Capitolo terzo Verso il Cile 1540-1541

La nostra ardimentosa carovana intraprese il viaggio per il Cile seguendo la strada del deserto che Diego de Almagro aveva percorso al ritorno, affidandosi al fragile pezzo di carta con il disegno della mappa che questi aveva dato a Pedro de Valdivia. Mentre come un lento serpente i nostri pochi soldati e i mille indios ausiliari salivano e scendevano colline, attraversavano valli e fiumi verso il Sud, la notizia del nostro arrivo ci stava precedendo e le tribù cilene ci aspettavano con le armi pronte. Gli inca utilizzavano rapidi messaggeri, i chasquis, che attraverso sentieri nascosti correvano per le montagne con un sistema di staffetta di sentinelle che coprivano l'impero dall'estremo Nord fino al fiume Bío-Bío in Cile. Fu così che, non appena lasciammo Cuzco, gli indios cileni vennero informati della nostra spedizione e quando arrivammo nel loro territorio, diversi mesi più tardi, erano già pronti per farci la guerra. Sapevano che i viracochas da tempo controllavano il Perú, che Atahualpa era stato messo a morte e che al suo posto regnava, come una marionetta, suo fratello, l'inca Paullo. Questo principe, che aveva consegnato il suo popolo nelle mani degli stranieri, passava la vita nella gabbia dorata del suo palazzo, perso nei piaceri della lussuria e della crudeltà. Sapevano anche che in Perú si stava preparando in segreto una vasta insurrezione indigena, orchestrata da un altro membro della famiglia reale, il fuggitivo inca Manco, che aveva giurato di scacciare gli stranieri. Avevano sentito dire che i viracochas erano feroci, attenti, tenaci, insaziabili e, cosa assolutamente inaudita, che non rispettavano la parola data. Come potevano continuare a vivere in quella vergogna? Era un mistero. Gli indios cileni ci chiamarono huincas, che nella loro lingua, il mapudungu, significa bugiardi e ladri di terre. Ho dovuto apprendere quest'idioma perché si parla ovunque in Cile, da nord a sud. I mapuche compensavano l'assenza di scrittura con una memoria infallibile; la storia della creazione, le leggi, le tradizioni e il passato dei loro eroi sono riportati in racconti in mapudungu che vengono tramandati integralmente di generazione in generazione dall'inizio dei tempi. Tradussi alcuni di questi al giovane Alonso de Ercilla y Zúñiga, a cui già ho fatto riferimento, affinché traesse ispirazione quando compose La Araucana. Pare che questo poema sia stato pubblicato e circoli nella corte di Madrid, ma io ho solo i versi scarabocchiati che Alonso mi lasciò dopo che lo ebbi aiutato a copiarli in bella. Se non ricordo male, descrive così, nei suoi versi, il Cile e i mapuche, o araucani:

Terra ferace, il Cile, e celebrata, nella regione antartica famosa,

dalle remote genti rispettata
ch'è forte, potente e prestigiosa; sì scelta schiatta n'è sempre generata, superba, gagliarda e bellicosa,
che non patì monarchia riverita, né al dominio stranier venne asservita.

Alonso esagera, ovviamente, ma i poeti ne hanno licenza, altrimenti i versi sarebbero privi del necessario vigore. Il Cile non è così "potente e prestigioso" né la sua gente è così "superba e gagliarda", come lui dice; concordo invece sul fatto che i mapuche siano "bellicosi" e che non siano mai stati governati da un re né soggiogati da "dominio straniero". Non temono il dolore, possono sopportare senza un lamento terribili supplizi, in virtù del coraggio e non perché siano meno sensibili di noi alla sofferenza. Non esistono guerrieri migliori, per loro perdere la vita in battaglia è un onore. Non riusciranno mai a vincerci, ma nemmeno noi riusciremo a sottometterli, anche a costo di morire tutti. Credo che la guerra contro gli indios durerà per secoli, visto che fornisce servi agli spagnoli. Schiavi è la parola giusta. Finiscono per essere schiavi non solo i prigionieri di guerra, ma anche gli indios liberi, che gli spagnoli cacciano al lazo e che vendono, a duecento pesos, nel caso si tratti di donne incinte, e cento pesos se sono maschi adulti o bambini sani. Il commercio illegale di queste persone non si limita al Cile, arriva fino a Ciudad de los Reyes, vi sono coinvolti in tanti, dagli encomenderos ai sorveglianti delle miniere fino ai capitani delle navi. Così stermineremo i nativi di questa terra, come temeva Valdivia, perché essi preferiscono morire liberi piuttosto che vivere schiavi. D'altronde, anche noi spagnoli, se dovessimo compiere la stessa scelta non avremmo dubbi. Valdivia si irritava per la stupidità di chi commetteva tali abusi, che avrebbero portato a spopolare il Nuovo Mondo. Senza indigeni, diceva, questa terra non vale nulla. Morì senza vedere la fine della carneficina, che dura ormai da quarant'anni. Continuano ad arrivare spagnoli e a nascere meticci, ma i mapuche stanno sparendo, sterminati dalla guerra, dalla schiavitù e dalle nostre malattie cui non sopravvivono. Temo i mapuche per tutto quello che ci hanno fatto passare; mi irrita che abbiano rifiutato la parola di Cristo e abbiano resistito ai nostri tentativi di civilizzarli; non perdonerò loro il modo feroce in cui hanno dato la morte a Pedro de Valdivia, benché non abbiano fatto altro che rendergli la pariglia per le molte crudeltà e gli abusi da lui perpetrati contro di loro. Chi di spada ferisce, di spada perisce, dicono in Spagna. Ma li rispetto e li ammiro anche, non posso negarlo. Noi spagnoli e i mapuche siamo degni nemici, entrambi coraggiosi, brutali e determinati a vivere in Cile. Loro arrivarono qui prima di noi e ciò gli conferisce maggiori diritti, ma non potranno mai cacciarci e a quanto pare non potremo mai convivere in pace.

Da dove venivano questi mapuche? Si dice che assomiglino a certi popoli asiatici. Se davvero provengono da lì, non riesco a spiegarmi come abbiano potuto attraversare mari così tempestosi e terre tanto estese per giungere fino a qui. Sono selvaggi, non conoscono né l'arte né la scrittura, non costruiscono né città né templi, non hanno caste, classi né sacerdoti, ma solo capitani di guerra, i loro toquis. Si muovono da un luogo all'altro, liberi e nudi, con le numerose mogli e i figli, che combattono insieme a loro nelle battaglie. Non compiono sacrifici umani e non adorano idoli. Credono in un unico dio, che non è il nostro Dio, che loro chiamano Ngenechén.

Mentre eravamo accampati a Tarapacá, dove Pedro de Valdivia aveva deciso di attendere l'arrivo dei rinforzi, e ci riprendevamo dalle fatiche, gli indios cileni si organizzavano per renderci il viaggio il più difficile possibile. Raramente ci affrontavano a viso aperto, preferivano depredarci o attaccarci alle spalle. E così mi mantenevano sempre occupata con i feriti, soprattutto gli yanaconas che combattevano senza cavalli né armatura. Carne da cannone, li chiamavano. I cronisti si dimenticano sempre di citarli, ma senza queste masse silenziose di indios amici, che seguivano gli spagnoli nelle loro imprese e guerre, la Conquista del Nuovo Mondo sarebbe stata impossibile.

Tra Cuzco e Tarapacá si era aggiunta una ventina di soldati spagnoli e Pedro era certo che ne sarebbero accorsi altri quando si fosse sparsa la voce che la spedizione era già in marcia, ma ne avevamo già persi cinque, un numero alto se si considera che eravamo pochissimi. Uno venne ferito gravemente da una freccia avvelenata e siccome non potevo curarlo, Pedro lo rimandò a Cuzco accompagnato da suo fratello, due soldati e diversi yanaconas. Alcuni giorni dopo il maestro di campo, che si era svegliato in preda all'agitazione dopo aver sognato la moglie che lo aspettava in Spagna, si arrese a un dolore acuto che gli trapassava il petto da più di una settimana. Gli servii una scodella di farina tostata con acqua e miele, che mangiò lentamente, come se fosse uno squisito manicaretto. "Oggi, doña Inés, lei è più bella che mai" mi disse con l'abituale galanteria e immediatamente dopo i suoi occhi divennero vitrei e cadde morto ai miei piedi. Dopo avergli dato cristiana sepoltura suggerii a Pedro di nominare don Benito come sostituto, visto che l'anziano conosceva la strada e aveva esperienza nell'organizzare accampamenti e mantenere la disciplina.

Avevamo qualche soldato in meno, ma a poco a poco ne arrivavano, come ombre silenziose, altri che vagavano per i campi e le montagne, uomini di Almagro sconfitti, senza amici nell'impero di Pizarro. Da anni vivevano di carità e non avevano nulla da perdere nell'avventura del Cile.

Rimanemmo accampati diverse settimane a Tarapacá per dare modo agli indios e agli animali di recuperare peso prima di intraprendere la traversata del deserto che, secondo don Benito, sarebbe stata la parte più dura del viaggio. Spiegò che il primo tratto era molto difficoltoso, ma il secondo, chiamato Despoblado, era ancora peggiore. Nel frattempo, Pedro de Valdivia percorreva leghe e leghe a cavallo scrutando l'orizzonte in attesa di nuovi volontari. Anche Sancho de la Hoz avrebbe dovuto riunirsi con noi portando via mare i soldati e l'equipaggiamento promessi, ma il nostro socio dai modi affettati non dava segnali di vita.

Mentre io facevo tessere ulteriori coperte e preparavo carne secca, cereali e altri alimenti conservabili, don Benito teneva occupati da mattina a sera i neri nelle fucine per rifornirci di munizioni, ferri di cavallo e lance. Organizzò anche squadre di soldati che andassero in cerca degli alimenti sotterrati dagli indios prima di abbandonare i loro villaggi. Aveva fatto montare l'accampamento nel luogo più adatto e sicuro, dove c'era ombra, acqua e colline su cui appostare le vedette. L'unica tenda decente era quella che Pizarro mi aveva dato, spaziosa, con due stanze, fatta di tela cerata e sostenuta da una solida impalcatura di bastoni, comoda come una casa. Il resto dei soldati si arrangiava come poteva, con delle tele rappezzate che a malapena li proteggevano. C'era anche chi non possedeva nemmeno questo, e dormiva sdraiato di fianco ai cavalli. L'accampamento degli indios ausiliari era separato e sorvegliato in continuazione per evitare che scappassero. Di notte luccicavano centinaia di piccoli falò su cui cucinavano il cibo e la brezza ci portava il lugubre suono dei loro strumenti musicali, dotati del potere di intristire allo stesso modo uomini e animali.

Eravamo accampati vicino a un paio di villaggi abbandonati dove, nonostante le lunghe ricerche, non riuscimmo a trovare del cibo. Lì scoprimmo che gli indios hanno l'abitudine di convivere amabilmente con i loro parenti venuti meno, i vivi in una parte della capanna e i defunti nell'altra. In ogni alloggio c'era una stanza con scure mummie ben conservate che odoravano di muschio, anziani, donne, bambini, ognuno di loro con i suoi oggetti personali, ma senza gioielli. In Perú, invece, avevamo trovato tombe stipate di oggetti preziosi, comprese statue di oro massiccio. "In Cile persino i morti sono miserabili, non c'è un briciolo d'oro da nessuna parte" imprecavano i soldati. Per prendersi la rivincita legarono le mummie con delle corde e le trascinarono al galoppo, finché le bende non cedettero e le ossa vennero sparse ovunque. Festeggiarono l'impresa con risate omeriche, mentre l'accampamento degli yanaconas cadeva preda del terrore. Dopo il tramonto iniziò a circolare tra loro la voce che le ossa profanate iniziavano a riunirsi e che prima dell'alba gli scheletri si sarebbero scagliati contro di noi come un esercito dell'oltretomba. I neri, atterriti, ripeterono la storia che giunse fino alle orecchie degli spagnoli, con il risultato che quei vandali imbattibili, che non conoscono la parola paura, iniziarono a piagnucolare come neonati. Verso mezzanotte era talmente forte il battito dei loro denti che Pedro de Valdivia dovette rimproverarli ricordando loro che erano soldati di Spagna, i più forti e preparati del mondo, e non un gruppo di lavandaie ignoranti. Io non dormii per diverse notti; le trascorsi a pregare perché gli scheletri facevano la ronda, e se qualcuno sostiene il contrario è solo perché non si trovava lì.

