UNA VIA PER IL NORD
Claveles Picero e suo nonno, Jesús Dionisio Picero, ci misero trentotto giorni a coprire i duecentosettanta chilometri tra il loro villaggio e la capitale. Attraversarono a piedi le terre basse, dove l'umidità macerava la vegetazione in una brodaglia eterna di melma e sudore, salirono e scesero monti tra iguana immobili e palme accasciate, varcarono le piantagioni di caffè schivando capisquadra, caimani e serpenti, camminarono sotto le foglie del tabacco tra zanzare fosforescenti e farfalle siderali. Procedevano diritti verso la città, bordeggiando la rotabile, ma in un paio di occasioni dovettero fare lunghe deviazioni per evitare gli accampamenti dei soldati. A volte i camionisti rallentavano passando loro accanto, attratti dalla schiena da regina meticcia e dai lunghi capelli neri della ragazza, ma lo sguardo del vecchio li dissuadeva subito da qualsiasi tentativo di molestarla. Il nonno e la nipote non avevano denaro e non sapevano mendicare. Quando finirono le provviste che portavano in una cesta continuarono a marciare sorretti dal solo coraggio. Di notte si avvolgevano nei mantelli e si addormentavano sotto gli alberi con un'avemaria sulle labbra e la mente rivolta al bambino, per non pensare a puma e bestie velenose. Si svegliavano ricoperti di scarabei azzurri. Ai primi accenni dell'alba, quando il paesaggio era ancora avvolto dalle ultime brume del sogno e uomini e bestie non avevano iniziato le fatiche del giorno, loro si rimettevano in cammino per approfittare della frescura. Entrarono nella capitale dal Camino de los Españoles, chiedendo a coloro che incontravano dove trovare il Segretario al Benessere Sociale Jesús Dionisio non aveva più un osso sano e i colori del vestito di Claveles erano evaporati, aveva l'espressione stregata di una sonnambula e un secolo di fatica si era riversato sullo splendore dei suoi vent'anni.
Jesús Dionisio era l'artigiano più noto della provincia, nella sua lunga vita si era guadagnato un prestigio di cui non si vantava, perché considerava il proprio talento come un dono al servizio di Dio, del quale era solo un amministratore. Aveva iniziato come vasaio e faceva ancora stoviglie di terracotta, ma la sua fama derivava dai santi di legno e dalle piccole sculture in bottiglia, che i contadini compravano per i loro altari domestici o si vendevano ai turisti nella capitale. Era un lavoro lento, questione di occhio, tempo e cuore, come l'uomo spiegava ai bambini che gli si accalcavano attorno per vederlo lavorare. Introduceva con una pinza nella bottiglia i legnetti dipinti, con una goccia di colla sulle parti che doveva unire, e aspettava pazientemente che asciugassero prima di mettere il pezzo seguente. La sua specialità erano i Calvari: una gran croce al centro da cui pendeva il Cristo intagliato, con i suoi chiodi, la sua corona di spine e un'aureola di carta dorata, e altre due croci più semplici per i ladroni del Golgota. A Natale fabbricava nicchie per il Bambin Gesù, con colombe a rappresentare lo Spirito Santo e stelle e fiori a simboleggiare la Gloria. Non sapeva leggere né fare la propria firma, perché quando era bambino non c'erano scuole da quelle parti, ma era in grado di copiare dal messale qualche frase in latino per decorare i piedistalli dei suoi santi. Diceva che i genitori gli avevano insegnato a rispettare le leggi della Chiesa e il prossimo, il che valeva più che avere un'istruzione. L'arte non gli dava di che mantenere la famiglia, e arrotondava i suoi introiti allevando galli di razza, ottimi per il combattimento. A ogni gallo doveva dedicare molte cure, li alimentava imbeccandoli con una pappina di cereali pestati e sangue fresco che trovava al mattatoio, doveva spulciarli a mano, dargli aria alle penne, pulirgli gli sproni e allenarli quotidianamente perché non gli mancasse il coraggio nell'ora della prova. A volte andava in altri paesi per vederli combattere, ma non scommetteva mai, perché per lui il denaro guadagnato senza sudore e senza lavoro apparteneva al diavolo. Ogni sabato sera andava con la nipote Claveles a pulire la chiesa per la cerimonia della domenica. Non sempre il sacerdote, che girava da un villaggio all'altro in bicicletta, riusciva ad arrivare, ma tutti i cristiani si riunivano comunque a pregare e a cantare. Jesús Dionisio era anche incaricato di raccogliere e custodire le elemosine per la manutenzione del tempio e il mantenimento del curato.
