno le donne e i bambini si lamentano sotto tortura"
spiegai a Pedro quella sera, mentre gli toglievo l'armatura e gli
indumenti, macchiati di sangue ormai rappreso.
"Allora i toquis ci serviranno solo come ostaggi."
"Dicono che Michimalonko sia molto orgoglioso."
"Gli serve a poco ora che è in catene" mi rispose.
"Se non parla con la forza, magari lo farà per vanità. Sai come
sono certi uomini..." suggerii.
Il giorno dopo Pedro decise di interrogare il toqui Michimalonko
secondo una procedura talmente inusuale che nessuno dei suoi
capitani riuscì a capire cosa diavolo stesse cercando di fare.
Ordinò che fosse slegato e condotto in una stanza separata, lontano
dagli altri prigionieri, dove le tre indie più belle al mio
servizio lo lavarono e vestirono con indumenti puliti di buona
qualità, gli servirono un'abbondante colazione e tutto il muday che
aveva voglia di bere. Valdivia lo fece scortare da una guardia
d'onore e lo ricevette nell'ufficio imbandierato del cabildo,
circondato dai suoi capitani in armature lucenti e pennacchi dai
vivacissimi colori. Io assistevo indossando l'abito di velluto
color ametista, l'unico rimastomi, visto che avevo lasciato gli
altri sulla strada del Nord. Michimalonko mi rivolse uno sguardo
d'apprezzamento, non so se avesse riconosciuto in me quella specie
di sergente che lo aveva affrontato con la spada. Avevano
predisposto due seggiole uguali, una per Valdivia e l'altra per il
toqui. Potevano contare su un lengua, ma sapevamo già che il
mapudungu è intraducibile, perché è un idioma poetico che si crea
mentre si parla, le parole cambiano, fluiscono, si uniscono, si
disfano, è tutto movimento, tanto che è impossibile scriverlo. Se
si cerca di tradurlo parola per parola non si capisce nulla. Il
lengua poteva, al massimo, trasmetterci un'idea generale. Con la
massima deferenza e solennità possibile Valdivia manifestò la sua
ammirazione per il valore di Michimalonko e dei suoi guerrieri. Il
toqui replicò con altrettanta cortesia e così, di salamelecco in
salamelecco, Valdivia lo condusse sul terreno della negoziazione
mentre i suoi capitani, perplessi, osservavano la scena. Il vecchio
era orgoglioso di discutere alla pari con quel potente nemico, uno
dei barbuti che avevano sconfitto niente meno che l'impero di
Atahualpa. Ben presto iniziò a vantarsi della sua posizione, del
suo lignaggio, delle tradizioni, del numero di milizie e delle sue
mogli, che erano più di venti, come precisò, aggiungendo che nella
sua dimora c'era spazio anche per altre, compresa qualche
chiñura spagnola. Valdivia gli raccontò
che Atahualpa aveva riempito d'oro una stanza fino al soffitto per
pagare il suo riscatto; più importante era il prigioniero, più alto
il riscatto, aggiunse. Michimalonko rimase per un attimo a pensare,
senza che nessuno lo disturbasse, a chiedersi, immagino io, perché
agli huincas piacesse tanto quel metallo che a loro aveva solo
portato problemi; per anni avevano dovuto darlo all'inca come
tributo. Ma ecco che all'improvviso poteva avere un'utilità: pagare
il suo riscatto. Se Atahualpa aveva riempito una stanza d'oro, lui
non poteva essere da meno. Allora si alzò in piedi, ergendosi come
una torre, si colpì il petto con i pugni e annunciò con voce ferma
che in cambio della sua libertà era disposto a consegnare agli
huincas l'unica miniera della regione, alcuni punti del fiume in
cui si raccoglieva la polvere del metallo, chiamati lavaderos di Marga-Marga, e anche millecinquecento
persone per lavorarci.
Oro! La città esultò: l'avventura della Conquista del Cile
finalmente aveva un senso. Pedro de Valdivia partì con un
distaccamento bene armato, portando con sé Michimalonko in sella a
uno splendido sauro che decise di regalargli. Pioveva a catinelle,
procedevano zuppi e tremanti, ma di ottimo umore, mentre a Santiago
si udivano le grida furiose dei toquis traditi da Michimalonko,
rimasti incatenati ai pali. Le trutrucas, flauti fatti con lunghe
canne, rispondevano dal bosco alle maledizioni in mapudungu dei
capi.
Il borioso Michimalonko guidò gli huincas per le colline verso la
foce di un fiume, a trenta leghe da Santiago, e da lì verso i punti
del corso d'acqua con i lavaderos che la sua gente aveva sfruttato
per molti anni al solo scopo di soddisfare l'avidità dell'inca. Nel
rispetto dell'accordo stipulato, mise millecinquecento anime a
disposizione di Valdivia, più della metà delle quali risultarono
essere donne, ma non ci fu nulla da discutere perché tra gli
indigeni cileni sono loro a lavorare, gli uomini si dedicano solo
ai discorsi e ai compiti che richiedono muscoli, quali combattere,
nuotare e giocare a palla. Gli uomini destinati da Michimalonko
erano assai pigri perché non ritenevano degno di un guerriero il
dover passare la giornata con un cestino nell'acqua a lavare la
sabbia, ma Valdivia pensò che i neri li avrebbero resi più
compiacenti a suon di frustate. È da molti anni che vivo in Cile e
so che è inutile schiavizzare i mapuche, muoiono o fuggono. Non
sanno essere vassalli, non comprendono il concetto di lavoro, e
ancora meno le ragioni per le quali dovrebbero cercare l'oro nel
fiume per poi donarlo agli huincas. Vivono di pesca, di caccia, di
alcuni frutti come i pinoli, di ciò che coltivano e della carne dei
loro animali domestici, possiedono solo ciò che possono portare con
sé, e dunque che motivi avevano di farsi sottomettere dalle fruste
dei sorveglianti? Timore forse? Non sanno cosa sia. I loro valori
sono in primo luogo il coraggio e poi la reciprocità: tu mi dai, io
ti do, con giustizia. Non hanno celle, né giudici né altre leggi
che non siano quelle naturali; anche il castigo è naturale, chi fa
qualcosa di male corre il rischio che gli venga fatta la stessa
cosa. È così in natura e tra gli umani non può essere diverso. Da
quarant'anni sono in guerra con noi e hanno imparato a torturare, a
rubare, a mentire e a ingannare, ma mi è stato riferito che tra
loro convivono in pace. Le donne mantengono una rete di rapporti
che tiene uniti i clan, persino quelli separati da centinaia di
leghe di distanza. Prima della guerra si facevano spesso visita, e
siccome i viaggi erano lunghi, ogni incontro durava settimane e
serviva a rinsaldare i legami e la lingua mapudungu, a raccontare
storie, ballare, bere e a prendere accordi per futuri matrimoni.
Una volta all'anno le tribù si riunivano in campo aperto per un
nguillatún, invocazione al Signore
della Gente, Ngenechén, e per onorare la Terra, dea
dell'abbondanza, feconda e fedele, madre del popolo mapuche.
Ritengono che sia una mancanza di rispetto disturbare Dio ogni
domenica come facciamo noi; una volta all'anno è più che
sufficiente. I loro toquis possiedono un'autorità limitata, perché
non c'è l'obbligo di obbedire loro, le loro responsabilità sono
maggiori dei privilegi. Così descrive Alonso de Ercilla y Zúñiga il
modo in cui vengono eletti:
Né per natura, né per
eredità
né per beni o natali elevati,
ma per ardire e somma qualità son qui in pregio gli uomini e
stimati. Ciò fa illustri e capaci, e perfeziona, e fissa il valor
della persona.
Quando arrivammo in Cile non sapevamo nulla dei mapuche e pensavamo che sottometterli sarebbe stato facile, come era avvenuto con popoli più civilizzati, gli aztechi e gli inca. Ci impiegammo molti anni a comprendere di esserci profondamente sbagliati. Di questa guerra non si intravede la fine, perché anche quando giustiziamo un toqui, ne spunta immediatamente un altro, e quando sterminiamo completamente una tribù, dal bosco ne appare un'altra che prende il suo posto. Noi vogliamo fondare città e prosperare, vivere con decoro e negli agi, mentre loro aspirano soltanto alla libertà.
Pedro rimase assente per diverse settimane, perché oltre a organizzare il lavoro nella miniera aveva deciso di iniziare la costruzione di un brigantino che permettesse un collegamento con il Perú; non potevamo continuare a essere isolati, in culo al mondo, senza altra compagnia di quella dei selvaggi biotti, come diceva Francisco de Aguirre con la sua abituale franchezza. Trovò una baia molto adatta, chiamata Concón, con una lunga spiaggia di sabbia chiara, circondata da boschi di legname sano e resistente all'acqua. Lì sistemò l'unico dei suoi uomini che avesse qualche vaga nozione sull'arte del navigare, assistito da un manipolo di soldati, diversi sorveglianti, indios ausiliari e altri indigeni di Michimalonko.
"Ha un progetto per l'imbarcazione, signor
governatore?" domandò il presunto esperto.
"Non mi dica che ha bisogno di un modello per una cosa così facile"
lo sfidò Valdivia.
"Non ho mai costruito barche, eccellenza."
"Preghi perché non affondi, visto che lei sarà il primo a
viaggiarci" si accommiatò il governatore, molto soddisfatto del suo
progetto.
Per la prima volta l'idea dell'oro lo entusiasmava, si immaginava
le facce della gente in Perú quando avessero saputo che il Cile non
era così misero come si diceva. Avrebbe mandato un campione
dell'oro sulla sua nave, avrebbe suscitato scalpore, ciò avrebbe
attratto altri coloni e Santiago sarebbe stata la prima di molte
città prospere e ben popolate. Come aveva pattuito, rimise
Michimalonko in libertà e si congedò da lui con grandi
dimostrazioni di rispetto. L'indio se ne andò al galoppo sul suo
nuovo cavallo, trattenendo il riso.
Dopo una delle spedizioni di evangelizzazione che fino a quel
momento non avevano dato il minimo risultato, perché i nativi della
valle dimostravano una stupefacente indifferenza ai vantaggi del
cristianesimo, il cappellano González de Marmolejo tornò con un
ragazzino. Lo aveva trovato che vagava sulle rive del fiume
Mapocho, magro, coperto di sporcizia e sangue rappreso. Invece di
fuggire di corsa, come facevano gli altri indios tutte le volte che
lui appariva con la sua veste bisunta e la croce in alto, il
bambino aveva iniziato a seguirlo come un cane, senza dire una
parola, gli occhi in fiamme, attento a ogni movimento del prete.
"Vattene via, ragazzino! Pussa via!" lo allontanava il cappellano
minacciando di dargli uno scappellotto con la croce, ma non c'era
stato verso, gli era rimasto appiccicato dietro fino a Santiago. In
mancanza di un'altra soluzione, decise di portarlo a casa
mia.
"Ma cosa posso fare, padre? Non ho tempo per allevare ragazzini"
gli dissi sapendo che l'ultima cosa che mi conveniva fare era
affezionarmi a un bambino del nemico.
"La tua casa è la migliore della città, Inés, e qui si troverà
bene."
"Ma..."
"Cosa dicono i dettami delle Opere di misericordia, Inés? Dar da
mangiare agli affamati e vestire gli ignudi" mi
interruppe.
"Non me lo ricordo, ma se lei dice così..."
"Mettilo a lavorare con i maiali e le galline, è molto
docile."
Pensai che poteva benissimo occuparsene lui, che aveva una casa e
anche una ragazza, e farne un sagrestano, ma non mi potei rifiutare
perché a quel cappellano dovevo molti favori, in fondo mi stava
istruendo. Ero già in grado di leggere senza aiuto uno dei tre
libri di Pedro, Amadís, tutto amori e
avventure. Gli altri due non osavo ancora affrontarli: il
Cid, solo battaglie, e Enchiridion Militis Christiani, di Erasmo,
certamente un manuale per soldati che non poteva interessarmi
affatto. Il cappellano aveva diversi altri libri, sicuramente
proibiti dall'Inquisizione, e un giorno speravo di leggerli. Alla
fine il ragazzino rimase con noi. Catalina lo lavò e vedemmo che la
crosta non era di sangue secco, ma di fango e argilla: a parte
qualche graffio e qualche livido era illeso. Aveva all'incirca
undici o dodici anni, era magro, con le costole sporgenti, ma
forte, con un gran cespuglio di capelli neri, resi irsuti dalla
sporcizia. Al suo arrivo era praticamente nudo. Ci attaccò a morsi
quando cercammo di togliergli un amuleto che portava al collo
appeso a una strisciolina di cuoio. Ben presto mi dimenticai di lui
perché ero molto impegnata nel mio compito di fondare la città, ma
due giorni dopo Catalina me lo ricordò. Disse che non si era mosso
dal recinto in cui l'avevamo messo e che non aveva neanche
mangiato.
"Che cosa andremo facendo con lui, mamitay?"
"Che torni dai suoi, è meglio."
Andai dal ragazzino e lo trovai seduto nel recinto, immobile,
scolpito nel legno, con quegli occhi neri fissi sulle colline.
Aveva gettato via la coperta che gli avevamo dato, sembrava gradire
il freddo e la pioggerella invernale. Gli spiegai a segni che
poteva andarsene, ma non si mosse.
"Non sta volendo andarsene. Rimanere, sta volendo, nient'altro"
sospirò Catalina.
"E allora che rimanga."
"E chi starà sorvegliando il selvaggio, señoray? Ladri e vigliacchi
stanno essendo questi mapuche."
"È solo un bambino, Catalina. Vedrai che se ne andrà, qui non ha
niente da fare."
Offrii al ragazzino una tortilla di mais e non reagì, ma quando gli
avvicinai una zucca d'acqua, la prese a due mani e ne bevve il
contenuto con rumorose sorsate, come un lupo. A dispetto delle mie
previsioni, rimase con noi. Lo vestimmo con un poncho e calzamaglia
da adulto strette in vita, in attesa di cucirgli qualcosa della sua
misura, gli tagliammo i capelli e gli togliemmo i pidocchi. Il
giorno dopo iniziò a mangiare con gran appetito e uscì dal recinto
per vagare nella casa e poi nella città come un'anima in pena. Gli
interessavano più gli animali delle persone e questi non lo
deludevano: i cavalli mangiavano dalle sue mani e persino i cani
più feroci, addestrati per attaccare gli indios, gli scodinzolavano
attorno. All'inizio veniva rifiutato ovunque andasse, nessuno
voleva un piccolo indio così strano sotto il proprio tetto, nemmeno
il buon cappellano, che tanto predicava gli obblighi cristiani, ma
ben presto tutti si abituarono alla sua presenza e il ragazzino
divenne invisibile, entrava e usciva dalle case, sempre silenzioso
e attento. Le indie di servizio gli davano qualche ghiottoneria e
persino Catalina, benché a denti stretti, finì per
accettarlo.
In quei giorni tornò Pedro, stanco e acciaccato per la lunga
cavalcata, ma molto soddisfatto dei primi esemplari d'oro che
portava, alcune pepite dalle discrete dimensioni trovate nel fiume.
Prima di riunirsi con i suoi ufficiali mi prese per la vita e mi
portò a letto. "Sei davvero l'anima mia, Inés" sospirò baciandomi.
Sapeva di cavallo e di sudore, non mi era mai sembrato così bello,
così forte, così mio. Confessò di aver sentito la mia mancanza, che
gli costava sempre di più allontanarsi da me, anche solo per
qualche giorno, che quando non eravamo insieme faceva dei brutti
sogni premonitori, aveva paura di non rivedermi. Lo spogliai come
un bambino, lo lavai con uno straccio bagnato, baciai a una a una
le sue cicatrici, dal segno del ferro di cavallo sull'anca alle
centinaia di ricordi di guerra che gli attraversavano braccia e
gambe, fino alla piccola stella su una tempia, ricordo di una
caduta da ragazzo. Facemmo l'amore con una tenerezza lenta e nuova,
come una coppia di anziani. Pedro era talmente distrutto da quelle
settimane di lavoro che si lasciò prendere da me, con la
mansuetudine di una vergine. A cavallo su di lui, mentre lo amavo
lentamente, affinché godesse a poco a poco, ammirai il suo nobile
volto alla luce di una candela, la sua ampia fronte, il naso
prominente, le sue labbra femminili. Aveva gli occhi chiusi e un
placido sorriso, si era completamente arreso, sembrava giovane e
vulnerabile, diverso dall'uomo agguerrito e ambizioso che qualche
tempo prima era partito alla testa dei suoi soldati. Durante la
notte, per un istante, mi parve di intravedere in un angolo la
sagoma del ragazzino mapuche, ma poteva essersi trattato
semplicemente di un gioco d'ombre.
Il giorno seguente, di ritorno dalla sua riunione con il cabildo,
Pedro mi domandò chi fosse il piccolo selvaggio. Gli spiegai che me
lo aveva affidato il cappellano e che supponevamo fosse orfano.
Pedro lo chiamò, lo esaminò dalla testa ai piedi e gli piacque,
forse gli ricordava com'era lui a quell'età, altrettanto veemente e
orgoglioso. Si rese conto che non parlava il castigliano e fece
chiamare un lengua.
"Digli che può rimanere con noi, ma deve diventare cristiano. Si
chiamerà Felipe. Mi piace questo nome. Se avessi un figlio lo
chiamerei così. D'accordo?" annunciò Valdivia.
Il ragazzino assentì. Pedro aggiunse che se si fosse fatto
sorprendere a rubare, l'avrebbe prima frustato e poi cacciato
immediatamente dalla città; poteva considerarsi fortunato, perché
altri gli avrebbero tagliato la mano destra con un colpo d'ascia.
Inteso? Assentì di nuovo, muto, con un'espressione più ironica che
spaventata. Chiesi al lengua di proporgli un'accordo: se mi
insegnava il suo idioma, io gli avrei insegnato il castigliano. A
Felipe non interessava per niente. Allora Pedro fece un'offerta più
allettante: se mi insegnava il mapudungu avrebbe avuto il permesso
di occuparsi dei cavalli. Immediatamente il viso del moccioso si
illuminò e da quell'istante sembrò adorare Pedro, che prese a
chiamare Taita. A me si rivolgeva con chiñura, che immagino stia
per signora. Quello era il patto. Felipe si rivelò un buon maestro
e io un'ottima allieva e fu così che, grazie a lui, divenni l'unica
huinca in grado di intendersi con i mapuche, ma ci avrei impiegato
almeno un anno. Ho appena detto "intendersi con i mapuche", ma è
solo fantasia, non ci intenderemo mai, c'è troppo rancore
accumulato.
Eravamo ancora in pieno inverno quando giunsero al galoppo sfrenato due dei soldati che Pedro aveva lasciato a Marga-Marga. Erano estenuati, gravemente feriti, grondavano pioggia e sangue e i loro cavalli erano sul punto di stramazzare; ci raccontarono che alla miniera gli indios di Michimalonko si erano ribellati e che avevano assassinato molti yanaconas, i neri e quasi tutti i soldati spagnoli; solo loro erano riusciti a evitare la morte e a fuggire. Dell'oro raccolto non rimaneva una sola pepita. I nostri erano stati uccisi anche sulla spiaggia di Concón; i corpi fatti a pezzi erano rimasti sparpagliati sulla sabbia, e il brigantino in costruzione era ridotto a un ammasso di legna bruciata. In tutto avevamo perso ventitré soldati e un numero imprecisato di yanaconas.
"Maledetto Michimalonko, indio di merda. Appena
lo catturo lo farò impalare vivo!" inveì Pedro de
Valdivia.
Non si era ancora ripreso dalla terribile notizia che arrivarono
Villagra e Aguirre a confermare ciò di cui le spie di Cecilia ci
avevano avvertito alcune settimane prima: migliaia di indigeni si
stavano radunando nella valle. Giungevano a piccoli gruppi uomini
armati e pitturati per la guerra. Si nascondevano nei boschi, sulle
colline, sotto la terra e anche tra le nuvole. Pedro, come sempre,
decise che la miglior difesa era l'attacco: selezionò quaranta
soldati di provato valore e partì in fretta e furia all'alba del
giorno dopo per dar loro una lezione a Marga-Marga e
Concón.
A Santiago rimanemmo con una sensazione di abbandono assoluto. Le
parole di Francisco de Aguirre descrivevano perfettamente la nostra
situazione: "In culo al mondo e circondati da selvaggi biotti". Non
c'erano più né l'oro né l'imbarcazione, il disastro era totale. Il
cappellano González de Marmolejo ci riunì a messa e ci propinò
un'infiammata predica sulla fede e il coraggio, ma non riuscì a
risollevare gli animi della popolazione impaurita. Sancho de la Hoz
approfittò per incolpare Valdivia delle nostre sofferenze e così
riuscì ad aumentare a cinque il numero dei suoi accoliti, tra i
quali lo sfortunato Chinchilla, uno dei venti che si erano aggiunti
alla spedizione a Copiapó. Quell'uomo non mi era mai piaciuto, era
falso e codardo, ma non pensavo fosse anche completamente scemo.
L'idea non era originale – assassinare Valdivia – ma questa volta i
cospiratori non potevano far conto sui cinque pugnali identici che
si trovavano ben custoditi in fondo a uno dei miei bauli.
Chinchilla era così sicuro della genialità del suo piano che, dopo
essersi bevuto un paio di sorsi di troppo, si vestì da pagliaccio,
con campanelle e sonagli, e si diresse in piazza a fare capriole e
imitando il governatore. Ovviamente Juan Gómez lo arrestò
immediatamente e non appena gli mostrò le pinze e gli indicò in
quale parte del corpo intendeva applicargliele, Chinchilla si orinò
addossò dalla paura e spifferò i nomi dei compari.
Pedro de Valdivia tornò più angustiato di quando era partito,
perché i suoi quaranta prodi non erano neanche lontanamente
sufficienti ad affrontare l'inatteso numero di guerrieri che
stavano arrivando nella valle. Era riuscito a recuperare i poveri
yanaconas sopravvissuti al massacro di Marga-Marga e di Concón
rimanendo nascosti nella vegetazione, sfiniti dalla fame, dal
freddo e dal terrore. Aveva affrontato qualche gruppo nemico, che
era riuscito a disperdere, e, grazie alla fortuna che fino ad
allora non gli era mai venuta meno, aveva fatto prigionieri tre
cacicchi che aveva condotto a Santiago. Con loro gli ostaggi erano
sette.
Perché un paese sia un vero paese ci vogliono nascite e morti, ma a
quanto pare i paesi spagnoli hanno anche bisogno di esecuzioni. Le
prime di Santiago ebbero luogo quella stessa settimana, dopo un
processo sommario – questa volta con tortura – durante il quale i
cospiratori vennero condannati a morte immediata. Chinchilla e
altri due vennero impiccati e i loro cadaveri rimasero esposti per
giorni ai venti e agli enormi avvoltoi cileni, in cima alla collina
Santa Lucía. Un quarto venne decapitato in prigione, perché fece
valere i suoi titoli nobiliari evitando così di morire con la corda
al collo come un plebeo. Sorprendendo tutti, Valdivia perdonò di
nuovo Sancho de la Hoz, il principale istigatore alla rivolta. In
questa occasione mi opposi in privato alla sua decisione, perché
ormai le certificazioni reali non esistevano più, De la Hoz aveva
firmato un documento in cui rinunciava alla Conquista e Pedro era
il legittimo governatore del Cile. Quell'infame ci aveva già dato
abbastanza problemi. Non saprò mai perché decise ancora una volta
di salvargli la testa. Pedro si rifiutò di darmi spiegazioni e a
quei tempi avevo già imparato che con un uomo come lui è meglio non
insistere. Quell'anno di vicissitudini gli aveva inasprito il
carattere e perdeva il controllo con facilità. Dovetti tenere la
bocca chiusa.