I soldati, assai scontenti, si domandavano cosa diavolo facevamo accampati da settimane in quel luogo maledetto, e perché non proseguivamo verso il Cile, com'era nei progetti, o non tornavamo a Cuzco, la soluzione più saggia. Quando ormai Valdivia stava perdendo la speranza che arrivassero rinforzi, apparve all'improvviso un distaccamento di ottanta uomini, tra i quali alcuni grandi capitani che non conoscevo ma di cui Pedro mi aveva parlato, perché molto famosi, quali Francisco de Villagra e Alonso de Monroy. Il primo era fulvo, robusto, con una smorfia sprezzante sulla bocca e modi ruvidi. Mi risultò sempre sgradevole, perché trattava molto male gli indios, era avaro e insensibile con i poveri, ma imparai a rispettarlo per il suo valore e la sua lealtà. Monroy, nato a Salamanca e discendente da una nobile famiglia, era tutto il contrario, educato, bello e generoso. Diventammo immediatamente amici. Insieme a loro si trovava anche Jerónimo de Alderete, l'antico compagno d'armi di Valdivia, che anni prima l'aveva tentato con l'idea di venire nel Nuovo Mondo. Villagra li aveva convinti che era più ragionevole unirsi a Valdivia: "Meglio servire sua maestà, che non vagabondare per terre in cui il diavolo va in giro liberamente" disse loro riferendosi a Pizarro, che disprezzava. Viaggiava insieme a loro anche un cappellano andaluso, un uomo di una cinquantina d'anni, González de Marmolejo, che sarebbe poi diventato il mio mentore, come già ho detto. Questo religioso dimostrò la sua grande bontà nel corso della sua lunga vita, ma credo che avrebbe dovuto fare il soldato e non il frate, perché era molto portato per l'avventura, la ricchezza e le donne.

Questi uomini erano stati per mesi nella terribile selva dei chunchos, gli indios della zona orientale del Perú. La spedizione era partita con trecento spagnoli, ma ne erano morti due su tre e i sopravvissuti si erano trasformati in ombre fameliche, sfinite dalla peste tropicale. Dei duemila indios non ne era rimasto uno in vita. Tra quanti ci avevano lasciato la pelle c'era lo sfortunato alfiere Núñez, che Valdivia aveva condannato a marcire tra i chunchos, proprio come aveva promesso quando aveva tentato di rapirmi a Cuzco. Nessuno poté darmi informazioni certe riguardo alla sua morte: semplicemente era svanito nella selva senza lasciare alcuna traccia. Spero che sia morto come un cristiano, e non in pasto ai cannibali. Le pene patite anni prima da Pedro de Valdivia e Jerónimo de Alderete nella giungla venezuelana erano state esperienze da dilettanti in confronto a quelle sopportate da questi uomini sotto piogge torrenziali e nugoli di zanzare nella selva dei chunchos, in cui si trovarono impantanati, ammalati, affamati e inseguiti da selvaggi che arrivavano a mangiarsi tra di loro quando non riuscivano a catturare uno spagnolo.

Prima di proseguire debbo riservare una presentazione speciale all'uomo che capeggiava questo distaccamento. Era alto e molto bello, dalla fronte spaziosa, naso aquilino e occhi castani, grandi e liquidi come quelli di un cavallo. Aveva palpebre pesanti e uno sguardo remoto, quasi sonnolento, che addolciva il suo volto. Tutto ciò fui in grado di apprezzarlo il giorno dopo, una volta che si fu ripulito dalla crosta di sporcizia e si fu tagliato barba e capelli, che gli conferivano un'aria da naufrago. Benché più giovane degli altri rinomati militari, per il suo valore e la sua intelligenza, era stato scelto da questi come capitano dei capitani. Il suo nome era Rodrigo de Quiroga. Nove anni dopo sarebbe diventato mio marito.

Mi incaricai di restituire le forze e la salute a questi soldati, con l'ausilio di Catalina e di altre indie al mio servizio, che avevo istruito nella cura dei malati. Come disse don Benito, quelle povere anime che erano appena scampate all'inferno umido e intricato della selva, presto avrebbero dovuto addentrarsi in quello secco e brullo del deserto. Solo per lavarli, pulire loro le pustole, togliere i pidocchi e tagliare il pelame e le unghie ci mettemmo diversi giorni. Alcuni erano talmente deboli che le indie dovevano imboccarli con cucchiaiate di pappe per neonati. Catalina mi suggerì in segreto il rimedio degli inca per i casi estremi e senza dire loro di cosa si trattava, altrimenti avrebbero provato ribrezzo, lo somministrammo ai più bisognosi. Di notte, con circospezione, Catalina salassava i lama da un taglio fatto sul collo. Mescolavamo il sangue fresco con latte e un poco di urina e davamo il tutto da bere agli ammalati che si ripresero, e nel giro di due settimane furono in condizione di intraprendere il viaggio.

Gli yanaconas si preparavano alle sofferenze che li attendevano; non conoscevano la zona, ma avevano sentito parlare del terribile deserto. Ognuno di loro portava un otre per l'acqua appeso al collo, fatto con la pelle di una zampa di animale – lama, guanaco o alpaca – che strappavano intera e rivoltavano come un calzino, lasciando il pelame all'interno. Altri ricorrevano a vesciche di lupo marino. Aggiungevano all'acqua alcuni chicchi di mais tostato per attenuare l'odore. Don Benito organizzò il trasporto dell'acqua su grande scala utilizzando i barili che poté fabbricare e otri di pelle, come gli indios. Prevedevamo che non sarebbero stati sufficienti per così tanta gente, ma non si potevano caricare ulteriormente uomini e lama. Come se non ne avessimo abbastanza così, gli indios cileni della regione non solo avevano nascosto il cibo, ma avevano anche avvelenato i pozzi, come venimmo a sapere da un chasqui dell'inca Manco quando venne torturato. Don Benito lo scoprì nascosto tra i nostri indios ausiliari e chiese a Valdivia il permesso per interrogarlo. I neri lo torturarono a fuoco lento. Io non reggo la vista dei supplizi e mi ritirai il più lontano possibile, ma le terribili urla di quel poveretto, accompagnate dagli ululati di terrore degli yanaconas, si udivano nel raggio di una lega. Per sfuggire alla morte il messaggero aveva ammesso di venire dal Perú con la consegna per gli indigeni del Cile di impedire l'avanzata dei viracochas. Era per questo motivo che gli indios si nascondevano sulle colline, con gli animali che riuscivano a portare con sé, dopo aver seppellito il cibo e aver bruciato le terre. Aveva aggiunto di non essere l'unico messaggero: centinaia di chasquis stavano correndo a sud per sentieri segreti con le medesime istruzioni dell'inca Manco. Dopo la confessione terminarono di arrostirlo sul rogo perché fosse da monito. Redarguii Valdivia che permetteva tali crudeltà ma mi zittì, indignato. "Don Benito sa quel che fa. Ti avevo avvertito prima della partenza che questa non era un'impresa per gente schizzinosa. Ora è tardi per tornare indietro" replicò.

Come è stata lunga e dura la traversata del deserto! Quanto faticoso e lento ogni passo! Che caldo e che solitudine! I giorni trascorrevano tutti uguali, in un'arsura infinita, un paesaggio spoglio di terra brulla e pietra dura che odorava di bruciato e di cenere di spino, dipinto con colori accesi dalla mano di Dio. Secondo don Benito quei colori erano minerali nascosti e quindi era davvero una beffa diabolica che non si trattasse né d'oro né d'argento. Pedro e io procedevamo, ora dopo ora, conducendo i nostri cavalli per le briglie per non stancarli. Parlavamo poco perché avevamo la gola in fiamme e le labbra secche, ma eravamo insieme e ogni passo ci univa sempre più e ci portava all'interno del sogno che avevamo sognato insieme e che tanti sacrifici costava: il Cile. Mi proteggevo con un cappello a larghe tese e un pezzo di stoffa sul viso, con due fori per gli occhi, e stracci legati intorno alle mani per evitare che il sole me le scorticasse, visto che non possedevo guanti. I soldati non resistevano con addosso le armature bollenti e se le trascinavano dietro. La lunga fila di indios procedeva lentamente, in silenzio, sotto la blanda sorveglianza dei neri a testa bassa, talmente stremati da non sollevare nemmeno le fruste. Per i portatori la strada era mille volte più ardua che per noi: erano abituati a sopportare molta fatica e a mangiare poco, a trottare su e giù, spinti dalla misteriosa energia delle foglie di coca, ma non resistevano alla sete. La disperazione aumentava a mano a mano che i giorni trascorrevano senza che incontrassimo un pozzo pulito; tutti quelli in cui ci imbattemmo erano stati contaminati dai silenziosi indios cileni con cadaveri di animali. Alcuni yanaconas bevvero l'acqua avvelenata e morirono contorcendosi con le viscere in fiamme.

Quando eravamo ormai convinti di aver raggiunto lo stremo delle forze, il colore delle montagne e della terra cambiò. L'aria si fece immobile, il cielo si fece bianco e sparì qualsiasi forma di vita, dagli sterpi agli uccelli solitari che vedevamo abitualmente: eravamo entrati nel terribile Despoblado. Appena si intravedeva la prima luce dell'alba ci mettevamo in marcia perché nelle ore successive il sole non ci consentiva di avanzare. Pedro aveva previsto che quanto più rapido fosse stato il viaggio, meno perdite umane avremmo subito, anche se lo sforzo di ogni singolo passo era smisurato. Riposavamo durante le ore più calde, sdraiati su quel mare di sabbia calcinata, con un sole di piombo liquefatto su di noi, in una distesa infernale. Riprendevamo a camminare all'incirca alle cinque del pomeriggio e proseguivamo fino a quando cadeva la notte e diventava impossibile avanzare al buio. Era un paesaggio aspro, di smisurata crudeltà. Non avevamo le forze per montare le tende e organizzare l'accampamento visto che sostavamo solo qualche ora. Non c'era pericolo di essere attaccati dai nemici, nessuno viveva o si avventurava in quel luogo desertico. Di notte la temperatura scendeva bruscamente, dal caldo insopportabile del giorno passavamo a un freddo glaciale. Ognuno di noi si sistemava dove poteva, barbellando, senza badare alle istruzioni di don Benito, l'unico che insisteva con il rispetto della disciplina. Io e Pedro, abbracciati tra i nostri cavalli, cercavamo di infonderci reciprocamente calore. Eravamo distrutti. Ci dimenticammo di fare l'amore nelle settimane di quella parte del viaggio. L'astinenza ci diede l'opportunità di conoscere a fondo le nostre debolezze e di coltivare una tenerezza che prima era rimasta soffocata dalla passione. La cosa più ammirevole di quell'uomo è che non dubitò mai della sua missione: popolare il Cile con spagnoli ed evangelizzare gli indios. Non credette mai che saremmo morti arrostiti nel deserto, pensiero di cui gli altri erano convinti; la sua volontà non vacillò mai.

Nonostante il severo razionamento imposto da don Benito, arrivò il giorno in cui l'acqua finì. Ormai avevamo la gola scorticata dalla sabbia, la lingua gonfia, le labbra piagate. All'improvviso ci sembrava di sentire il rumore di una cascata e di vedere un lago cristallino circondato da felci. I capitani dovevano trattenere a forza gli uomini che volevano trascinarsi sulla sabbia attirati dai miraggi, salvandoli così da morte certa. Diversi soldati bevevano la propria urina e quella dei cavalli, che era scarsa e scura; altri, impazziti, si scaraventavano sugli yanaconas per strappare loro le ultime gocce che rimanevano negli otri. Credo che li avrebbero ammazzati per succhiar loro il sangue se Valdivia non avesse mantenuto l'ordine con castighi esemplari. Quella notte tornò a farmi visita Juan de Málaga, illuminato dalla luna chiara. Lo indicai a Pedro, ma non riuscì a vederlo e pensò che avessi le allucinazioni. Mio marito aveva un pessimo aspetto, i suoi stracci erano incrostati di sangue secco e polvere siderale, aveva uno sguardo disperato, come se anche le sue povere ossa stessero patendo la sete.

