BIMBA PERVERSA

 

 

 

 

 

A undici anni Elena Mejías era ancora un cucciolo denutrito, con la pelle opaca dei bambini solitari, la bocca che mostrava qualche vuoto di dentizione tardiva, i capelli color topo e uno scheletro visibile che pareva troppo contundente per la sua taglia e minacciava di sbucar fuori dalle ginocchia e dai gomiti. Nulla nel suo aspetto tradiva i suoi sogni torridi o annunciava la creatura appassionata che in realtà era. Passava inavvertita tra i mobili ordinari e le tende stinte della pensione di sua madre. Era solo una gatta malinconica che giocava tra i gerani polverosi e le grandi felci del patio o transitava tra il focolare della cucina e i tavoli della sala da pranzo con i piatti della cena. Raramente un cliente badava a lei, e se lo faceva era solo per ordinarle di spruzzare d'insetticida i nidi degli scarafaggi o di riempire il serbatoio del bagno, quando la scricchiolante carcassa della pompa rifiutava di far salire l'acqua fino al secondo piano. Sua madre, stremata dal caldo e dal lavoro di casa, non aveva animo per tenerezze né tempo per osservare la figlia, per cui non seppe quando Elena cominciò a tramutarsi in un essere diverso. Durante i primi anni di vita era stata una bimba silenziosa e timida, sempre intenta a giochi misteriosi, che parlava da sola negli angoli e si succhiava il dito. Usciva solo per andare a scuola o al mercato, non sembrava interessarsi al tumultuoso gregge di bambini della sua età che giocavano in strada.

La trasformazione di Elena Mejías coincise con l'arrivo di Juan José Bernal, l'Usignolo, come si era definito da sé e come annunciava un manifesto che appese alla parete della sua stanza. I pensionanti erano per lo più studenti e impiegati di qualche oscura dipendenza della pubblica amministrazione. Signore e signori ammodo, come diceva sua madre, la quale si vantava di non accettare chicchessia sotto il suo tetto, solo persone di merito, con un'occupazione conosciuta, costumi morigerati, solvenza sufficiente a pagare il mese anticipato e predisposizione ad accettare le regole della pensione, più simili a quelle di un seminario che a quelle di un albergo. Una vedova deve preoccuparsi della propria reputazione e farsi rispettare, non voglio che la mia pensione diventi una tana di vagabondi e pervertiti, ripeteva sovente la madre, affinché nessuno e meno che mai Elena potesse dimenticarlo. Uno dei compiti della bambina era di sorvegliare gli ospiti e mantenere informata la madre di qualsiasi indirizzo sospetto. Quest'opera di spionaggio aveva accentuato la condizione incorporea della ragazzina, che sfumava tra le ombre delle stanze, esisteva in silenzio e compariva all'improvviso, come fosse di ritorno da una dimensione invisibile. Madre e figlia lavoravano insieme ai molteplici compiti della pensione, ciascuna immersa nella sua tacita routine, senza necessità di comunicare. In realtà si parlavano poco, e quando lo facevano, nel momento libero dell'ora della siesta, discorrevano dei clienti. A volte Elena tentava di addobbare le grigie vite di quegli uomini e donne transitori, che passavano per la casa senza lasciar ricordo, attribuendo loro qualche evento straordinario, colorandoli col dono di qualche amore clandestino o di una tragedia, ma sua madre possedeva un istinto sicuro nello smascherare le sue fantasie. Nella stessa maniera scopriva se sua figlia le nascondeva qualche informazione. Aveva un implacabile senso pratico e una nozione chiarissima di quanto accadeva sotto il suo tetto, sapeva con esattezza cosa faceva ciascuno a qualsiasi ora del giorno o della notte, quanto zucchero era rimasto in dispensa, per chi suonava il telefono o dove erano rimaste le forbici. Era stata una donna allegra e anche carina, le sue vesti cupe contenevano appena l'impazienza di un corpo ancora giovane, ma erano tanti anni che si occupava di dettagli meschini che le si era inaridita la freschezza dello spirito e il gusto della vita. Tuttavia, quando si presentò Juan José Bernal a chiedere una stanza, tutto cambiò per lei e anche per Elena. La madre, sedotta dalla modulazione pretenziosa dell'Usignolo e dal suggerimento di celebrità esposto nel manifesto, contraddisse le proprie regole e lo accettò nella pensione, benché non calzasse per nulla con la sua immagine del cliente ideale. Bernal disse che cantava di notte e doveva pertanto riposare durante il giorno, che per il momento non aveva occupazione, quindi non poteva pagare il mese anticipato, e che era molto scrupoloso con le sue abitudini di alimentazione e d'igiene, era vegetariano e aveva bisogno di due docce al giorno. Sorpresa, Elena vide sua madre registrare senza commenti il nuovo ospite nel libro mastro e condurlo alla stanza trascinando a fatica la sua pesante valigia, mentre egli portava la custodia con la chitarra e il tubo di cartone in cui tesaurizzava il suo manifesto. Dissimulandosi contro la parete, la bimba li seguì su per la scala, e notò l'espressione intensa del nuovo ospite alla vista del grembiule di percalle appiccicato alle natiche umide di sudore di sua madre. Entrando nella stanza Elena premette l'interruttore e le grandi pale del ventilatore al soffitto presero a girare con un sibilo di ferro ossidato.