Nella natura più splendida del mondo, nel profondo della fredda selva cilena, in quel silenzio di radici, cortecce e ramature odorose, all'altera presenza dei vulcani e delle vette della Cordigliera, nei pressi di laghi color smeraldo e fiumi spumeggianti di neve sciolta, le tribù mapuche si riunirono per una cerimonia speciale, un conclave di anziani, capistirpe, toquis, loncos, cioè capi tribù, machis, guerrieri, donne e bambini.
Le tribù arrivarono a poco a poco nella radura del bosco, un immenso anfiteatro in cima a una collina, che gli uomini avevano già delimitato con rami di araucaria e tasmannia aromatica, alberi sacri. Alcune famiglie avevano viaggiato per settimane sotto la pioggia per presentarsi all'appuntamento. I gruppi arrivati in anticipo avevano costruito le capanne – rucas – così ben mimetizzate nella vegetazione che a poche braccia di distanza non si vedevano. Quanti arrivarono più tardi, improvvisarono delle ramadas, tetti di foglie, e distesero le coperte di lana. Di sera prepararono del cibo da condividere con gli altri, bevvero chicha e muday, ma con moderazione per non perdere le forze. Si scambiarono visite per aggiornarsi sulle novità con lunghe narrazioni in tono poetico e solenne, ripetendo le storie dei loro clan tramandate di generazione in generazione. Parlare e ancora parlare, questa era la cosa più importante. Di fronte a ogni dimora tenevano un falò acceso e il fumo si mischiava alla nebbiolina che all'alba si sprigionava dalla terra. I piccoli falò ardevano nella nebbia illuminando il paesaggio lattiginoso dell'aurora. I giovani tornarono dal fiume, dove avevano nuotato nell'acqua gelida, e si pitturarono i volti con i colori rituali, giallo e blu. I cacicchi indossarono i loro manti di lana ricamata, celesti, neri, bianchi, si appesero al petto le toquicuras, asce di pietra, simbolo del potere, si coronarono di piume di aironi, nandù e condor, mentre le machis bruciavano erbe aromatiche e preparavano il rewe, scala spirituale per parlare con Ngenechén.
"Ti offriamo un piccolo zampillo di muday, come è d'uso, per alimentare lo spirito della Terra, che sempre ci segue. Ngenechén fece il muday, fece la Terra, fece la tasmannia aromatica, fece il capretto e il condor."
Le donne si intrecciarono i capelli con fili di lana colorata, celeste le nubili, rosso le maritate, si agghindarono con i loro manti più eleganti e i gioielli d'argento, mentre i bambini, anch'essi vestiti a festa, silenziosi e seri si sedettero in semicerchio. Gli uomini si allinearono come un unico corpo di legno, superbi, un fascio di muscoli, le nere chiome trattenute da lacci di stoffa, le armi in mano.
Ai primi raggi del sole ebbe inizio la cerimonia. I guerrieri corsero nell'anfiteatro gridando e brandendo le armi, mentre suonavano gli strumenti per spaventare le forze del male. Le machis sacrificarono diversi guanachi, dopo aver chiesto loro il permesso di offrire le loro vite al signore dio. Versarono un poco di sangue a terra, strapparono i cuori, li affumicarono con tabacco, poi li fecero a pezzettini e li distribuirono tra i toquis e i loncos, celebrando una comunione fra loro e la Terra.
"Signore Ngenechén, questo è il sangue puro degli animali, sangue tuo, che ci offri per darci la vita e farci muovere, padre dio, e dunque con questo sangue ti stiamo pregando di benedirci."
Le donne intonarono un canto malinconico e profondo, mentre gli uomini si diressero al centro dell'anfiteatro e lì danzarono, lenti, colpendo la terra coi piedi nudi al suono dei cultrunes – tamburi – e delle trutrucas.
"E salutiamo te, Madre della Gente. La Terra e la gente sono inseparabili. Tutto quanto accade alla Terra accade anche a noi. Madre, ti preghiamo di darci il pinolo che ci alimenta, ti preghiamo di non mandarci molta pioggia, perché i semi e la lana marciscono, e di non fare tremare il suolo né far sputare i vulcani, perché il bestiame rimane tramortito e i bambini si spaventano."
Anche le donne entrarono nel cerchio e iniziarono a ballare con gli uomini, agitando le braccia, le teste, i manti, come grandi uccelli. Subito la gente sentì l'effetto ipnotico di cultrunes, trutrucas e flauti, del ritmo dei piedi sulla terra umida, della potente energia della danza e a uno a uno tutti cominciarono a ululare con urla viscerali che si trasformarono in un lungo grido "oooooooooom, ooooooooom" che rimbalzò tra i monti, muovendo lo spirito. Nessuno poté sfuggire alla magia di quell'ooooooooooom.
"Ti stiamo chiedendo, signore dio, su questa Terra nostra, se lo vuoi, di aiutarci in ogni momento e ora ti chiediamo apertamente di ascoltarci. Ti stiamo chiedendo, signore dio, di non lasciarci soli, di non lasciarci brancolare nel buio, di dare molta forza alle nostre braccia per difendere la Terra dei nostri avi."
La musica e la danza si interruppero. I raggi del sole mattutino filtrarono tra le nubi, tingendo la nebbia di polvere d'oro. Il più anziano dei toquis, con una pelle di puma sulle spalle, si fece avanti per parlare per primo. Aveva viaggiato un'intera luna per essere lì a rappresentare la sua tribù. Non c'era fretta. Iniziò dai tempi più remoti, con la storia della creazione, di come il serpente Cai-Cai increspava il mare e le onde minacciavano di inghiottirsi i mapuche; e fu allora che il serpente Treng-Treng li salvò, portandoli sulla cima delle colline più alte, che fece crescere e crescere. E poi le acque calarono e gli uomini e le donne occuparono valli e boschi, senza dimenticare che gli alberi e le piante sono loro fratelli e vanno accuditi, e che ogni volta che si tagliano dei rami per fare un tetto, vanno ringraziati, e che quando si uccide un animale per poter mangiare, gli si chiede scusa e non si uccide mai per il gusto di uccidere. E i mapuche vissero liberi nella santa terra e quando giunsero gli inca dal Perú si riunirono per difendersi e li vinsero, non gli lasciarono attraversare il BíoBío, che è la madre di tutti i fiumi, ma le sue acque si tinsero di sangue e in cielo spuntò una luna rossa. Passò del tempo e vennero gli huincas dalle stesse strade degli inca. Erano tanti ed emanavano un odore molto forte che si sentiva a due giorni di distanza, ed erano ladri, non avevano patria né terra, prendevano ciò che non era loro, anche le donne, e pretendevano che i mapuche e altre tribù fossero loro schiavi. E i guerrieri dovettero ricacciarli indietro, ma ne morirono molti, perché le loro frecce e le lance non trapassavano i vestiti di metallo degli huincas mentre loro potevano uccidere da lontano semplicemente col rumore o con i loro cani. Comunque furono scacciati. Gli huincas se ne andarono via da soli, tanto erano codardi. Passarono diverse estati e diversi inverni e altri huincas arrivarono e questi, disse l'anziano toqui, vogliono rimanere, stanno tagliando gli alberi, costruendo le loro rucas, seminando il loro mais e ingravidando le nostre donne, per questo nascono bambini che non sono né huincas né gente della terra.
E a quanto ci racconta la nostra spia, vogliono impadronirsi della terra intera, dei vulcani, fino al mare, del deserto, fino a dove finisce il mondo, e vogliono fondare molti villaggi. Sono crudeli e il loro toqui, Valdivia, molto astuto. E io dico che i mapuche non hanno mai avuto nemici così potenti come i barbuti arrivati da lontano. Ora sono soltanto una piccola tribù, ma ne arriveranno degli altri, perché hanno case con ali che volano sul mare. E io chiedo ora alla gente di dire che cosa faremo.
Un altro dei toquis si fece avanti, brandì le armi saltando ed emise un lungo grido d'ira, poi annunciò che era pronto ad attaccare gli huincas, a ucciderli, a divorare il loro cuore per assimilare il loro potere, a bruciare le loro rucas, a sottrarre le loro donne, non c'era altra soluzione, tutti a morte. Quando finì di parlare, un terzo toqui occupò il centro dell'anfiteatro per spiegare che l'intero popolo mapuche doveva unirsi contro quel nemico e scegliere un toqui dei toquis, un ñidoltoqui per la guerra.
"Signore dio Ngenechén, ti chiediamo rettamente di aiutarci a vincere gli huincas, a stancarli, a infastidirli senza permettere loro di dormire né mangiare, a metter loro paura, a togliere loro le armi, a schiacciare loro il cranio con i nostri randelli, questo ti chiediamo signore dio."
Il primo toqui tornò a prendere la parola per dire che non dovevano avere fretta, bisognava combattere con pazienza, gli huincas erano come l'erba cattiva, quando la si taglia, torna a crescere con più vigore; quella sarebbe stata una guerra loro, dei loro figli e dei figli dei loro figli. Molto sangue mapuche e molto sangue huinca sarebbe stato versato, sino alla fine. I guerrieri alzarono le armi e un lungo coro di grida d'approvazione uscì dai loro petti. "Guerra! Guerra!" In quell'istante la pioggerellina cessò, le nubi si aprirono e un condor, magnifico, volò lentamente nello squarcio di cielo limpido.
Ai primi di settembre ci rendemmo conto che stava terminando il nostro primo inverno in Cile. Il clima migliorò e i giovani alberi che avevamo trapiantato dal bosco per sistemarli lungo le strade si riempirono di germogli. Quei mesi furono faticosi non solo per le incessanti scaramucce con gli indios e le cospirazioni di Sancho de la Hoz, ma anche per la sensazione di solitudine che spesso ci opprimeva. Ci domandavamo cosa stesse succedendo nel resto del mondo, se ci fossero state altre conquiste spagnole in altri territori, nuove invenzioni, che cosa ne fosse del nostro sacro imperatore, che stando alle ultime notizie giunte in Perú, un paio di anni prima, era mezzo suonato. La demenza scorreva nelle vene della sua famiglia, bastava ricordare la sua sfortunata madre, la pazza di Tordesillas. Da maggio a fine agosto le giornate erano state brevi, imbruniva verso le cinque e le notti erano eterne. Approfittavamo fino all'ultimo raggio di luce naturale per lavorare, poi dovevamo ritirarci in una stanza della casa – padroni, indios, cani e persino i volatili da cortile – con una o due candele e un braciere. Ognuno cercava qualcosa con cui distrarsi per passare le ore dopo il tramonto. Il cappellano organizzò un coro tra gli yanaconas per rafforzare la loro fede a suon di musica. Aguirre ci divertiva con le sue incredibili avventure da donnaiolo e i piccanti versi da soldato. Rodrigo de Quiroga, che all'inizio sembrava silenzioso e piuttosto timido, si fece più spigliato e si rivelò un ispirato narratore. Disponevamo di pochi libri e li conoscevamo a memoria, ma Quiroga prendeva i personaggi da una storia e li inseriva in un'altra con risultati assai divertenti. Tutti i libri della colonia, tranne due, comparivano sulla lista nera dell'Inquisizione e siccome le versioni di Quiroga erano parecchio più audaci degli originali, si trattava di un piacere peccaminoso e, di conseguenza, molto richiesto. Giocavamo anche a carte, vizio dal quale erano affetti tutti gli spagnoli, in special modo il nostro governatore, che godeva anche della protezione della fortuna. Non scommettevamo denaro, per evitare dispute, non dare il cattivo esempio alla servitù e per non mostrare quanto eravamo poveri. Si suonava la viella, si recitavano poesie, si conversava animatamente. Gli uomini ricordavano le loro battaglie e le loro avventure, celebrate dal pubblico. A Pedro veniva ripetutamente chiesto di raccontare le prodezze del marchese di Pescara; soldati e servi non si stancavano di lodare l'astuzia del marchese la volta in cui fece coprire i suoi soldati con bianche lenzuola così che si confondessero nel candore della neve.
I capitani si riunivano – anche a casa nostra – per discutere le leggi della colonia, questione di grande rilevanza per il governatore. Pedro desiderava che la società cilena si reggesse sulla legalità e lo spirito di servizio di chi la dirigeva; insisteva sul fatto che nessuno dovesse essere remunerato per l'incarico pubblico che ricopriva e tanto meno lui, dato che servire era un onere e un onore. Rodrigo de Quiroga condivideva appieno tale punto di vista, ma erano gli unici due animati da così alti ideali. Con le terre e le encomiendas che erano state ripartite tra i più valorosi soldati della Conquista c'era modo di vivere più che decorosamente in futuro, diceva Valdivia, benché al momento si trattasse solo di sogni, e chi avesse posseduto beni di entità maggiore, avrebbe avuto più doveri nei confronti del popolo.
I soldati si annoiavano perché, a parte far pratica d'armi, spassarsela con le loro ragazze e combattere quando capitava, le occupazioni non erano molte. Alla costruzione della città, alla semina, all'accudimento degli animali pensavamo noi donne e gli yanaconas. Per me, invece, il tempo non era mai abbastanza: dovevo provvedere ai lavori della casa e della colonia, occuparmi degli ammalati, dei campi e degli stabbi, imparare a leggere con González de Marmolejo e il mapudungu con Felipe.
La brezza fragrante della primavera ci portò un'ondata di ottimismo e ci lasciammo indietro il terrore scatenato poco prima dalle milizie di Michimalonko. Ci sentivamo più forti, nonostante il nostro numero si fosse ridotto a centoventi soldati, dopo il massacro di Marga-Marga e di Concón e l'esecuzione dei quattro traditori. Santiago uscì quasi indenne dal fango e dal vento dei mesi invernali, durante i quali ci era toccato togliere l'acqua coi secchi; le case avevano resistito e la gente era sana e salva. Persino i nostri indios, che morivano per un comune raffreddore, sopravvissero ai temporali senza gravi problemi. Arammo i campi e piantammo i semi che con tanta cura avevo preservato dalle gelate. Gli animali si erano già accoppiati e preparammo i recinti per i maialini, i puledri e i lama che sarebbero nati. Decidemmo che non appena si fosse asciugato il fango avremmo predisposto i canali d'irrigazione necessari e progettammo persino di costruire un ponte sul fiume Mapocho per unire la città con le haciendas che nel futuro sarebbero sorte nei dintorni, ma prima bisognava terminare la chiesa. La casa di Francisco de Aguirre contava già due piani e continuava a crescere; ci prendevamo gioco di lui perché aveva più indie e si dava più arie di tutti gli altri uomini messi insieme e, a quanto pareva, aspirava ad avere una residenza che superasse la chiesa in altezza. "Il basco si crede al di sopra di Dio" ridevano i soldati. Le donne di casa mia avevano trascorso l'inverno cucendo e insegnando ad altre i lavori domestici. Il morale degli spagnoli, sempre molto vanitosi, salì alla vista di camicie nuove, calzamaglie rammendate e giubbe ricucite. Persino Sancho de la Hoz, per una volta, smise di cospirare dalla sua cella. Il governatore annunciò che presto avrebbero ripreso la costruzione del brigantino, saremmo tornati ai lavaderos d'oro e avremmo cercato la miniera d'argento nominata dal curaca Vitacura, che si era rivelata quanto mai introvabile.
L'ottimismo primaverile non durò molto: durante i primi giorni di settembre il ragazzino indio, Felipe, giunse con la notizia che nella valle continuavano ad arrivare guerrieri nemici e che si stava formando un esercito. Cecilia mandò le sue serve a verificare ed esse confermarono ciò che Felipe sembrava sapere per semplice chiaroveggenza; aggiunse anche che ce n'erano all'incirca cinquecento accampati a quindici o venti leghe da Santiago. Valdivia riunì i più fedeli capitani e decise ancora una volta di dare un monito al nemico prima che potesse organizzarsi.
"Non andare, Pedro, ho un brutto presentimento"
lo pregai. "In questi casi hai sempre brutti presentimenti, Inés"
replicò con quel tono da padre accondiscendente che detestavo.
"Siamo abituati a combattere contro un numero cento volte
superiore, cinquecento selvaggi sono una cosa da ridere."
"Possono essercene altri nascosti da qualche parte."
"Con il favore di Dio, li sconfiggeremo, non
preoccuparti."
Mi sembrava piuttosto imprudente dividere le nostre forze, già così
esigue, ma chi ero io per poter muovere obiezioni sulla strategia a
un soldato navigato quanto lui? Ogni volta che tentavo di
dissuaderlo da una decisione militare, perché il buon senso così mi
indicava, diventava furioso e finivamo col litigare. In
quell'occasione non ero d'accordo, come non lo fui nemmeno dopo,
quando gli prese la febbre di fondare città che non potevamo
popolare né difendere. Tale cocciutaggine lo condusse alla morte.
"Le donne non possono pensare in grande, non immaginano il futuro,
sono prive di senso della Storia, possono occuparsi solo di
questioni domestiche e immediate" mi disse una volta, a questo
proposito, ma dovette ritrattare subito quando gli sciorinai
l'elenco di tutto ciò che io e le altre donne avevamo fatto per
quanto riguardava l'edificazione e la fondazione di
città.
Pedro lasciò a proteggere la città cinquanta soldati e cento
yanaconas agli ordini dei suoi migliori capitani, Monroy, Villagra,
Aguirre e Quiroga. Il distaccamento, di poco più di sessanta
soldati e il resto dei nostri indios, partì da Santiago all'alba,
con trombe, stendardi, colpi di archibugio e un enorme baccano per
dare l'impressione di essere un contingente più numeroso. Dalla
terrazza della casa di Aguirre, trasformata in torretta
d'avvistamento, li vedemmo allontanarsi. Era un giorno sereno e le
montagne innevate che circondavano la valle sembravano immense e
molto vicine. Al mio fianco si trovava Rodrigo de Quiroga, teso a
dissimulare la grande inquietudine che anch'io provavo.
"Non dovevano partire, don Rodrigo. Così Santiago è
indifesa."
"Il governatore sa quel che fa, doña Inés" replicò, non molto
convinto. "È meglio andare incontro al nemico per fargli capire che
non lo temiamo."
Quel giovane capitano, a mio modo di vedere, era l'uomo migliore
della nostra piccola colonia, dopo Pedro, ovviamente; era
coraggioso come nessun altro, esperto di guerra, capace di soffrire
in silenzio, leale e disinteressato; inoltre possedeva la rara
virtù di ispirare fiducia a tutti. Stava costruendo la sua casa su
un terreno vicino al nostro, ma era stato talmente occupato a
combattere nelle continue scaramucce con gli indios cileni che la
sua dimora consisteva semplicemente in pilastri, un paio di muri,
delle tele e un tetto di paglia. Era così poco accogliente che
passava molto tempo nella nostra, dato che la casa del governatore,
la più ampia e comoda della città, si era trasformata in sede delle
riunioni. Immagino che contribuisse al nostro successo in società
anche il mio impegno a non fare mai mancare vino e cibo. Rodrigo
era l'unico dei soldati a non disporre di un harem di concubine e
non andava a caccia delle indie degli altri per ingravidarle. La
sua compagna era Eulalia, una delle serve di Cecilia, una bella
ragazza quechua, nata nel palazzo di Atahualpa, che possedeva la
stessa grazia e la stessa dignità della sua padrona, la principessa
inca. Eulalia si era innamorata di Rodrigo dal primo momento in cui
lui si era unito alla spedizione. L'aveva visto arrivare sporco,
con barba e capelli incolti e vestito di stracci come gli altri
fantasmi sopravvissuti ai chunchos, ma ne era rimasta colpita al
solo sguardo, ancora prima che gli tagliassero la peluria e lo
lavassero. Si era data da fare. Con infinita astuzia e pazienza
aveva sedotto Rodrigo e poi era immediatamente venuta da me a
confidarmi le sue pene. Avevo interceduto presso Cecilia affinché
permettesse a Eulalia di servire Rodrigo, sostenendo che lei aveva
serve a sufficienza, mentre il pover'uomo era malridotto e solo, e
rischiava di morire senza le cure necessarie. Cecilia era troppo
sveglia per lasciarsi abbindolare, ma si commosse all'idea
dell'amore, lasciò libera la sua serva e così Eulalia andò a vivere
con Quiroga. La loro era una relazione delicata; lui la trattava
con una cortesia paterna e rispettosa, inusitata tra i soldati e le
loro ragazze, e lei rispondeva ai suoi minimi desideri con
prontezza e discrezione. Sembrava di carattere arrendevole, ma
sapevo, grazie a Catalina, che era appassionata e gelosa. Mentre
osservavamo insieme dalla terrazza oltre la metà delle nostre forze
che si allontanavano dalla città, mi domandavo come fosse Rodrigo
de Quiroga nell'intimità, se desse piacere a Eulalia. Conoscevo il
suo corpo perché avevo dovuto curarlo quando era arrivato distrutto
dalla selva dei chunchos e quando era stato ferito in qualche
scontro con gli indios, era magro, ma molto muscoloso. Non l'avevo
mai visto completamente nudo, ma secondo Catalina "dovrebbe vedere
il suo piripicho, señoray". Le donne di servizio, a cui nulla
sfugge, assicuravano che fosse molto ben dotato, invece Aguirre,
con tutta quella concupiscenza... vabbe', non importa. Ricordo che
il mio cuore ebbe un sussulto al pensiero di ciò che avevo sentito
dire di Rodrigo e arrossii così violentemente che lui lo
notò.
"Che cosa le succede, doña Inés?" mi domandò.
Mi congedai in fretta, turbata, e cominciai a dedicarmi ai lavori
del giorno mentre lui si dirigeva a compiere i suoi.
Due giorni dopo, la notte dell'11 settembre 1541, data che non ho mai più dimenticato, le truppe di Michimalonko e i loro alleati attaccarono Santiago. Come sempre mi capitava quando Pedro era assente, non riuscivo a dormire. Non provai neppure a coricarmi, spesso passavo le notti in bianco, e rimasi a cucire fino a tardi, dopo aver mandato a letto tutti. Come me, anche Felipe era insonne. Spesso durante le mie passeggiate notturne per la casa mi imbattevo nel ragazzo indigeno; lo trovavo in qualche luogo inatteso, immobile e silenzioso, al buio con gli occhi aperti. Era stato inutile assegnargli un pagliericcio o un luogo fisso per dormire, si sdraiava da qualsiasi parte, senza nemmeno una coperta con cui ripararsi. A quell'ora incerta che precede l'alba, sentii crescere l'inquietudine che mi stringeva la bocca dello stomaco da quando Pedro era partito. Avevo trascorso buona parte della notte a pregare, non per eccesso di fede, ma per paura. Parlare direttamente con la Vergine mi infonde sempre tranquillità, ma in quella lunga notte nemmeno lei riuscì a dissipare le nefaste premonizioni che mi tormentavano. Mi coprii con uno scialle e feci il mio solito percorso accompagnata da Baltasar che aveva l'abitudine di seguirmi come un'ombra, incollato alle mie caviglie. La casa era tranquilla. Non trovai Felipe ma non mi preoccupai, perché ogni tanto dormiva con i cavalli. Mi affacciai sulla piazza e notai la tenue luce di una torcia sul tetto della casa di Aguirre, dove era appostato un soldato di vedetta. Pensando che il poveretto fosse stremato dalla stanchezza dopo le molte ore di guardia solitaria, scaldai una scodella di brodo e gliela portai.
"Grazie, doña Inés. Lei non riposa?"
"Soffro d'insonnia. Ci sono novità?"
"No. È stata una notte tranquilla. Come vede, la luna illumina un
po'. "Cosa sono quelle macchie scure là, vicino al
fiume?"
"Ombre. È da un po' che le ho notate."
Rimasi a osservare per un momento e conclusi che era una
visione
strana, sembrava che una grande onda scura stesse uscendo dal fiume per congiungersi con un'altra proveniente dalla valle.