Tredici figli ebbe Picero da sua moglie, Amparo Medina, cinque dei quali sopravvissero alle pestilenze e agli incidenti della prima infanzia. Quando i genitori pensavano di avere ormai finito di allevare bambini, perché tutti i figli erano grandi e se n'erano andati di casa, il minore tornò in licenza dal servizio militare con un involto di cenci che mise sulle ginocchia di Amparo. Aprendolo videro che si trattava di una bambina appena nata, agonizzante per la mancanza di latte materno e per lo strapazzo del viaggio.
"Da dove salta fuori questa, figlio mio?" chiese Jesús Dionisio Picero.
"Sembra che sia sangue mio," rispose il giovane senza osar sostenere lo sguardo del padre, spremendo il berretto dell'uniforme tra le dita sudate.
"E se non è chiedere troppo, che fine ha fatto la madre?"
"Non so. Ha lasciato la bambina sulla porta della caserma, con un foglio dove c'era scritto che il padre sono io. Il sergente mi ha ordinato di portarla alle suore, dice che non c'è modo di provare che è mia. Ma a me fa pena, non voglio che diventi orfana..."
"Dove s'è mai vista una madre che abbandona la figlia appena partorita?"
"Sono cose della città."
"Sarà così. E come si chiama questa poverina?"
"Come la volete battezzare voi, padre, ma se volete il mio parere, a me piace Claveles (Garofani, N.d.t.), che era il fiore preferito di sua madre."
Jesús Dionisio uscì in cerca della capra per mungerla, mentre Amparo ripuliva il bebè con l'olio e pregava la Madonna di Lourdes di darle la forza di allevare un altro bambino. Vista la creatura in buone mani, l'ultimogenito si congedò ringraziando, si mise lo zaino in spalla e tornò in caserma a scontare la punizione.
Claveles crebbe in casa dei nonni. Era una ragazza scaltra e ribelle, impossibile a dominarsi con i ragionamenti o con l'esercizio dell'autorità, ma che soccombeva immediatamente quando le toccavano la corda sentimentale. Si alzava all'alba e camminava per cinque miglia fino a una baracca in mezzo ai recinti del bestiame, dove una maestra radunava i bambini della zona per dar loro un'istruzione elementare. Aiutava la nonna nei mestieri di casa e il nonno nel laboratorio, andava sui monti in cerca di argilla e gli lavava i pennelli, ma non si interessò mai ad altri aspetti della sua arte. Quando Claveles aveva nove anni, Amparo Medina, che si era andata rattrappendo fino ad assumere le sembianze di una bambina, fu trovata fredda nel suo letto, stroncata da tante maternità e tanti anni di lavoro. Suo marito scambiò il suo gallo migliore con alcune assi e le fabbricò una bara decorata con scene bibliche. La nipotina la vestì per il funerale con un abito da Santa Bernadette, tunica bianca e cordone celeste alla vita, lo stesso che lei aveva indossato per la Prima Comunione, e che si adattò perfettamente al corpo smagrito della vecchina. Jesús Dionisio e Claveles uscirono di casa diretti al cimitero trascinando un 'Garofani'. carretto su cui era stata adagiata la bara adorna di fiori di carta. Lungo il cammino li raggiunsero gli amici, uomini e donne a capo coperto, che li accompagnarono in silenzio.