Il giorno dopo, quando ormai eravamo rassegnati al peggio, uno strano rettile passò correndo tra i miei piedi. Da giorni non vedevamo nessuna forma di vita che non fosse la nostra, nemmeno gli sterpi che abbondano in altre zone del deserto. Forse si trattava di una salamandra, il rettile che vive nel fuoco. Conclusi che per quanto diabolico potesse essere quell'animaletto, di tanto in tanto aveva sicuramente bisogno di un sorso d'acqua. "Ora tocca a noi, Madonnina!" avvertii Nuestra Señora del Socorro. Estrassi dal bagaglio il rametto d'albero e mi misi a pregare. Era mezzogiorno, quando la moltitudine di gente e di animali assetati riposava. Chiamai Catalina, perché mi accompagnasse, e insieme iniziammo a camminare lentamente, protette da un parasole, io con l'Ave Maria sulle labbra e lei con le sue invocazioni in quechua. Camminammo a lungo, probabilmente un'ora, in circoli sempre più grandi, coprendo via via sempre più terreno. Don Benito si convinse che avevo perso il senno a causa della sete e, sfinito com'era, chiese a uno più giovane e resistente, Rodrigo de Quiroga, di venirmi a cercare.

"Per l'amor di Dio, signora!" mi supplicò l'ufficiale con quel poco di voce che gli restava. "Venga a riposare. Le faremo ombra con una tela..."
"Capitano, vada a dire a don Benito di mandarmi della gente con pale e picconi" lo interruppi.
"Pale e picconi?" ripeté attonito.
"E gli dica anche, per cortesia, di farmi portare delle giare e diversi soldati armati."
Rodrigo de Quiroga tornò ad avvertire don Benito che il mio stato era più grave di quanto immaginavano, ma Valdivia lo sentì e, pieno di speranza, ordinò al maestro di campo di farmi avere quello che chiedevo. Poco dopo sei indios stavano scavando una buca. Gli indios sopportano la sete molto meno di noi ed erano talmente spossati che a malapena riuscivano a sorreggere le pale e i picconi, ma per fortuna il terreno era morbido e riuscirono a scavare una buca di un braccio e mezzo di profondità. Sul fondo la sabbia era scura. All'improvviso uno degli indios emise un grido rauco: vedemmo che iniziava a raccogliersi dell'acqua, all'inizio solo qualche goccia, come fosse sudore della terra, ma poi, nel giro di due o tre minuti, si era già formata una piccola pozza. Pedro, che era rimasto immobile al mio fianco, ordinò ai soldati di difendere con la vita la cavità perché temeva, e a ragione, il fiero assalto di un migliaio di uomini pronti a tutto per qualche goccia d'acqua. Gli assicurai che ce ne sarebbe stata per tutti, a patto che bevessimo con ordine. E così fu. Don Benito passò il resto della giornata a distribuire una tazza d'acqua a testa e successivamente Rodrigo de Quiroga trascorse la notte con vari soldati ad abbeverare gli animali e a riempire i barili e gli otri degli indios. L'acqua sgorgava con impeto; era torbida e aveva un sapore metallico, ma a noi parve fresca come quella delle fonti di Siviglia. La gente pensò a un miracolo e chiamò il pozzo Sorgente della Vergine, in onore di Nuestra Señora del Socorro. Montammo l'accampamento e ci trattenemmo in quel luogo per tre giorni durante i quali saziammo la sete; quando riprendemmo il cammino scorreva ancora un debole ruscello sulla superficie calcinata del deserto.
"Questo miracolo non è della Vergine, ma tuo, Inés" mi disse Pedro, molto impressionato. "Grazie a te possiamo attraversare questo inferno sani e salvi."
"Posso trovare l'acqua solo dove c'è, Pedro, non posso farla sgorgare dal nulla. Non so se ci sarà un'altra sorgente più avanti e comunque probabilmente non sarà così abbondante."
Valdivia ordinò che viaggiassi con mezza giornata di anticipo, per poter sondare il terreno in cerca d'acqua, protetta da un distaccamento di soldati, con quaranta indios ausiliari e venti lama su cui caricare gli orci. Il resto della spedizione era stata suddivisa in gruppi che procedevano a varie ore l'uno dall'altro, affinché, nel caso in cui avessimo trovato dell'acqua, non ci fosse un assalto in massa. Don Benito designò Rodrigo de Quiroga capo del gruppo che mi accompagnava, perché in poco tempo il giovane capitano si era guadagnato la sua totale fiducia. Inoltre era quello dotato della vista migliore, i suoi grandi occhi castani potevano vedere perfino quello che non c'era. Se ci fosse stato qualche pericolo nell'allucinante orizzonte del deserto, lui l'avrebbe scoperto prima di chiunque altro, ma non se ne presentò nessuno. Trovai diverse sorgenti d'acqua, nessuna così abbondante come la prima, sufficienti comunque a farci sopravvivere durante la traversata del Despoblado. Un giorno il colore della terra cambiò di nuovo e in cielo passarono due uccelli.

Quando finì la traversata del deserto feci i conti e conclusi che da quando eravamo partiti da Cuzco erano passati cinque mesi. Valdivia decise di accamparsi e di attendere, perché aveva saputo che il suo grande amico, Francisco de Aguirre, poteva riunirsi a lui in quella regione. Da una certa distanza ci spiavano indios ostili, senza osare avvicinarsi. Di nuovo potei sistemarmi nell'elegante tenda regalataci da Pizarro. Distesi a terra coperte peruviane e cuscini, estrassi le stoviglie di maiolica dai bauli per evitare di continuare a mangiare in scodelle di legno e feci costruire un forno di creta per cucinare come Dio comanda, dal momento che da mesi mangiavamo cereali e carne secca. Nella stanza grande della tenda, che Valdivia usava come quartier generale e sala per le udienze e la giustizia, sistemai la sua poltrona e alcuni sgabelli di cuoio per i visitatori che arrivavano a ore impreviste. Catalina passava la giornata a percorrere l'accampamento, come un'ombra discreta, per portarmi notizie. Non succedeva nulla tra spagnoli o yanaconas senza che non lo sapessi. Spesso venivano i capitani a cena ed erano soliti ritrovarsi la sgradevole sorpresa di vedere che Valdivia mi invitava a sedere a tavola con loro. Era probabile che nessuno di loro avesse mai mangiato insieme a una donna, usanza che non vige in Spagna, ma qui i costumi sono più rilassati. Illuminavamo la tenda con candele e lampade a olio e ci scaldavamo con due grandi bracieri peruviani, perché la notte era fredda. González de Marmolejo, che oltre a essere frate era baccelliere, ci spiegò come mai le stagioni erano invertite e quando è inverno in Spagna è estate in Cile e viceversa, ma nessuno lo capì e continuammo a pensare che nel Nuovo Mondo le leggi della natura erano sconvolte. Nell'altra stanza della tenda io e Pedro avevamo il letto, uno scrittoio, il mio altare, i nostri bauli e la vasca per il bagno che non veniva usata da molto tempo. A Pedro era diminuita la paura del bagno e ogni tanto accettava di mettersi nella tinozza e che io lo insaponassi, ma preferiva sempre lavarsi a metà con uno straccio bagnato. Furono giornate molto belle in cui tornammo a essere gli innamorati di Cuzco. Prima di fare l'amore gli piaceva leggermi i suoi libri preferiti ad alta voce. Non sapeva, perché io volevo che fosse una sorpresa, che González de Marmolejo mi stava insegnando a leggere e a scrivere.

Qualche giorno dopo Pedro partì con alcuni dei suoi uomini per battere la regione in cerca di Francisco de Aguirre e per vedere se si poteva trattare con gli indios. Era l'unico a credere che fosse possibile trovare un accordo con loro. Approfittai della sua assenza per farmi un bagno e per lavarmi i capelli con quillay, una corteccia d'albero cilena che uccide i pidocchi e previene i capelli bianchi, mantenendoli setosi per tutta la vita. Con me non ha sortito tale effetto, l'ho sempre usata eppure ho una chioma immacolata; be', almeno non sono mezza calva come tante altre alla mia età. Da tanto camminare e cavalcare mi doleva la schiena e una delle mie indie mi fece una frizione con un balsamo di boldo, preparato da Catalina. Andai a letto molto alleviata dal dolore, con Baltasar ai miei piedi. Il cane aveva dieci mesi ed era ancora molto giocherellone, ma aveva raggiunto una notevole stazza e già si poteva intuire la sua tempra da guardiano. Una volta tanto l'insonnia non mi tormentò e mi addormentai immediatamente. Passata la mezzanotte mi svegliò il sordo ringhiare di Baltasar. Mi sedetti sul letto, tastando al buio con una mano in cerca di uno scialle per coprirmi mentre con l'altra tenevo fermo il cane. Allora sentii un rumore soffocato nell'altra stanza e non ebbi dubbi sul fatto che era entrato qualcuno. Per prima cosa pensai che Pedro fosse tornato, perché le sentinelle alla porta non avrebbero lasciato entrare nessun altro, ma il comportamento del cane mi mise in allerta. Non c'era il tempo per accendere una lampada.

"Chi è?" gridai spaventata.

Ci fu una pausa carica di tensione e subito dopo qualcuno chiamò al buio Pedro de Valdivia.
"Non si trova qui. Chi lo cerca?" domandai, ora con voce adirata.
"Mi scusi, signora, sono Sancho de la Hoz, leale servo del capitano generale. Ho impiegato molto ad arrivare fino a qui e desidero salutarlo."
"Sancho de la Hoz? Ma come osa entrare nella mia tenda in piena notte!" esclamai.
A quel punto Baltasar aveva iniziato a latrare a più non posso, svegliando così le sentinelle. Nel giro di qualche minuto accorsero don Benito, Quiroga, Juan Gómez e altri, muniti di torce e con le spade sguainate e trovarono nella mia stanza non solo l'insolente De la Hoz, ma anche altri quattro uomini che lo accompagnavano. Il loro primo impulso fu di arrestarli, ma li convinsi che si trattava solo di un equivoco. Pregai tutti loro di ritirarsi e ordinai a Catalina di improvvisare qualcosa da mangiare per i nuovi venuti, mentre mi vestivo in fretta. Servii la cena io stessa e mi occupai di mescere il vino con la dovuta ospitalità, prestando molta attenzione a tutto ciò che mi raccontarono sulle difficoltà del loro viaggio.
Tra un bicchiere e l'altro mi affacciai fuori per ordinare a don Benito di inviare immediatamente un messaggero in cerca di Pedro de Valdivia. La situazione era molto delicata perché Sancho de la Hoz aveva diversi alleati tra gli scontenti e i vigliacchi della nostra spedizione. Alcuni soldati accusavano Valdivia di aver sottratto la Conquista del Cile all'inviato della Corona, visto che i certificati reali di Sancho de la Hoz erano più autorevoli rispetto al permesso concesso da Pizarro. Tuttavia De la Hoz non poteva contare su nessun sostegno economico, aveva dilapidato in Spagna la fortuna che gli era spettata come pagamento del riscatto di Atahualpa, non era riuscito a trovare altro denaro né soldati per l'impresa e la sua parola valeva talmente poco che in Perú era stato imprigionato per debiti e truffa. Sospettai che il suo piano fosse disfarsi di Valdivia, mettersi a capo della spedizione e continuare la Conquista.
Decisi di trattare i cinque inopportuni ospiti con grande considerazione, affinché entrassero in confidenza e abbassassero la guardia finché non fosse tornato Pedro. Per iniziare, li rimpinzai di cibo e misi nella caraffa del vino una quantità di papavero sufficiente a far stramazzare un bue, perché non volevo confusione nell'accampamento; l'ultima cosa che ci conveniva era che la gente si dividesse in due partiti, come poteva succedere se De la Hoz avesse messo in dubbio la legittimità di Valdivia. Vedendomi così gentile, i cinque disgraziati probabilmente risero molto alle mie spalle, soddisfatti di aver ingannato con la loro disinvoltura una donna sciocca, ma nel giro di un'ora erano così ubriachi e drogati che, allorché arrivarono don Benito e le guardie a portarseli via, non opposero la minima resistenza. Quando li perquisirono scoprirono che ognuno di loro aveva un pugnale dall'impugnatura d'argento lavorato, tutti uguali, e allora non ci furono dubbi sul fatto che si trattava di una teatrale cospirazione per assassinare Valdivia. I pugnali identici potevano solo essere un'idea di quel codardo di De la Hoz che così facendo ripartiva la responsabilità del crimine su cinque soggetti. I nostri capitani volevano giustiziarli all'istante, ma feci loro notare che una decisione così grave spettava solo a Pedro de Valdivia. Con grande fatica riuscii a impedire che don Benito appendesse De la Hoz al primo albero a portata di mano.