"Quelle presunte ombre non sono normali. Credo
che si debba avvisare il capitano Quiroga, che ha un'ottima
vista."
"Non posso abbandonare la mia postazione, signora."
"Andrò io."
Scesi a salti, seguita dal cane, e corsi verso la casa di Rodrigo
de Quiroga, sull'altro estremo della piazza, svegliai l'indio di
guardia, che dormiva di traverso sulla soglia che un giorno sarebbe
stata la porta, e gli ordinai di chiamare immediatamente il
capitano. Due minuti dopo apparve Rodrigo, mezzo svestito, ma con
gli stivali e la spada in mano. Attraversammo in fretta la piazza e
salimmo insieme sulla terrazza di Aguirre.
"Non c'è dubbio, doña Inés, quelle ombre sono masse di gente che
avanza in questa direzione. Giurerei che sono indios nascosti sotto
coperte scure."
"Cosa dice?" esclamai incredula, pensando al marchese di Pescara e
alle sue lenzuola bianche.
Rodrigo de Quiroga lanciò il segnale d'allarme e in meno di venti
minuti i cinquanta soldati, che da giorni erano sempre sul chi
vive, si riunirono nella piazza, con indosso armature ed elmi, e le
armi già pronte. Monroy organizzò la cavalleria – avevamo solo
trentadue cavalli – e la suddivise in due piccoli distaccamenti,
uno al suo comando e l'altro sotto quello di Aguirre, entrambi
decisi ad affrontare il nemico in campo aperto, prima che
riuscissero a penetrare nella città. Villagra e Quiroga, con gli
archibugieri e vari indios, rimasero a farsi carico della difesa
interna, mentre il cappellano, le donne e io dovevamo rifornire di
munizioni i soldati che ci difendevano, ed essere pronti a curarli.
Su suggerimento mio, Juan Gómez portò Cecilia, le due più floride
nutrici indie e i lattanti della colonia nella cantina di casa
nostra, che avevamo scavato sotto terra con l'idea di
immagazzinarvi viveri e vino. Consegnò a sua moglie la statuetta di
Nuestra Señora del Socorro, si congedò da lei con un lungo bacio
sulla bocca, benedisse suo figlio, chiuse la cantina con delle
tavole e dissimulò l'accesso con palate di terra. Non trovò altro
modo di proteggerli che seppellirli vivi.
Era l'alba dell'11 settembre. Il cielo era limpido e il timido sole
di primavera illuminava il profilo della città nel momento in cui
si iniziarono a udire il terrificante grido e le urla di migliaia
di indigeni che si lanciavano in massa contro di noi. Capimmo che
eravamo caduti in una trappola, i selvaggi erano molto più astuti
di quanto pensassimo. Il drappello di cinquecento nemici, che
teoricamente formavano il contingente che minacciava Santiago, era
solo un'esca per attirare lontano Valdivia con gran parte delle
nostre forze, mentre migliaia e migliaia di guerrieri, nascosti nei
boschi, approfittavano del buio della notte per avvicinarsi
nascosti da coperte scure.
Sancho de la Hoz, che da mesi marciva in una cella, iniziò a
reclamare di essere liberato e di poter avere una spada. Monroy
calcolò che c'era disperato bisogno di tutte le braccia, comprese
quelle di un traditore, e ordinò di togliergli i ceppi. Debbo
lasciare testimonianza del fatto che quel giorno il cortigiano si
batté con la stessa fierezza degli altri eroici capitani.
"Quanti indios calcoli che stiano arrivando, Francisco?" domandò
Monroy ad Aguirre.
"Non tanti da spaventarci, Alonso! All'incirca otto o
diecimila..."
I due drappelli della cavalleria uscirono al galoppo ad affrontare
i primi attaccanti come centauri furiosi, pronti a mozzare teste e
membra a sciabolate, a far scoppiare i polmoni a suon di calci di
cavallo. In meno di un'ora, tuttavia, dovettero ripiegare. Nel
frattempo migliaia di altri indios avevano già iniziato a correre
per le strade di Santiago urlando. Alcuni yanaconas e diverse
donne, esercitatisi per mesi sotto l'occhio di Rodrigo de Quiroga,
caricavano gli archibugi per consentire ai soldati di sparare, ma
era un procedimento lungo e laborioso e il nemico ci era già
addosso. Le madri delle creature che Cecilia accudiva nella cantina
si rivelarono più coraggiose degli esperti soldati perché
combattevano per la vita dei loro bambini. Una pioggia di frecce
incendiarie cadde sui tetti delle case e la paglia, nonostante
fosse umida per le piogge d'agosto, prese fuoco. Capii che noi
donne dovevamo lasciare gli uomini con i loro archibugi per
dedicarci a spegnere l'incendio. Formammo delle file per passarci i
secchi d'acqua, ma ben presto ci accorgemmo che era un lavoro
inutile, le frecce continuavano a cadere e per spegnere l'incendio
non potevamo sprecare l'acqua disponibile, visto che nel giro di
poco i soldati ne avrebbero avuto disperato bisogno. Abbandonammo
le case della periferia e iniziammo a riunirci nella plaza de
Armas.
A quel punto cominciarono ad arrivare i primi feriti, alcuni
soldati e diversi yanaconas. Catalina, le mie donne e io eravamo
riuscite a organizzarci con gli strumenti di sempre, stracci,
tizzoni, acqua e olio bollente, vino per disinfettare e muday per
aiutare a sopportare il dolore. Altre donne stavano preparando
pentole di zuppa, zucche con acqua e tortillas di mais perché la
battaglia sarebbe durata a lungo. Il fumo della paglia che ardeva
coprì la città, respiravamo a fatica e ci bruciavano gli occhi.
Arrivavano gli uomini sanguinanti e curavamo loro le ferite
visibili perché non c'era il tempo per togliere le armature, davamo
loro una scodella d'acqua o di brodo e appena riuscivano a reggersi
di nuovo in piedi riprendevano a combattere. Non so quante volte la
cavalleria avesse affrontato il nemico, ma giunse il momento in cui
Monroy decise che non si poteva più difendere la città intera, che
stava bruciando sui quattro lati, mentre gli indios stavano già
occupando quasi tutta Santiago. Discusse brevemente con Aguirre e
decisero di ripiegare con i loro drappelli per disporre di tutte le
nostre forze nella piazza, dove, su uno sgabello, si era sistemato
il vecchio don Benito. Grazie alle stregonerie di Catalina la
ferita si era cicatrizzata, ma era debole e non riusciva a reggersi
in piedi a lungo. Disponeva di due archibugi e di uno yanacona che
lo aiutava a caricarli e durante quella lunga giornata dalla sua
sedia di invalido fece strage di nemici. Sparò talmente tanto che
gli si bruciarono i palmi delle mani a causa delle armi
incandescenti.
Mentre all'interno della casa mi prendevo cura dei feriti, un gruppo di assalitori riuscì a scalare il muro di mattoni del cortile. Catalina diede l'allarme strillando come un maiale e corsi a vedere cosa stava succedendo; ma non arrivai lontano perché i nemici erano così vicini che avrei potuto contare i denti di quelle facce pitturate e feroci. Rodrigo de Quiroga e González de Marmolejo, che aveva indossato il pettorale di un'armatura e brandiva una spada, accorsero per respingerli, visto che era fondamentale proteggere la mia casa dove c'erano i feriti e i bambini, rifugiatisi con Cecilia in cantina. Alcuni indios affrontarono Quiroga e Marmolejo, mentre altri bruciavano i raccolti e uccidevano i miei animali domestici. E fu questo a farmi uscire dai gangheri: avevo accudito ognuno di quegli animali come i figli che non avevo avuto. Con un ruggito che mi uscì dalle viscere, mi diressi contro gli indigeni pur priva dell'armatura che Pedro mi aveva regalato, non potevo certo occuparmi dei feriti imprigionata dentro tutto quel ferro. Credo che i capelli mi si fossero rizzati mentre sputavo schiuma e maledizioni, come un'arpia, e probabilmente il mio aspetto era davvero minaccioso visto che i selvaggi si fermarono un momento e poi indietreggiarono di qualche passo, sorpresi. Mi chiedo ancora perché non decisero di fracassarmi la testa con una randellata, lì per lì. Mi riferirono poi che Michimalonko aveva ordinato di non toccarmi, perché mi voleva per sé, ma queste sono storie che la gente inventa dopo, per spiegarsi l'inspiegabile. In quell'istante si avvicinarono Rodrigo de Quiroga, che faceva mulinare la spada al di sopra della sua testa gridandomi di mettermi in salvo, e il mio cane Baltasar, che digrignava e latrava con il muso infossato e i canini in bella vista, come la belva che non era affatto in circostanze normali. Gli assalitori fuggirono veloci come fulmini, inseguiti dal mastino, e io rimasi, completamente desolata, in mezzo al mio orto in fiamme e ai corpi morti dei miei animali, Rodrigo mi prese per un braccio per obbligarmi a seguirlo, ma vedemmo un gallo con le piume bruciacchiate che cercava di rimettersi sulle zampe. Senza pensarci su, sollevai le gonne e ce lo misi dentro, come in una borsa. Poco più in là c'era un paio di galline stordite dal fumo che non feci fatica a catturare e mettere insieme al gallo. Catalina venne a cercarmi e, una volta capito cosa stavo facendo, mi aiutò. Riuscimmo così a salvare anche una coppia di maiali e alcune manciate di grano, nient'altro, e sistemammo il tutto al riparo. Rodrigo e il cappellano erano già tornati in piazza a combattere con gli altri.
Catalina, diverse indie e io ci occupavamo dei feriti che in numero allarmante arrivavano nell'improvvisato ospedale in casa mia. Eulalia giunse sorreggendo un fante ricoperto di sangue dalla testa ai piedi. "Dio mio, questo non ha speranze" pensai, ma una volta tolto l'elmo vedemmo che, nonostante la profonda ferita alla fronte, l'osso non era rotto, solo un po' rientrato. Catalina e altre donne gli cauterizzarono la ferita, gli lavarono la faccia e gli diedero acqua da bere, ma non riuscirono a farlo riposare un solo momento. Intontito e mezzo cieco perché le palpebre gli si erano mostruosamente gonfiate, barcollando, ritornò verso la piazza. Nel frattempo stavo tentando di estrarre una freccia dal collo di un soldato, un tal López, che mi aveva sempre trattato con sdegno malcelato, in modo particolare dopo la tragedia di Escobar. Il poveretto era pallidissimo e la freccia era penetrata talmente in profondità che non avrei potuto estrarla senza allargare la ferita. Stavo calcolando se potevo correre un tale rischio, quando l'infelice prese a tremare in preda a violenti spasimi. Mi resi conto che non potevo fare nulla per lui e chiamai il cappellano, che accorse subito per dargli l'estrema unzione. Buttati a terra, nella stanza, c'erano molti feriti che non erano in grado di tornare a combattere; dovevano essere perlomeno venti, la maggior parte dei quali yanaconas. Gli stracci finirono e Catalina strappò le lenzuola che avevamo ricamato con amore e precisione durante le oziose serate d'inverno, poi tagliammo a strisce le sottane e alla fine il mio unico abito elegante. In quell'istante entrò Sancho de la Hoz, carico di un altro soldato che lasciò ai miei piedi. Il traditore e io ci scambiammo un'occhiata con la quale ci perdonammo le offese del passato. Al coro di urla degli uomini cauterizzati con ferro e tizzoni ardenti si univano i nitriti dei cavalli, perché proprio lì il fabbro rimetteva in sesto le bestie ferite. Sul pavimento di terra battuta si mescolava il sangue dei cristiani a quello degli animali.
Senza scendere dal suo destriero, insanguinato dalla testa alle staffe, Aguirre si affacciò alla porta ad annunciare che aveva ordinato l'evacuazione di tutte le case, salvo quelle che davano sulla piazza, dove ci saremmo predisposti a difenderci fino alla morte.
"Scenda, capitano, debbo dare un'occhiata alle
ferite!" riuscii a consigliargli.
"Non ho nemmeno un graffio, doña Inés! Portate acqua ai soldati
della piazza!" mi gridò con feroce allegria e si allontanò chino
sul suo cavallo, che come lui sanguinava da un fianco.
Ordinai a svariate donne di portare acqua e tortillas ai soldati
che dall'alba combattevano senza tregua, mentre Catalina e io
toglievamo al cadavere di López l'armatura e, così com'erano,
impregnate di sangue, indossai la cotta di maglia e la corazza.
Presi la spada di López, perché non riuscii a trovare la mia, e
uscii nella piazza. Il sole da tempo aveva cambiato di punto
cardinale, dovevano essere all'incirca le tre o le quattro del
pomeriggio, calcolai che era da più di dieci ore che combattevamo.
Mi guardai intorno e mi resi conto che Santiago stava bruciando
senza speranze, il lavoro di mesi era andato perduto, era la fine
del nostro sogno di colonizzare la valle. Nel frattempo Monroy e
Villagra avevano ripiegato con i soldati sopravvissuti e
combattevano a cavallo all'interno della piazza, difesa
compattamente dalla nostra gente e attaccata dalle quattro strade
di accesso. Rimanevano in piedi una parte della chiesa e la casa di
Aguirre", dove si trovavano i sette cacicchi prigionieri. Don
Benito, nero di polvere da sparo e fuliggine, dal suo sgabello
sparava con metodo, prendendo la mira con cura prima di premere il
grilletto, come se fosse andato a caccia di quaglie. Lo yanacona
che prima caricava l'arma giaceva immobile ai suoi piedi e al suo
posto si era sistemata Eulalia. Capii che la ragazza era rimasta in
piazza tutto il tempo per non perdere di vista l'amato Rodrigo.
Al di sopra del frastuono degli spari, dei nitriti, dei latrati e delle grida di battaglia, percepii nitidamente le voci dei sette cacicchi che incitavano a squarciagola la loro gente. Non so allora che cosa mi sia successo. Spesso ho ripensato a quel fatidico 11 settembre e ho cercato di comprendere gli eventi, ma credo che nessuno possa descrivere con precisione cosa accadde, tutti i presenti hanno fornito una versione differente, coerente con quello che a loro singolarmente capitò. Era densa la nuvola di fumo, tremenda la confusione, assordante il rumore. Eravamo sconvolti, stavamo lottando per le nostre vite, impazziti per il sangue e la violenza. Non posso ricordare nei dettagli le mie azioni di quel giorno, per forza di cose debbo fidarmi di quanto mi è stato raccontato. Ricordo, questo sì, che in nessun momento provai paura perché l'ira si era completamente impadronita di me.
Rivolsi lo sguardo verso la cella, da dove provenivano le grida dei prigionieri e, nonostante il fumo dell'incendio, distinsi con assoluta chiarezza mio marito, Juan de Málaga, che fin da quando ero a Cuzco talvolta mi appariva come un'anima in pena: appoggiato alla porta, mi guardava con i suoi compassionevoli occhi da spirito errabondo. Mi fece un cenno con la mano, come per chiamarmi. Mi feci largo tra soldati e cavalli, cercando di valutare con una parte della mente le catastrofiche conseguenze e con l'altra obbedendo all'ordine muto del mio defunto marito. La cella non era che una stanza improvvisata al primo piano della casa di Aguirre e la porta consisteva in una serie di assi con una sbarra esterna, sorvegliata da due giovani sentinelle che erano state istruite per difendere i prigionieri a costo della loro stessa vita, visto che rappresentavano la nostra unica carta per negoziare con il nemico. Non mi fermai a chiedere loro il permesso, mi limitai a spostarli di lato con uno spintone e con una sola mano sollevai la pesante spranga, aiutata da Juan de Málaga. Le guardie mi seguirono all'interno, senza il proposito di affrontarmi e senza immaginare le mie intenzioni. La luce e il fumo filtravano dalle fessure, rendendo l'aria soffocante, e una polvere rossiccia si sollevava da terra, conferendo alla scena contorni confusi, ma riuscii a vedere i sette prigionieri incatenati a grossi pali che si dimenavano come diavoli per quanto i ferri glielo permettessero e che ululavano a pieni polmoni per incitare la loro gente. Quando mi videro entrare con il fantasma sanguinante di Juan de Málaga, tacquero.
"Uccideteli tutti!" ordinai alle guardie con
una voce che era impossibile riconoscere come mia.
Sia i prigionieri, sia le sentinelle rimasero
pietrificati.
"Vuole che li uccidiamo, signora? Ma sono gli ostaggi del
governatore!"
"Uccideteli ho detto!"
"E come vuole che procediamo?" domandò uno dei soldati,
spaventato.
"Così!"
E allora sollevai la pesante spada a due mani e la scaricai con la
forza dell'odio sul cacicco che mi era più vicino, mozzandogli il
capo con un solo fendente. La forza impressa al colpo mi fece
cadere a terra in ginocchio, dove un fiotto di sangue mi raggiunse
in volto mentre la testa rotolava ai miei piedi. Il resto non lo
ricordo bene. Una delle guardie successivamente assicurò che
decapitai allo stesso modo gli altri sei prigionieri, ma l'altra
disse che le cose non andarono così, che furono loro a completare
il lavoro. Non ha importanza. Il fatto è che nel giro di pochi
minuti per terra c'erano sette teste. Che Dio mi perdoni. Ne presi
una per i capelli, uscii in piazza con falcate da gigante, salii
sui sacchi di sabbia che fungevano da barricate e lanciai il mio
orrendo trofeo in aria con una forza inaudita e un terribile grido
di trionfo, che risalì dal fondo della terra, mi attraversò
interamente e fuoriuscì vibrando come un tuono dal mio petto. La
testa volò, fece diverse giri su se stessa e atterrò in mezzo agli
indios. Non mi fermai a vedere che effetto aveva sortito, ritornai
nella cella, ne presi altre due e le lanciai dalla parte opposta
della piazza. Credo che siano state le guardie a portarmi le altre
quattro, ma neanche di ciò sono sicura, forse andai io a prenderle.
So solo che non mi vennero meno le forze per scagliarle in aria.
Prima che lanciassi l'ultima, una strana quiete calò sulla piazza,
il tempo si fermò, il fumo si diradò e vedemmo che gli indios,
muti, atterriti, iniziavano a indietreggiare, uno, due, tre passi,
travolgendosi per scappare di corsa, abbandonando quelle strade che
avevano già conquistato.
Trascorse un tempo che mi sembrò eterno, o forse solo un istante.
L'angoscia mi colse all'improvviso, le ossa mi si ridussero in
spuma e allora mi risvegliai dall'incubo ed ebbi modo di rendermi
conto dell'orrore commesso, mi vidi come mi stava vedendo la gente
intorno a me: un demonio scarmigliato, ricoperto di sangue, ormai
privo di voce dal tanto gridare. Le ginocchia mi cedettero, sentii
una mano intorno alla vita e Rodrigo de Quiroga che mi prendeva in
braccio, stringendomi contro la sua dura armatura, facendomi
attraversare la piazza circondata dal più profondo stupore.
Santiago della Nuova Estremadura si salvò, benché ormai non fosse che pali bruciati e desolazione. Della chiesa rimaneva solo qualche pilastro, della mia casa quattro mura annerite, quella di Aguirre era rimasta più o meno in piedi e tutto il resto era solo cenere. Avevamo perso quattro soldati, gli altri erano feriti, alcuni dei quali gravemente. La metà degli yanaconas erano morti nel combattimento e altri cinque sarebbero deceduti nei giorni successivi a causa delle infezioni e del dissanguamento. Le donne e i bambini erano incolumi perché gli aggressori non avevano scoperto la cantina di Cecilia. Non contai né cavalli né cani, ma degli animali domestici erano sopravvissuti solo il gallo, le due galline e la coppia di maiali che avevamo salvato io e Catarina. Di semi praticamente non ce n'erano più, avevamo solo quattro pugni di frumento.
Come tutti gli altri, anche Rodrigo de Quiroga credeva che nel corso della battaglia avessi perso completamente il senno. Mi portò in braccio fino alle rovine della mia casa, dove ancora era in funzione l'improvvisata infermeria, e mi appoggiò con delicatezza a terra. Aveva un'espressione di tristezza e di infinita fatica quando si congedò da me con un leggero bacio sulla fronte e tornò in piazza. Catalina e un'altra donna mi tolsero la corazza, la cotta di maglia e il vestito zuppo di sangue in cerca delle ferite che non avevo riportato. Mi lavarono come poterono con acqua e una manciata di crini di cavallo a mo' di spugna, perché non avanzavano più stracci, e mi obbligarono a bere mezza tazza di liquore. Vomitai un liquido rossastro, come se la bevanda inghiottita avesse contenuto anche del sangue.
La baraonda delle molte ore di battaglia fu seguita da un silenzio sepolcrale. Gli uomini non riuscivano a muoversi; caddero nel punto in cui si trovavano e lì rimasero, insanguinati, coperti di fuliggine, polvere e cenere, finché le donne non li raggiunsero per dar loro da bere, per togliere le armature e aiutarli a rialzarsi. Il cappellano percorse la piazza per fare il segno della croce sulle fronti dei morti e per chiudere loro gli occhi, poi a uno a uno si mise sulle spalle i feriti e li condusse nell'infermeria. Il nobile cavallo di Francisco de Aguirre, ferito mortalmente, si reggeva solo per forza di volontà sulle zampe tremanti; quando grazie alla collaborazione di alcune donne il cavaliere riuscì a scendere, abbassò la cervice e prima di stramazzare a terra morì. Aguirre aveva riportato diverse ferite superficiali, ma i crampi gli procuravano una tale rigidità che non riuscirono a togliergli né l'armatura né le armi; fu necessario lasciarlo in un angolo per più di mezz'ora finché non fu in grado di recuperare l'uso degli arti. Il fabbro dovette segare la lancia alle due estremità per potergliela togliere dalla mano rattrappita e riuscimmo a svestirlo solo unendo le forze di numerose donne, perché oltre a essere gigantesco era ancora rigido come una statua di bronzo. Monroy e Villagra, in migliori condizioni rispetto ad altri capitani e infiammati dalla contesa, ebbero la peregrina idea di inseguire con alcuni soldati gli indios che fuggivano disordinatamente, ma non trovarono un solo cavallo in condizioni di fare un passo né un solo uomo che non fosse ferito.
Juan Gómez aveva combattuto come un leone pensando per tutto il giorno a Cecilia e al bambino, sepolti sotto casa mia, e non appena terminò quel putiferio corse ad aprire la cantina. Disperato, spostò la terra con le mani perché non riuscì a trovare una pala, gli aggressori si erano portati via tutto. Allontanò le assi tutto d'un fiato e si affacciò su una cavità nera e silenziosa.
"Cecilia! Cecilia!" gridò inorridito.
E allora la voce limpida di sua moglie dal
fondo gli rispose: "Finalmente sei arrivato, Juan, iniziavo ad
annoiarmi".
Le tre donne e i bambini erano sopravvissuti per più di dodici ore
sotto terra, completamente al buio, con pochissima aria, senza
acqua e senza sapere cosa stesse succedendo fuori. Cecilia aveva
affidato alle nutrici il compito di attaccarsi al seno a turno i
neonati per l'intera giornata, mentre lei, ascia alla mano, si era
predisposta a difenderle. La cavità non si era riempita di fumo per
opera e grazia di Nuestra Señora del Socorro, o forse le palate di
terra con cui Juan Gómez aveva tentato di dissimulare l'entrata
l'avevano sigillata.
Monroy e Villagra decisero di mandare quella notte stessa un
messaggero per informare Pedro de Valdivia del disastro, ma
Cecilia, che era riemersa dal sotterraneo dignitosa e bella come
sempre, obiettò che nessun messaggero sarebbe sopravvissuto a una
simile missione, dato che la valle brulicava di indios ostili. I
capitani, poco avvezzi a dare ascolto a una donna, non le fecero
caso.
"Chiedo a lorsignori di ascoltare mia moglie. La sua rete di
informazioni si è sempre rivelata utile" intervenne Juan
Gómez.