Il vecchio intagliatore di santi e la nipote rimasero soli nella casa. In segno di lutto dipinsero una gran croce sulla porta, e portarono entrambi per anni un nastro nero cucito sulla manica. Il nonno tentò di sostituire la moglie nei dettagli pratici della vita, ma nulla fu più come prima. L'assenza di Amparo Medina lo invase come un'infermità maligna, sentì che il sangue gli si annacquava, gli si offuscavano i ricordi, le ossa gli diventavano di bambagia, la mente gli si riempiva di dubbi. Per la prima volta in vita sua si ribellò al destino, chiedendosi perché avevano preso lei senza di lui. Da allora non poté più fare Presepi, dalle sue mani uscivano solo Calvari e Santi Martiri, tutti vestiti a lutto, cui Claveles applicava cartellini con messaggi patetici alla Divina Provvidenza, dettati dal nonno. Quelle figure non trovarono la stessa accoglienza di prima fra i turisti della città, che preferivano i colori scandalosi attribuiti per errore al temperamento indigeno, né fra i contadini, i quali avevano bisogno di adorare divinità allegre, perché l'unica consolazione delle tristezze di questo mondo era di immaginare che in cielo fossero sempre in festa. A Jesús Dionisio Picero risultò quasi impossibile vendere le proprie opere, ma continuò a fabbricarle, perché in quell'occupazione le ore gli passavano senza tedio, come fosse sempre presto. Tuttavia né il lavoro né la presenza della nipote riuscirono a sollevarlo e cominciò a bere di nascosto, perché nessuno si accorgesse della sua vergogna. Ubriaco chiamava la moglie, e a volte riusciva a vederla accanto al focolare. Senza le cure diligenti di Amparo Medina la casa andò deteriorandosi, le galline si ammalarono, dovettero vendere la capra, l'orto andò in malora e presto erano diventati la famiglia più povera della zona. Poco dopo Claveles se ne andò a lavorare in un paese vicino. A quattordici anni il suo corpo aveva già assunto forma e dimensioni definitive, e poiché non aveva la carnagione di rame né gli zigomi sporgenti degli altri membri della famiglia, Jesús Dionisio Picero concluse che la madre doveva essere una bianca, il che offriva una spiegazione al fatto insolito che l'avesse abbandonata sulla soglia di una caserma.
In capo a un anno e mezzo Claveles Picero tornò a casa con delle macchie in faccia e una pancia prominente. Trovò il nonno senza altra compagnia che una torma di cani affamati e un paio di galli sparuti vaganti per il cortile, intento a parlare da solo, lo sguardo perso nel vuoto, con l'aspetto di chi non si è lavato da molto tempo. Era circondato dal massimo disordine. Aveva abbandonato il suo fazzoletto di terra e passava le ore a fabbricare santi con una premura demenziale, ma ben poco rimaneva ormai del suo antico talento. Le sue sculture erano esseri deformi e lugubri, inadatti alla devozione o alla vendita, che si accumulavano negli angoli della casa come cataste di legna. Jesús Dionisio Picero era tanto cambiato che non tentò neppure di somministrare alla nipote una predica sul peccato di mettere al mondo figli di padre ignoto, parve anzi che non notasse i segni della gravidanza. Si limitò ad abbracciarla tremante, chiamandola Amparo.
"Nonno, guardatemi, sono Claveles, e sono tornata perché qui c'è molto da fare," disse la giovane, e andò ad accendere il fuoco per cucinare qualche patata e scaldare l'acqua per fare il bagno al vecchio.
Durante i mesi seguenti Jesús Dionisio parve resuscitare dal suo lutto, smise di bere, tornò a coltivare l'orto, a occuparsi dei galli e a spazzare la chiesa. Parlava ancora al ricordo della moglie e di tanto in tanto confondeva la nipote con la nonna, ma ritrovò la capacità di ridere. La compagnia di Claveles e l'illusione che presto ci sarebbe stato un altro bambino in casa gli restituirono l'amore per i colori, e pian piano smise di bitumare i suoi santi con la pittura nera, acconciandoli con vesti più adatte all'altare. Il bimbo di Claveles uscì dal ventre di sua madre un giorno alle sei di sera, e cadde nelle mani callose del bisnonno, il quale aveva una lunga esperienza di quelle faccende perché aveva aiutato a nascere i suoi tredici figli.
"Si chiamerà Juan," decise l'improvvisato ostetrico appena ebbe tagliato il cordone e avvolto il discendente in un panno.
"Perché Juan? Non c'è nessun Juan in famiglia, nonno."
"Perché Juan era il miglior amico di Jesús, e questo sarà il mio amico. E il cognome del padre?"
"Fate conto che non abbia padre."
"Allora Picero, Juan Picero."
Due settimane dopo la nascita del bisnipote Jesús Dionisio cominciò a intagliare legname per una Natività, la prima che faceva dalla morte di Amparo Medina.