Tre giorni dopo ritornò Pedro, già al corrente della cospirazione. La notizia non era comunque riuscita a turbare il suo animo perché aveva ritrovato l'amico Francisco de Aguirre, che lo aspettava da diverse settimane, e che inoltre aveva portato quindici uomini a cavallo, dieci archibugieri, molti indios al servizio e cibo sufficiente per vari giorni. Grazie a loro il nostro contingente salì a centotrenta e passa soldati, se ben ricordo: un miracolo più significativo di quello della Sorgente della Vergine.

Prima di discutere con i suoi capitani la faccenda di Sancho de la Hoz, Pedro si appartò con me per sentire la mia versione dell'accaduto. Spesso si disse che stregavo Pedro con incantesimi da fattucchiera e pozioni afrodisiache, che a letto lo infiacchivo con pratiche aberranti, che gli sottraevo la potenza, gli annullavo la volontà e, in buona sostanza, che facevo di lui quel che mi pareva. Niente di più lontano dalla verità. Pedro era testardo e sapeva molto bene ciò che voleva; nessuno poteva fargli cambiare idea con arti da strega o cortigiana, ma solo con argomentazioni razionali. Non era uomo incline a chiedere apertamente consigli, e men che meno a una donna, ma nell'intimità con me rimaneva zitto, passeggiando per la stanza, finché io non trovavo il momento giusto per esporre la mia opinione. Cercavo di porgergliela in modo vago, di modo che alla fine potesse credere che la decisione fosse sua. Questo sistema mi ha sempre dato buoni risultati. Un uomo fa quel che può, una donna quello che lui non può. Non mi sembrava una buona idea giustiziare Sancho de la Hoz, come senz'altro avrebbe meritato, perché era protetto dai certificati reali e aveva numerosi parenti con entrature presso la corte di Madrid che avrebbero potuto accusare Valdivia di sedizione. Il mio compito era evitare che il mio amante finisse torturato o sul patibolo.

"Cosa si fa a un traditore di questa specie?" borbottò Pedro, camminando come un gallo da combattimento.
"Tu hai sempre detto che i nemici è meglio tenerseli vicini, per poterli sorvegliare..."
Invece di processare immediatamente gli accusati, Pedro de Valdivia decise di prendersi del tempo per verificare lo stato d'animo dei suoi soldati, raccogliere le prove della cospirazione e smascherare i complici nascosti tra di noi. Inaspettatamente diede ordine a don Benito di smontare l'accampamento per proseguire verso sud, con tutti i prigionieri ai ceppi, morti dalla paura, fatto salvo per quello stupido di Sancho de la Hoz che si credeva al di sopra della giustizia e, nonostante i ferri, continuava a darsi da fare per guadagnarsi alleati e acconciarsi. Benché prigioniero, pretese un'india al suo servizio che gli inamidasse la gorgiera, gli stirasse la calzamaglia, gli arricciasse i capelli, lo aspergesse di profumo e gli pulisse le unghie. Gli uomini accolsero con disappunto la notizia della partenza perché si trovavano bene in quel luogo, fresco, ricco d'acqua e di alberi. Don Benito ricordò loro a squarciagola che le decisioni del capo non si discutevano, a maggior ragione visto che Valdivia li aveva condotti fino a lì riducendo al minimo gli imprevisti; la traversata del deserto era stata un successo, avevamo perso solo tre soldati, sei cavalli, un cane e tredici lama. Gli yanaconas che mancavano non vennero contati da nessuno, ma stando a Catalina dovevano essere all'incirca trenta o quaranta.
Quando conobbi Francisco de Aguirre, nonostante il suo aspetto incutesse timore, nutrii un'immediata fiducia in lui. Con il tempo imparai a temere la sua crudeltà. Era un omone amante degli eccessi e del baccano, alto e robusto, con la risata sempre pronta. Beveva e mangiava per tre e, a quanto mi raccontò Pedro, era capace di ingravidare dieci indie in una notte e altre dieci nella notte successiva. Sono passati molti anni e ora Aguirre è un anziano senza rimorsi di coscienza né rancori, ancora lucido e sano, pur avendo trascorso anni nelle pestilenziali celle dell'Inquisizione e in quelle del re. Vive bene grazie a una donazione di terre che gli fece il mio defunto marito. È difficile pensare a due persone più diverse del mio Rodrigo, buono e nobile, e Francisco de Aguirre, così sfrenato, ma erano legati dall'affetto di valorosi soldati nella guerra e di amici in tempo di pace. Rodrigo non poteva permettere che il suo compagno di peripezie finisse come un mendicante per l'ingratitudine della Corona e della Chiesa e quindi lo protesse fino alla morte. Aguirre, il cui corpo non ha un centimetro di pelle che non abbia una cicatrice, ricordo delle battaglie, sta trascorrendo gli ultimi giorni guardando crescere il mais nella sua fattoria, insieme alla moglie, che venne dalla Spagna per amore, ai figli e ai nipoti. Nonostante gli ottant'anni non si sente finito e continua a sognare avventure e a cantare le canzoni maliziose della sua gioventù. Oltre ai cinque figli legittimi, ha generato più di cento bastardi conosciuti e ce ne deve essere un altro centinaio che nessuno ha contato; era convinto che il modo migliore di servire sua maestà nelle Americhe fosse popolarle di meticci. Arrivò a dire che la soluzione al problema degli indigeni era uccidere tutti i maschi dai dodici anni in su, sequestrare i bambini e violentare le donne con pazienza e metodo. Pedro era convinto che il suo amico scherzasse, ma io so che parlava sul serio. Nonostante l'incontenibile impulso alla fornicazione, l'unico amore della sua vita fu la cugina che aveva sposato grazie a un permesso speciale del papa, come credo di aver già raccontato. Porta pazienza con me, Isabel: ho settant'anni e tendo a ripetermi.

Camminammo per diversi giorni e raggiungemmo la valle di Copiapó, dove aveva inizio il territorio del governatorato che spettava a Valdivia. Un grido di giubilo si levò tra gli spagnoli: eravamo arrivati. Pedro de Valdivia riunì la sua gente, si circondò dei suoi capitani, mi chiamò al suo fianco e con gran solennità piantò lo stendardo della Spagna e prese possesso del territorio. Gli diede il nome di Nuova Estremadura perché da lì provenivamo, lui, Pizarro, la maggior parte degli hidalgos della spedizione e io. Subito dopo il cappellano González de Marmolejo eresse un altare con il suo crocifisso, la sua pisside d'oro – l'unico oro che avevamo intravisto in quei mesi – e la piccola statua di Nuestra Señora del Socorro, divenuta la nostra patrona dopo l'aiuto concesso nel deserto. Il sacerdote officiò una toccante messa di ringraziamento e tutti ci comunicammo, con profonda commozione.

La valle era abitata da popoli mescolati fra loro e sottomessi all'incanato, ma si trovavano così lontano dal Perú che il potere del sovrano inca non era molto opprimente. Vennero a riceverci i loro curacas con modesti regali in cibo e discorsi di benvenuto che i lenguas, gli interpreti, traducevano, ma la nostra presenza li rendeva ansiosi. Le loro case erano di argilla e paglia, più solide e meglio disposte delle capanne viste prima. Anche tra questa gente vigeva l'uso di convivere con gli avi defunti, ma questa volta i soldati si guardarono bene dal profanare le mummie. Scoprimmo alcuni villaggi abbandonati da poco, appartenenti a indios ostili agli ordini del cacicco Michimalonko.

Don Benito fece allestire l'accampamento in un luogo protetto perché temeva che gli indios si facessero bellicosi una volta compreso che non avevamo intenzione di tornarcene in Perú, come sei anni prima aveva fatto la spedizione di Almagro. Nonostante la penuria di viveri, Valdivia proibì di saccheggiare le zone abitate e di infastidirne gli abitanti, nella speranza di guadagnarseli come alleati. Don Benito aveva catturato altri messaggeri che, una volta interrogati, ripeterono ciò che già sapevamo: il sovrano inca aveva ordinato alla popolazione di scappare con le loro famiglie sulle montagne e di nascondere o distruggere il cibo, come aveva fatto la maggior parte degli indigeni. Don Benito dedusse che i cileni – come chiamava gli abitanti del Cile, senza distinguere da tribù a tribù – sicuramente avevano nascosto gli alimenti sotto la sabbia, dove era più facile scavare. Comandò a tutti i soldati, tranne a quelli di guardia, di battere la zona infilando spade e lance nella terra fino a trovare i tesori sotterrati e così riuscì a mettere insieme mais, patate, fagioli e persino delle zucche con chicha fermentata che io confiscai perché mi sarebbero servite per aiutare i feriti a sopportare la brutalità delle cauterizzazioni.

Non appena l'accampamento fu pronto, don Benito fece erigere una forca e Pedro de Valdivia annunciò che il giorno dopo sarebbero stati giudicati Sancho de la Hoz e gli altri prigionieri. I capitani di provata fedeltà si riunirono nella nostra tenda intorno al tavolo, ognuno di loro su uno sgabello di cuoio e il capo sulla poltrona. Tra lo stupore generale, Valdivia mi fece chiamare e mi indicò una sedia di fianco a lui. Mi sedetti, in imbarazzo per gli sguardi increduli dei capitani che non avevano mai visto una donna in un consiglio di guerra. "Ci ha salvato dalla sete nel deserto e dalla cospirazione dei traditori, merita più di chiunque altro di partecipare a questa riunione" disse Valdivia e nessuno osò contraddirlo. Juan Gómez, che appariva molto nervoso perché in quel momento Cecilia stava partorendo, mise sul tavolo i cinque pugnali identici, spiegò quanto aveva appurato sull'attentato ed elencò i nomi dei soldati la cui lealtà era in dubbio, in modo particolare un certo Ruiz che aveva facilitato l'ingresso dei cospiratori nell'accampamento distraendo le sentinelle della nostra tenda. I capitani discussero a lungo sui rischi di un'esecuzione di De la Hoz e alla fine prevalse l'opinione di Rodrigo de Quiroga, che coincideva con la mia. Io mi guardai bene dall'aprire bocca, per evitarmi l'accusa di essere una virago che dominava Valdivia. Controllai che venisse servito il vino nei calici, prestai attenzione e assentii docilmente quando parlò Quiroga. Valdivia aveva già preso la sua decisione, ma stava attendendo che fosse qualcun altro a proporla per non sembrare intimidito dalle certificazioni reali di Sancho de la Hoz.

Come era stato annunciato, il processo si celebrò il giorno successivo nella tenda dei prigionieri. Valdivia fu l'unico giudice, coadiuvato da Rodrigo de Quiroga e da un altro militare che funse da segretario e notaio. Questa volta non assistei, ma non feci fatica a conoscere la versione completa dell'accaduto. Posizionarono delle guardie armate intorno alla tenda, per tenere lontano i curiosi, e sistemarono un tavolo dietro al quale si sedettero i tre capitani, assistiti da due schiavi neri esperti nell'infliggere supplizi e giustiziare. Il notaio aprì i registri e preparò penna e calamaio mentre Rodrigo de Quiroga allineava i cinque pugnali sul tavolo. Avevano portato anche uno dei miei bracieri peruviani colmo di tizzoni ardenti, non tanto per intiepidire l'ambiente, quanto per terrorizzare i prigionieri, consapevoli che la tortura fa parte di qualsiasi processo di questo genere. Si ricorreva al fuoco più con gli indios che con gli hidalgos, ma nessuno sapeva con certezza cosa avrebbe fatto Valdivia. Gli accusati, in piedi davanti al tavolo e gravati dalle catene, ascoltarono per più di un'ora i capi d'imputazione contro di loro. Non rimase loro il minimo dubbio circa il fatto che l'"usurpatore", come chiamavano Valdivia, conoscesse fino all'ultimo particolare della cospirazione, compresa la lista completa dei sostenitori di Sancho de la Hoz all'interno della spedizione. Non c'era nulla da aggiungere. Un lungo silenzio seguì la concione di Valdivia durante la quale il segretario finì di prendere nota sul suo libro.

