WALIMAI

 

 

 

 

 

Il nome che mi diede mio padre è Walimai, che nella lingua dei nostri fratelli del nord vuol dire vento. Posso raccontartelo perché ora sei come mia figlia e hai il mio permesso di nominarmi, anche se solo quando siamo in famiglia. Si deve stare molto attenti con i nomi delle persone e degli esseri viventi, perché nel pronunciarli si tocca il loro cuore ed entriamo dentro la loro forza vitale. Così ci salutiamo come parenti di sangue. Non capisco la facilità degli stranieri che si chiamano l'un l'altro senza ombra di timore, il che non è solo una mancanza di rispetto, ma può causare anche gravi pericoli. Ho notato che quelle persone parlano con la massima leggerezza, senza tener presente che parlare è anche essere. Il gesto e la parola sono il pensiero dell'uomo. Non si deve parlare invano, questo ho insegnato ai miei figli, ma i miei consigli non sempre sono ascoltati. Anticamente i tabù e le tradizioni erano rispettati. I miei nonni i nonni dei miei nonni ricevettero dai loro nonni le conoscenze necessarie. Nulla cambiava per loro. Un uomo con un buon insegnamento poteva ricordare ciascuno degli insegnamenti ricevuti e così sapeva come agire in ogni circostanza. Ma poi vennero gli stranieri parlando contro la sapienza degli anziani e spingendoci fuori dalla nostra terra. Ci inoltrammo sempre più nella selva, ma loro ci raggiungono sempre, a volte ci mettono anni, ma alla fine arrivano di nuovo, e allora noi dobbiamo distruggere i seminati, metterci i bambini in spalla, legare gli animali e partire. Così è stato da quando mi ricordo: lasciare tutto e metterci a correre come topi e non come i grandi guerrieri e gli dèi che popolarono questo territorio nell'antichità. Alcuni giovani provano curiosità per i bianchi, e mentre noi andiamo verso il profondo della foresta per continuare a vivere come i nostri antenati, altri intraprendono il cammino opposto. Consideriamo coloro che se ne vanno come se fossero morti, perché pochissimi ritornano, e chi lo fa è tanto cambiato che non possiamo riconoscerlo come parente.

Dicono che negli anni precedenti la mia nascita non erano venute al mondo abbastanza femmine nel nostro villaggio, e per questo mio padre dovette percorrere lunghi cammini per cercare una sposa in un'altra tribù. Viaggiò per le foreste, seguendo le indicazioni di altri che avevano camminato per quei sentieri prima di lui per la stessa ragione, e che tornarono con mogli forestiere. Dopo molto tempo, quando mio padre già cominciava a perdere la speranza di trovare una compagna, vide una giovane ai piedi di una cascata alta, un fiume che cadeva dal cielo. Senza avvicinarsi troppo, per non spaventarla, le parlò nel tono che usano i cacciatori per tranquillizzare la preda, e le spiegò la sua necessità di sposarsi. Lei gli fece segno di avvicinarsi, lo osservò apertamente e l'aspetto del viaggiatore deve esserle piaciuto, perché decise che l'idea del matrimonio non era del tutto scriteriata. Mio padre dovette lavorare per il suocero fino a pagargli il valore della moglie. Dopo aver compiuto i riti nuziali, fecero il viaggio di ritorno al nostro villaggio.

Io crebbi con i miei fratelli sotto gli alberi, senza mai vedere il sole. A volte cadeva un albero ferito e rimaneva un vuoto nella cupola profonda della foresta, allora vedevamo l'occhio azzurro del cielo. I miei genitori mi raccontarono storie, mi cantarono canzoni e mi insegnarono ciò che devono sapere gli uomini per sopravvivere senza aiuto, solo con l'arco e le frecce. In questo modo fui libero. Noi, i Figli della Luna, non possiamo vivere senza libertà. Quando ci rinchiudono tra le pareti o tra le sbarre ci volgiamo dentro noi stessi, diventiamo ciechi e sordi e in pochi giorni lo spirito ci si stacca dalle ossa del petto e ci abbandona. A volte diventiamo come animali miserabili, ma quasi sempre preferiamo morire. Perciò le nostre case non hanno pareti, solo un tetto inclinato per fermare il vento e deviare la pioggia, sotto il quale appendiamo le nostre amache molto vicine, perché ci piace ascoltare i sogni delle donne e dei bambini e sentire il respiro delle scimmie, dei cani e delle lapas, che dormono sotto la stessa tettoia. Nei primi tempi sono vissuto nella selva senza sapere che esisteva un mondo al di là delle rocce e dei fiumi. Qualche volta vennero amici visitatori di altre tribù e ci raccontarono cose sentite di Boa Vista e di El Platanal, degli stranieri e dei loro costumi, ma credevamo che fossero solo storielle per far ridere. Mi feci uomo e venne il mio turno di trovare una sposa, ma decisi di aspettare perché preferivo andare con gli scapoli, eravamo allegri e ci divertivamo. Però io non potevo dedicarmi al gioco e al riposo come altri, perché la mia famiglia è numerosa: fratelli, cugini, nipoti, tante bocche da sfamare, molto lavoro per un cacciatore.