Claveles e il nonno non tardarono a rendersi conto che il bambino era anormale. Aveva uno sguardo incuriosito e si muoveva come qualsiasi bebè, ma non reagiva quando gli parlavano, poteva rimanere ore e ore sveglio e immobile. Fecero il viaggio fino all'ospedale, dove ebbero la conferma che era sordo e pertanto sarebbe rimasto muto. Il medico aggiunse che non c'erano molte speranze per lui, a meno che non avessero la fortuna di riuscire a collocarlo in un istituto di città, dove gli avrebbero insegnato a comportarsi e in futuro avrebbero potuto trovargli un mestiere perché si guadagnasse decentemente la vita e non fosse sempre un peso per gli altri.
"Neanche parlarne, Juan rimane con noi," decise Jesús Dionisio Picero senza neanche guardare Claveles, che piangeva con la testa coperta dallo scialle.
"Che cosa faremo, nonno?" chiese lei quando uscirono.
"Lo educheremo, no?"
"E come?"
"Con la pazienza, come si addestrano i galli o si mettono i Calvari nelle bottiglie. È questione di occhio, di tempo e di cuore."
E così fecero. Senza prendere in considerazione il fatto che il bambino non poteva sentirli, gli parlavano senza tregua, gli cantavano canzoni, lo collocavano accanto alla radio accesa a tutto volume. Il nonno prendeva la mano del bimbo e l'appoggiava fermamente sul proprio petto, affinché sentisse le vibrazioni della voce quando parlava, lo incitava a gridare e celebrava i suoi grugniti con manifestazioni esagerate. Appena poté stare seduto se lo mise accanto in uno scatolone, lo circondò di bastoncini, noci, ossa, pezze di tela e sassolini affinché giocasse, e più tardi, quando imparò a non mettersela in bocca, gli passò una pallottola di argilla da modellare. Ogni volta che trovava un lavoro, Claveles andava in paese, lasciando il figlio nelle mani di Jesús Dionisio. Dovunque andasse il vecchio il bambino lo seguiva come un'ombra, raramente si separavano. Tra loro si sviluppò un solido cameratismo che eliminò la tremenda differenza d'età e l'ostacolo del silenzio. Juan si abituò a osservare i gesti e le espressioni del volto del bisnonno per decifrarne le intenzioni, con risultati talmente buoni che nell'anno in cui imparò a camminare era già capace di leggerne i pensieri. Dal canto suo Jesús Dionisio lo curava come una madre. Mentre le sue mani si dedicavano a delicate operazioni artigianali, il suo istinto seguiva i passi del bambino, attento a qualsiasi pericolo, ma interveniva solo in casi estremi. Non accorreva a consolarlo dopo una caduta o a soccorrerlo quando era in difficoltà, abituandolo così a cavarsela da solo. In un'età in cui altri bambini vagano ancora barcollando come cuccioli, Juan Picero sapeva vestirsi, lavarsi e mangiare da solo, dar da mangiare al pollame, andare a prender acqua al pozzo, sapeva intagliare le parti più semplici dei santi, mescolare i colori e preparare le bottiglie per i Calvari.
"Bisognerà mandarlo a scuola perché non rimanga un ignorante come me," disse Jesús Dionisio Picero all'avvicinarsi del settimo compleanno del bimbo.
Claveles fece qualche indagine, ma la informarono che suo figlio non poteva assistere a una lezione normale, perché nessuna maestra sarebbe stata disposta ad avventurarsi nell'abisso di solitudine in cui era sprofondato.
"Non importa, nonno, si guadagnerà da vivere fabbricando santi come voi," si rassegnò Claveles.
"Non è un mestiere che dia da vivere."
"Non tutti possono istruirsi, nonno."
"Juan è sordo ma non è stupido. Ha molta intelligenza e potrebbe andar via di qui, la vita in campagna è troppo dura per lui."
Claveles era convinta che il nonno avesse perso il giudizio, o che l'amore per il bambino gli impedisse di vedere i suoi limiti. Comprò un sillabario e tentò di trasmettergli le sue scarse conoscenze, ma non riuscì a far capire al figlio che quegli scarabocchi rappresentavano suoni e finì per perdere la pazienza.