"Avete qualcosa da dire?" domandò alla fine Rodrigo de Quiroga.

E allora in Sancho de la Hoz svanì completamente l'ostentata disinvoltura e si inginocchiò, lamentando che era pronto a riconoscere tutti i capi d'accusa tranne il proposito di assassinare Pedro de Valdivia, che i cinque rispettavano e ammiravano e per servire il quale avrebbero dato le loro vite. La storia dei pugnali era una sciocchezza, bastava vederli per capire che non erano armi serie. Gli altri seguirono il suo esempio, implorando il perdono e giurando eterna fedeltà. Valdivia li zittì. Un altro insopportabile silenzio seguì queste parole e alla fine il capo si alzò in piedi ed emise una sentenza che a me parve molto ingiusta, ma mi astenni dall'esprimere tale considerazione a lui, perché immaginai che avesse i suoi buoni motivi per procedere così.

Tre dei cospiratori furono condannati all'esilio e sarebbe toccato loro intraprendere il viaggio di ritorno in Perú a piedi, attraverso il deserto, accompagnati da una manciata di indios e da un lama. Un altro venne messo in libertà senza alcuna spiegazione. Sancho de la Hoz firmò un atto – il primo della storia del Cile – che sanciva lo scioglimento della società con Valdivia; rimase prigioniero, ai ceppi, in attesa di sentenza, nel limbo dell'incertezza. La cosa più inspiegabile fu che quella notte Valdivia fece giustiziare Ruiz, il soldato che era stato loro complice, ma che non era nemmeno entrato nella tenda, insieme ai cinque con i famosi pugnali. Don Benito in persona sorvegliò i neri che lo impiccarono e poi lo squartarono. La testa e tutte le parti del corpo mozzate a colpi d'ascia vennero appese con ganci da macellaio in diversi punti dell'accampamento, affinché si imprimesse nella memoria degli indios come si pagava la slealtà a Valdivia. Al terzo giorno, era così ripugnante il fetore e le mosche talmente numerose che i resti vennero bruciati.

La nascita del bambino di Cecilia, la principessa inca, fu lunga e difficile, perché il piccolo si presentava girato al contrario. Le levatrici dicono che se il neonato sopravvive a questo tipo di parto sarà fortunato. Questo venne estratto a furia di strappi da Catalina, uscì violaceo, ma sano e con molto fiato in gola. Fu di buon auspicio che il primo meticcio cileno nascesse di piedi.

Catalina attese Juan Gómez fuori dalla nostra tenda dove i capitani deliberavano della sorte dei cospiratori. Quell'uomo, che aveva sopportato più sofferenze di tutti gli altri suoi compagni, perché nel deserto cedeva la sua razione d'acqua alla moglie, andava a piedi per prestarle il suo cavallo dopo che la mula di Cecilia si era infortunata e le faceva da scudo per proteggerla dagli attacchi degli indios, scoppiò a piangere quando Catalina gli mise tra le braccia il figlio.

"Si chiamerà Pedro, in onore del nostro governatore" annunciò Gómez tra i singhiozzi.
Tutti si rallegrarono della decisione, tranne Pedro de Valdivia. "Non sono governatore, sono solo tenente governatore, rappresentante

del marchese Pizarro e di sua maestà" ci ricordò seccamente. "Siamo già sul territorio di conquista che le è stato assegnato, capitano
generale, e questa è una valle molto prospera. Perché non fondiamo qui la
città?" suggerì Gómez.
"Buona idea. Pedrito Gómez sarà il primo bambino battezzato della
città" aggiunse a sostegno Jerónimo de Alderete, che non si era ancora
rimesso dalle febbri della selva ed era angosciato all'idea di continuare
ancora a viaggiare.
Ma io sapevo che Pedro desiderava dirigersi a sud, il più a sud possibile,
per allontanarsi dal Perú. La sua idea era di fondare la prima città dove non
potessero arrivare le lunghe mani del marchese governatore, quelle
dell'Inquisizione, dei tirapiedi e dei leccaculo, come in privato chiamava i
meschini funzionari della Corona, che si davano un gran daffare per
rompere le uova nel paniere nel Nuovo Mondo.
"No, signori. Proseguiremo fino alla valle del Mapocho. Quello è il
luogo perfetto per la nostra colonia, a quanto dice don Benito che ci è già
stato insieme all'adelantado Diego de Almagro."
"A quante leghe rimane?" insistette Alderete.
"Molte, ma meno di quante ne abbiamo già percorse" spiegò don Benito. A Cecilia somministrammo infusioni di foglie di huella per farle
espellere la placenta di cui non era riuscita a liberarsi, poi bloccammo
l'emorragia con un liquore preparato con radici di aristolochia, una ricetta
cilena che Catalina aveva appena appreso e che diede risultati immediati.
Mentre i nostri soldati dovevano affrontare gli indios in frequenti
scaramucce, Catalina usciva tranquillamente dall'accampamento per
incontrare le indie del Cile e fare scambio di rimedi. Non so come riuscisse
a passare tra le sentinelle senza essere vista e a fraternizzare con il nemico
senza che le spappolassero la testa con una randellata. Il guaio fu che con
tutte queste erbe curative a Cecilia andò via il latte e il piccolo Pedro fu
quindi allevato con latte di lama. Se fosse nato qualche mese più tardi
avrebbe avuto svariate nutrici perché erano molte le indie incinte. Il latte di
lama gli infuse una dolcezza che avrebbe rappresentato un serio problema
per lui nel futuro, visto che gli sarebbe toccato vivere e combattere in Cile,
luogo non adatto agli uomini dal cuore troppo tenero.
Ora debbo raccontare un episodio che non ebbe grandi conseguenze,
meno che per un povero ragazzo che fa Escobar di cognome, ma che
illustra molto bene il carattere di Valdivia. Il mio amante era un uomo
generoso, dalle idee grandiose, solidi principi cattolici e un coraggio
straordinario, ottime ragioni per nutrire ammirazione per lui, ma aveva
anche dei difetti, alcuni dei quali piuttosto gravi, che col passare degli anni
finirono per modificare il suo temperamento. Il peggiore era senz'altro il
suo smisurato desiderio di fama, che alla fine costò la vita a lui e a molti
altri; ma per me il più difficile da sopportare fu la gelosia. Sapeva che non
avrei mai potuto tradirlo, non è nella mia natura e lo amavo troppo, e allora
perché dubitare di me? Forse era di se stesso che dubitava.
I soldati disponevano di tutte le indie che volevano, da quelle
compiacenti a quelle che dovevano essere prese con la forza, ma di certo
sentivano la mancanza di parole d'amore sussurrate in castigliano. Gli
uomini desiderano sempre ciò che non hanno. Io ero l'unica spagnola della
spedizione, la donna del capo, visibile, presente, intoccabile e, di
conseguenza, ambita. Mi sono interrogata più di una volta per capire se
sono stata responsabile delle azioni di Sebastián Romero, dell'alfiere
Núñez o di questo ragazzo, Escobar. Non ho avuto colpe, se non quella di
essere una donna, ma pare che ciò sia già di per sé un crimine. Noi donne
veniamo accusate della lussuria degli uomini, ma il peccato non è forse di
chi lo commette? Perché dovrei pagare io per gli errori degli altri? Iniziai il viaggio vestita come ero solita fare a Plasencia – sottovesti,
corpetto, camicia, gonne, tocco, scialle, scarpini – ma ben presto dovetti
adattarmi alle circostanze. Non si possono percorrere mille leghe a cavallo,
montando di lato, senza spaccarsi la schiena, e mi misi a cavalcioni. Mi
procurai dei mutandoni maschili, degli stivali, mi tolsi il corpetto con le
stecche di balena, sfido chiunque a sopportarlo, mi liberai del tocco e mi
feci una treccia, come le indie, perché i capelli mi pesavano molto sulla
nuca, ma non andai mai in giro scollata né consentii ai soldati la minima
familiarità. Durante gli scontri con gli indios bellicosi mi mettevo un elmo,
una corazza leggera di cuoio e protezioni alle gambe, che Pedro aveva
fatto fare per me, altrimenti sarei morta colpita dalle frecce nel primo tratto
di strada. Se tutto ciò fu sufficiente per accendere il desiderio di Escobar e
di altri membri della spedizione, allora non capisco proprio come funzioni
la mente maschile. Ho sentito ripetere da Francisco de Aguirre che i
maschi pensano solo a mangiare, fornicare e uccidere, è una delle sue frasi
preferite, benché nel caso degli umani sia una verità incompleta, giacché pensano anche al potere. Nonostante abbia riscontrato molte debolezze
negli uomini, mi rifiuto di dar ragione ad Aguirre. Non sono tutti uguali. I nostri soldati parlavano molto di donne, in particolare quando
rimanevamo accampati per diversi giorni e non avevano nulla da fare, solo
turni di guardia e attese. Si scambiavano opinioni sulle indie, si vantavano
delle loro prodezze – stupri – e commentavano con invidia quelle del
mitico Aguirre. Purtroppo in queste conversazioni saltava fuori spesso il
mio nome; dicevano che ero una femmina insaziabile, che montavo come
un uomo per eccitarmi mentre cavalcavo e che sotto le gonne portavo i
mutandoni. Quest'ultimo particolare era vero: non potevo montare a
cavalcioni a cosce nude.
Il soldatino più giovane della spedizione, Escobar, che aveva solo
diciotto anni ed era arrivato in Perú come mozzo quando era ancora un
bambino, si scandalizzava a queste chiacchiere. La violenza della guerra
non l'aveva ancora corrotto e si era fatto un'idea romantica di me: era
nell'età in cui ci si innamora dell'amore. Si era fissato con l'idea che io ero
un angelo trascinato nella perversione dagli appetiti di Valdivia, che mi
obbligava a servirlo a letto come una donnaccia. Venni a sapere tutto ciò
tramite le serve indie, grazie alle quali sono sempre stata informata di
quanto succedeva intorno a me. Per loro non ci sono segreti perché gli
uomini non badano a quel che dicono davanti alle donne, come fanno
davanti ai cavalli e ai cani. Pensano che non capiamo ciò che dicono.
Osservai di nascosto il comportamento del ragazzo e mi accorsi che mi
ronzava intorno. Con la scusa di insegnar dei giochi a Baltasar, che
raramente mi si scollava di dosso, o di farsi cambiare la benda al braccio
ferito, o perché gli insegnassi a fare la minestra di mais, visto che le sue
due indie erano incapaci, Escobar le inventava tutte per starmi vicino. Pedro de Valdivia considerava Escobar poco più di un moccioso e non
credo che si fosse preoccupato di lui prima che i soldati iniziassero a
prendere in giro il ragazzo. Infatti, non appena si furono accorti che
l'interesse per me era più romantico che sessuale, non lo lasciarono in pace
e presero a provocarlo arrivando a strappargli lacrime di umiliazione. Era
inevitabile che prima o poi i dileggi arrivassero alle orecchie di Valdivia,
che cominciò a pormi domande insidiose, per poi iniziare a spiarmi e a
tendermi delle trappole. Comandava a Escobar di aiutarmi nei lavori che
spettavano alle serve e questi, invece di sollevare obiezioni, come avrebbe
fatto qualsiasi altro soldato, si affannava a compiacerlo. Spesso trovai
Escobar nella mia tenda perché Pedro l'aveva mandato a cercare qualcosa quando sapeva che mi trovavo da sola. Probabilmente avrei dovuto affrontare Pedro sin dall'inizio, ma non osavo, perché la gelosia l'avrebbe trasformato in un mostro e poteva credere che io avessi motivi nascosti per
proteggere Escobar.
Questo perfido gioco, che iniziò non appena partimmo da Tarapacá,
venne tralasciato durante la spaventosa traversata del deserto, quando
nessuno poteva essere dell'umore giusto per simili sciocchezze, per essere
poi ripreso con maggiore intensità nella quieta valle di Copiapó. La lieve
ferita che Escobar aveva riportato a un braccio si infettò, nonostante
l'avessimo cauterizzata, e con una certa frequenza dovevo curarla e
cambiare il bendaggio. Giunsi a temere che potesse essere necessario un
intervento drastico, ma Catalina mi fece notare che la carne non era
maleodorante e il ragazzo non aveva la febbre. "È solo grattandosi,
señoray, non vedi?" Mi rifiutai di credere che Escobar si raspasse la ferita
per avere il pretesto di farsela curare, ma capii che era giunto il momento
di parlargli.
Era l'imbrunire, quando nell'accampamento iniziava la musica: le vielle
e i flauti dei soldati, i malinconici pifferi di canna degli indios, i tamburi
africani dei sorveglianti. Vicino a uno dei fuochi la calda voce da tenore di
Francisco de Aguirre intonava una canzone maliziosa. Nell'aria fluttuava il
delizioso aroma dell'unico pasto del giorno, carne arrostita, mais, tortillas
alla brace. Catalina era sparita, come succedeva sempre di sera, io mi
trovavo nella mia tenda con Escobar, a cui avevo appena pulito la ferita,
insieme a Baltasar che si era affezionato al ragazzo.
"Se la situazione non migliora, temo che dovremo tagliare il braccio" gli
annunciai a bruciapelo.
"Un soldato monco non serve a nulla, doña Inés" mormorò, livido di
paura.
"Un soldato morto, ancora di meno."
Gli offrii un bicchiere di chicha di fichi d'India per aiutarlo a superare la
paura e perché, non sapendo come affrontare l'argomento, avevo bisogno
di prendere tempo. Alla fine optai per la franchezza.
"Mi sono accorta che mi è sempre vicino, Escobar; siccome ciò può
risultare svantaggioso per entrambi, d'ora in poi sarà Catalina a farle le
medicazioni."
E allora, come se avesse atteso fino a quel momento che qualcuno
dischiudesse le porte del suo cuore, Escobar scoppiò in una litania di
confessioni mescolate a dichiarazioni e promesse d'amore. Cercai di fargli presente con chi si stava prendendo tutte quelle libertà, ma mi impedì di parlare. Mi abbracciò con forza e in modo talmente goffo che indietreggiando inciampai in Baltasar e finii sdraiata a terra con Escobar sopra di me. Chiunque altro mi avesse assalito a questo modo se la sarebbe dovuta vedere con il cane, pronto a farlo a pezzi, ma Baltasar conosceva bene il ragazzo e, credendo che si trattasse di un gioco, invece di aggredirlo prese a saltellare intorno a noi abbaiando di gioia. Sono forte e sapevo di potermi difendere, motivo per cui non gridai. Solo la tela cerata ci separava dalla gente che si trovava all'esterno, non potevo sollevare uno scandalo. Con il braccio ferito mi teneva stretta al suo petto, con l'altra mano mi reggeva la nuca e i suoi baci, umidi di saliva e lacrime, mi coprivano il collo e il viso. Mentre invocavo Nuestra Señora del Socorro, mi preparavo a dargli una ginocchiata all'inguine, ma era già troppo tardi, perché in quel momento apparve Pedro con la spada in mano. Era stato
tutto il tempo a spiarci dall'altra camera della tenda.
"Noooooo!" gridai terrorizzata quando lo vidi pronto a trapassare con la
lama lo sciagurato soldato.
Con una spinta animalesca riuscii a girarmi per coprire Escobar, che
rimase così sotto di me. Cercai di proteggerlo sia dalla spada sguainata sia
dal cane che a quel punto aveva ripreso il suo ruolo di guardiano e cercava
di morderlo.