"Che cosa suggerisce, doña Cecilia?" domandò Rodrigo de Quiroga, a
cui avevamo cauterizzato due ferite ed era provato dalla stanchezza
e dall'emorragia.
"Un uomo non riuscirà a passare le linee nemiche..."
"Suggerisce di inviare un piccione viaggiatore?" la interruppe
Villagra in tono canzonatorio.
"Donne. E non solo una, ma diverse. Conosco molte donne quechua
nella valle, saranno loro a portare, di bocca in bocca il messaggio
al governatore, più veloci di un piccione viaggiatore" assicurò la
principessa inca.
Siccome non c'era tempo per lunghe discussioni, decisero di inviare
il messaggio sia seguendo la proposta di Cecilia sia mediante uno
yanacona, svelto come una lepre, che avrebbe cercato di raggiungere
Valdivia attraversando la valle di notte. Mi dispiace dover
riferire che, all'alba, quel fedele servitore fu sorpreso è ucciso
con un colpo di mazza. Meglio non pensare cosa gli sarebbe capitato
se fosse caduto vivo nelle mani di Michimalonko. Il cacicco doveva
essere furioso per la sconfitta delle sue truppe; come spiegare
agli indomiti mapuche del Sud che un manipolo di barbuti aveva
bloccato l'avanzata di ottomila dei suoi guerrieri? E tanto meno
poteva menzionare una strega che lanciava teste di cacicchi in aria
come se fossero meloni. Gli avrebbero dato del codardo, il peggior
insulto per un guerriero, e il suo nome non sarebbe stato ricordato
nella tradizionale epica orale delle tribù, ma solo in storie
burlesche. Grazie al sistema di Cecilia nel giro di ventisei ore il
messaggio aveva raggiunto il governatore. La notizia volò in lungo
e in largo nella valle, attraversò boschi e montagne e raggiunse
Valdivia, che si spostava da una parte all'altra con i suoi uomini
cercando invano Michimalonko, senza rendersi conto di essere stato
ingannato.
Dopo aver fatto un giro di ricognizione per le rovine di Santiago,
Rodrigo de Quiroga comunicò a Monroy il calcolo delle perdite e
venne a trovarmi. In luogo del basilisco demente che poco prima
aveva depositato in infermeria mi ritrovò più o meno ripulita e
lucida come sempre, intenta a curare i numerosi feriti.
"Dona Inés... grazie all'Altissimo..." mormorò sul punto di
scoppiare a piangere di sfinimento.
"Si tolga l'armatura, don Rodrigo, la dobbiamo curare"
replicai.
"Avevo pensato che... Dio mio! Lei ha salvato la città, doña Inés.
Lei ha messo in fuga i selvaggi..."
"Non dica cose del genere. Sarebbe ingiusto nei confronti di questi
uomini, che hanno combattuto valorosamente, e di queste donne che
li hanno supportati."
"Le teste... si dice che le teste siano tutte cadute con gli occhi
rivolti verso gli indios e che questi, credendo si trattasse di un
nefasto presagio, abbiano allora deciso di darsi alla
fuga."
"Non so di quali teste mi stia parlando, don Rodrigo. Lei mi pare
molto confuso. Catalina, su! Aiutalo a togliersi l'armatura."
Durante quelle ore ebbi modo di valutare le conseguenze delle mie azioni. Lavorai senza posa e senza fiato per tutta la prima notte e la mattina successiva occupandomi dei feriti e cercando di salvare il salvabile delle case bruciate, ma una parte della mia mente intesseva un dialogo continuo con la Vergine, cui chiedevo di intercedere per il crimine da me commesso, e con Pedro. Preferivo non immaginare la sua reazione alla vista della distruzione di Santiago e davanti all'evidenza di non poter più contare sui suoi sette ostaggi, situazione che ci metteva alla mercé dei selvaggi, visto che eravamo privi di qualsiasi strumento per negoziare. Come spiegargli cosa avevo compiuto se nemmeno io ero in grado di capirlo? Dirgli che ero impazzita e che non ricordavo neanche bene cosa fosse successo era una giustificazione assurda e inoltre ero mortificata per il grottesco spettacolo che avevo dato di fronte ai suoi capitani e soldati. Finalmente, verso le due del pomeriggio del 12 settembre, la fatica mi vinse e riuscii a dormire qualche ora, sdraiata a terra di fianco a Baltasar, tornato all'alba trascinandosi su una zampa rotta e con le fauci insanguinate. I tre giorni successivi volarono in un soffio lavorando per rimuovere le macerie, spegnere gli incendi e fortificare la piazza, l'unico luogo in cui avremmo potuto difenderci da un altro attacco che prevedevamo imminente. Catalina e io avevamo anche deciso di rovistare nei solchi bruciati e tra la cenere dei campi in cerca di qualsiasi cosa commestibile da aggiungere alla zuppa. Una volta consumato il cavallo di Aguirre, ci rimase ben poco da mangiare; eravamo tornati ai tempi della pentola comune, solamente che ora al suo interno bollivano acqua ed erbe e i miseri tuberi che eravamo riusciti a dissotterrare.
Al quarto giorno Pedro de Valdivia arrivò con un distaccamento di quattordici soldati di cavalleria, mentre i fanti lo seguivano il più in fretta possibile. In sella a Sultán, il governatore entrò tra le rovine di quella che prima chiamavamo città e calcolò con una sola occhiata la gravità del disastro. Passò per le strade, in cui ancora si alzavano deboli colonne di fumo a indicare dove c'erano state le case, entrò nella piazza e trovò la scarsa popolazione vestita di stracci, affamata, spaventata, i feriti per terra con bendaggi sporchi e i suoi capitani, miserabili come l'ultimo degli yanaconas, che soccorrevano la gente. Una sentinella suonò la cornetta e con un terribile sforzo quanti riuscirono ad alzarsi in piedi si schierarono per salutare il capitano generale. Io rimasi indietro, mezzo nascosta da alcuni teli; da lì vidi Pedro e la mia anima ebbe un sussulto d'amore, tristezza e fatica. Smontò da cavallo in mezzo alla piazza e, prima di andare ad abbracciare gli amici, percorse con lo sguardo la scena di desolazione, pallido, cercandomi. Feci un passo in avanti, per fargli vedere che ero ancora viva, i nostri sguardi si incrociarono e allora la sua espressione e il colore cambiarono. Si rivolse ai soldati con quella sua voce, della ragione e dell'autorità, a cui nessuno resisteva, per rendere onore al coraggio di ognuno di loro, soprattutto di quanti erano caduti combattendo, e per ringraziare l'apostolo Santiago per aver salvato il resto delle persone. La città non aveva alcuna importanza, perché c'erano braccia e cuori forti per ricostruirla dalle ceneri. Avremmo dovuto ricominciare da capo, disse, ma ciò non poteva essere motivo di avvilimento, ma solo di entusiasmo per dei vigorosi spagnoli, che mai si davano per vinti, e per i leali yanaconas. "Santiago e Spagna!" esclamò alzando la spada. "Santiago e Spagna!" risposero all'unisono in modo disciplinato i suoi uomini, benché il tono tradisse un profondo scoramento.
Quella notte, sdraiati sulla dura terra, senz'altro riparo che una coperta immonda, con uno spicchio di luna che spuntava sulle nostre teste, scoppiai a piangere per la fatica tra le braccia di Pedro. Aveva già avuto modo di ascoltare diversi resoconti della battaglia e del ruolo che in essa avevo svolto; ma, contrariamente a quanto temevo, era orgoglioso di me, tanto quanto lo era, secondo ciò che mi disse, persino l'ultimo soldato di Santiago, che senza di me avrebbe perso la vita. Le versioni che gli avevano fornito erano esagerate, non c'è dubbio, ma così iniziò a prendere corpo la leggenda che avessi salvato la città.
"È vero che hai decapitato tu stessa i sette cacicchi?" mi aveva chiesto
Pedro non appena ci eravamo trovati da
soli.
"Non lo so" gli avevo risposto onestamente.
Pedro non mi aveva mai visto piangere, non ho la lacrima facile, ma
in
quella prima occasione non tentò di consolarmi, si limitò ad accarezzarmi con quella tenerezza distratta che a volte usava con me. Il suo profilo sembrava pietrificato, la bocca dura, lo sguardo fisso al cielo.
"Ho paura, Pedro" singhiozzai.
"Di morire?"
"Di tutto tranne che di morire, deve ancora passare parecchio
tempo
prima che diventi vecchia."
Rise seccamente per l'allusione a una nostra
storiella privata: che avrei sepolto molti mariti e sarei sempre
stata una vedova appetibile.
"Gli uomini vogliono tornare in Perú, ne sono certo, anche se
nessuno osa dirlo per paura di sembrare codardo. Si sentono
sconfitti."
"E tu cosa vuoi, Pedro?"
"Fondare il Cile insieme a te" rispose senza pensarci su due
volte.
"Allora è quel che faremo."
"È quel che faremo, Inés dell'anima mia..."
La mia memoria del passato remoto è molto vivida e potrei
raccontare passo per passo tutto ciò che è successo nei primi venti
o trenta anni della nostra colonia in Cile, ma non c'è tempo,
perché la Morte, quella buona madre, mi chiama e voglio seguirla
per riposare finalmente tra le braccia di Rodrigo. I fantasmi del
passato mi circondano. Juan de Málaga, Pedro de Valdivia, Catalina,
Sebastián Romero, mia madre e mia nonna, sepolte a Plasencia, e
molti altri acquistano contorni sempre più netti e sento le loro
voci sussurrare nei corridoi della mia casa. I sette cacicchi
decapitati probabilmente sono ben sistemati o in cielo o
all'inferno, perché non sono mai venuti a tormentarmi. Non sono
rimbecillita come spesso succede agli anziani, sono ancora forte e
la mia testa è ben piantata sulle spalle, ma ormai ho un piede
nella fossa ed è per questo che vedo, osservo e ascolto ciò che ad
altri sfugge. Ti inquieti, Isabel, quando parlo così; mi consigli
di pregare, un rimedio che pacifica l'anima, dici. La mia anima è
calma, non ho paura di morire, non l'avevo allora quando era del
tutto ragionevole averla, e tanto meno posso averla adesso, quando
ho già vissuto più che a sufficienza. Tu sei l'unica cosa che mi
trattiene a questo mondo; ti confesso di non avere la benché minima
curiosità di vedere i miei nipoti crescere e soffrire, preferisco
serbare il ricordo delle loro risate infantili. Prego per
abitudine, non come rimedio contro l'angoscia. La fede non mi ha
abbandonata, ma il mio rapporto con Dio negli anni è cambiato. A
volte, senza pensarci, lo chiamo Ngenechén e confondo Nuestra
Señora del Socorro con la Santa Madre Terra dei mapuche, ma non
sono meno cattolica di prima – Dio non voglia! – è solo che il
cristianesimo mi rimane un po' stretto, come succede agli indumenti
di lana dopo il molto uso. Mi restano poche settimane di vita, lo
so perché talvolta il mio cuore si dimentica di battere, mi gira la
testa, mi capita di cadere e ho poco appetito. Non è vero che sto
cercando di morire di fame solo per farti dispiacere, come mi
accusi, figlia mia, è il cibo che sa di sabbia e non riesco a
inghiottirlo, per questo mi alimento unicamente di sorsi di latte.
Sono calata di peso, sembro uno scheletro ricoperto di pelle, come
ai tempi della fame, solo che allora ero giovane. Una vecchia magra
è patetica, mi sono diventate enormi le orecchie e perfino un filo
di brezza può farmi cadere bocconi. In un momento qualsiasi me ne
andrò volando. Debbo rendere più breve questo racconto, altrimenti
mi rimarranno molti morti nel calamaio. Morti, quasi tutti i miei
amori sono morti, questo è il prezzo per aver vissuto così tanto
come ho vissuto.
Capitolo quinto Gli anni tragici 1543-1549
Dopo la distruzione di Santiago, il cabildo si riunì per decidere le sorti della nostra piccola colonia minacciata di estinzione, ma prima che prevalesse l'idea di ritornare a Cuzco, sostenuta dalla maggioranza, Pedro de Valdivia impose la sua autorità e una sfilza di promesse, difficili da mantenere, per convincerci a rimanere. Per prima cosa, decise, dovevamo chiedere aiuto al Perú e poi fortificare Santiago con mura in grado di scoraggiare il nemico, come quelle delle città europee. Il resto si sarebbe deciso col passare del tempo, ma dovevamo avere fede nel futuro, ci sarebbero stati oro, argento, concessioni di terre ed encomiendas con indios che l'avrebbero lavorate. Indios? Non so a quali stesse pensando, visto che quelli cileni non avevano dato nessun segno di arrendevolezza.
Pedro ordinò a Rodrigo de Quiroga di riunire tutto l'oro disponibile, dalle poche monete, i risparmi di tutta una vita che qualche soldato aveva messo da parte e teneva nascosti negli stivali, all'unica pisside della chiesa e quel poco che era stato trovato nel lavadero di Marga-Marga. Venne consegnato il tutto a un fabbro che, dopo averlo fuso, preparò la bardatura completa per un cavallerizzo, morso per le redini e staffe, speroni e l'impugnatura della spada. Il prode capitano Alonso de Monroy, che così adorno d'oro massiccio doveva fare colpo e attirare coloni in Cile, fu inviato in Perú attraverso il deserto con cinque soldati e gli unici cavalli che non risultavano né feriti né ridotti pelle e ossa. Il cappellano González de Marmolejo li benedisse, li scortammo per un pezzo e poi ci congedammo con preoccupazione perché non sapevamo se li avremmo rivisti.
Iniziarono per noi due anni di indicibili patimenti, che mi piacerebbe poter non ricordare, come vorrei anche dimenticare la morte di Pedro de Valdivia, ma alla memoria e agli incubi non si può comandare. Un terzo dei soldati faceva turni di sorveglianza di giorno e di notte, mentre gli altri, trasformati in contadini e muratori, seminavano, ricostruivano le case ed erigevano il muro di protezione alla città. Noi donne lavoravamo gomito a gomito coi soldati e gli yanaconas. Non avevamo molti indumenti perché quasi tutti erano andati distrutti nell'incendio; gli uomini giravano con un perizoma, come i selvaggi, e le donne, dimentiche del pudore, in camicia. Quegli inverni furono molto rigidi e tutti si ammalarono, tranne Catalina e me, che avevamo una scorza incredibilmente dura, come diceva con ammirazione González de Marmolejo. Non c'era nulla da mangiare, se non gli alimenti naturali della valle, pinoli, frutti amari e radici di cui si cibavano indistintamente uomini, cavalli e animali da cortile. Le manciate di semi che avevo salvato dal fuoco vennero piantate e l'anno dopo riuscimmo a ottenere diversi quadratali di grano, che ripiantammo, senza poter assaggiare una pagnotta fino al terzo anno. Pane, il cibo dell'anima, quanto ci mancava! Quando ormai per il baratto non avevamo più nulla che potesse interessare, il curaca Vitacura ci girò le spalle e vennero meno quelle sporte di mais e fagioli che prima riuscivamo a ottenere con le buone. Come banditi, i soldati dovevano compiere incursioni nei villaggi per rubare grano, volatili, coperte, quel che trovavano. Immagino che ai quechua di Vitacura l'essenziale non mancasse, ma gli indios cileni devastarono i loro stessi terreni da semina, disposti a morire di inedia pur di distruggere anche noi. Incalzati dalla fame, gli abitanti dei villaggi si dispersero verso sud. La valle, che prima ferveva di attività, si spopolò di famiglie, ma non di guerrieri. Michimalonko e le sue truppe non interruppero mai le azioni di disturbo, sempre pronti ad attaccare veloci come fulmini per poi sparire immediatamente nei boschi. Ci bruciavano i campi, ci ammazzavano gli animali, ci assalivano se giravamo senza protezione armata, e quindi ci ritrovavamo prigionieri all'interno delle mura di Santiago. Non so come Michimalonko alimentasse i suoi uomini, visto che gli indios non seminavano più. "Mangiano pochissimo, possono sopravvivere per mesi con grani e pinoli" mi informò Felipe, il ragazzino mapuche, e aggiunse che i guerrieri portavano una borsina al collo contenente grani tostati che li aiutavano a resistere anche per una settimana.
Con l'abituale tenacia e il solito ottimismo, che non vennero mai meno, il governatore obbligava la gente, sfinita e ammalata, a lavorare la terra, a fare i mattoni, a costruire il muro della fortificazione e il fosso intorno alla città, a esercitarsi con le armi e a dedicarsi a mille altre occupazioni perché, sosteneva, l'ozio demoralizza più della fame. Aveva ragione. Nessuno sarebbe sopravvissuto allo scoramento se avesse avuto il tempo di pensare al proprio destino, cosa impossibile, dato che dall'alba a notte fonda si lavorava. E se avanzava qualche ora, pregavamo, che non fa mai male. Mattone su mattone intorno a Santiago crebbe un muro di cinta dell'altezza di due uomini; asse dopo asse sorsero la chiesa e le case. Punto dopo punto le donne e io rammendammo i nostri cenci, che non lavavamo per evitare che nell'acqua si sfilacciassero completamente. Indossavamo indumenti più o meno decenti solo in occasioni molto speciali, che non mancavano, perché non tutto era sconforto; festeggiavamo le ricorrenze religiose, le nozze, talora un battesimo. Faceva tristezza vedere i volti smunti della popolazione, le orbite scavate, le mani trasformate in artigli, l'avvilimento. Dimagrii talmente tanto che quando mi sdraiavo supina mi sporgevano le ossa del bacino, le costole, le clavicole e potevo palparmi gli organi interni, appena ricoperti di pelle. Mi indurii molto esternamente, il corpo mi si seccò, ma il cuore mi si ammorbidì. Provavo un amore materno per quella gente sventurata, sognavo di avere seni talmente colmi di latte da poter nutrire tutti. Arrivò il giorno in cui mi dimenticai della fame, mi abituai a quella sensazione di vuoto e leggerezza che a volte mi portava ad avere allucinazioni. Non mi apparivano le immagini di porcellini arrosto con una mela in bocca e una carota nel culo come succedeva a certi soldati, che non parlavano d'altro, ma paesaggi sfumati dalla nebbia dove passeggiavano i morti. Decisi di dissimulare la povertà compensando con la pulizia, visto che d'acqua ce n'era in abbondanza. Intrapresi una battaglia contro pidocchi, pulci e sudiciume, ma il risultato fu che sparirono topi, scarafaggi e altre bestie utili per la zuppa; decidemmo allora di smettere di insaponare e lavare.
La fame è strana, esaurisce l'energia, ci rende lenti e tristi, ma dona lucidità alla mente e incita alla lussuria. Gli uomini, patetici scheletri seminudi, continuavano a cacciare le donne e loro, fameliche, rimanevano incinte. In quel periodo di carestia nella colonia nacquero dei bambini, anche se la maggior parte non sopravvisse. Di quelli nati in precedenza, ne morirono diversi durante quei due inverni e gli altri erano tutt'ossa, ventri gonfi e occhi da vecchi. Preparare la magra zuppa comune per spagnoli e indios arrivò a rappresentare una sfida ancora più ardua degli attacchi a sorpresa di Michimalonko. In grandi paioli bollivamo l'acqua con le erbe disponibili nella valle – rosmarino, alloro, maitén – a cui aggiungevamo quel che c'era: qualche pugno di mais o fagioli della nostra riserva, che diminuivano rapidamente, patate o piccoli tuberi del bosco, e cibo di qualsiasi tipo, radici, topi, lucertole, grilli, lombrichi. Per ordine di Juan Gómez, l'alguacil della nostra minuscola città, disponevo di due soldati armati di giorno e di notte per evitare che venisse rubato quel poco che avevamo in cantina e in cucina, ma sparivano comunque manciate di mais e qualche patata. Tacevo di questi furtarelli, perché per punizione Juan Gómez avrebbe dovuto fustigare i servi e ciò poteva solo peggiorare la situazione. Di sofferenza ce n'era già abbastanza e non potevamo aggiungerne altra. Ingannavamo lo stomaco con tisane di menta, tiglio e matico. Se qualche animale domestico moriva, si utilizzava completamente la carcassa: con la pelle ci coprivamo, il grasso serviva per le candele, la carne veniva salata ed essiccata, le viscere venivano cucinate e con gli zoccoli facevamo qualche attrezzo. Le ossa servivano per insaporire la zuppa e venivano bollite all'infinito finché non si dissolvevano nel brodo, come cenere. Cuocevamo pezzi di cuoio secco che i bambini succhiavano per ingannare la fame. I cuccioli che nacquero quell'anno finirono nella pentola non appena svezzati perché non potevamo cibare altri cani, ma facemmo di tutto per tenere in vita gli altri, che costituivano la prima linea d'attacco contro gli indios, e così il mio fedele Baltasar si salvò.
Felipe era dotato di una mira infallibile, dove posava l'occhio arrivava la sua freccia, ed era sempre disposto ad andare a caccia. Il fabbro gli preparò frecce con la punta di ferro, più efficaci di quelle con pietre affilate, e il ragazzo tornava dalle escursioni con lepri e uccelli, e talvolta un puma. Era l'unico che si azzardasse a recarsi da solo nei dintorni, mimetizzato nel bosco, invisibile ai nemici; i soldati ci andavano in gruppo e così non avrebbero potuto cacciare nemmeno un elefante, se mai ce ne fosse stato uno nel Nuovo Mondo. Allo stesso modo, sfidando il pericolo, Felipe portava bracciate di fieno per gli animali e grazie a lui, benché gracili, i cavalli rimasero in piedi.
Mi vergogno di riferire quanto segue, ma sospetto che in qualche occasione ci siano stati episodi di cannibalismo tra gli yanaconas e anche tra qualcuno dei nostri uomini disperati, proprio come tredici anni dopo si sarebbero verificati tra i mapuche, quando la carestia si estese nel resto del territorio cileno. Gli spagnoli poterono così giustificare la necessità di sottometterli, civilizzarli e cristianizzarli, dato che non c'è peggiore dimostrazione di barbarie del cannibalismo; ma i mapuche non vi avevano mai fatto ricorso prima del nostro arrivo. In certi rari casi, divoravano il cuore del nemico per acquisirne il potere, ma si trattava di un rito, non di un'abitudine. La guerra dell'Araucania provocò la fame. Nessuno poteva coltivare il terreno perché la prima cosa che facevano tanto gli indios quanto gli spagnoli era bruciare i campi e uccidere il bestiame del nemico; patimmo un lungo periodo di siccità seguita da un'epidemia di chivalongo o tifo, che mieté molte vittime. Come se non bastasse, si scatenò il flagello delle rane che con la loro bava pestilenziale infestarono tutto. In quell'epoca terribile, gli spagnoli, ormai pochi, si nutrivano di ciò che rubavano ai mapuche, ma questi ultimi, che erano migliaia e migliaia, vagavano stremati per i campi incolti. La mancanza di cibo li indusse a mangiare i loro simili. Dio deve tenere presente che questa sventurata gente non lo fece per ferocia, bensì per necessità. Un cronista che partecipò alle campagne del Sud del 1555 scrisse che gli indios si recavano a comprare quarti di uomo come chi va a comprare quarti di lama. La fame... chi non l'ha patita, non ha diritto di giudicare. Mi raccontò Rodrigo de Quiroga che nell'inferno della selva dei chunchos gli indios divoravano i propri compagni. Se la necessità costrinse gli spagnoli a commettere il medesimo peccato, si astenne dal dirmelo. Catalina, tuttavia, mi assicurò che i viracochas non erano diversi da tutti gli altri mortali, che c'era chi dissotterrava i morti per arrostirne le cosce o andava a caccia di indios con lo stesso obiettivo. Quando lo dissi a Pedro, mi zittì, fremente di indignazione, dato che gli pareva impossibile che un cristiano compisse una simile infamia; dovetti allora ricordargli che, grazie a me, lui mangiava un po' meglio degli altri nella colonia e che quindi doveva tacere. Bastava vedere la folle allegria di chi riusciva a cacciare un topo sulle rive del Mapocho per capire che persino il cannibalismo poteva aver luogo.