A quei tempi comparvero i volontari della signora Dermoth. Erano giovani provenienti dalla città, che percorrevano le regioni più remote del paese parlando di un progetto umanitario per soccorrere i poveri. Spiegavano che in alcune località nascevano troppi bambini e i genitori non avevano di che alimentarli, mentre in altre c'erano molte coppie senza figli. La loro organizzazione voleva mitigare quello squilibrio. Si presentarono a casa dei Picero con una mappa del Nordamerica e con dei volantini colorati in cui si vedevano foto di bambini bruni accanto a genitori biondi, in lussuosi ambienti con caminetti accesi, grossi cani villosi, abeti decorati con fili argentei e palle natalizie. Dopo aver fatto un rapido inventario della povertà dei Picero, li informarono della missione caritatevole della signora Dermoth, che individuava i bambini più sfortunati e li dava in adozione a famiglie ricche, per salvarli da una vita di miseria. A differenza di altre istituzioni dedite allo stesso scopo, lei si occupava solo di creature con tare di nascita o colpite da incidenti o malattie. Nel Nord c'erano alcune coppie – buoni cristiani, naturalmente – disposte ad adottare quei bambini. Loro disponevano di ogni risorsa per aiutarli. Lassù nel Nord c'erano cliniche e scuole dove si facevano miracoli, ai sordomuti, per esempio, insegnavano a leggere i movimenti delle labbra e a parlare, poi andavano in scuole speciali, ricevevano un'educazione completa e alcuni si iscrivevano all'università e finivano per diventare avvocati o dottori. L'organizzazione aveva aiutato molti bambini, i Picero potevano vedere le fotografie, guardate come si vede che sono contenti, come sono sani, con tutti questi giocattoli, in queste case di signori. I volontari non potevano promettere niente, ma avrebbero fatto tutto il possibile per far sì che una di quelle coppie accogliesse Juan, per dargli tutte le opportunità che sua madre non poteva offrirgli.
"Non bisogna mai separarsi dai figli, qualunque cosa accada," disse Jesús Dionisio Picero stringendosi al petto la testa del bambino perché non vedesse le facce e non indovinasse l'argomento della conversazione.
"Non sia egoista, pensi a quello che è meglio per lui. Non capisce che là avrà tutto? Lei non ha neanche di che comprargli le medicine, non può mandarlo a scuola, cosa ne sarà di lui? Questo poverino non ha neanche il padre."
"Ma ha una madre e un bisnonno," replicò il vecchio.
I visitatori se ne andarono, lasciando sul tavolo i volantini della signora Dermoth. Nei giorni seguenti Claveles si sorprese più volte a guardarli e a paragonare quelle case grandi e ben arredate con la sua modesta abitazione di legno, tetto di paglia e pavimento di terra battuta, quei genitori amabili e ben vestiti con se stessa stanca e scalza, quei bambini sommersi dai giocattoli con il suo che impastava argilla.
Una settimana più tardi Claveles si imbatté nei volontari al mercato, dove era andata a vendere qualche scultura del nonno, e tornò ad ascoltare gli stessi argomenti, che un'occasione come quella non si sarebbe presentata un'altra volta, che la gente adotta bambini sani, mai ritardati, quelle persone del Nord erano di nobili sentimenti, che ci pensasse bene, perché si sarebbe pentita per tutta la vita di aver negato al figlio tanti vantaggi, condannandolo alla sofferenza e alla povertà.
"Perché vogliono solo bambini malati?" chiese Claveles.
"Perché sono dei gringos mezzo santi. La nostra organizzazione si occupa solo dei casi più penosi. Per noi sarebbe più facile collocare i normali, ma si tratta di aiutare gli invalidi."
Claveles Picero rivide i volontari diverse volte. Si presentavano sempre quando il nonno era in casa. Verso la fine di novembre le mostrarono la foto di una coppia di mezza età, in piedi sulla soglia di una casa bianca circondata da un parco, e le dissero che la signora Dermoth aveva trovato i genitori ideali per suo figlio. Le indicarono sulla mappa il luogo preciso in cui abitavano, le spiegarono che là d'inverno c'era la neve e i bambini facevano pupazzi, pattinavano sul ghiaccio e sciavano, che in autunno i boschi sembravano d'oro e che d'estate si poteva nuotare nel lago. La coppia si era talmente esaltata all'idea di adottare il piccino che già gli avevano comprato una bicicletta. Le mostrarono anche la fotografia della bicicletta. E tutto questo senza contare che offrivano duecentocinquanta dollari a Claveles, con i quali avrebbe potuto sposarsi e avere figli sani. Sarebbe stata una pazzia dire di no.