Da quell'istante cambiarono le abitudini della casa. C'era più da fare, perché Bernal dormiva nelle ore in cui gli altri erano usciti per andare al lavoro, occupava il bagno per ore, consumava una quantità spaventosa di cibi da coniglio che dovevano essere cucinati separatamente, usava il telefono ad ogni istante e scaldava il ferro per stirare le sue camicie da divo senza che la padrona della pensione esigesse da lui contributi straordinari. Elena tornava da scuola con il sole della siesta, quando il giorno languiva sotto una terribile luce bianca, ma a quell'ora lui era ancora nel primo sonno. Per ordine di sua madre si toglieva le scarpe, per non violare il riposo artificiale in cui pareva sospesa la casa. La bambina si rese conto che la madre cambiava giorno per giorno. I segni furono percettibili per lei sin dall'inizio, molto prima che gli altri abitanti della pensione cominciassero a bisbigliare alle sue spalle. Prima fu l'odore, un aroma persistente di fiori, che emanava dalla donna e restava a fluttuare nell'ambito delle stanze in cui passava. Elena conosceva ogni angolo della casa e la sua lunga assuefazione allo spionaggio le permise di scoprire il flacone di profumo dietro i pacchi di riso e le scatole di conserva in dispensa. Poi notò la linea tracciata con una matita scura sulle palpebre, il tocco di rossetto sulle labbra, la biancheria intima nuova, il sorriso immediato quando Bernal scendeva finalmente al tramonto, fresco uscito dal bagno, con i capelli ancora umidi, e sedeva in cucina a divorare i suoi strani intingoli da fachiro. La madre gli si sedeva di fronte e lui le raccontava episodi della sua vita d'artista, celebrando ognuna delle proprie traversie con una forte risata che gli nasceva nel ventre.