Non ci fu né un processo, né la possibilità di dare spiegazioni. Pedro de Valdivia chiamò semplicemente don Benito, gli ordinò di impiccare il soldato Escobar la mattina del giorno successivo, dopo la messa, davanti all'accampamento schierato. Don Benito prese per un braccio il ragazzo tremante e lo condusse in una tenda dove rimase, senza catene, ma sotto sorveglianza. Escobar era ridotto a uno straccio, e non per la paura della morte, ma per il cuore in frantumi. Pedro de Valdivia si recò nella tenda di Francisco de Aguirre, dove rimase a giocare a carte con i capitani e non ritornò se non all'alba. Non mi permise di rivolgergli la parola, e anche se mi avesse ascoltato credo che una volta tanto non avrei trovato il modo di fargli cambiare idea. Era pazzo di gelosia.

Nel frattempo il cappellano González de Marmolejo cercava di consolarmi affermando che responsabile di quanto era accaduto non ero io, ma solo Escobar che aveva desiderato la donna d'altri, o qualche scempiaggine del genere.

"Immagino che non se ne starà con le mani in mano, padre. Deve convincere Pedro che sta commettendo una grave ingiustizia" pretesi.

"Il capitano generale deve tenere l'ordine tra la sua gente, figlia mia, non può permettere affronti di questo tipo."
"Pedro può permettere che i suoi uomini violentino e picchino le donne degli altri uomini, ma guai se gli toccano la sua!"
"Ormai non può più ritrattare, un ordine è un ordine."
"Certo che può ritrattare. La colpa di questo giovane non merita la forca e lei lo sa bene quanto me. Vada a parlargli!"
"Ci andrò, Inés, ma ti anticipo che non cambierà d'opinione."
"Può minacciarlo con la scomunica..."
"È una minaccia che non si può fare alla leggera!" esclamò il frate terrorizzato.
"E invece Pedro può avere così alla leggera un morto sulla coscienza, vero?" replicai.
"Inés, ti manca l'umiltà. Questa faccenda non è nelle tue mani, ma in quelle di Dio."
González de Marmolejo si recò a parlare con Valdivia. Lo fece davanti ai capitani che giocavano a carte con lui, pensando che col loro aiuto l'avrebbe convinto a perdonare Escobar. Si sbagliava in pieno. Valdivia non poteva rimangiarsi la parola davanti a testimoni che, peraltro, gli diedero ragione: al suo posto avrebbero fatto lo stesso.
Allora mi diressi alla tenda di Juan Gómez e Cecilia, col pretesto di vedere il neonato. La principessa inca, più bella che mai, riposava sdraiata su un soffice materasso, circondata dalle sue serve. Un'india le massaggiava i piedi, un'altra le pettinava i capelli scuri, un'altra ancora spremeva latte di lama da un panno direttamente nella bocca del piccolo. Juan Gómez, imbambolato, osservava la scena quasi stesse ammirando il presepe. Avvertii una fitta di invidia: avrei dato qualsiasi cosa per trovarmi al posto di Cecilia. Dopo essermi congratulata con la puerpera e aver baciato il neonato presi per un braccio il padre e me lo portai fuori. Gli raccontai cosa era successo e gli chiesi aiuto.
"Lei è un alguacil, don Juan, faccia qualcosa, per favore" lo pregai.
"Non posso contravvenire a un ordine di don Pedro de Valdivia" mi rispose, con gli occhi fuori dalle orbite.
"Mi mette in imbarazzo doverglielo ricordare, don Juan, ma lei mi deve un favore..."
"Signora, all'origine della sua richiesta c'è un interesse speciale per il soldato Escobar?" mi domandò.
"Ma come le viene in mente! Mi comporterei allo stesso modo per qualsiasi uomo di questo accampamento. Non posso permettere che Pedro commetta questo peccato. E non mi dica che si tratta di disciplina militare, perché entrambi sappiamo che è solo una questione di gelosia pura e semplice."
"Cosa suggerisce?"
"Come dice il cappellano, la faccenda è nelle mani di Dio. Cosa ne dice di dare un aiuto alla mano divina?"
Il giorno successivo, dopo la messa, don Benito convocò la gente nello spiazzo centrale dell'accampamento, dove ancora si ergeva la forca che era servita per il povero Ruiz, con il cappio che penzolava. Per la prima volta avevo deciso di assistere: fino ad allora avevo trovato il modo per non presenziare a supplizi ed esecuzioni. Ne avevo già abbastanza con la violenza delle battaglie e la sofferenza dei feriti e dei malati che mi toccava curare. Portai con me, in braccio, Nuestra Señora del Socorro affinché tutti potessero vederla. I capitani si sistemarono in prima fila formando un quadrato, dietro di loro si misero i soldati e più indietro i sorveglianti, la folla di yanaconas, le indie di servizio e le ragazze. Il cappellano aveva trascorso la notte in una veglia di preghiera dopo aver fallito il tentativo con Valdivia. Aveva la pelle livida e occhiaie scure, come sempre gli succedeva quando si flagellava, benché le sue frustate, secondo le indie che conoscevano sul serio la frusta, fossero cosa da ridere.
Un banditore e un rullo di tamburi annunciarono l'esecuzione. Juan Gómez, nel suo ruolo di alguacil, disse che il soldato Escobar aveva compiuto un grave atto di indisciplina: era penetrato nella tenda del capitano generale con subdoli propositi e aveva attentato al suo onore. Non c'era bisogno di ulteriori spiegazioni, nessuno dubitò del fatto che il ragazzo avrebbe pagato con la vita il suo amore infantile. I due neri incaricati delle esecuzioni scortarono il reo fino allo spiazzo. Escobar camminava, senza catene, dritto come una lancia, tranquillo, lo sguardo fisso avanti a sé, come se stesse marciando in sogno. Aveva chiesto che gli consentissero di lavarsi, rasarsi e indossare abiti puliti. Si inginocchiò e il cappellano gli diede l'estrema unzione, lo benedisse e gli porse la santa croce perché potesse baciarla. I neri lo condussero al patibolo, gli legarono le caviglie, le mani dietro alla schiena e poi gli passarono il cappio intorno al collo. Escobar non permise che gli mettessero il cappuccio, credo che volesse morire guardandomi, per sfidare Pedro de Valdivia. Sostenni il suo sguardo, cercando di offrirgli consolazione.
Al secondo rullo di tamburi, i neri tolsero il supporto da sotto i piedi e il soldato rimase a penzoloni nell'aria. Un silenzio di tomba regnava nell'accampamento, si udivano solo i tamburi. Per un lasso di tempo che mi parve eterno il corpo di Escobar dondolò, mentre pregavo e pregavo, disperata, con la statua della Vergine stretta al petto. E allora avvenne il miracolo: la corda all'improvviso si spezzò e il ragazzo crollò a terra, dove rimase sdraiato, come morto. A molte bocche sfuggì un lungo grido di sorpresa. Pedro de Valdivia fece tre passi in avanti, pallido come un cero, senza riuscire a credere a ciò che era successo. Prima che riuscisse a dare un ordine ai boia, il cappellano si fece avanti, con la santa croce in alto, sbalordito come tutti.
"Il giudizio di Dio! Il giudizio di Dio!" gridava.
Come un'onda, sentii dapprima il mormorio e poi il frenetico schiamazzo degli indios, un'onda che cozzò contro la rigidità dei soldati spagnoli, ma uno di loro a un certo punto si fece il segno della croce e si inginocchiò a terra. Subito dopo un altro seguì l'esempio e poi un altro ancora fino a quando tutti, salvo Pedro de Valdivia, non ci trovammo in ginocchio. Il giudizio di Dio...
L'ufficiale Juan Gómez allontanò i boia e in prima persona tolse il nodo dal collo di Escobar, gli recise le corde ai polsi e alle caviglie e lo aiutò a rimettersi in piedi. Solo io notai che consegnò la corda del patibolo a un indio e che questi la portò via immediatamente prima che a qualcuno venisse in mente di esaminarla da vicino. Juan Gómez non mi doveva più alcun favore.
Escobar non fu rimesso in libertà. La sua sentenza fu commutata in esilio, sarebbe dovuto tornare in Perú, disonorato, con l'unica compagnia di uno yanacona e a piedi. Nel caso in cui fosse riuscito a eludere gli indios ostili della valle, sarebbe morto di sete nel deserto e il suo corpo essiccato come le mummie, sarebbe rimasto privo di sepoltura. Senza dubbio sarebbe stato più clemente impiccarlo. Un'ora dopo abbandonò l'accampamento con la stessa serena dignità con cui si era diretto al patibolo. I soldati, che prima si erano burlati di lui fino a farlo impazzire, formarono due file rispettose e lui ci passò in mezzo, congedandosi con gli occhi, senza proferire parola. Molti pentiti piangevano per la vergogna. Uno di loro gli consegnò la sua spada, un altro una piccola ascia, un terzo giunse con un lama, carico di fagotti e otri d'acqua. Io osservavo la scena da lontano, combattendo contro l'ostilità che provavo per Valdivia, un sentimento talmente forte da togliermi il fiato. Quando il ragazzo era già uscito dall'accampamento, lo raggiunsi e gli consegnai l'unico tesoro che avevo, il mio cavallo.