Felipe, o Felipillo, come veniva chiamato il giovane mapuche, diventò l'ombra di Pedro, conosciuto da tutti in città, mascotte dei soldati divertiti dal modo in cui imitava gli atteggiamenti e la voce del governatore, senza intenzioni canzonatorie, quanto piuttosto per ammirazione. Pedro fingeva di non accorgersene, ma so che lo lusingava la silenziosa attenzione del ragazzo e la sua prontezza nel servirlo: gli lucidava l'armatura con la sabbia, gli affilava la spada, se trovava un po' di grasso gli lubrificava le cinghie e, soprattutto, accudiva Sultán come se fosse suo fratello. Pedro lo trattava con la gioviale indifferenza di chi convive con un cane fedele; non aveva bisogno di parlargli, Felipe sapeva indovinare i desideri del Taita. Pedro ordinò a un soldato di insegnare al ragazzo a usare un archibugio "in modo che possa difendere le donne della casa in mia assenza" spiegò, affermazione che mi offese perché ero sempre stata io la prima a difendere non solo le donne ma anche gli uomini. Felipe era un ragazzo contemplativo e silenzioso, capace di trascorrere ore immobile, come un vecchio monaco. "È pigro, come tutti quelli della sua razza" dicevano di lui. Con il pretesto delle lezioni di mapudungu – un'imposizione quasi intollerabile per lui, che mi disprezzava in quanto donna – appresi buona parte di ciò che so dei mapuche. Per loro è la Santa Terra a provvedere, la gente prende il necessario e ringrazia, non vuole di più e non accumula; il lavoro è inconcepibile visto che non c'è futuro. A che cosa serve l'oro? La terra non è di nessuno, il mare non è di nessuno: la sola idea di possederli o dividerli provocava attacchi di riso nel solitamente ombroso Felipe. Nemmeno le persone possono appartenere a qualcun altro. Come possono gli huincas comprare e vendere la gente se non è loro? A volte il ragazzo si dimostrava per due o tre giorni taciturno, scontroso, non voleva mangiare e quando gli si chiedeva cosa stesse succedendo la risposta era sempre la stessa: "Ci sono giorni allegri e giorni tristi. Ognuno è padrone del suo silenzio". Non andava d'accordo con Catalina, che diffidava di lui, ma si raccontavano i sogni, perché per entrambi era sempre aperta la porta tra le due metà della vita, notturna e diurna, e attraverso i sogni la divinità comunicava con loro. Ignorare i sogni è causa di grandi disgrazie, asserivano. Felipe non permise mai a Catalina di leggergli il futuro con le sue perline e le conchiglie, verso le quali provava un terrore superstizioso, come pure si rifiutava di provare le sue erbe medicinali.
Ai servi era proibito, con la minaccia del castigo della frusta, montare i cavalli ma per Felipe si fece un'eccezione dal momento che era lui a cibarli ed era in grado di domarli senza violenza, parlando loro all'orecchio in mapudungu. Imparò a cavalcare come un gitano e in quel villaggio triste le sue prodezze erano motivo di meraviglia. Si incollava alla bestia fino a far parte di lei, andava al suo ritmo, senza mai forzarla. Non usava né sella né speroni, guidava con una leggera pressione delle ginocchia e teneva le redini in bocca per avere le mani libere per l'arco e le frecce. Poteva balzare su un cavallo in piena corsa, fare un giro completo sul suo dorso ritrovandosi a guardargli la coda, o appeso con le braccia e le gambe in modo da galoppare con il petto contro il ventre dell'animale. Gli uomini si mettevano in cerchio ad osservarlo e per quanto si sforzassero nessuno riusciva a imitarlo. A volte si perdeva per diversi giorni nelle escursioni di caccia e giusto quando lo davamo ormai per morto, caduto nelle mani di Michimalonko, tornava sano e salvo con una filza di uccelli sulla spalla con cui arricchire la nostra zuppa. Valdivia si inquietava quando spariva; in più di un'occasione lo minacciò con la frusta se avesse continuato ad andarsene senza permesso, ma non diede mai seguito alle parole perché tutti dipendevamo dal successo delle sue battute di caccia. In mezzo alla piazza si trovava il tronco insanguinato usato per le pene con lo scudiscio, ma a Felipe sembrava non fare nessun effetto. A quei tempi era ormai un adolescente magro, alto per la sua razza, tutto ossa e muscoli, dall'espressione intelligente e gli occhi sagaci. Poteva caricarsi sulle spalle più pesi di qualsiasi altro adulto e coltivava un disprezzo assoluto per il dolore e la morte. I soldati ammiravano la sua resistenza e alcuni, per divertirsi, lo mettevano alla prova. Dovetti proibire loro di sfidarlo a prendere con le mani un carbone acceso o a conficcarsi spine sfregate con il peperoncino piccante. Estate e inverno, faceva bagni di ore intere nelle acque sempre fredde del Mapocho. Ci spiegò che l'acqua gelida rende più forte il cuore e che per questo motivo le madri mapuche immergono nei fiumi i bambini appena nati. Gli spagnoli, che rifuggono il bagno quasi fosse fuoco, si sistemavano in cima al muro di cinta a guardarlo nuotare e a fare scommesse sulla sua resistenza. A volte rimaneva sotto le acque tumultuose del fiume il tempo di recitare diversi Padrenostro e quando si iniziavano già a pagare le puntate ai vincitori, Felipe riemergeva sano e salvo.
La sensazione peggiore di quegli anni fu il senso di abbandono e di solitudine. Attendevamo un aiuto senza sapere se sarebbe giunto, dipendeva tutto dalla missione di Monroy. Nemmeno l'infallibile rete di spie di Cecilia riuscì ad avere notizie di lui e dei cinque prodi, ma non ci facevamo illusioni. Sarebbe stato un miracolo se quei pochi uomini fossero riusciti a passare tra gli indios ostili, ad attraversare il deserto e a giungere a destinazione. Nell'intimità delle nostre conversazioni a letto, Pedro mi confessava che il vero miracolo sarebbe stato che Monroy riuscisse a ottenere aiuti in Perú, dove nessuno voleva investire denaro nella Conquista del Cile. I finimenti d'oro del suo cavallo potevano fare colpo sui curiosi, ma non sui politici e i commercianti. Il mondo per noi si ridusse a qualche isolato all'interno di una muraglia di mattoni crudi, alle solite facce devastate, all'eterna routine, alle sporadiche uscite della cavalleria in cerca di cibo o per allontanare un gruppo di indios temerari, a rosari, processioni e funerali. Persino le messe si ridussero al minimo, perché ci rimaneva solo mezza bottiglia di vino per la consacrazione e sarebbe stato un sacrilegio ricorrere alla chicha. L'acqua no, quella non ci mancò mai, perché quando gli indios ci impedirono di andare al fiume o ci bloccarono i canali per l'irrigazione con pietre, costruimmo dei pozzi. Non c'era bisogno del mio talento per localizzare l'acqua: ovunque scavassimo ce n'era in abbondanza. Siccome non avevamo carta per annotare gli atti del cabildo e le sentenze giuridiche, ricorremmo a strisce di cuoio, ma in un momento di disattenzione i cani affamati se le mangiarono e quindi sono scarse le registrazioni ufficiali delle penurie di quegli anni.
In attesa, in costante attesa, ecco come trascorrevano i nostri giorni. Aspettavamo gli indios con le armi in mano, aspettavamo che un topo finisse in trappola, aspettavamo notizie di Monroy. Eravamo prigionieri dentro la città, circondati da nemici, mezzo morti di fame, ma nonostante le disgrazie e la povertà sopravviveva una sorta di orgoglio. Per le feste i soldati indossavano, sul corpo nudo o protetto da lembi di pelle di coniglio o di topo, non avendo altri indumenti da infilarsi sotto, l'armatura completa che mantenevano brillante come argento. L'unica veste di González de Marmolejo era rigida dai tanti rammendi e dalla sporcizia, ma per la messa si infilava sopra un pezzo di tovaglia di pizzo salvata dall'incendio. Come Cecilia e le altre donne dei capitani, ero priva di gonne decenti, ma trascorrevamo ore intere a pettinarci e ci tingevamo le labbra di rosa con il frutto amaro di un arbusto che, secondo Catalina, era velenoso. Per nessuna fu causa di morte, ma ammetto che ci provocava una diarrea piuttosto fastidiosa. Alle nostre miserie facevamo riferimento sempre in tono scherzoso, perché lamentarsi sul serio sarebbe stato da pusillanimi. Gli yanaconas, che non comprendevano quella forma di ironia, così spagnola, si aggiravano come cani bastonati sognando di tornare in Perú. Alcune donne indigene fuggirono per consegnarsi ai mapuche, coi quali, perlomeno, non avrebbero patito la fame e nessuna di loro fece ritorno. Per evitare che venissero imitate, mettemmo in giro la voce che erano state mangiate, benché Felipe sostenesse che i mapuche erano sempre disposti ad accogliere una moglie in più nelle loro famiglie.
"Che ne è di loro quando muore il marito?" gli
domandai in mapudungu, pensando all'altissimo numero di morti in
battaglia.
"Si fa quel che è giusto fare: il figlio maggiore le eredita tutte
tranne la madre" mi rispose.
"E tu, moccioso, non hai ancora voglia di sposarti?" insinuai
scherzando.
"Non è il momento di rapire una donna" replicò in tono
serio.
Mi raccontò infatti che nella tradizione mapuche lo sposo, con
l'aiuto di fratelli e amici, rapisce la ragazza che desidera. A
volte la squadra di ragazzi entra con violenza nella dimora della
ragazza, lega i genitori e se la porta via nonostante lei scalci,
ma poi si rimedia al torto, se la sposa è d'accordo, e il
pretendente paga la somma corrispondente in animali e altri beni ai
futuri suoceri. Così l'unione è formalizzata. L'uomo può avere
diverse mogli, ma deve trattarle con giustizia e dare a tutte in
egual misura. Spesso si sposa con due o più sorelle, per non
separarle. González de Marmolejo, che era solito assistere alle mie
lezioni di mapudungu, spiegò a Felipe che tale sfrenata lascivia
era una prova più che sufficiente della presenza del diavolo tra i
mapuche, che senza l'acqua benedetta del battesimo avrebbero finito
per arrostirsi all'inferno. Il ragazzo gli domandò se il diavolo
era anche fra gli spagnoli, che si prendevano una dozzina di indie
senza pagare con lama e guanachi i genitori, come era giusto fare,
e che per giunta le picchiavano, non le trattavano tutte allo
stesso modo e quando ne avevano voglia le cambiavano con altre.
Forse gli spagnoli e i mapuche si sarebbero incontrati all'inferno,
dove avrebbero continuato ad ammazzarsi a vicenda per tutta
l'eternità, ipotizzò. Io dovetti uscire dalla stanza di corsa,
inciampando, per non scoppiare a ridere in faccia al venerabile
sacerdote.
Io e Pedro eravamo fatti per la fatica, non per l'ozio. La sfida di
sopravvivere un giorno di più e tenere alto il morale della colonia
ci riempiva di energia. Solo quando eravamo da soli ci permettevamo
qualche momento di scoraggiamento, che non durava molto perché
subito iniziavamo a ridere di noi stessi.
"Preferisco trovarmi qui a masticare topi con te, che non essere
vestita di broccato alla corte di Madrid" gli dicevo.
"Faresti meglio a dire che preferisci essere la governatrice qui,
che non la ricamatrice a Plasencia" mi rispondeva. E cadevamo
abbracciati sul letto, ridendo come bambini. Non eravamo mai stati
così uniti, non avevamo mai fatto l'amore con tanta passione e
sapienza come a quell'epoca. Quando penso a Pedro, sono questi i
momenti che conservo come tesori; così voglio ricordarlo, com'era a
quaranta e passa anni, divorato dalla fame, ma con lo spirito forte
e deciso, pieno di speranze. Aggiungo che desidero ricordarlo
innamorato, ma sarebbe ridondante, perché lo fu sempre, anche
quando ci separammo. So che morì pensando a me. Nell'anno della sua
morte, il 1553, io mi trovavo a Santiago e lui a combattere a
Tucapel, a molte leghe di distanza, eppure seppi con tanta
chiarezza che stava agonizzando che quando diverse settimane dopo
mi giunse la notizia della sua morte non versai una lacrima. Le
avevo già esaurite tutte.
A metà dicembre, due anni dopo la partenza del capitano Monroy per la sua rischiosa missione, mentre eravamo intenti a preparare una modesta celebrazione di Natale con cantici e un improvvisato presepe, giunse alle porte di Santiago un uomo sfinito e ricoperto di polvere che per poco non venne fatto entrare dal momento che le sentinelle non lo riconobbero. Era uno dei nostri yanaconas: correva da due giorni e si era arrangiato per raggiungere la città sgusciando, senza essere visto, nei boschi infestati da indigeni nemici. Faceva parte di un piccolo drappello che Pedro aveva lasciato sulla spiaggia della costa con la speranza che giungessero soccorsi dal Perú. Su un promontorio avevano disposto vari falò, pronti a essere accesi nel caso apparisse una nave. Alla fine, le sentinelle che scrutavano l'orizzonte da un'eternità avevano visto una vela in mare ed, euforiche, avevano fatto i segnali convenuti. La nave, capitanata da un vecchio amico di Pedro de Valdivia, portava l'aiuto tanto atteso.
"Che tu vada portando gente e cavalli per il trasporto del carico, tatay. Questo solo ti sta mandando a dire il viracocha della nave" ansimò l'indio, esausto.
Pedro de Valdivia partì al galoppo con diversi capitani in direzione della spiaggia. È difficile descrivere il tripudio che si impadronì della città. Fu tale il sollievo che quegli induriti soldati, cominciarono a piangere e tali le aspettative che nessuno fece caso al prete quando ci chiamò per una messa di ringraziamento. La popolazione intera era affacciata sul muro a scrutare la strada, malgrado sapessimo che i nuovi arrivati ci avrebbero impiegato qualche giorno per arrivare a Santiago.
Un'espressione d'orrore si dipinse sui volti dell'equipaggio della nave alla vista di Valdivia e dei suoi soldati arrivati sulla spiaggia e, più tardi, quando giunsero alla città e li andammo a ricevere. Riuscimmo così a farci un'idea approssimativa delle proporzioni della nostra miseria. Ci eravamo abituati al nostro aspetto scheletrico, ai nostri cenci e alla sporcizia, ma quando ci rendemmo conto di suscitare compassione, provammo una profonda vergogna. Nonostante ci fossimo agghindati il meglio possibile e Santiago ci sembrasse splendida nella luce raggiante dell'estate, gli ospiti rimasero così penosamente impressionati che cercarono persino di regalare degli indumenti a Valdivia e agli altri capitani, malgrado per uno spagnolo non ci fosse peggior offesa che ricevere la carità. Ciò che non potemmo pagare venne annotato come debito e Valdivia fece da garante per tutti, perché non avevamo oro. I commercianti che avevano stipulato il contratto con la nave in Perú rimasero soddisfatti perché avevano triplicato l'investimento ed erano certi di riscuotere i loro crediti; la parola di Valdivia era un avallo più che sufficiente. Tra di loro figurava il commerciante che aveva prestato denaro a Pedro a Cuzco, con interessi da usuraio, per finanziare la spedizione. Veniva a riscuotere la sua parte moltiplicata, ma dovette arrivare a un giusto accordo, perché alla vista dello stato della nostra colonia capì che diversamente non avrebbe recuperato nulla. Dal carico della nave Pedro mi comprò tre camicie di lino e una di fine batista, gonne da tutti i giorni e di seta, scarpe da lavoro e calzature femminili, sapone, una crema di zagara per il viso e una boccetta di profumo, lussi di cui non avrei mai creduto di tornare a godere in vita mia.
La nave era stata mandata dal capitano Monroy. Mentre noi sopportavamo le tribolazioni a Santiago, lui e i cinque compagni erano riusciti ad arrivare fino a Copiapó dove erano caduti nelle mani degli indios. Quattro soldati erano stati uccisi immediatamente, ma Monroy, sul suo sauro ricoperto d'oro, e un altro uomo, erano sopravvissuti grazie a un insolito colpo di fortuna; li aveva salvati un soldato spagnolo, sfuggito alla giustizia in Perú, che viveva in Cile da anni. All'uomo erano state tagliate le orecchie perché era un ladro e per la vergogna aveva evitato il contatto con quelli della sua razza rifugiandosi tra gli indigeni. La punizione per il furto prevedeva l'amputazione della mano, consuetudine che sopravviveva in Spagna dai tempi dei mori, ma nel caso di un soldato si preferisce tagliare il naso o le orecchie, così il colpevole può comunque combattere. Il disorecchiato riuscì a intervenire e a evitare che gli indios uccidessero il capitano, che immaginava molto ricco a giudicare dall'oro che portava addosso, e il suo accompagnatore. Monroy era un uomo affabile e aveva il dono della parola facile; risultò talmente simpatico agli indios che non venne trattato da prigioniero, ma da amico. Dopo tre mesi di piacevole detenzione, il capitano e l'altro prigioniero riuscirono a scappare a cavallo, ovviamente senza la bardatura imperiale. Si dice che in quei mesi Monroy avesse fatto innamorare la figlia del cacicco che rimase incinta, ma può darsi che si tratti semplicemente di una voce messa in giro dal vanaglorioso capitano o di un mito popolare, di quelli che tra noi si radicano facilmente. A ogni buon conto, Monroy arrivò in Perú e ottenne i rinforzi, entusiasmò diversi commercianti e mandò la nave in Cile mentre lui intraprendeva il viaggio via terra con settanta soldati che giunsero con lui alcuni mesi dopo. Questo Alonso de Monroy, galante, leale e dal provato coraggio, morì in Perú un paio di anni dopo in circostanze misteriose. Alcuni dicono che fu avvelenato, altri che morì di peste o per il morso di un ragno e non manca chi crede che sia ancora vivo in Spagna, dove avrebbe fatto silenziosamente ritorno, stanco di tante guerre.
La nave ci portò soldati, cibo, vino, armi, munizioni, vestiti, utensili e animali domestici, vale a dire i tesori che sognavamo. La cosa più importante fu il contatto con il mondo civilizzato; non eravamo più soli nell'ultimo angolino del pianeta. Giunsero anche ad aumentare la nostra colonia cinque donne spagnole, mogli o parenti dei soldati. Per la prima volta da quando ero partita da Cuzco potei confrontarmi con altre donne della mia razza e verificare quanto ero cambiata. Decisi di abbandonare gli stivali e gli indumenti da uomo, di eliminare le trecce e di farmi un'acconciatura più elegante, di mettermi la crema che mi aveva regalato Pedro e, insomma, di coltivare la mia femminilità che da anni avevo trascurato. L'ottimismo tornò a riempire i cuori della nostra gente, ci sentivamo in grado di affrontare non solo Michimalonko ma anche il diavolo in persona se si fosse presentato a Santiago. Sicuramente da lontano lo scaltro cacicco colse questo stato d'animo tant'è che non tornò ad attaccare la città, benché fosse necessario combatterlo spesso nei dintorni e inseguirlo fino alle sue pucaras. In ognuno di questi scontri era talmente alto il numero dei morti tra gli indios, che c'era da chiedersi da dove spuntassero in continuazione.
Valdivia fece valere le encomiendas che aveva assegnato a me e ad alcuni dei suoi capitani. Mandò alcuni emissari a pregare gli indigeni pacifici di tornare nella valle, dove erano sempre vissuti prima del nostro arrivo, e promise loro sicurezza, terra e cibo in cambio del loro aiuto, dato che le haciendas senza lavoranti erano terra inutile. Molti di questi indios, che erano fuggiti per paura della guerra e dei saccheggi dei barbuti, tornarono. E grazie a ciò cominciammo a prosperare. Il governatore convinse anche il curaca Vitacura a cederci degli indios quechua, più adatti ai lavori pesanti rispetto agli indios cileni, e con nuovi yanaconas si poterono sfruttare la miniera di Marga-Marga e altre di cui giunse notizia. Non c'era lavoro più estenuante di quello nei lavaderos. Mi toccò vedere centinaia di uomini altrettante donne, alcune delle quali incinte, altre con bambini legati alla schiena, immersi nell'acqua fredda fino alla vita, a lavare la sabbia per estrarre l'oro, dall'alba al tramonto, esposti a malattie, alla frusta dei sorveglianti e agli abusi dei soldati.
Oggi, alzandomi dal letto, per la prima volta nella mia lunga vita, mi sono mancate le forze. È strano avere la percezione che il corpo stia cedendo, mentre la mente continua a lavorare a progetti nuovi. Con l'aiuto delle domestiche mi sono vestita per recarmi a messa, come faccio ogni giorno, visto che mi piace andare a salutare Nuestra Señora del Socorro, ora padrona della sua chiesa e di una corona d'oro e smeraldi; siamo state amiche per lungo tempo. Cerco di andare alla prima messa del mattino, quella dei poveri e dei soldati, perché a quell'ora la luce nella chiesa sembra venire direttamente dal cielo. Dalle alte finestre entra il sole del mattino e i suoi raggi splendenti attraversano la navata come lance, illuminando i santi nelle loro nicchie e a volte anche gli spiriti che mi circondano, nascosti dietro ai pilastri. È un'ora quieta, propizia alla preghiera. Non c'è nulla di così misterioso come il momento in cui il pane e il vino si trasformano nel corpo e nel sangue di Cristo. Durante la mia vita ho assistito migliaia di volte a questo miracolo, ma mi sorprende e mi commuove come il giorno della mia Prima Comunione. Non riesco a trattenermi: piango sempre quando ricevo l'ostia. Finché potrò muovermi continuerò ad andare in chiesa e terrò fede ai miei impegni: l'ospedale, i poveri, il convento delle monache agostiniane, la costruzione degli eremi, l'amministrazione delle mie encomiendas e questa cronaca, che forse si sta prolungando più del dovuto.
Non mi sento ancora sconfitta dall'età, anche se ammetto di essere diventata lenta e la mente ogni tanto mi tradisce; non sono più in grado di fare bene ciò che prima compivo senza pensarci due volte, le ore mi rendono meno. Tuttavia, non ho abbandonato la vecchia abitudine di lavarmi e vestirmi con grande cura: sarò vanitosa fino alla fine affinché Rodrigo possa ritrovarmi pulita ed elegante quando ci riuniremo dall'altra parte. Settant'anni non mi sembrano poi così tanti... Se il mio cuore reggesse, potrei viverne altri dieci e in tal caso mi sposerei di nuovo, perché si ha bisogno d'amore per continuare a vivere. Sono certa che Rodrigo capirebbe, come farei io al suo posto. Se fosse qui con me, godremmo insieme fino alla fine della nostra esistenza, lentamente e senza chiasso. Rodrigo temeva l'arrivo del momento in cui non avremmo più potuto fare l'amore. Credo che più che altro temesse di risultare ridicolo, gli uomini sono molto suscettibili al riguardo; ma ci sono svariate maniere d'amarsi e io ne avrei trovata qualcuna per continuare, se pur anziani, a godere come nei tempi migliori. Sento la mancanza delle sue mani, del suo odore, della sua ampia schiena, dei suoi capelli morbidi, del pizzicore della sua barba, del soffio del suo respiro nelle orecchie di quando eravamo insieme al buio. È tale il bisogno di stringerlo, di giacere con lui, che a volte non riesco a trattenere un grido soffocato. Dove sei Rodrigo? Quanto mi manchi!