Nelle prime settimane Elena provò odio per quell'uomo che occupava tutto lo spazio della casa e tutta l'attenzione di sua madre. Le ripugnavano i suoi capelli unti di brillantina, le unghie laccate, la sua mania di frugarsi i denti con un legnetto, la sua pedanteria e la sua impudenza nel farsi servire. Si chiedeva cosa vedesse sua madre in lui, era solo un avventuriero dozzinale, un cantante di miseri locali di cui nessuno aveva sentito parlare, forse un ruffiano, come aveva suggerito in un sussurro la signorina Sofia, una delle pensionanti più anziane. Ma allora, un caldo pomeriggio di domenica, quando non c'era nulla da fare e le ore parevano prigioniere fra le pareti della casa, Juan José Bernal apparve nel patio con la sua chitarra, si installò su una panca sotto il fico e cominciò a percuotere le corde. Il suono attirò tutti gli ospiti, che si andarono affacciando ad uno ad uno, prima con una certa timidezza, senza capire la ragione di tanto baccano, ma poi afferrarono entusiasmati le sedie della sala da pranzo e si accomodarono attorno all'Usignolo. L'uomo aveva una voce volgare, ma era intonato e cantava con grazia. Conosceva tutti i vecchi boleros e le rancheras del repertorio messicano e qualche canzone guerrigliera disseminata di parolacce e bestemmie, che fecero arrossire le donne. Per la prima volta da quando la bimba poteva ricordare ci fu nella pensione un'atmosfera di festa. Quando si fece buio accesero due lampade a paraffina per appenderle agli alberi e portarono birre e la bottiglia di rum riservata a curare i raffreddori. Elena servì i bicchieri tremando, sentiva le parole di disperazione di quelle canzoni e i lamenti della chitarra con ogni fibra del corpo, come una febbre. Sua madre seguiva il ritmo con un piede. Di colpo si alzò, la prese per le mani ed entrambe iniziarono a ballare, seguite immediatamente dagli altri, compresa la signorina Sofia, tutta moine e risatine nervose. A lungo Elena si mosse seguendo la cadenza della voce di Bernal, stretta contro il corpo della madre, aspirando il suo nuovo odore di fiori, completamente felice. Ma presto notò che la respingeva dolcemente, separandosi per continuare da sola. Con gli occhi chiusi e la testa riversa all'indietro, la donna ondeggiava come un lenzuolo che si asciuga al vento. Elena si ritirò e pian piano anche gli altri tornarono alle loro sedie, lasciando la padrona della pensione sola al centro del patio, persa nella sua danza.

Da quella sera Elena vide Bernal con occhi nuovi. Dimenticò che detestava la sua brillantina, il suo stuzzicadenti e la sua arroganza, e quando lo vedeva passare o lo sentiva parlare ricordava le canzoni di quella festa improvvisata e tornava a sentire l'ardore sulla pelle e la confusione nell'anima, una febbre che non sapeva tradurre in parole. Lo osservava da lontano, furtivamente, e andò così scoprendo quello che prima non aveva saputo percepire, le sue spalle, il suo collo ampio e forte, la curva sensuale delle sue labbra spesse, i suoi denti perfetti, l'eleganza delle sue mani, lunghe e sottili. La prese un desiderio insopportabile di avvicinarsi a lui per seppellire il volto nel suo petto bruno, ascoltare la vibrazione dell'aria nei suoi polmoni e il rumore del suo cuore, aspirare il suo odore, un odore che sapeva secco e penetrante, come di cuoio tagliato o di tabacco. Si immaginava di giocare con i suoi capelli, di palpargli i muscoli della schiena e delle gambe, di scoprire la forma dei suoi piedi, mutata in fumo per entrargli nella gola e occuparlo tutto. Ma se l'uomo alzava lo sguardo e incontrava il suo, Elena correva a nascondersi nel cespuglio più appartato del patio, tremando. Bernal si era impadronito di tutti i suoi pensieri, la bimba non poteva più sopportare l'immobilità del tempo lontano da lui. A scuola si muoveva come in un incubo, cieca e sorda a tutto salvo che alle immagini interiori, dove vedeva solo lui. Cosa stava facendo in quel momento? Forse dormiva bocconi sul letto con le persiane chiuse, la stanza in penombra, l'aria afosa agitata dalle pale del ventilatore, un sentiero di sudore lungo la colonna vertebrale, la faccia affondata nel cuscino. Al primo rintocco della campanella correva a casa, pregando che non si fosse ancora svegliato e lei riuscisse a lavarsi e a mettersi un vestito pulito e a sedersi ad aspettarlo in cucina, fingendo di fare i compiti perché la madre non la sommergesse di lavori domestici. E poi, quando lo sentiva uscire fischiettando dal bagno, agonizzava d'impazienza e di paura, sicura che sarebbe morta di gioia se lui l'avesse toccata o soltanto le avesse parlato, ansiosa che questo accadesse, ma nel contempo pronta a sparire tra i mobili, perché non poteva vivere senza di lui ma neppure poteva resistere alla sua ardente presenza. Occultamente lo seguiva dovunque, lo serviva in ogni minima cosa, indovinava i suoi desideri per offrirgli ciò di cui aveva bisogno prima che lo chiedesse, ma si muoveva sempre come un'ombra, per non rivelare la propria esistenza.