Rimanemmo sette settimane nella valle e si aggiunsero a noi altri venti spagnoli, tra cui due frati e un tale Chinchilla, sedizioso e vile, che fin dall'inizio cospirò con Sancho de la Hoz per assassinare Valdivia. Sancho de la Hoz, a cui avevano tolto i ceppi, circolava liberamente per l'accampamento, agghindato e profumato, pronto a vendicarsi del capitano generale, ma ben sorvegliato da Juan Gómez. Dei centocinquanta uomini che ora formavano la spedizione, tutti tranne nove erano hidalgos, figli della nobiltà rurale o impoverita, ma comunque hidalgos. Secondo Valdivia ciò non significava nulla, perché in Spagna di hidalgos ce n'erano da vendere, ma sono convinta che questi fondatori abbiano trasmesso la loro alterigia al Regno del Cile. Al sangue altezzoso degli spagnoli si sommò il sangue indomito della razza mapuche e dalla miscela ne è uscito un popolo caratterizzato da un orgoglio sconsiderato.

Dopo l'espulsione del giovane Escobar, l'accampamento impiegò qualche giorno a ritrovare la normalità. La gente era indignata, l'ira era palpabile nell'aria. Agli occhi dei soldati la colpa era stata mia: io avevo tentato l'innocente ragazzo, lo avevo sedotto, gli avevo fatto perdere il senno e lo avevo condotto alla morte. Io, l'impudica concubina. Pedro de Valdivia si era limitato solamente a difendere il suo onore. Per molto tempo avvertii il rancore di questi uomini come una bruciatura sulla pelle, esattamente come prima avevo sentito la loro lascivia. Catalina mi consigliò di rimanere nella mia tenda finché gli animi non si fossero placati, ma c'era molto da fare con i preparativi del viaggio e non mi rimase altro che affrontare la maldicenza.

Pedro era occupato con l'inserimento dei nuovi soldati e con alcune voci che circolavano su una possibile cospirazione, ma trovò comunque il tempo per sfogare la sua collera contro di me. Se anche aveva capito di aver esagerato nella sua furia vendicativa nei confronti di Escobar, di certo non lo ammise mai. Il senso di colpa e la gelosia gli accesero il desiderio, pretendeva di possedermi ogni momento, anche in pieno giorno. Interrompeva le sue occupazioni o i colloqui con gli altri capitani per trascinarmi nella tenda, davanti agli occhi dell'intero accampamento di modo che tutti avevano modo di rendersi conto di cosa stesse succedendo. A Valdivia non importava, lo faceva apposta per consolidare la sua autorità, per umiliarmi e sfidare i pettegoli. Non avevamo mai fatto l'amore con quella violenza, mi ritrovavo ammaccata e pretendeva che mi piacesse. Voleva che gemessi dal dolore, visto che non potevo certo gemere di piacere. Quello fu il mio castigo, essere trattata alla stregua di una sgualdrina, mentre quello di Escobar consisteva nella morte nel deserto. Sopportai questo maltrattamento fin quando potei, sperando che sarebbe giunto il momento in cui a Pedro si sarebbe raffreddata la superbia, ma dopo una settimana la mia pazienza si esaurì e un giorno, invece di obbedirgli quando pretendeva di fare con me come fanno i cani, gli affibbiai un sonoro ceffone in faccia. Non so dire come avvenne, la mano si mosse da sola. La sorpresa lasciò entrambi a lungo paralizzati e subito dopo si ruppe il maleficio in cui eravamo intrappolati. Pedro mi abbracciò, pentito, e io presi a tremare, contrita quanto lui.

"Che cosa ho fatto... Dove siamo arrivati, amore mio? Perdonami Inés, dimentichiamo tutto, per favore..." mormorò.
Rimanemmo abbracciati, con l'anima sospesa, a sussurrar spiegazioni, a perdonarci e alla fine, stremati, ci addormentammo senza giacere. Da quel momento cominciammo a riconquistare l'amore perduto. Pedro tornò a corteggiarmi con la passione e la tenerezza dei primi tempi. Facevamo brevi passeggiate, sempre accompagnati da guardie perché in qualsiasi momento potevano piombarci addosso indios ostili. Mangiavamo da soli nella tenda, di sera leggeva per me, passava ore ad accarezzarmi per darmi il piacere che prima mi aveva negato. Desiderava ardentemente un figlio, come me del resto, ma non rimasi incinta, malgrado i rosari alla Vergine e gli sciroppi di Catalina. Sono sterile, non ho potuto avere figli da nessuno degli uomini che ho amato, Juan, Pedro e Rodrigo, né dagli altri uomini con cui ho avuto brevi incontri segreti; ma credo che anche Pedro lo fosse, perché non li ebbe da Marina né da altre donne. "Lasciare fama e memoria di me" era stata la ragione per cui voleva conquistare il Cile. Forse così facendo compensò la dinastia che non poté fondare. Non potendolo trasmettere ai suoi discendenti, lasciò il suo nome nella Storia.

Pedro ebbe la sagacia e la lungimiranza di insegnarmi a usare la spada. Mi regalò anche un altro cavallo, per rimpiazzare quello che avevo dato a Escobar, e assegnò il suo miglior cavallerizzo ad addestrarlo. Un cavallo da guerra deve obbedire per istinto al soldato, che è occupato con le armi. "Non si sa mai cosa può succedere, Inés. Già che hai avuto il coraggio di accompagnarmi, è meglio che tu sia preparata per difenderti come qualsiasi altro dei miei uomini" mi avvertì. Fu una misura prudente. Se a Copiapó pensavamo di riprenderci dalle fatiche, ci toccò una brutta sorpresa, perché gli indios iniziarono ad attaccarci ogni volta che abbassavamo la guardia.

"Manderemo degli emissari a spiegare che veniamo in pace" annunciò

Valdivia ai suoi capitani di riferimento.
"Non è una buona idea," obiettò don Benito, "perché senz'altro ricordano
ancora ciò che è accaduto sei anni fa."
"Di cosa parla?"
"Quando venni con don Diego de Almagro, gli indios cileni non solo ci
riservarono dimostrazioni d'amicizia, ma ci consegnarono anche il tributo
in oro che spettava al sovrano inca, dal momento che sapevano che era
stato sconfitto. Insoddisfatto e sospettoso, l'adelantado li convocò a una
riunione con allettanti promesse e, non appena si fu guadagnato la loro
fiducia, ci diede l'ordine di attaccarli. Molti morirono nello scontro, ma
catturammo trenta cacicchi, che legammo a dei pali e che poi bruciammo
vivi" spiegò il maestro di campo.
"Ma perché vi comportaste così? Non era meglio la pace?" domandò
Valdivia, indignato.
"Se non l'avesse fatto Almagro per primo, l'avrebbero fatto gli indios
contro gli spagnoli dopo" li interruppe Francisco de Aguirre. La cosa più ambita dagli indigeni cileni erano i nostri cavalli, e quella
più temuta i cani, motivo per cui don Benito sistemò i primi all'interno di
recinti sorvegliati dai secondi. Le milizie cilene erano al comando di tre
cacicchi, capeggiati a loro volta dal potente Michimalonko. Era un vecchio
astuto, sapeva di non avere forze sufficienti per entrare di prepotenza
nell'accampamento degli huincas e optò per sfinirci. I suoi astuti guerrieri
ci rubavano lama, cavalli e viveri, rapivano le nostre indie, attaccavano i
drappelli di soldati che si allontanavano in cerca di cibo e acqua. Uccisero
un soldato e diversi yanaconas, che avevano forzatamente imparato a
combattere perché diversamente sarebbero morti.
La primavera si affacciò nella valle e sulle colline che si ricoprirono di
fiori, l'aria si fece tiepida e iniziarono a partorire le indie, le giumente e i
lama. Non c'è animale più adorabile di un cucciolo di lama. L'umore
dell'accampamento si risollevò con i neonati, che portarono una nota di
allegria ai provati spagnoli e agli estenuati yanaconas. I fiumi, torbidi in
inverno, divennero cristallini e più copiosi grazie al disgelo delle nevi di
montagna. C'era abbondanza di pascolo per gli animali, cacciagione,
verdura e frutta per gli uomini. Il clima di ottimismo portato dalla primavera allentò la vigilanza e allora, quando meno ce lo aspettavamo, duecento yanaconas disertarono e poi altri quattrocento. Semplicemente sparirono e, nonostante le molte frustate inflitte su ordine del burbero don Benito ai sorveglianti, dimostratisi distratti, e agli indios, accusati di complicità, nessuno fu in grado di sapere come avevano fatto a fuggire, né dove fossero andati. Una cosa fu evidente: senza l'aiuto degli indios cileni che ci circondavano non sarebbero potuti andare lontano, sarebbero finiti ammazzati da loro. Don Benito fece triplicare la guardia e tenne gli yanaconas legati giorno e notte. I sorveglianti facevano senza sosta la
ronda all'accampamento con le loro fruste e i loro cani.
Valdivia attese che ai puledri e ai piccoli lama si irrobustissero le zampe
e subito dopo diede l'ordine di riprendere la marcia in direzione sud, verso
quel luogo paradisiaco più volte annunciato da don Benito, la valle del
Mapocho. Sapevamo che Mapocho e mapuche significano praticamente la
stessa cosa: avremmo dovuto affrontare i selvaggi che avevano fatto
indietreggiare i cinquecento soldati e i quasi ottomila indios ausiliari di
Almagro. Noi invece dovevamo contare su centocinquanta soldati e meno
di quattrocento riluttanti yanaconas.
Constatammo che il Cile ha la forma sottile e allungata di una spada. È
formato da una sequela di valli distese tra le montagne e i vulcani,
attraversate da abbondanti fiumi. La sua costa è scoscesa, le onde
spaventose e le acque fredde, i suoi boschi fitti e profumati, le sue colline
infinite. Frequentemente percepivamo un sospiro tellurico e sentivamo la
terra tremare, ma col tempo ci abituammo ai terremoti. "Me lo
immaginavo così il Cile, Inés" mi confessò Pedro, con la voce commossa
davanti all'incontaminata bellezza del paesaggio.
Non si riduceva tutto a contemplazione del paesaggio, le fatiche erano
molte, perché gli indios di Michimalonko ci seguivano senza darci tregua,
esasperandoci. Riuscivamo a dormire solamente facendo brevi turni,
perché alla prima distrazione ce li ritrovavamo addosso. I lama sono
animali fragili e non sopportano molto peso senza che gli si rompa la
groppa e quindi dovemmo obbligare gli yanaconas a trasportare anche il
carico di chi aveva disertato. Benché ci fossimo liberati di tutto ciò che
non fosse indispensabile – ad esempio alcuni bauli con i miei vestiti
eleganti che in Cile non mi sarebbero serviti a nulla – gli indios
procedevano piegati in due dal carico, per di più legati, affinché non
scappassero, condizioni che rendevano la nostra marcia faticosa e lenta. I
soldati persero la fiducia nelle indie di servizio, che si erano dimostrate meno sottomesse e ottuse di quanto avessero immaginato. Continuavano a spassarsela con loro, ma non osavano più dormire in loro presenza e alcuni si convinsero che a poco a poco li stessero avvelenando. Ciò che stava corrodendo la loro anima e consumando le loro ossa non era veleno, bensì fatica. Diversi di loro presero a infierire su di esse per sfogare l'insoddisfazione e allora Valdivia minacciò di sottrarle loro e in due o tre occasioni diede corso all'avvertimento. I soldati si ribellarono perché non potevano accettare che nessuno, nemmeno il capo, si immischiasse in questioni così personali come quelle delle amanti, ma Pedro si impose, come sempre faceva. "Si deve predicare con l'esempio" disse. Non avrebbe permesso agli spagnoli di comportarsi peggio dei barbari. Alla lunga la truppa obbedì, controvoglia e non del tutto. Catalina mi raccontò che continuavano a picchiare le donne, ma non in viso o dove rimanessero
segni evidenti.
A mano a mano che gli indios del Cile si facevano più temerari ci
chiedevamo cosa fosse successo al povero Escobar. Immaginavamo che
fosse morto in modo lento e atroce, ma nessuno osava menzionare il
ragazzo, per non provocare gli spiriti del male. Se ci fossimo dimenticati
del suo nome e del suo viso sarebbe diventato trasparente, come la brezza,
e sarebbe riuscito a passare tra i nemici senza essere visto.