Due giorni più tardi, approfittando del fatto che Jesús Dionisio era andato a spazzare la chiesa, Claveles Picero vestì suo figlio con i pantaloni migliori, gli mise al collo la medaglia del battesimo e gli spiegò nel linguaggio gestuale inventato dal nonno per lui che non si sarebbero visti per molto tempo, forse mai più, ma che era tutto per il suo bene, sarebbe andato in un posto dove c'era da mangiare tutti i giorni e avrebbe avuto regali per i suoi compleanni. Lo portò all'indirizzo indicato dai volontari, firmò un documento in cui affidava la custodia di Juan alla signora Dermoth e uscì di corsa perché il figlio non vedesse le sue lacrime e si mettesse a piangere anche lui.
Quando Jesús Dionisio venne a saperlo perse il respiro e la voce. A manate scagliò a terra tutto ciò che trovava, inclusi i santi in bottiglia, poi si lanciò su Claveles, colpendola con una violenza inaspettata in una persona della sua età e del suo carattere mansueto. Appena riuscì a parlare l'accusò di essere uguale a sua madre, capace di disfarsi del proprio figlio, cosa che non fanno neanche le belve della foresta, e invocò il fantasma di Amparo Medina perché facesse vendetta su quella nipote depravata. Nei mesi seguenti non rivolse la parola a Claveles, apriva bocca solo per mangiare e per biascicare maledizioni mentre le sue mani si affannavano sugli attrezzi da intaglio. I Picero si abituarono a vivere in un selvatico silenzio, ciascuno facendo le sue cose. Lei cucinava e gli metteva il piatto sul tavolo, lui mangiava con gli occhi fissi sul cibo... Insieme badavano all'orto e agli animali, ciascuno ripetendo i gesti della propria routine, in perfetto coordinamento con l'altro, senza sfiorarsi. Nei giorni di mercato lei raccoglieva le bottiglie e i santi di legno, andava a venderli, tornava con qualche provvista e lasciava il resto del denaro in un barattolo. La domenica andavano in chiesa separati, come estranei.
Forse avrebbero passato il resto della vita senza parlarsi se verso la metà di febbraio il nome della signora Dermoth non avesse fatto notizia. Il nonno lo sentì alla radio, mentre Claveles stava lavando la biancheria in cortile, prima il commento del cronista e poi la conferma del Segretario al Benessere Sociale in persona. Con il cuore in tumulto, si affacciò alla porta, chiamando Claveles con quanto fiato aveva. La ragazza si voltò e vedendolo così sconvolto credette che stesse per morire, e corse a sostenerlo.
"L'hanno ammazzato, Gesù, è sicuro che l'hanno ammazzato!" gemette il vecchio cadendo in ginocchio.
"Ma chi, nonno?"
"Juan..." e mezzo soffocato dai singhiozzi le ripeté le parole del Segretario al Benessere Sociale, che un'organizzazione criminale diretta da una certa signora Dermoth vendeva bambini indigeni. Li sceglievano malati o di famiglie poverissime, con la promessa che sarebbero stati dati in adozione. Li mantenevano per un certo tempo ingrassandoli, e quando erano in condizioni migliori li portavano in una clinica clandestina dove li operavano. Decine di innocenti erano stati sacrificati come banche d'organi, perché gli togliessero gli occhi, i reni, il fegato e altre parti del corpo che venivano mandate per operare trapianti nel Nord. Aggiunse che in una delle case dove li ingrassavano avevano trovato ventotto bambini che aspettavano il loro turno, che la polizia era intervenuta e che il Governo continuava le indagini per smantellare quell'orrendo traffico.
Così ebbe inizio il lungo viaggio di Claveles e Jesús Dionisio per parlare nella capitale con il Segretario al Benessere Sociale. Volevano chiedergli, con tutto il dovuto rispetto, se tra i bambini liberati c'era il loro, e se per caso lo potevano riavere. Dei soldi avuti restava pochissimo, ma erano disposti a lavorare come schiavi per la signora Dermoth per tutto il tempo necessario, fino a restituirle l'ultimo centesimo di quei duecentocinquanta dollari.