Questa mattina, nonostante la fatica che provavo nelle ossa e nel cuore, mi sono vestita e sono uscita in strada perché è martedì e mi tocca andare a far visita a Marina Ortiz de Gaete. Mi portano i domestici su una palanchina a mano, perché vive vicino e non vale la pena di tirare fuori la carrozza; l'ostentazione è molto malvista in questo regno e temo che la carrozza regalatami da Rodrigo pecchi di eccessiva vistosità. Marina ha qualche anno meno di me, ma paragonata a lei mi sento un bocciolo; si è trasformata in una beghina brutta e timorata, che Dio perdoni la mia linguaccia. "Si metta una sentinella sulle labbra, madre" mi consigli, Isabel, ridendo, quando mi senti parlare così, ma sospetto che le mie corbellerie ti divertano e comunque, figlia mia, mi sono guadagnata il diritto a dire ciò che gli altri non osano. Le rughe e le smorfie di Marina mi procurano una certa soddisfazione, ma combatto questo meschino sentimento perché non desidero trascorrere in purgatorio più tempo del necessario. Non mi è mai piaciuta la gente malaticcia e debole di carattere, come Marina. Mi fa pena perché l'hanno dimenticata persino i parenti che portò con sé dalla Spagna e che ora sono prosperi abitanti di Santiago. Li posso ben capire, perché questa buona signora è davvero noiosa. Almeno non vive in povertà, gode di una vedovanza dignitosa, benché ciò non compensi la sua cattiva sorte di sposa abbandonata. Deve essere davvero molto sola questa sfortunata donna che aspetta le mie visite con ansia e che, se ritardo, trovo lì a piagnucolare. Beviamo tazze di cioccolata, mentre dissimulo gli sbadigli e parliamo dell'unica cosa che abbiamo in comune: Pedro de Valdivia.
Marina vive in Cile da ventiquattro anni. Arrivò all'incirca nel 1554, pronta a ricoprire il ruolo di moglie del governatore, con un seguito di famigliari e di adulatori disposti a godere della ricchezza e del potere di Pedro de Valdivia, cui il re aveva concesso il titolo di marchese e di cavaliere dell'Ordine di Santiago. Ma Marina si ritrovò la sorpresa di essere rimasta vedova. Alcuni mesi prima suo marito era morto per mano dei mapuche, senza essere a conoscenza dei titoli onorifici ricevuti. Come se non bastasse, il tesoro di Valdivia, che aveva provocato tante chiacchiere, era risultato solo fumo. Avevano accusato il governatore di essersi sfacciatamente arricchito, di aver tenuto per sé le terre più fertili e più ricche, di aver sfruttato un terzo degli indios a suo totale beneficio, ma alla fine dei conti si rivelò più povero di tutti i suoi capitani, e per pagare i debiti si dovette persino vendere la sua casa in plaza de Armas. Il cabildo non ebbe la decenza di assegnare una pensione a Marina Ortiz de Gaete, moglie legittima del conquistador del Cile, ingratitudine così frequente da queste parti da aver meritato persino un'etichetta: "Il pagamento del Cile". Dovetti comprarle una casa e accollarmene le spese, per evitare che il fantasma di Pedro mi tirasse le orecchie. Meno male che posso permettermi certe soddisfazioni, quali fondare istituti, garantirmi nella chiesa una nicchia in cui essere sepolta, mantenere una massa di congiunti, lasciare a mia figlia una buona rendita e tendere una mano alla moglie del mio antico amante. Che importanza ha che un tempo fossimo rivali?
Mi sono appena resa conto che ho riempito molti fogli e ancora non ho spiegato come mai questo territorio fuori mano è l'unico regno d'America. Il sacro imperatore Carlo V voleva far sposare suo figlio Filippo con Maria la Cattolica, regina d'Inghilterra. Che anno poteva essere? All'incirca la stessa epoca in cui morì Pedro, mi pare. Il ragazzo aveva bisogno di un titolo regale per portare a buon fine l'accordo matrimoniale e siccome suo padre per il momento non aveva intenzione di lasciare il trono, decisero che il Cile sarebbe stato un regno, e Filippo il suo sovrano, provvedimento che non migliorò la nostra condizione, ma ci diede prestigio.
Sulla nave che aveva portato Marina – allora aveva quarantadue anni, non era certo un'aquila, ma era di bell'aspetto, la bellezza slavata delle bionde mature – viaggiavano Daniel Belalcázar e mia nipote Constanza, da cui mi ero congedata a Cartagena nel 1538. Pensavo che non avrei rivisto quella nipote che invece di farsi suora, come d'accordo, si era sposata in tutta fretta a quindici anni con il cronista che l'aveva sedotta in viaggio. La sorpresa fu reciproca perché io supponevo che fossero morti inghiottiti dalla selva e loro mai avrebbero immaginato che avrei finito col fondare un regno. Rimasero quasi due anni in Cile a studiare la storia e i costumi dei mapuche, da lontano, perché non era il caso di mescolarsi con loro, la guerra era in pieno svolgimento. Belalcázar diceva che i mapuche assomigliavano a un popolo asiatico che aveva conosciuto nei suoi viaggi. Li riteneva grandi guerrieri e non nascondeva la sua ammirazione per loro, esattamente come successe a quel poeta che scrisse un'epopea sull'Araucania. L'ho già citato? Forse no, ma è un po' tardi per occuparmi di lui. Ercilla, ecco come si chiamava. Quando capirono che non si sarebbero mai potuti avvicinare ai mapuche per ritrarli e far loro domande precise, i coniugi Belalcázar ripresero le loro peregrinazioni in giro per il mondo. Erano compagni perfetti per imprese scientifiche: entrambi erano vittime della medesima insaziabile curiosità e dello stesso olimpico disprezzo per i pericoli insiti nelle loro strampalate spedizioni.
Daniel Belalcázar mi mise in testa l'idea di fondare un'istituto educativo, dato che gli pareva il colmo che in Cile ci dessimo arie da colonia civilizzata e si contassero sulle dita di una mano coloro che sapevano leggere. Lo proposi a González de Marmolejo e insieme combattemmo anni interi per la creazione di scuole, ma nessuno si interessò al nostro progetto. Che gente gretta! Temono che se il popolo impara a leggere cadrà nel vizio di pensare e da lì a ribellarsi alla Corona è un soffio...
Come dicevo, oggi non è stata una grande giornata per me. Invece di attenermi alla narrazione della mia vita ho iniziato a divagare. Ogni giorno mi costa sempre di più concentrarmi sui fatti, perché mi distraggo; in questa casa c'è molta confusione, benché tu assicuri che è la più tranquilla di Santiago.
"È una sua impressione, madre. Qui non c'è
alcuna confusione, al contrario, sono le anime a penare" mi hai
detto ieri sera.
"Proprio così, Isabel, è quello che intendo dire."
Sei come tuo padre, pratica e assennata, ed è per questo motivo che
non cogli la presenza della folla di gente che passeggia senza
permesso nelle mie camere. Con l'età si assottiglia il velo che
separa questo mondo dall'altro e io inizio a vedere cose
invisibili. Immagino che quando sarò morta rinnoverai questo
arredamento, regalerai i miei vecchi mobili e darai un'altra mano
di calce alle pareti, ma ricorda che mi hai promesso di conservare
queste pagine, scritte per te e per i tuoi discendenti. Se
preferisci puoi consegnarle ai preti della Merced o ai domenicani,
che mi devono qualche favore. Non dimenticare anche che lascerò un
fondo per mantenere Marina Ortiz de Gaete fino al suo ultimo giorno
di vita e per dar da mangiare ai poveri, che sono abituati a
ricevere quotidianamente il loro piatto sulla porta di casa. Credo
di averti già detto tutto ciò, scusami se mi ripeto. Sono certa che
rispetterai le mie disposizioni, Isabel, perché anche in questo
assomigli a tuo padre: sei retta di cuore e la tua parola è
sacra.
La sorte della nostra colonia cambiò radicalmente allorché fu stabilito il contatto col Perú e iniziarono ad arrivare provviste e gente pronta a popolare la zona. Grazie ai galeoni che andavano e venivano potevamo ordinare quanto serviva per prosperare. Valdivia comprò ferro, equipaggiamenti militari e cannoni e io ordinai dalla Spagna alberi e semi che più si adattano al clima cileno, pecore, capre e bestiame. Per errore mi arrivarono otto vacche e dodici tori, quando ne sarebbe bastato uno solo. Aguirre approfittò dell'equivoco per inaugurare la prima arena, ma gli animali erano storditi dal viaggio in mare e non sembravano in grado di dare cornate. Trovammo comunque il modo di sfruttarli, perché dieci di loro vennero trasformati in buoi e usati per l'agricoltura e il trasporto. Gli altri due servirono di buon grado le vacche e ora ci sono parecchi allevamenti, sparsi tra i pascoli di Copiapó e la valle del Mapocho. Costruimmo un mulino e forni pubblici, contavamo su una fucina e delle segherie, creammo luoghi per la fabbricazione di tegole e mattoni, costituimmo laboratori per la concia, per lavorare la terracotta, i vimini, candele, finimenti e mobili. C'erano due sarti, quattro scrivani, un medico – che purtroppo non valeva granché – e uno splendido veterinario. Al rapido ritmo in cui cresceva la città, ben presto la valle sarebbe rimasta priva di alberi, tale era la vitalità con cui costruivamo. Non posso dire che fosse una vita oziosa, ma di certo non mancò mai più da mangiare e persino gli yanaconas ingrassarono e divennero pigri. Non dovemmo affrontare situazioni particolarmente difficili, tranne un'invasione di topi provocata dalle fatture delle machis che si sforzavano di creare disagi ai cristiani. Non potevamo difendere i terreni seminati, né le case e i vestiti perché, salvo il metallo, mangiavano tutto. Cecilia propose la soluzione usata in Perú: giare piene a metà d'acqua. Di notte ne sistemavamo diverse in ogni casa e all'alba trovavamo fino a cinquecento topi annegati, ma la piaga non ebbe fine finché Cecilia non trovò uno stregone quechua in grado di vanificare il maleficio delle machis cilene.
Valdivia invitava i soldati a chiamare a sé le mogli dalla Spagna, come ordinava il re, e qualcuno gli diede ascolto, ma la maggioranza preferiva vivere nel concubinato con svariate indie giovani piuttosto che con una sposa matura. Nella nostra colonia nascevano sempre più bambini meticci che non conoscevano l'identità del padre. Le spagnole che vennero a riunirsi con i mariti dovettero chiudere un occhio e accettare tale situazione, che in fondo non era molto diversa da quella spagnola, e ancora oggi in Cile vige l'abitudine di mantenere una casa grande, dove vivono la moglie e i figli legittimi, e altre case "piccole" per le concubine e i bastardi. Debbo essere stata l'unica a non aver mai tollerato ciò dal marito, anche se alle mie spalle possono essere successe cose di cui non sono a conoscenza.
Santiago venne dichiarata capitale del regno. C'era più popolazione e più sicurezza; gli indios di Michimalonko si tenevano a distanza. Ciò ci consentiva, oltre agli altri vantaggi, di organizzare passeggiate, colazioni campestri e partite di caccia sulle rive del fiume Mapocho che prima erano terra vietata. Stabilimmo dei giorni di festa per onorare i santi e altri per divertirci con musica, a cui partecipavano allo stesso modo spagnoli, indios, neri e meticci. Organizzavamo combattimenti tra galli, combattimenti di cani, partite a bocce e a palla. Pedro de Valdivia, giocatore incallito, non abbandonò l'abitudine delle partite a carte a casa nostra, ma la differenza era che ora non si scommettevano illusioni. Benché nessuno possedesse un maravedì, i debiti venivano annotati con meticolosità da usuraio, malgrado fosse chiaro che non sarebbero mai stati saldati.
Una volta stabilita la comunicazione postale tra il Perú e la Spagna, iniziammo a spedire e ricevere lettere che impiegavano solamente uno o due anni per arrivare a destinazione. Pedro iniziò a redigere lunghe missive per l'imperatore Carlo V nelle quali raccontava del Cile, delle difficoltà che attraversavamo, delle spese e dei debiti, del suo modo di esercitare la giustizia, di come, suo malgrado, morivano molti indios e mancavano anime per lavorare la terra e nelle miniere. Già che c'era sollecitava delle prebende, che spetta ai sovrani concedere, ma le sue giuste richieste rimanevano senza risposta. Chiedeva soldati, imbarcazioni, attestazioni della sua autorità, riconoscimento per il suo lavoro. Mi leggeva le lettere con un vocione imperioso, passeggiando per la sala, il petto gonfio di vanità, e io non dicevo nulla; e come avrei potuto mettermi a disquisire sulla sua corrispondenza con il monarca più potente della Terra, il sacratissimo e invittissimo Cesare, come Valdivia lo chiamava? Iniziai a rendermi conto che il mio amante era cambiato, il potere gli stava dando alla testa, era diventato molto superbo. Nelle lettere faceva riferimento a favolose miniere d'oro, più fantasie che realtà. Erano l'esca per attirare gli spagnoli in Cile, perché solo lui e Rodrigo sapevano che la vera ricchezza non era costituita dall'oro o dall'argento, ma dal clima benigno e dalla terra fertile che invitavano a restare; gli altri coloni accarezzavano ancora l'idea di arricchirsi in fretta e tornare in Spagna.
Per assicurarsi una via veloce per il Perú, Valdivia fece fondare una città a nord, La Serena, e un porto vicino a Santiago, Valparaíso, e poi volse gli occhi verso il fiume Bío-Bío, con l'intenzione di domare i mapuche. Felipe mi spiegò che quel fiume è sacro, perché regola il flusso delle acque, placa con la sua freschezza l'ira dei vulcani e al suo passaggio crescono dai più robusti alberi ai più segreti funghi, invisibili, trasparenti. Come attestavano i documenti che Pizarro aveva consegnato a Valdivia, il governatorato arrivava fino allo Stretto di Magellano, ma nessuno sapeva con certezza a quale distanza rimanesse il famoso canale che univa l'oceano d'Oriente con quello d'Occidente. In quel periodo arrivò un'imbarcazione inviata dal Perú al comando di un giovane capitano italiano di nome Pastene, che Valdivia insignì del roboante titolo di ammiraglio e che inviò a esplorare la zona meridionale. Bordeggiando la costa, Pastene poté vedere meravigliosi paesaggi di boschi fitti, arcipelaghi e ghiacciai, ma non trovò lo stretto che, a quanto pare, è parecchio più a sud di dove lo si immagina. Nel frattempo arrivavano pessime notizie dal Perú, la cui situazione politica era diventata disastrosa, tant'è che si passava da una guerra civile all'altra. Gonzalo Pizarro, uno dei fratelli del defunto marchese, si era impadronito del potere in aperta ribellione contro il nostro re; corruzione, tradimenti e congiure nel viceregno erano tali che Carlo V aveva mandato La Gasca, un frate caparbio, a mettere ordine. Non sprecherò inchiostro cercando di spiegare gli intrighi di Ciudad de los Reyes di quell'epoca, perché nemmeno io li capisco, ma menziono La Gasca perché quel religioso con la faccia butterata dal vaiolo prese una decisione che avrebbe cambiato il mio destino.
Pedro ribolliva di impazienza non solo per conquistare altro territorio cileno, che i mapuche difendevano strenuamente, ma perché desiderava prendere parte ai rivolgimenti del Perú e mettersi in contatto con il mondo civilizzato. Da otto anni era lontano dai centri del potere e segretamente desiderava viaggiare verso nord per trovarsi di nuovo con altri militari, fare affari, comprare, pavoneggiarsi della Conquista del Cile, e mettere la sua spada al servizio del re contro l'insubordinato Gonzalo Pizarro. Era stanco di me? Può darsi, ma allora non lo sospettavo, mi sentivo sicura del suo amore, per me naturale quanto l'acqua piovana. Se lo vedevo inquieto, attribuivo il suo fastidio alla vita sedentaria, dato che l'eccitazione dei primi tempi a Santiago, che ci manteneva con la spada in mano notte e giorno, aveva ceduto il passo a un'esistenza più comoda e oziosa.
"Abbiamo bisogno di soldati per la guerra nel Sud e di famiglie con cui popolare il resto del territorio, ma il Perú ignora i miei emissari" mi confidò Pedro una sera, occultando i suoi veri pensieri.
"Vuoi forse andarci tu in persona? Ti avverto che se te ne vai anche solo un giorno qui capiterà qualche disgrazia. Sai già cos'ha in testa il tuo amico De la Hoz" dissi del tutto inutilmente, dato che, senza che io lo sapessi, aveva già preso una decisione.
"Lascerò Villagra al mio posto, ha la mano
ferma."
"Come pensi di tentare la gente del Perú per farla venire in Cile?
Non sono tutti idealisti come te, Pedro. La gente va dove c'è
ricchezza, non gloria."
"Troverò il modo di farlo."
L'idea fu sua e io non potei oppormi in alcun modo. Pedro annunciò
battendo la grancassa che avrebbe inviato la nave di Pastene in
Perú e che chi desiderava partire portandosi via il suo oro poteva
farlo. La dichiarazione generò un entusiasmo delirante, a Santiago
non si parlò d'altro per settimane. Partire! Tornare in Spagna con
del denaro! Questo era il sogno di ogni uomo che lasciava il
Vecchio continente per le Americhe: tornare ricco. Tuttavia, quando
giunse il momento di prendere i nomi dei viaggiatori furono solo
sedici i coloni che decisero di approfittare dell'occasione e che
vendettero le loro proprietà a bassissimo prezzo, presero l'oro e
si prepararono a partire. Nella carovana di quanti si avviavano
verso il porto figurava il mio mentore, González de Marmolejo, che
aveva già più di settant'anni e che in qualche modo si era
ingegnato per arricchirsi seriamente al servizio di Dio. Si contava
anche la Señora Díaz, una "dama" spagnola arrivata in Cile un paio
di anni prima con una delle imbarcazioni. Della dama aveva ben
poco, sapevamo che era un uomo vestito da donna. "Palline e
piripicho sta tenendo tra le gambe" mi raccontò Catalina. "Ma cosa
ti salta in mente! Perché mai un uomo dovrebbe vestirsi da donna?"
le domandai. "Per cosa mai può essere, señoray, perché così va
prendendo soldini da altri uomini..." mi spiegò. Ora però basta con
le chiacchiere.
Il giorno stabilito, i viaggiatori salirono sulla nave e
sistemarono nelle cabine loro assegnate i bauli chiusi a maglio
contenenti l'oro, ben al riparo. A quel punto fecero la loro
comparsa sulla spiaggia Valdivia e altri capitani, accompagnati da
numerosi servi, per offrire una colazione di commiato, con pesci
deliziosi e frutti di mare appena pescati, annaffiati da vini della
cantina personale del governatore. Sistemarono dei teloni sulla
sabbia, pranzarono come principi e piagnucolarono un po' per i
commoventi discorsi, soprattutto la dama col piripicho, molto
sentimentale e leziosa. Valdivia insistette affinché i coloni
indicassero con molta chiarezza, per evitare problemi in futuro,
quanto oro portavano via, saggia misura che ottenne l'approvazione
generale. Mentre il segretario annotava con cura su un libro gli
importi forniti dai viaggiatori, Valdivia salì sull'unica scialuppa
a disposizione e cinque vigorosi marinai lo condussero alla nave,
dove l'attendevano diversi suoi leali capitani, coi quali pensava
di servire la causa del re in Perú. Quando si resero conto della
beffa, gli incauti coloni presero a ululare di frustrazione e
alcuni si buttarono in acqua per raggiungere a nuoto la nave, ma
l'unico che ci riuscì ricevette un colpo di remo che per poco non
gli spaccò la testa. Posso immaginare la desolazione dei salassati
quando videro la nave con tutti i loro beni puntare a nord a gonfie
vele.
Al burbero capitano Villagra, che non si faceva tanti scrupoli,
toccò di rimpiazzare Valdivia in qualità di tenente governatore e
affrontare i furibondi coloni sulla spiaggia. Il suo aspetto
robusto, la sua testa fulva, ben piantata sulle spalle, i suoi modi
austeri e la mano sull'impugnatura della spada imposero l'ordine.
Spiegò loro che Valdivia era partito per il Perú per difendere il
re, loro signore, e per cercare rinforzi per la colonia in Cile,
motivo per cui si era visto obbligato a fare quel che aveva fatto,
ma prometteva di restituire fino all'ultimo doblone con la sua
quota della miniera di Marga-Marga. "Se vi va bene è così. Se
invece qualcuno non gradisce, se la vedrà con me" concluse. E ciò
non tranquillizzò nessuno.
Posso comprendere le ragioni di Pedro, che vide in quell'inganno,
così estraneo al suo retto carattere, l'unica soluzione al problema
del Cile. Aveva messo sul piatto della bilancia il danno arrecato a
quei sedici innocenti e la necessità di dare impulso alla
Conquista, di cui avrebbero beneficiato migliaia di persone,
argomento che era risultato pesare di più. Se ne avesse parlato con
me, sicuramente avrei approvato tale decisione, anche se avrei
condotto le cose in modo più elegante – e lo avrei anche
accompagnato – ma mise a parte del segreto solamente tre capitani.
Pensava forse che io avrei potuto mandare a monte il piano
lasciandomi sfuggire qualcosa? No, perché in tutti gli anni in cui
avevamo convissuto avevo dimostrato discrezione e determinazione
nel difendere la sua vita e i suoi interessi. Credo, piuttosto, che
temesse che io cercassi di trattenerlo. Se ne andò portandosi via
il minimo indispensabile, perché se avesse preparato i bagagli,
avrei intuito i suoi propositi. Partì senza congedarsi da me,
proprio come alcuni anni prima aveva fatto Juan de Málaga.
La trappola di Valdivia, perché, nonostante la causa fosse nobile, di questo si trattava, si rivelò un dono del cielo per Sancho de la Hoz che poteva ora incolparlo di un crimine concreto: aveva truffato la gente, rubando il frutto di anni di lavoro e fatiche ai suoi stessi soldati. Meritava la morte.
Quando venni a sapere che se n'era andato mi sentii molto più tradita dei coloni abbindolati. Per la prima e ultima volta in vita mia diedi fuori di matto. Per un giorno intero distrussi tutto quello che era a portata di mano, perché avrebbero visto chi era Inés Suárez, nessuno poteva permettersi di mollarmi lì come una scarpa vecchia, non sono mica per niente la vera governatrice del Cile e tutti sanno quanto mi devono, che cosa sarebbe questa città di merda senza di me, che ho scavato i canali con le mie mani, ho curato appestati e feriti, ho seminato, raccolto e cucinato perché nessuno morisse di fame e, come se non bastasse, ho impugnato le armi come il migliore dei soldati; Pedro mi deve la vita, l'ho amato, servito e gli ho dato gioia, nessuno lo conosce meglio di me, né sopporterebbe le sue manie come ho fatto io, e avanti e indietro con questo ritornello finché Catalina e le altre donne mi legarono al letto e andarono a chiedere aiuto. Rimasi a dibattermi, posseduta dal demonio, con Juan de Málaga sistemato ai piedi del letto a ridere di me. Poco dopo giunse González de Marmolejo, molto depresso, perché era il più anziano dei truffati e dava per scontato che non si sarebbe mai ripreso dalla perdita. Di fatto, non solo recuperò i suoi beni con gli interessi, ma alla sua morte, diversi anni dopo, risultò essere l'uomo più ricco del Cile. Come fece? Mistero. In parte credo di averlo aiutato io, perché diventammo soci nell'allevamento di cavalli, idea che mi ronzava in testa dall'inizio del viaggio in Cile. Il sacerdote arrivò a casa mia pronto a tentare un esorcismo, ma quando capì che il mio male era solo indignazione di amante tradita, si accontentò di spruzzarmi dell'acqua benedetta e di recitare qualche Avemaria, cura che mi restituì la saggezza.