Un giorno al nostro villaggio arrivò un gruppo di uomini pallidi. Cacciavano con la polvere, da lontano, senza destrezza né coraggio, erano incapaci di arrampicarsi su un albero o di infilzare un pesce con una lancia nell'acqua, potevano appena muoversi nella selva, sempre imprigionati nei loro zaini, nelle loro armi e persino nei loro piedi. Non si vestivano d'aria come noi, ma avevano vesti inzuppate e fetide, erano sporchi e non conoscevano le regole della decenza. Ma si impegnavano a parlarci delle loro conoscenze e dei loro dèi. Li paragonammo con quello che ci avevano raccontato sui bianchi e comprovammo la verità di quelle favole. Presto ci accorgemmo che questi non erano missionari, soldati o raccoglitori di caucciù, erano pazzi, volevano la terra e portarsi via il legname, cercavano anche pietre. Spiegammo loro che la selva non si può mettersela in spalla e portarsela via come un uccello morto, ma non vollero sentire ragioni. Si installarono vicino al nostro villaggio. Ognuno di loro era come un vento di catastrofe, distruggeva al suo passaggio tutto ciò che toccava, lasciava come una traccia di sperpero, molestava gli animali e le persone. All'inizio rispettammo le regole della cortesia e li compiacemmo, perché erano nostri ospiti, ma loro non erano contenti di niente, volevano sempre di più, finché, stanchi di quei giochi, iniziammo la guerra con tutte le cerimonie usuali. Non sono buoni guerrieri, si spaventano facilmente e hanno le ossa molli. Non resistettero alle mazzate che davamo loro sulla testa. Dopodiché abbandonammo il villaggio e ce ne andammo a oriente, dove la foresta è impenetrabile, facendo lunghi tratti sulle chiome degli alberi perché ì loro compagni non ci raggiungessero. Ci era giunta la notizia che sono vendicativi e che per ciascuno di loro che muore, anche se in una battaglia pulita, sono capaci di eliminare tutta una tribù compresi i bambini. Scoprimmo un luogo dove situare un altro villaggio. Non era altrettanto buono, le donne dovevano camminare ore per trovare acqua chiara, ma restammo lì perché credevamo che nessuno ci avrebbe cercati così lontano. In capo a un anno, una volta che dovetti allontanarmi molto seguendo la pista di un puma, mi avvicinai troppo a un accampamento di soldati. Ero stanco e non avevo mangiato da diversi giorni, perciò la mia mente era stordita. Invece di tornare indietro quando percepii la presenza dei soldati stranieri, mi fermai a riposare. I soldati mi presero. Però non parlarono delle mazzate date agli altri, in realtà non mi chiesero niente, forse non conoscevano quelle persone o non sapevano che io sono Walimai. Mi portarono a lavorare con i raccoglitori di caucciù, dove c'erano molti uomini di altre tribù, li avevano vestiti con i pantaloni e li costringevano a lavorare, senza prendere in considerazione la loro volontà. Il caucciù richiede molta cura e non c'era abbastanza gente da quelle parti, perciò dovevano prenderci con la forza. Quello fu un periodo senza libertà e non desidero parlarne. Rimasi solo per vedere se imparavo qualcosa, ma fin dall'inizio sapevo che sarei ritornato dai miei. Nessuno può trattenere per molto tempo un guerriero contro la sua volontà.