Marciavamo lenti come tartarughe, perché gli yanaconas non riuscivano a sopportare il peso e c'erano ancora molti puledri e animali appena nati. Rodrigo de Quiroga, in virtù della sua ottima vista e del coraggio che non gli veniva mai meno, apriva sempre la strada. Si occupavano della retroguardia Villagra, che Valdivia aveva nominato suo secondo, e Aguirre, sempre smanioso di vedersi invischiato in una scaramuccia con gli indios. La battaglia gli piaceva quanto le donne.

"Arrivano gli indios!" avvertì un giorno un messaggero mandato in avanscoperta da Quiroga.
Valdivia mi sistemò insieme alle donne, ai bambini e agli animali in un luogo abbastanza protetto da rocce e alberi e subito dopo organizzò gli uomini per la battaglia, non come era tradizione con le truppe spagnole, tre fanti per un cavaliere, perché qui quasi tutti erano a cavallo. Quando dico che i nostri montavano tutti a cavallo potrei dare l'idea di un formidabile squadrone di centocinquanta cavalieri in grado di sconfiggere diecimila attaccanti, ma la verità è che gli animali erano pelle e ossa per le fatiche del viaggio e i cavalieri indossavano vestiti a brandelli, armature mal assemblate, elmi ammaccati e impugnavano armi ormai ossidate. Erano coraggiosi, ma disordinati e arroganti: ognuno di loro mirava a conquistare la sua gloria personale. "Perché gli spagnoli fanno tanta fatica a pensare di essere persone come tutte le altre? Vogliono tutti essere generali!" si lamentava spesso Valdivia. Inoltre, il numero dei nostri yanaconas si era talmente ridotto ed erano così esausti e pieni di rancore per i maltrattamenti subiti che non aiutavano molto, si limitavano a combattere perché l'alternativa era morire.
Alla testa si trovava Pedro de Valdivia, sempre in prima fila, nonostante i suoi capitani lo pregassero di aver cura di sé, perché senza di lui saremmo stati perduti. Al grido di "Santiago! All'attacco!" con il quale, per secoli, gli spagnoli avevano invocato l'apostolo nelle battaglie contro i mori, si mise davanti, mentre gli archibugieri, ginocchio a terra, le armi pronte, prendevano la mira. Valdivia sapeva che i cileni si lanciano nella battaglia a petto scoperto, senza scudi né altre protezioni, indifferenti alla morte. Non temono gli archibugi perché fanno più rumore che altro, si fermano solo davanti ai cani, che nel furore del combattimento se li mangiano vivi. Affrontano in massa le spade spagnole, che tra di loro causano stragi, mentre le loro armi di pietra rimbalzano contro il metallo delle armature. Dall'alto delle loro cavalcature, gli huincas sono invincibili, ma se si riesce a disarcionarli è facile massacrarli.
Avevamo appena finito di radunarci quando udimmo l'insopportabile urlo che annuncia l'attacco degli indios, un urlo orripilante che li infiamma fino alla pazzia e paralizza di terrore i nemici, ma che nel nostro caso ottiene l'effetto contrario: ci fa esplodere di rabbia. Il distaccamento di Rodrigo de Quiroga riuscì a riunirsi a quello di Valdivia un momento prima che l'ondata nemica si scaraventasse giù dalle colline. Erano migliaia. Le lance dei nostri trapassavano i corpi color argilla, le spade mozzavano teste e membra, gli zoccoli dei cavalli maciullavano i caduti. Quando riuscivano ad avvicinarsi, gli indios stordivano con una mazzata il cavallo e non appena piegava le gambe, venti mani afferravano il cavaliere e lo rovesciavano a terra. Gli elmi e le corazze proteggevano i soldati per brevi istanti durante i quali, a volte, un compagno faceva in tempo a intervenire. Le frecce, inoffensive contro le cotte di maglia, si rivelavano armi efficaci nelle parti non protette del corpo dei soldati. Nel putiferio e nel vortice della battaglia, i nostri feriti continuavano a combattere senza avvertire il dolore né rendersi conto che si stavano dissanguando, e quando alla fine cadevano, qualcuno li trascinava da me.
Avevo organizzato il mio piccolo ospedale circondata dalle mie indie e protetta da alcuni yanaconas leali, interessati a difendere donne e bambini della loro razza, e da alcuni schiavi neri che, se cadevano nelle mani degli indigeni nemici, rischiavano di finire scorticati per dar modo di verificare se il colore della pelle fosse dipinto, come sapevano che era successo da altre parti. Improvvisavamo bende con gli stracci disponibili, stringevamo lacci per bloccare le emorragie, cauterizzavamo in fretta con tizzoni ardenti e non appena gli uomini riuscivano a rimettersi in piedi, davamo loro dell'acqua o del vino, restituivamo le armi e li mandavamo di nuovo a combattere. "Madonnina, proteggi Pedro!" bisbigliavo quando avevo un attimo di tregua dall'orribile compito della cura dei feriti. La brezza ci portava odore di polvere da sparo e di cavallo, che si mescolava con quello del sangue e della carne bruciacchiata. I moribondi chiedevano di potersi confessare, ma il cappellano e gli altri frati stavano combattendo e dunque ero io a far loro il segno della croce e a concedere l'assoluzione affinché potessero andarsene in pace. Il cappellano mi aveva spiegato che in assenza di un sacerdote qualsiasi cristiano può impartire il battesimo e, in emergenza, dare l'estrema unzione, ma non ero certa che anche una donna, se pur cristiana, fosse autorizzata a farlo. Alle grida di dolore e di morte, alle urla degli indios, ai nitriti dei cavalli e alle esplosioni di polvere da sparo si sommava il pianto atterrito delle donne, molte delle quali avevano i neonati legati sulla schiena. Cecilia, abituata a essere servita dalle sue domestiche come una principessa, quale era, per una volta scese nel mondo dei mortali e lavorò gomito a gomito con Catalina e con me. Quella donna, così piccola e aggraziata, si rivelò molto più forte di quel che sembrava. La sua tunica di raffinata lanetta finì ben presto impregnata del sangue dei feriti.
Ci fu un momento in cui alcuni nemici riuscirono ad avvicinarsi al luogo in cui ci occupavamo dei feriti. All'improvviso sentii delle urla più intense e vicine, sollevai gli occhi dalla freccia che stavo cercando di estrarre da una coscia di don Benito, mentre le altre donne lo tenevano fermo, e mi ritrovai faccia a faccia con numerosi selvaggi pronti a venirci addosso brandendo mazze e asce, che obbligarono la nostra debole difesa costituita da yanaconas e schiavi neri a indietreggiare. Senza pensarci due volte, impugnai a due mani la spada che Pedro mi aveva insegnato a usare e mi disposi a difendere il nostro piccolo spazio. Alla testa degli assalitori si trovava un uomo anziano, pitturato e adorno di piume. Una vecchia cicatrice gli attraversava la guancia dalla tempia alla bocca. Feci appena in tempo a notare questi particolari, perché gli eventi precipitarono rapidamente. Ricordo che ci affrontammo, lui con una lancia corta e io con la spada, che dovevo sollevare con entrambe le mani, in posizioni identiche, urlando con ira quel terribile grido di guerra e guardandoci con la stessa ferocia. Allora, all'improvviso, il vecchio fece un segnale e i suoi compagni si fermarono. Non potrei giurarlo, ma credo che si fosse affacciato un leggero sorriso sul suo viso del colore della terra, fece mezzo giro e si allontanò con l'agilità di un ragazzo proprio nel momento in cui Rodrigo de Quiroga stava galoppando sul suo cavallo imbizzarrito e si lanciava sui nostri aggressori. L'anziano era il cacicco Michimalonko.
"Perché non mi ha attaccato?" domandai molto tempo dopo a Quiroga.
"Perché non poteva sopportare la vergogna di battersi con una donna" mi spiegò.
"È quello che anche lei, capitano, avrebbe fatto?"
"Ovviamente" replicò senza esitare.
Il combattimento durò un paio d'ore, talmente intense, che trascorsero in un baleno perché non ci fu tempo per pensare. All'improvviso, quando già avevano praticamente guadagnato il terreno, gli indigeni si dispersero, dileguandosi sulle colline dalle quali erano apparsi, lasciando a terra i loro feriti e i loro morti, ma portandosi via i cavalli che erano riusciti a sottrarci. Ancora una volta Nuestra Señora del Socorro ci aveva salvati. Il campo rimase coperto di corpi e fu necessario incatenare i cani, assetati di sangue, affinché non divorassero anche i nostri feriti. I neri passarono in rassegna i caduti, diedero il colpo di grazia ai cileni e poi mi portarono i nostri soldati. Mi preparai per ciò che sarebbe successo: per ore la valle avrebbe sussultato alle urla degli uomini che dovevamo curare. Catalina e io non ce l'avremmo fatta in quel compito molto ingrato di estrarre tutte quelle frecce e di cauterizzare. Dicono che ci si abitua a tutto, ma non è vero, io non mi sono mai abituata a quelle grida spaventose. Persino adesso, nella vecchiaia, dopo che ho fondato il primo ospedale del Cile e ho passato tutta la vita a lavorare come infermiera, sento ancora i gemiti della guerra. Se si potessero cucire le ferite con ago e filo, come si fa con gli strappi nella stoffa, le cure sarebbero più sopportabili, ma solamente il fuoco evita il dissanguamento e la cancrena.
Pedro de Valdivia aveva riportato contusioni e alcune ferite superficiali, ma non volle che mi occupassi di lui. Riunì immediatamente i capitani per calcolare le nostre perdite.
"Quanti tra morti e feriti?" domandò.
"Don Benito ha una brutta ferita da freccia. C'è un soldato morto, tredici feriti di cui uno grave. Credo che abbiano rubato più di venti cavalli e ammazzato diversi yanaconas" annunciò Francisco de Aguirre, che non era molto portato per l'aritmetica.
"Ci sono quattro neri e sessantatré yanaconas feriti, alcuni dei quali gravi" lo corressi. "Sono morti un nero e trentuno indios. Credo che due uomini non supereranno la notte. Bisognerà trasportare i feriti a cavallo, non possiamo lasciarli qui. I più gravi hanno bisogno di essere trasferiti su amache."
"Monteremo l'accampamento per qualche giorno. Capitano Quiroga, per il momento lei sostituirà don Benito come maestro di campo" ordinò Valdivia. "Capitano Villagra, calcoli quanti selvaggi sono rimasti sul campo di battaglia. Lei sarà responsabile della sicurezza. Immagino che il nemico prima o poi tornerà. Cappellano, si incarichi delle sepolture e delle messe. Partiremo non appena doña Inés lo riterrà possibile."
Nonostante le precauzioni di Villagra, l'accampamento era molto vulnerabile perché ci trovavamo in una valle poco protetta. Gli indios cileni occupavano le colline, ma non diedero segni di vita durante i giorni in cui rimanemmo in quel luogo. Don Benito spiegò che dopo ogni battaglia si ubriacavano fino a rimanere privi di sensi e non tornavano ad attaccare finché non si erano completamente ripresi, diversi giorni dopo. Grazie a Dio! Spero che non gli venga mai a mancare la chicha.