Il giorno successivo venne a trovarmi Cecilia, che aveva già diversi bambini, ma a cui né la maternità né gli anni avevano lasciato traccia sul portamento regale e sul viso levigato di principessa inca. Grazie alla sua capacità di venire a conoscenza di ogni segreto e alla sua condizione di moglie dell'alguacil Juan Gómez, sapeva tutto quello che succedeva in ogni casa della colonia, compresa la mia recente crisi di nervi. Mi trovò a letto, ancora estenuata dagli eccessi del giorno precedente.
"Pedro me la pagherà, Cecilia" dichiarai a mo' di saluto.
"Ti porto buone notizie, Inés. Non avrai
bisogno di vendicarti, ci penserà qualcuno per te" mi
annunciò.
"Cosa intendi?"
"Gli scontenti, che sono molti a Santiago, stanno progettando di
accusare Valdivia presso il tribunale reale in Perú. Se non lascia
la testa sul patibolo, quanto meno passerà il resto della sua vita
in una cella. Guarda che fortuna che hai, Inés!"
"Questa è un'idea di Sancho de la Hoz!" esclamai, saltando giù dal
letto per vestirmi in fretta.
"Avresti mai immaginato che quello sciocco ti potesse rendere un
così grande favore? De la Hoz ha fatto circolare una lettera in cui
chiede che Valdivia sia destituito e molti abitanti l'hanno già
firmata. La maggior parte della gente vuole disfarsi di Valdivia e
nominare lui governatore" mi comunicò Cecilia.
"Quel presuntuoso non si dà per vinto!" borbottai allacciando gli
stivaletti.
Qualche mese prima il malvagio cortigiano aveva cercato di
assassinare Valdivia. Come tutti i piani che ideava, anche quello
era risultato piuttosto pittoresco: si era finto molto malato, si
era messo a letto, aveva fatto sapere di essere agonizzante e aveva
chiesto di prendere commiato da amici e nemici in ugual modo,
compreso il governatore. Aveva sistemato due dei suoi complici
dietro una tenda, armati di daga per pugnalare Valdivia alla
schiena quando si fosse chinato sul capezzale a cogliere i sussurri
del presunto moribondo. Questi ridicoli particolari e il fatto di
vantarsene erano stati il punto debole di De la Hoz, perché io,
senza alcuno sforzo, venivo sempre a conoscenza delle sue trame. In
quella circostanza avvertii ancora una volta del pericolo Pedro,
che all'inizio rise a crepapelle e si rifiutò di credermi, ma poi
acconsentì a indagare a fondo sulla questione. Risultò evidente la
colpevolezza di Sancho de la Hoz, che fu condannato alla forca per
la seconda o terza volta, ho perso il conto. Tuttavia, all'ultimo
momento, Pedro, per non venir meno alla consuetudine, lo
perdonò.
Finii di vestirmi, congedai Cecilia con una scusa e corsi dal
capitano Villagra a ripetergli le parole della principessa e
garantirgli che se De la Hoz avesse avuto successo, i primi a cui
avrebbero fatto saltare la testa erano lui e gli altri uomini leali
a Pedro.
"Avete delle prove, doña Inés?" volle sapere Villagra, rosso
dall'ira.
"No, solo voci, don Francisco."
"Mi bastano."
E senza attendere oltre arrestò quel traditore e lo fece decapitare
con un colpo d'ascia quello stesso pomeriggio, senza dargli il
tempo di confessarsi. Poi ordinò di portare la testa, tenuta per i
capelli, in giro perla città, prima che venisse sistemata su una
picca, alla berlina, come monito per chi ancora non sapeva da che
parte schierarsi, come si fa generalmente in questi casi. Quante
teste ho visto esposte in quel modo nella mia vita? È impossibile
contarle. Villagra si astenne dallo scagliarsi contro gli altri
cospiratori, nascosti come topi nelle loro case, perché avrebbe
dovuto arrestare l'intera popolazione, tale era l'insoddisfazione
nei confronti di Valdivia a Santiago. Così, questo capitano estirpò
in un solo giorno il germe di una guerra civile e ci liberò di quel
verme di Sancho de la Hoz. Era ora.
Pedro de Valdivia impiegò un mese ad arrivare a Callao, perché si trattenne in diversi luoghi del Nord ad attendere notizie da Santiago; aveva bisogno di essere certo che Villagra avesse gestito la situazione con abili manovre coprendogli le spalle. Sapeva della ribellione di Sancho de la Hoz perché un messaggero l'aveva raggiunto con la brutta notizia, ma non voleva essere il diretto responsabile della sua morte, circostanza che avrebbe potuto creargli problemi con la giustizia. Era estremamente compiaciuto del fatto che il suo fedele luogotenente avesse sventato a suo modo la cospirazione, ma simulò sorpresa e dispiacere per l'episodio, giacché non dimenticava che il nemico contava su buone entrature alla corte di Carlo V.
Per farsi perdonare da me, Pedro mi mandò da La Serena, con un veloce corriere, una lettera d'amore e uno stravagante cerchietto d'oro. Feci a pezzi la lettera e regalai l'anello a Catalina, a patto che lo facesse sparire dalla mia vista, perché mi faceva ribollire il sangue.
Sulla strada che conduceva a nord il governatore scelse dieci capitani dei migliori che equipaggiò con armature, armi e cavalli, ricorrendo all'oro dei buggerati abitanti di Santiago, e partì con loro per combattere a fianco di La Gasca, legittimo rappresentante del re in Perú. Per riunirsi all'esercito di La Gasca, gli hidalgos dovettero inerpicarsi sulle cime innevate delle Ande, forzando i cavalli che cadevano stremati per l'aria rarefatta, mentre a loro l'altitudine faceva scoppiare le orecchie e provocava sanguinamenti da vari orifizi del corpo. Sapevano che La Gasca, uomo dall'eccezionale tempra e volontà, era completamente privo di esperienza militare e avrebbe dovuto affrontare un esercito formidabile guidato da un generale esperto e coraggioso. Si poteva accusare Gonzalo Pizarro di qualsiasi cosa, ma non di essere un pusillanime. Le truppe di La Gasca, indebolite dallo sforzo del viaggio sulla Cordigliera, paralizzate dal freddo e spaventate dalla superiorità del nemico, ricevettero Valdivia e i suoi dieci capitani come angeli vendicatori. Per La Gasca, quegli hidalgos, arrivati per miracolo a soccorrerli, risultarono decisivi. Li abbracciò, con gratitudine, e affidò il comando a Pedro de Valdivia, il mitico conquistador del Cile, nominato maestro di campo. La truppa recuperò immediatamente la fiducia perché con quel generale alla testa sentiva che la vittoria era certa. Valdivia cominciò rafforzando il morale dei soldati usando le parole giuste, frutto dei molti anni di esperienza al comando, poi procedette a valutare le forze e l'equipaggiamento. Consapevole di avere davanti a sé un compito improbo, si sentì ringiovanire; i suoi capitani non lo vedevano così entusiasta dai tempi della fondazione di Santiago.
Per avvicinarsi a Cuzco, dove avrebbero dovuto affrontare l'esercito del ribelle Gonzalo Pizarro, Valdivia utilizzò gli stretti sentieri degli inca intagliati ai bordi dei precipizi. Avanzava con le sue truppe, simili a una fila di insetti, nell'imponente presenza delle montagne scure, rocce, ghiaccio, cime perdute tra le nuvole, vento e condor. Radici pietrificate spuntavano a volte dalle crepe e a esse si aggrappavano gli uomini per riposare un momento durante la terribile ascensione. Le zampe delle bestie scivolavano nelle fenditure e i soldati, legati tra loro con delle corde, dovevano tenerle strette per i crini per evitare che precipitassero nei profondi abissi. Il paesaggio era di una bellezza sconvolgente e minacciosa, era un mondo di luce rifulgente e ombre siderali. Il vento e la grandine avevano intagliato demoni nei contrafforti; il ghiaccio imprigionato nelle fessure delle rocce brillava con i colori dell'aurora. Al mattino il sole sorgeva distante e freddo, dipingendo le vette con pennellate arancioni e rosse; di pomeriggio la luce spariva all'improvviso così come era apparsa, facendo sprofondare la Cordigliera nelle tenebre. Le notti risultavano eterne, nessuno poteva muoversi al buio, uomini e animali si ripiegavano su di sé, barbellando, appesi ai bordi delle scarpate.
Per lenire il male d'altitudine e dare energia alla gente estenuata, Valdivia ordinò di masticare foglie di coca, come da tempi immemorabili facevano i quechua. Quando venne a sapere che Gonzalo Pizarro aveva fatto tagliare i ponti per impedire che attraversassero fiumi e precipizi, con le fibre vegetali del luogo fece intrecciare delle corde agli yanaconas, che le realizzarono con prodigiosa velocità. Andò in avanscoperta, con un gruppo di coraggiosi, nascosti dalla nebbiolina che li rendeva invisibili, e raggiunse uno dei passi interrotti da Pizarro; ordinò agli indios di intrecciare le funi di sei in sei, nel modo tradizionale dei quechua, e di costruire così dei ponti di corde. Il giorno dopo giunse La Gasca con il grosso dell'esercito e si ritrovò il problema risolto. Riuscirono a far passare dall'altra parte quasi mille soldati, cinquanta cavalieri, innumerevoli yanaconas e pesanti armamenti, ondeggiando sulle corde tese su uno spaventoso precipizio, tra gli ululati del vento. Successivamente Valdivia dovette obbligare gli stremati soldati a scalare due leghe di ripida montagna, con l'equipaggiamento sulle spalle, trascinando i cannoni, fino al luogo che aveva scelto per sfidare Gonzalo Pizarro. Una volta sistemati gli armamenti nei punti strategici delle colline, decise di concedere agli uomini un paio di giorni di riposo per riprendere le forze, mentre lui, seguendo l'esempio del suo maestro, il marchese di Pescara, controllava di persona la posizione dell'artiglieria e degli archibugi, parlava con ogni soldato per dargli istruzioni e preparava il piano di battaglia. Mi pare di vederlo, sul suo cavallo, con l'armatura nuova, energico, impaziente, a calcolare in anticipo i movimenti del nemico, preparando la sua mossa d'attacco da buon giocatore di scacchi qual era. Non era più giovane, aveva quarantotto anni, era ingrassato un po' e l'antica ferita al fianco gli procurava dei fastidi, ma era ancora in grado di stare a cavallo per due giorni filati, senza pause, e so che in quei momenti si sentiva invincibile. Era talmente certo del trionfo che promise a La Gasca che avrebbero perso meno di trenta uomini e mantenne la parola.
Non appena tra le colline risuonò la prima bordata di cannoni, i pizarristi capirono che si trovavano davanti a un generale eccezionale. Molti soldati, a disagio all'idea di dover combattere contro il re, abbandonarono le file di Gonzalo Pizarro per unirsi a quelle di La Gasca. Dicono che il maestro di campo di Pizarro, una vecchia volpe con moltissimi anni di esperienza militare, indovinò immediatamente con chi aveva a che fare. "C'è un solo generale nel Nuovo Mondo in grado di attuare tale strategia: don Pedro de Valdivia, conquistador del Cile" pare che abbia detto. Il nemico non lo smentì e nemmeno gli diede tregua. Dopo varie ore di combattimento e di cospicue perdite, Gonzalo Pizarro dovette arrendersi e consegnare la spada a Valdivia. Alcuni giorni dopo venne decapitato a Cuzco insieme all'anziano maestro di campo.
La Gasca aveva portato a termine la missione di soffocare l'insurrezione e restituire il Perú a Carlo V, e ora gli toccava occupare la carica del deposto Gonzalo Pizarro, con l'immenso potere che ciò implicava. Doveva il suo trionfo al valoroso capitano Valdivia, che premiò convalidando il titolo di governatore del Cile che gli era stato riconosciuto dagli abitanti di Santiago e che fino a quel momento non era stato ratificato dalla Corona. Inoltre, lo autorizzò a reclutare soldati da portare in Cile, a patto che non fossero ribelli pizarristi o indios peruviani.
Si sarà ricordato di me Pedro mentre girava trionfalmente per le strade di Cuzco? O, gonfio d'orgoglio, pensava solo a se stesso? Mi sono chiesta cento volte perché non abbia voluto portarmi in quel viaggio. Se lo avesse fatto, il nostro destino sarebbe stato molto diverso. Era una missione militare, è vero, ma io ero stata la sua compagna sia in guerra sia in pace. Si vergognava di me? Amante, convivente, concubina. In Cile io ero doña Inés Suárez, la governatrice, e nessuno ricordava che non eravamo sposi legittimi. Io stessa me ne dimenticavo. Chissà quante donne avranno tentato di sedurre Pedro a Cuzco e a Ciudad de los Reyes, era l'eroe assoluto della guerra civile, padrone e signore del Cile, presumibilmente ricco e ancora attraente; per tutte sarebbe stato un onore andare al suo braccio. Inoltre, già si aveva sentore del probabile assassinio di La Gasca, uomo dalla rigidità fanatica, e della nomina di Valdivia al suo posto, ma nessuno osava parlarne apertamente all'interessato perché sarebbe stato un insulto. La spada dei Valdivia aveva sempre servito lealmente il re, non si sarebbe mai rivoltata contro La Gasca, il legittimo rappresentante della Corona.
Non vale la pena, alla mia età, di fare congetture sulle donne che Pedro ebbe in Perú, soprattutto perché non ho la coscienza troppo pulita; a quell'epoca nacque la mia amorosa amicizia con Rodrigo de Quiroga. Debbo chiarire, comunque, che lui non prese nessuna iniziativa né diede segno di aver intuito i miei vaghi desideri. Sapevo che non avrebbe mai tradito il suo amico Pedro de Valdivia, motivo per cui mantenni quel sentimento al livello di una reciproca simpatia tanto quanto fece lui. Mi interessai a Quiroga per ripicca, per vendicarmi dell'abbandono di Pedro? Non lo so, ma il fatto è che io e Rodrigo ci amammo come casti fidanzati, con un sentimento profondo e privo di speranze, che non si espresse mai a parole, ma solo con sguardi e gesti. Da parte mia non si trattava di una passione bruciante, come quella che avevo provato per Juan de Málaga o Pedro de Valdivia, ma di un desiderio discreto di stare vicino a Rodrigo, di condividere la sua vita, di prendermi cura di lui. Santiago era una città piccola, in cui risultava impossibile mantenere un segreto, ma il prestigio di Rodrigo era inattaccabile e nessuno mise in giro chiacchiere su di noi, nonostante ci vedessimo quotidianamente quando lui non era via a combattere. Pretesti non ne mancavano, visto che mi aiutava nei progetti di edificazione della chiesa, degli eremi, del cimitero e dell'ospedale, e che io mi ero fatta carico di sua figlia.
Non puoi ricordartene, Isabel, perché avevi solo tre anni. Eulalia, tua madre, che amò moltissimo te e Rodrigo, morì quell'anno durante l'epidemia di tifo. Tuo padre ti condusse per mano a casa mia e mi disse: "Ne abbia cura per qualche giorno, la prego, doña Inés, debbo andare a occuparmi di alcuni selvaggi, ma sarò presto di ritorno...". Eri una bambina silenziosa e profonda, avevi un viso da lama, con gli stessi dolci occhi dalle lunghe ciglia, la stessa espressione di curiosità e i capelli raccolti in due crocchie separate, che sembravano proprio le orecchie di quell'animale. Da tua madre quechua hai ereditato la pelle caramellata e da tuo padre i lineamenti aristocratici, un'ottima combinazione. Ti ho adorata dal momento in cui hai varcato la soglia di casa mia, abbracciata a un cavallino di legno intagliato da Rodrigo. Non ti ho mai restituito a tuo padre e con diversi pretesti ti ho tenuta vicino a me finché io e Rodrigo ci siamo sposati, e allora sei diventata legalmente mia. Mi criticavano perché ti viziavo e ti trattavo da adulta, dicevano che stavo creando un mostro; immaginati che delusione per le male lingue che ora vedono il risultato.
In quei nove anni avevamo sostenuto diverse battaglie campali e innumerevoli scaramucce con gli indios cileni, e non eravamo solo riusciti a stabilirci, avevamo anche fondato nuove città. Ci sentivamo al sicuro, benché in realtà gli indigeni cileni non accettarono mai la nostra presenza sulla loro terra, come avremmo constatato negli anni a venire. Gli indios di Michimalonko, a nord, si preparavano da anni a una sollevazione di massa, ma non osavano attaccare Santiago, come avevano fatto nel 1541, e così concentrarono i loro sforzi nei piccoli villaggi del Nord in cui i coloni spagnoli si trovavano praticamente indifesi.
Nell'estate del 1549 don Benito morì per aver mangiato ostriche andate a male. Era molto amato da tutti noi, lo consideravamo il patriarca della città. Eravamo giunti fino alla valle del Mapocho spinti dal sogno di quel vecchio soldato che paragonava il Cile ai Giardini dell'Eden. Con me fu sempre di una lealtà e di una galanteria esemplari, motivo per cui mi disperai di non poterlo aiutare nella sua agonia. Morì tra le mie braccia, contorcendosi dal dolore, avvelenato fino al midollo. Eravamo nel mezzo del funerale, al quale parteciparono tutti gli abitanti, quando apparvero a Santiago due soldati con gli abiti a brandelli, morti di fatica, uno anche ferito. Venivano da La Serena, avevano viaggiato di notte, rimanendo nascosti di giorno per evitare gli indios. Ci raccontarono che una notte l'unica sentinella della piccola città di La Serena, da poco fondata, era a stento riuscita a dare l'allarme prima che una massa di indios esaltati si riversasse sul paese. Gli spagnoli non erano riusciti a difendersi e nel giro di poche ore di La Serena non era rimasto nulla. Gli aggressori avevano torturato a morte uomini e donne, avevano ucciso i bambini scagliandoli contro le rocce e avevano ridotto in cenere le case. Nella confusione i due soldati erano riusciti a sgattaiolare via e, dopo sovrumane fatiche, erano riusciti a portare a Santiago l'orrenda notizia. Ci assicurarono che si trattava di una rivolta generale, le tribù erano sul piede di guerra, pronte a distruggere tutte le postazioni spagnole.
Il terrore si impadronì della popolazione di Santiago, ci sembrava di vedere le orde selvagge che saltavano il fosso, scalavano la muraglia e si avventavano su di noi come l'ira del diavolo. Di nuovo ci trovavamo con le forze divise, perché parte dei soldati era stata assegnata ai villaggi del Nord, Pedro de Valdivia era assente con diversi capitani e i rinforzi promessi non erano arrivati. Era impossibile proteggere le miniere e le haciendas, che vennero quindi abbandonate, e la gente si rifugiò a Santiago. Le donne, disperate, si sistemarono nella chiesa a pregare giorno e notte e persino anziani e malati si apprestarono a difendere la città.
Il cabildo, riunito al completo, decise che Villagra sarebbe andato con sessanta uomini ad affrontare gli indios a nord prima che si organizzassero per arrivare a Santiago. Ad Aguirre venne affidata la difesa della capitale e a Juan Gómez venne ingiunto di utilizzare qualsiasi mezzo per ottenere informazioni sul nemico, cosa che in poche parole significava torturare i sospetti. Le grida di dolore degli indios seviziati contribuivano a esasperare i nostri nervi. Furono inutili le mie suppliche perché si usasse compassione, così come l'argomentazione che tramite il supplizio non si otteneva mai la verità, perché la vittima confessava ciò che il boia desiderava sentirsi dire. Erano tali l'odio, la paura, il desiderio di vendetta, che provocò festeggiamenti la notizia delle spedizioni punitive di Villagra, la cui crudeltà era pari a quella dei barbari. Con i suoi brutali metodi in meno di tre mesi riuscì a soffocare l'insurrezione, a distruggere le truppe nemiche e a evitare che Santiago venisse attaccata. Impose un accordo di pace ai cacicchi, ma nessuno sperava che la tregua fosse durevole; la nostra unica speranza era riposta nel veloce ritorno dal Perú del governatore con i suoi capitani e altri soldati.
Alcuni mesi dopo la campagna militare di Villagra, il cabildo mandò a nord Francisco de Aguirre con la missione di ricostruire le città distrutte dagli indios e di trovare alleati, ma il capitano basco approfittò dell'occasione per dare sfogo al suo impulsivo e crudele temperamento. Assaliva i villaggi senza misericordia, catturava tutti gli uomini, bambini e anziani compresi, li chiudeva in baracche di legno e li bruciava vivi. Così facendo fu sul punto di sterminare completamente la popolazione indigena e, stando a ciò che lui ridendo raccontava, dopo dovette ingravidare le vedove per ripopolare la zona. Non voglio fornire ulteriori particolari perché temo che queste pagine contengano più truculenza di quanta un'anima cristiana possa sopportare. Nel Nuovo Mondo nessuno si fa tanti scrupoli quando si tratta di esercitare la violenza. Cosa dico? La violenza come quella praticata da Aguirre esiste da tutte le parti e in tutti i tempi. Niente cambia, noi esseri umani ripetiamo gli stessi peccati in continuazione, in eterno. Tutto ciò avveniva nelle Americhe, mentre in Spagna l'imperatore Carlo V promulgava le Nuove Leggi con le quali ribadiva che gli indios erano sudditi della Corona e avvertiva gli encomenderos che non potevano obbligarli a lavorare né infliggere loro pene fisiche, che dovevano assumerli per iscritto e pagarli con moneta sonante. E c'è di più: i conquistadores dovevano avvicinare gli indios con le buone maniere, chiedendo con parole gentili che accettassero il Dio e il re dei cristiani, che regalassero le loro terre e si mettessero agli ordini dei nuovi padroni. Come tante leggi fatte con le migliori intenzioni, anche queste rimasero inchiostro su carta. "La testa del nostro sovrano deve essere messa peggio di quanto pensiamo, se ritiene che ciò sia possibile" commentò al proposito Aguirre. Aveva ragione. Cosa aveva fatto la gente di Spagna quando erano arrivati gli stranieri a imporre i loro costumi e la loro religione? Li aveva combattuti fino alla morte, ovviamente.
Nel frattempo Pedro era riuscito a riunire in Perú un numero considerevole di soldati e aveva intrapreso la strada del ritorno via terra seguendo il già noto percorso attraverso il deserto di Atacama. Era già in viaggio da alcune settimane quando un messaggero di La Gasca lo raggiunse al galoppo intimandogli di tornare a Ciudad de los Reyes dove giaceva un voluminoso incartamento di accuse contro di lui. Valdivia dovette lasciare la truppa al comando dei suoi capitani e tornare indietro per affrontare la giustizia. A nulla gli servì l'aver prestato aiuto al re e a La Gasca per sconfiggere Gonzalo Pizarro e l'aver restituito la pace al Perú, perché venne comunque processato.