Si lavorava da sole a sole, alcuni incidendo gli alberi per togliergli la vita goccia a goccia, altri cuocendo il liquido raccolto per ispessirlo e farne grandi palle. L'aria libera era malata dell'odore della gomma bruciata e l'aria dei dormitori comuni lo era per il sudore degli uomini. In quel luogo non potei mai respirare a fondo. Ci davano da mangiare mais, banane e lo strano contenuto di lattine che non assaggiai mai perché nulla di buono per gli uomini può crescere in un barattolo. A un'estremità dell'accampamento avevano costruito una grande capanna dove tenevano le donne. Dopo due settimane che lavoravo con il caucciù, il caposquadra mi diede un pezzo di carta e mi mandò da loro. Mi diede anche una tazza di liquore che io versai per terra, perché ho visto come quell'acqua distrugge la prudenza. Feci la fila, con tutti gli altri. Io ero l'ultimo, e quando mi toccò entrare nella capanna il sole era tramontato e cominciava la notte, col suo strepito di rospi e pappagalli.

Lei era della tribù degli Ila, quelli dal cuore dolce, da cui vengono le giovani più delicate. Alcuni uomini viaggiano per mesi per avvicinarsi agli Ila, portano loro regali e cacciano per loro, nella speranza di ottenere una delle loro donne. Io la riconobbi malgrado il suo aspetto da ramarro, perché anche mia madre era una Ila. Era nuda su una stuoia, legata per la caviglia con una catena fissata al suolo, in letargo, come se avesse aspirato dal naso lo "yopo" dell'acacia, aveva l'odore dei cani bagnati ed era sporca degli spruzzi di tutti gli uomini che erano stati sopra di lei prima di me. Era grande come un bambino di pochi anni, le sue ossa risuonavano come pietrisco nel fiume. Le donne Ila si tolgono tutti i peli del corpo, persino le ciglia, si adornano le orecchie con piume e fiori, si infilano bastoncini levigati nelle guance e nel naso, si dipingono disegni su tutto il corpo con i colori rosso dell'onoto, viola della palma e nero del carbone. Ma lei non aveva più nulla di tutto questo. Lasciai il mio machete per terra e la salutai come sorella, imitando alcuni canti di uccelli e il rumore dei fiumi. Lei non rispose. Le colpii con forza il petto, per vedere se il suo spirito risuonava tra le costole, ma non ci fu eco, la sua anima era molto debole e non poteva rispondermi. In ginocchio accanto a lei le diedi da bere un po' d'acqua e le parlai nella lingua di mia madre. Aprì gli occhi e mi guardò a lungo. Capii.

Prima di tutto mi lavai senza sprecare l'acqua pulita. Me ne versai un gran sorso in bocca e lo proiettai in sottili schizzi contro le mie mani, che sfregai bene e poi inzuppai per pulirmi la faccia. Feci lo stesso con lei, per toglierle gli spruzzi degli uomini. Mi tolsi i pantaloni che mi aveva dato il caposquadra. Dalla corda che mi cingeva la vita pendevano i miei legnetti per accendere il fuoco, alcune punte di freccia, il mio rotolo di tabacco, il mio coltello di legno con un dente di topo in punta e una borsa di cuoio ben chiusa, dove tenevo un poco di curaro. Misi un po' di quella pasta sulla punta del mio coltello, mi chinai sulla donna e con lo strumento avvelenato le feci un taglio sul collo. La vita è un dono degli dèi. Il cacciatore uccide per alimentare la sua famiglia, lui fa in modo di non assaggiare la carne della sua preda e preferisce quella che un altro cacciatore gli offre. A volte, per disgrazia, un uomo ne uccide un altro in guerra, ma non può mai fare del. male a una donna o a un bambino. Lei mi guardò con grandi occhi, gialli come il miele, e mi parve che tentasse di sorridere, grata. Per lei io avevo violato il primo tabù dei Figli della Luna e avrei dovuto pagare la mia vergogna con molte pene di espiazione. Avvicinai il mio orecchio alla sua bocca e lei mormorò il suo nome. Lo ripetei per due volte nella mia mente per essere ben sicuro, ma senza pronunciarlo ad alta voce, perché non si devono menzionare i morti per non turbarne la pace, e lei già lo era, anche se il suo cuore palpitava ancora. Presto vidi che le si paralizzavano i muscoli del ventre, del petto e delle membra, perse il fiato, cambiò colore, le sfuggì un sospiro e il suo corpo morì senza lottare, come muoiono i bambini piccoli.