Oltre agli invidiosi che Valdivia si era attirato in Perú, c'erano altri detrattori che dal Cile avevano intrapreso il viaggio per distruggerlo. Le imputazioni contro di lui erano più di cinquanta, ma ricordo solo le più importanti e quelle che mi riguardavano. Venne accusato di essersi nominato governatore senza l'autorizzazione di Francisco Pizarro, che gli aveva concesso solamente il titolo di tenente governatore; di aver ordinato la morte di Sancho de la Hoz e di altri spagnoli innocenti, quali il giovane Escobar, condannato per gelosia; lo si incolpava di aver sottratto il denaro ai coloni, ma non fu mai detto che Pedro, mantenendo le sue promesse, aveva già saldato quasi completamente quel debito con i frutti della miniera di Marga-Marga; si disse che si era appropriato delle terre migliori e di migliaia e migliaia di indios, ma non si accennava al fatto che sosteneva diverse spese della colonia, finanziava i soldati, prestava denaro senza interessi e, in buona sostanza, fungeva da tesoriere del Cile ricorrendo al proprio denaro, dato che non era mai stato avaro né avido; si aggiunse che aveva dato ricchezze in eccesso a una certa Inés Suárez, con la quale conviveva in una condizione di scandaloso concubinato. Ciò che in seguito, quando venni a conoscenza dei dettagli, mi causò maggiore indignazione fu che quei vili sostennero che io manovravo Pedro come mi pareva e che per ottenere qualcosa dal governatore era necessario pagare una commissione alla sua amante. Ho sopportato moltissime fatiche durante la Conquista del Cile e ho dedicato la mia vita alla fondazione di questo regno. Non vale la pena di stilare la lista di ciò che con i miei sforzi ho realizzato, perché è tutto scritto negli archivi del cabildo e chi nutre qualche dubbio può andare a consultarli. È vero che Pedro mi onorò con terre di grande valore ed encomiendas, e che ciò risvegliò il rancore di persone meschine e dalla memoria corta, ma altrettanto vero è che non me le guadagnai a letto. La mia fortuna è cresciuta perché l'ho amministrata con quel buon senso campagnolo che ho ereditato da mia madre, che riposi in pace. "Che esca meno di quanto entra" era la sua filosofia rispetto al denaro, formula infallibile. Da hidalgos spagnoli quali erano, Pedro e Rodrigo non si occuparono mai della gestione dei loro beni e dei loro affari; Pedro morì povero e Rodrigo visse nella ricchezza grazie a me.
Nonostante la sua simpatia per l'accusato, a cui tanto doveva, La Gasca condusse il processo fino alle estreme conseguenze. In Perú non si parlava d'altro e il mio nome girava di bocca in bocca: ero una strega, ricorrevo a pozioni per fare impazzire gli uomini, ero stata meretrice in Spagna e poi a Cartagena, mi mantenevo giovane bevendo sangue di neonato, e altri orrori che mi imbarazza ripetere. Pedro dimostrò la sua innocenza, smontando i capi d'accusa a uno a uno, e alla fine l'unica a uscirne perdente fui io. La Gasca ratificò nuovamente la nomina a governatore, i titoli e le onorificenze, e si limitò a pretendere che pagasse i debiti in un lasso di tempo ragionevole; ma per quanto riguardava me il religioso – che merita di bruciare all'inferno – fu durissimo. Ordinò al governatore di privarmi dei miei beni e di distribuirli tra i capitani, di separarsi immediatamente da me e di mandarmi in Perú o in Spagna, dove in un convento avrei avuto modo di espiare i miei peccati.
Pedro rimase assente per un anno e mezzo e fece ritorno dal Perú con duecento soldati, dei quali ottanta giunsero con lui su una nave e il resto via terra. Quando seppi che stava tornando venni colta da una febbre di attività che quasi fece impazzire la servitù. Decisi di far ridipingere tutto e misi a lavare le tende, feci piantare i fiori nei vasi, preparare le ghiottonerie che amava, tessere coperte e cucire lenzuola. Era estate e già producevamo negli orti dei dintorni di Santiago frutta e verdura spagnola, ma ben più gustosa. Insieme a Catalina mi dedicai a preparare conserve e i dolci preferiti di Pedro. Per la prima volta dopo molti anni mi preoccupai del mio aspetto e mi feci persino raffinate gonne e camicie per riceverlo come una sposa. Avevo all'incirca quarant'anni ma mi sentivo giovane e attraente, forse perché il mio corpo non era cambiato, come succede alle donne che non hanno avuto figli, e perché mi vedevo riflessa negli occhi timidi di Rodrigo de Quiroga; tuttavia temevo che Pedro notasse le sottili rughe intorno agli occhi, le vene in rilievo delle gambe e le mani callose a causa del lavoro. Decisi di evitare di rimproverarlo: cosa fatta, capo ha; desideravo riconciliarmi con lui e tornare ai tempi in cui eravamo stati amanti leggendari. Avevamo tanta storia vissuta insieme, dieci anni di battaglie e passione che non potevano andare persi. Mi tolsi dalla testa Rodrigo de Quiroga, una fantasia inutile e pericolosa, e andai a far visita a Cecilia per ottenere da lei quei segreti di bellezza, che tante chiacchiere scatenavano a Santiago, perché era davvero incredibile come quella donna, a differenza del resto del mondo, ringiovanisse con il passare degli anni. La casa di Juan e Cecilia era molto più piccola e modesta della nostra, ma lei l'aveva decorata in maniera splendida con mobili e ornamenti peruviani, alcuni dei quali provenivano nientemeno che dall'antico palazzo di Atahualpa. L'interno profumava di cannella e cioccolata, che lei riusciva a procurarsi, mentre noialtri ci accontentavamo di mate o erbe locali. Durante la sua infanzia nel palazzo di Atahualpa si era talmente abituata a quella bevanda che ai tempi della distruzione di Santiago, quando pativamo la fame, lei non piangeva per il bisogno di un tozzo di pane, ma per il desiderio di bere della cioccolata. Prima che gli spagnoli arrivassero nel Nuovo Mondo, la cioccolata era riservata ai reali, ai sacerdoti e ai militari di alto rango, ma noi la adottammo con molta rapidità. Ci sedemmo sui cuscini e le sue silenziose domestiche ci servirono la fragrante bevanda in tazze d'argento lavorato da artigiani quechua. Cecilia, che in pubblico era sempre vestita alla spagnola, in casa sua riprendeva la moda della corte inca, più comoda: una gonna dritta lunga fino alle caviglie e una tunica ricamata, trattenuta in vita da una fascia tessuta con colori brillanti. Era scalza e non potei evitarmi di paragonare i suoi piedi perfetti da principessa con i miei da rozza contadina. Portava i capelli sciolti e il suo unico ornamento erano i pesanti orecchini d'oro, eredità di famiglia, arrivati in Cile per le stesse vie misteriose dei mobili.
"Se Pedro noterà le tue rughe significa che non ti ama più e in quel caso non c'è niente che tu possa fare per cambiare i suoi sentimenti" mi avvertì quando le manifestai i miei dubbi.
Non so se le sue parole si rivelarono profetiche o se lei, che conosceva anche i segreti meglio serbati, fosse già informata di ciò che io ancora ignoravo. Per darmi soddisfazione divise con me le sue creme, le lozioni e i profumi, che mi applicai per giorni attendendo con impazienza l'arrivo del mio amante. Tuttavia passò una settimana, poi ne trascorse un'altra e poi un'altra ancora senza che a Santiago apparisse Valdivia. Si era sistemato sulla nave all'ancora di fronte alla rada di Concón e governava tramite emissari, ma nessuno dei suoi messaggi era destinato a me. Mi risultava impossibile capire cosa stesse succedendo, mi dibattevo nell'incertezza, nell'ira e nella speranza, terrorizzata all'idea che avesse smesso di amarmi, in balìa del minimo segnale positivo. Chiesi a Catalina di leggermi il futuro, ma per la prima volta non scoprì nulla nelle conchiglie, o forse non osò dirmi cosa vedeva. Passavano i giorni e le settimane senza notizie di Pedro; smisi di mangiare e quasi non dormivo più. Durante il giorno lavoravo fino a sfinirmi e di notte passeggiavo come un toro furioso per le verande e le sale della casa, producendo scintille con il mio tacchettio impaziente. Non piangevo, perché in realtà non provavo tristezza, ma furia, e non pregavo perché ero convinta che Nuestra Señora del Socorro non avrebbe capito il problema. Mille volte ebbi la tentazione di andare a far visita a Pedro sulla nave per capire così, una volta per tutte, cosa voleva – erano solo due giornate a cavallo – ma non mi azzardai, perché l'istinto mi avvertì che in quelle circostanze non dovevo sfidarlo. Probabilmente intuii la mia disgrazia, anche se, per orgoglio, non la espressi mai a parole. Non volli che nessuno mi vedesse umiliata e meno di tutti Rodrigo de Quiroga che fortunatamente non mi fece domande.
Alla fine, in un pomeriggio molto caldo, con aria sfinita si presentò a casa mia il sacerdote González de Marmolejo: era andato e tornato da Valparaíso in cinque giorni e aveva le chiappe maciullate dalla cavalcata. Lo ricevetti con una bottiglia del mio vino migliore, in ansia, perché intuivo che mi portava notizie. Pedro stava arrivando? Mi chiamava al suo fianco? Marmolejo mi impedì di continuare a fare domande, mi consegnò una lettera sigillata e mentre leggevo se ne andò a testa bassa a bere il suo vino sotto la buganvillea del portico. In poche parole, e molto precise, Pedro mi comunicava la decisione di La Gasca, mi rinnovava il suo rispetto e la sua ammirazione, senza nessun cenno all'amore, e mi pregava di ascoltare attentamente González de Marmolejo. L'eroe delle campagne di Fiandre e di Italia, delle rivolte del Perú e della Conquista del Cile, il militare più valoroso e coraggioso del Nuovo Mondo non osava affrontarmi e perciò da due mesi stava nascosto su una nave. Cosa gli era successo? Mi risultava impossibile immaginare i motivi per cui era dovuto scappare di corsa lontano da me. Forse mi ero trasformata in una strega dominatrice, in una virago; forse avevo riposto troppa fiducia nella solidità del nostro amore, dato che non mi ero mai chiesta se Pedro mi amasse quanto lo amavo io, la consideravo una verità indiscutibile. No, decisi alla fine. La colpa non era mia. Non ero io a essere cambiata, era lui. Rendendosi conto che stava invecchiando si era spaventato e aveva cercato di tornare a essere il militare eroico, l'amante giovanile che era stato anni addietro. Io lo conoscevo troppo bene, al mio fianco non poteva reinventarsi o cominciare da capo con abiti nuovi. Davanti a me gli sarebbe risultato impossibile nascondere le debolezze o l'età e siccome non poteva ingannarmi, mi aveva allontanato.
"Legga qui, padre, e mi dica per favore che
cosa significa" dissi, allungando la lettera al
sacerdote.
"Ne conosco il contenuto, figlia mia. Il governatore mi ha fatto
l'onore di confidarsi con me e di chiedermi consiglio."
"Allora è lei padre ad aver ideato questa cattiveria?"
"No, doña Inés, sono ordini di La Gasca, la massima autorità del re
e della Chiesa in questa parte del mondo. Ho qui le carte, le puoi
vedere tu stessa. La relazione adulterina con Pedro è motivo di
scandalo."
"Adesso, quando non hanno più bisogno di me, il mio amore per Pedro
è motivo di scandalo, ma quando ho trovato l'acqua nel deserto, ho
curato i malati, ho seppellito i morti e salvato Santiago dagli
indios, allora ero una santa."
"So quello che provi, figlia mia..."
"No, padre, non può nemmeno immaginarlo quello che provo. È una
beffa diabolica che solo la concubina sia colpevole, visto che lei
è libera ed è lui a essere sposato. Non mi sorprende la bassezza di
La Gasca, che in fin dei conti è un frate, ma la vigliaccheria di
Pedro sì."
"Non ha avuto scelta, Inés."
"Per un uomo nobile c'è sempre una scelta quando si tratta di
difendere il proprio onore. L'avverto, padre, non me ne andrò dal
Cile perché io l'ho conquistato e io l'ho fondato."
"Guardati dalla superbia, Inés! Immagino che tu non desideri che
arrivi l'Inquisizione a risolvere a suo modo la
faccenda."
"Mi sta minacciando?" gli domandai avvertendo il brivido che sempre
mi provoca la parola Inquisizione.
"Minacciarti è l'ultima cosa al mondo che farei, figlia mia. Il
governatore mi ha incaricato di proporti una soluzione affinché tu
possa rimanere in Cile."
"Quale?"
"Potresti sposarti..." riuscì a dire il religioso continuando a
schiarirsi la voce e agitandosi sulla sedia. "È l'unico modo per
far sì che tu possa rimanere in Cile. Non mancheranno pretendenti
felici di accasarsi con una donna dei tuoi meriti e con una dote
come la tua. Registrando i tuoi beni a nome di tuo marito, nessuno
te li potrà togliere."
A lungo non mi uscì la voce. Facevo fatica a credere che mi si
stesse offrendo questa contorta soluzione, l'ultima che mi sarebbe
venuta in mente.
"Il governatore vuole aiutarti anche se ciò implica rinunciare a
te. Non capisci che il suo è un gesto disinteressato, una prova
d'amore e gratitudine?" aggiunse il sacerdote.
Si faceva aria, nervosamente, spaventando le mosche, mentre io
cercavo di calmarmi passeggiando a grandi falcate nel portico.
L'idea non era frutto di un'improvvisa ispirazione, Pedro l'aveva
suggerita a La Gasca in Perú, ed era stata approvata, vale a dire
che il mio destino era stato deciso alle mie spalle. Il tradimento
di Pedro mi parve gravissimo e un'ondata d'odio mi investì come
acqua sudicia dalla testa ai piedi, riempiendomi la bocca di bile.
In quel momento desideravo ammazzare a mani nude il sacerdote e
dovetti fare uno sforzo enorme per ricordare che lui era solo il
latore; chi meritava la mia vendetta era Pedro, non quel povero
vecchio che, nella sua veste, sudava dalla paura. All'improvviso mi
colpì qualcosa di simile a un pugno al petto che mi tolse il
respiro e mi fece barcollare. Il cuore ebbe un sobbalzo, quasi
fosse un cavallo selvaggio imbizzarrito, di una potenza che non
avevo mai sperimentato prima. Mi salì tutto il sangue alle tempie e
persi i sensi. Riuscii a crollare su una seggiola, perché
altrimenti sarei stramazzata a terra. Lo svenimento durò solo
qualche istante, ripresi rapidamente conoscenza e mi ritrovai con
la testa appoggiata alle ginocchia. In quella posizione attesi che
si regolarizzassero i battiti nel petto e che la respirazione
riprendesse il suo ritmo. Attribuii il breve malore all'ora e al
caldo, senza sospettare che mi si era rotto il cuore e che avrei
dovuto vivere altri trent'anni con quella crepa.
"Immagino che Pedro, che tanto desidera aiutarmi, si sia preso
anche il disturbo di scegliere un marito per me, vero?" domandai a
Marmolejo quando fui in grado di parlare.
"Il governatore ha in mente un paio di nomi..."
"Dica a Pedro che accetto l'accordo e che io stessa mi sceglierò il
mio futuro sposo, perché voglio sposarmi per amore ed essere molto
felice."
"Inés, torno ad avvertirti che la superbia è un vizio
capitale."
"Mi dica una cosa, padre. È vero quel che si dice, che Pedro si è
portato con sé due donne?"
Gonzàles de Marmolejo non rispose, confermando con il suo silenzio
il pettegolezzo che era giunto alle mie orecchie. Pedro aveva
rimpiazzato una donna di quarant'anni con due di venti. Erano due
spagnole, María de Encio e la sua misteriosa domestica, Juana
Jiménez, che divideva anch'essa il letto di Pedro e che, a quanto
si diceva, controllava entrambi con arti stregonesche. Stregoneria?
La stessa cosa avevano detto di me. A volte basta asciugare il
sudore dalla fronte di un uomo stanco perché poi mangi dalla mano
che lo accarezza. Non c'è bisogno di essere negromanti. Essere
leali, allegre, ascoltare – o almeno fingere di farlo –, cucinare
bene, controllarlo senza che se ne accorga per evitare che commetta
stupidaggini, godere e farlo godere a ogni abbraccio, e altre
attenzioni molto semplici, sono la ricetta. Potrei riassumerla in
un famoso detto: pugno di ferro in guanto di velluto.
Ricordo che quando Pedro mi aveva parlato della camicia da notte
con l'occhiello usata da sua moglie Marina mi ero ripromessa di non
nascondere mai il mio corpo all'uomo che divideva il mio letto. Ho
tenuto fede a tale promessa e mi sono comportata con tale
sfacciataggine fino all'ultimo giorno trascorso vicino a Rodrigo
che lui non si è mai reso conto che, come a qualsiasi anziana, mi
si erano afflosciate le carni. Gli uomini che mi hanno toccato sono
stati ingenui: mi sono sempre comportata come se fossi bella e loro
ci hanno sempre creduto. Ora sono sola e non ho chi rendere felice
con l'amore, ma posso assicurare che Pedro lo fu quando stava con
me come anche Rodrigo, perfino quando la malattia gli impediva di
prendere l'iniziativa. Scusa, Isabel, so che leggerai queste righe
con turbamento, ma è meglio che tu impari. Non badare ai preti, che
di queste cose non sanno nulla.
Santiago era già una città di cinquecento famiglie, ma le maldicenze circolavano in fretta, come in un villaggio, motivo per cui decisi di non perdere tempo in moine. Dopo la conversazione con il sacerdote, il mio cuore continuò a sussultare per giorni. Catalina mi preparò acqua di cochayuyo, alghe marine secche che metteva a bagno di notte. È da trent'anni che al risveglio bevo questo liquido vischioso, mi sono abituata al suo ripugnante sapore, e grazie a esso sono viva. Quella domenica mi vestii con gli abiti migliori, ti presi per mano, Isabel, perché vivevi con me da mesi, e attraversai la piazza per dirigermi a casa di Rodrigo de Quiroga nell'ora in cui la gente usciva dalla messa, perché tutti mi vedessero. Venivano con noi Catalina, protetta dal suo manto nero, intenta a borbottare incantesimi in quechua, in questi casi più efficaci delle preghiere cristiane, e Baltasar, con il suo trotterellare di cane anziano. Un indio mi aprì la porta e mi condusse nella sala, mentre le mie accompagnatrici rimanevano nel polveroso cortile ricoperto di cacche di gallina. Mi diedi un'occhiata intorno e capii che c'era molto lavoro da fare per trasformare quel capanno militare, spoglio e poco accogliente, in una dimora abitabile. Immaginai che Rodrigo non avesse nemmeno un letto decente e che riposasse su una branda da soldato; non a caso tu, Isabel, ti eri abituata molto velocemente alle comodità di casa mia. Sarebbe stato necessario sostituire quei grezzi mobili di bastoni e pelle conciata, tinteggiare, comprare il necessario per rivestire pareti e pavimenti, costruire verande all'ombra e al sole, piantare alberi e fiori, sistemare fontane nel giardino, rimpiazzare la paglia del tetto con tegole, insomma, avrei avuto di che divertirmi per anni. Mi piacciono i progetti. Qualche momento dopo entrò Rodrigo, sorpreso, perché mai gli avevo fatto visita in casa. Si era tolto la giubba domenicale e indossava la calzamaglia e una camicia bianca dalle maniche ampie, aperta sul petto. Mi sembrò molto giovane ed ebbi la tentazione di uscirmene di corsa da dove ero entrata. Quanti anni meno di me aveva quell'uomo?
"Buon giorno, doña Inés. Che succede? Come sta Isabel?" "Vengo a propormi in matrimonio, don Rodrigo. Cosa gliene pare?" gli dichiarai tutto di un fiato perché non era possibile ricorrere a giri di parole in una circostanza simile.
Debbo dire, per rendergli merito, che Quiroga accolse la mia proposta con una leggerezza da commedia. Gli si illuminò il viso, alzò le braccia al cielo e lanciò un lungo grido da indio, inimmaginabile in un uomo della sua compostezza. Ovviamente gli era già giunta voce di quanto era accaduto in Perú con La Gasca e della strana soluzione che il governatore aveva architettato; tutti i capitani la commentavano, in particolare quelli scapoli. Forse sospettava di essere il prescelto da me, ma era troppo modesto per darlo per certo. Volli spiegargli i termini dell'accordo, ma non mi lasciò parlare, mi prese tra le braccia con tanta veemenza che mi sollevò da terra e, senza indugiare oltre, mi chiuse la bocca con la sua. Fu allora che mi resi conto che anch'io stavo attendendo quel momento da quasi un anno. Mi aggrappai alla sua camicia con entrambe le mani e gli restituii il bacio con una passione che da tempo era sopita o ingannata, una passione che avevo riservato per Pedro de Valdivia e che reclamava di essere vissuta prima che la giovinezza mi sfuggisse. Sentii la certezza del suo desiderio, le sue mani sulla mia vita, sulla nuca, tra i capelli, le sue labbra sul collo, il suo profumo di giovane uomo, la sua voce che mormorava il mio nome, e mi sentii completamente felice. Come potei passare nel giro di un minuto dal dolore per essere stata abbandonata alla gioia di sentirmi amata? A quei tempi dovevo essere davvero una banderuola... In quell'istante promisi a me stessa che sarei stata fedele a Rodrigo fino alla morte, e non solo ho tenuto fede alla lettera a questo giuramento, ma l'ho anche amato per trent'anni, ogni giorno di più. Risultò molto facile volergli bene. Rodrigo si era sempre comportato in modo ammirevole, su questo erano tutti d'accordo, ma anche gli uomini migliori in genere hanno gravi difetti che si manifestano solo nell'intimità. Non era il caso di quel nobile hidalgo, soldato, amico e marito. Non pretese mai che dimenticassi Pedro de Valdivia, che rispettava e a cui voleva bene, mi aiutò persino a preservare la sua memoria affinché il Cile, così ingrato, lo onorasse come merita: semplicemente si prefissò di farmi innamorare e ci riuscì.
Quando alla fine ci separammo dall'abbraccio e recuperammo il fiato, uscii a dare un ordine a Catalina, mentre Rodrigo salutava sua figlia. Mezz'ora più tardi una fila di indios stava trasportando i miei bauli, il mio inginocchiatoio e la statua di Nuestra Señora del Socorro a casa di Rodrigo de Quiroga, mentre gli abitanti di Santiago, che dopo la messa erano rimasti nella plaza de Armas, applaudivano. Furono necessarie due settimane per preparare le nozze, perché non volevo sposarmi di nascosto, bensì in pompa magna. Era impossibile decorare la casa di Rodrigo in così poco tempo, ma ci concentrammo a trapiantare nel suo giardino alberi e arbusti, a preparare archi di fiori e a sistemare tendoni e lunghi tavoli da pranzo. Padre González de Marmolejo ci unì in matrimonio in quella che oggi è la cattedrale e che allora era una chiesa in costruzione, alla presenza di molte persone, bianchi, neri, indios e meticci. Sistemammo per me un verginale vestito bianco di Cecilia, dato che non ci fu il tempo di commissionare la tela per farne uno nuovo. "Sposati in bianco, Inés, perché don Rodrigo merita di essere il tuo primo amore" affermò Cecilia e aveva ragione. Le nozze prevedevano una messa cantata e poi un rinfresco con i piatti che erano le mie specialità, empanadas, pollo in umido, torta di mais, patate ripiene, fagioli al peperoncino, agnello e capretto arrosto, verdure del mio orto e i diversi dolci che avevo preparato per l'arrivo di Pedro de Valdivia. Il banchetto venne debitamente annaffiato con il vino che prelevai senza alcun senso di colpa dalla cantina del governatore, che era anche la mia. Le porte della casa di Rodrigo rimasero aperte per tutto il giorno e chiunque volle mangiare e festeggiare con noi fu il benvenuto. Tra la folla correvano dozzine di bambini meticci e indios e, seduti su seggiole disposte a semicerchio, erano accomodati gli anziani della colonia. Catalina calcolò che quel giorno per la casa sfilarono trecento persone, ma non è mai stata brava coi numeri, può darsi che siano state di più. Il giorno successivo, Rodrigo e io, insieme a te, Isabel, e a un seguito di yanaconas partimmo per trascorrere qualche settimana d'amore nella mia tenuta. Ci accompagnavano anche diversi soldati per proteggerci dagli indios cileni che erano soliti attaccare i viaggiatori incauti. Catalina e le fedeli serve che mi ero portata da Cuzco restarono a Santiago con il compito di sistemare il meglio possibile la casa di Rodrigo; il resto della numerosa servitù rimase al solito posto. Solo allora Valdivia osò sbarcare con le sue due donne e fare ritorno alla sua casa di Santiago, che trovò pulita, ordinata e ben rifornita, senza alcuna traccia di me.