Subito sentii che lo spirito le usciva dalle narici e si introduceva in me, afferrandosi al mio sterno. Tutto il peso di lei cadde su di me e dovetti fare uno sforzo per alzarmi in piedi, mi muovevo goffamente, come fossi stato sott'acqua. Piegai il suo corpo nella posizione dell'ultimo riposo, con le ginocchia che toccavano il mento, le legai con le corde della stuoia, feci un mucchietto con i resti della paglia e usai i miei legni per accendere il fuoco. Quando vidi che la fiamma ardeva sicura uscii lentamente dalla capanna, scalai il recinto dell'accampamento con molta difficoltà, perché lei mi trascinava verso il basso, e mi diressi verso la selva. Avevo raggiunto i primi alberi quando sentii le campane dell'allarme.

Per tutto il primo giorno camminai senza fermarmi un istante. Il secondo giorno fabbricai arco e frecce e con questo potei cacciare per lei e anche per me. Il guerriero che porta il peso di un'altra vita umana deve digiunare per dieci giorni, così si debilita lo spirito del defunto, che finalmente si stacca e se ne va nel territorio delle anime. Se non lo fa, lo spirito ingrassa con gli alimenti e cresce dentro l'uomo fino a soffocarlo. Ho visto alcuni incauti morire così. Ma prima di adempiere a queste regole io dovevo condurre lo spirito della donna Ila verso la vegetazione più oscura, dove non potesse mai essere ritrovato. Mangiai pochissimo, appena il necessario per non ucciderla una seconda volta. Ogni boccone sapeva di carne marcia e ogni sorso d'acqua era amaro, ma mi costrinsi a inghiottirli per nutrirci entrambi. Durante un percorso completo della luna mi addentrai nella selva portando l'anima della donna, che ogni giorno pesava di più. Parlammo molto. La lingua degli Ila è sciolta e risuona sotto gli alberi con una lunga eco. Comunicavamo cantando, con tutto il corpo, con gli occhi, con la vita, con i piedi. Le ripetei le leggende che avevo imparato da mia madre e da mio padre, le narrai il mio passato e lei mi narrò la prima parte del suo, quando era una giovane allegra che giocava con i fratelli a rivoltolarsi nel fango e a dondolarsi sui rami più alti. Per cortesia non parlò del suo ultimo periodo di sventure e umiliazioni. Cacciai un uccello bianco, gli strappai le penne migliori e le feci degli ornamenti per le orecchie. Di notte tenevo acceso un fuocherello, perché non avesse freddo e i giaguari e i serpenti non disturbassero il suo sonno. Nel fiume la lavai con cura, sfregandola con cenere e fiori pestati per toglierle i brutti ricordi.

Un giorno finalmente raggiungemmo il posto giusto, e non avevamo più pretesti per proseguire. Lì la selva era così folta che in alcuni punti dovetti aprirmi il passo spezzando la vegetazione con il mio machete e persino con i denti, e dovevamo parlare a bassa voce per non alterare il silenzio del tempo. Scelsi un punto accanto a un filo d'acqua, costruii una tettoia di foglie e feci un'amaca per lei con tre lunghe strisce di corteccia. Con il coltello mi rasai la testa e cominciai il mio digiuno.

Durante tutto il tempo che camminammo insieme, la donna e io ci amammo tanto che non volevamo più separarci, ma l'uomo non è padrone della vita, neppure della propria, per cui dovetti compiere il mio dovere. Per molti giorni non misi in bocca nulla, solo qualche sorso d'acqua. Man mano che le forze si debilitavano lei si andava sciogliendo dal mio abbraccio, e il suo spirito, sempre più etereo, non mi pesava più come prima. Dopo cinque giorni mosse i suoi primi passi lì attorno, mentre io sonnecchiavo, ma non era pronta per continuare il suo viaggio da sola e tornò con me. Ripete queste escursioni diverse volte, allontanandosi ogni volta un poco di più. Il dolore della sua partenza era per me terribile come un'ustione, e dovetti ricorrere a tutto il coraggio imparato da mio padre per non chiamarla con il suo nome ad alta voce, attirandola così di nuovo a me per sempre. Dopo dodici giorni sognai che volava come un tucano sopra le chiome degli alberi e mi svegliai con il corpo più leggero e la voglia di piangere. Se n'era andata definitivamente. Raccolsi le mie armi e camminai per molte ore fino a raggiungere un braccio del fiume. Mi immersi nell'acqua fino alla cintola, trafissi un piccolo pesce con un bastone appuntito e lo inghiottii intero, con squame e coda. Subito lo vomitai con un po' di sangue, come deve essere. Non mi sentii più triste. Imparai allora che a volte la morte è più potente dell'amore. Poi mi misi a cacciare per non tornare al mio villaggio a mani vuote.