Di notte Elena non riusciva a dormire, perché lui non era in casa. Abbandonava l'amaca e usciva come un fantasma a vagare per il primo piano, cercando il coraggio di entrare finalmente, in perfetto silenzio, nella stanza di Bernal. Si chiudeva la porta alle spalle e apriva leggermente la finestra perché il riflesso della strada entrasse a illuminare le cerimonie che aveva inventato per impadronirsi dei frammenti dell'anima di quell'uomo, rimasti a impregnare i suoi oggetti. Nella lastra dello specchio, nera e brillante come una pozza di fanghiglia, si osservava a lungo, perché là si era guardato lui, e le impronte delle due immagini potevano confondersi in un abbraccio. Si accostava al cristallo con gli occhi spalancati, vedendo se stessa con gli occhi di lui, baciando le proprie labbra con un bacio freddo e duro, che immaginava caldo, come bocca di uomo. Sentiva la superficie dello specchio contro il petto e le si intumidivano le minuscole ciliegie dei seni, provocandole un sordo dolore che si diffondeva giù giù e si installava in un punto preciso fra le gambe. Cercava quel dolore, ancora e ancora. Dall'armadio tirava fuori una camicia e le scarpe di Bernal e se le infilava. Faceva qualche passo per la stanza con molta attenzione, per non fare rumore. Così vestita frugava nei cassetti, si pettinava col suo pettine, succhiava il suo spazzolino da denti, lambiva la sua crema da barba, accarezzava i suoi indumenti sporchi. Poi, senza sapere perché lo facesse, si toglieva la camicia, le scarpe e la propria camicia da notte e si stendeva nuda sul letto di Bernal, aspirando con avidità il suo odore, invocando il suo calore per avvolgersi in esso. Si toccava tutto il corpo, cominciando dalla forma strana del cranio, le cartilagini traslucide delle orecchie, le occhiaie, la cavità della bocca, e così verso il basso disegnandosi le ossa, le pieghe, gli angoli e le curve di quella totalità insignificante che era lei stessa, desiderando di essere enorme, pesante e densa come una balena. Immaginava di andarsi colmando di un liquido vischioso e dolce come miele, di gonfiarsi e crescere fino alle dimensioni di una bambola madornale, fino a riempire tutto il letto, tutta la stanza, tutta la casa col suo corpo turgido. Stremata, a volte si addormentava per qualche minuto, piangendo.

Una mattina di sabato Elena vide dalla finestra Bernal avvicinarsi a sua madre di spalle, mentre questa era china nella vasca a strofinare panni. l'uomo le mise la mano sulla vita e la donna non si mosse, come se il peso di quella mano fosse parte del suo corpo. Benché distante, Elena percepì il gesto di possesso di lui, l'atteggiamento di abbandono di sua madre, l'intimità dei due, quella corrente che li univa come un formidabile segreto. La bimba sentì che un istantaneo sudore la bagnava tutta, non poteva più respirare, il suo cuore era un uccellino spaventato fra le costole, le formicolavano le mani e i piedi, il sangue pulsava da scottarle le dita. Da quel giorno cominciò a spiare sua madre.

Ad una ad una andò scoprendo le prove cercate, all'inizio soltanto sguardi, un saluto troppo prolungato, un sorriso complice, il sospetto che sotto il tavolo le loro gambe si incontrassero e che inventassero pretesti per rimanere soli. Finalmente, una notte, di ritorno dalla stanza di Bernal dove aveva compiuto i suoi riti da innamorata, sentì un rumore d'acque sotterranee proveniente dalla camera di sua madre, e allora capì che per tutto quel tempo, mentre lei credeva che Bernal stesse guadagnandosi da vivere con canzoni notturne, l'uomo si trovava invece dall'altra parte del corridoio, e mentre lei baciava il suo ricordo nello specchio e aspirava l'impronta del suo passaggio fra le lenzuola, lui era con sua madre. Con la destrezza appresa in tanti anni di abitudine all'invisibilità attraversò la porta chiusa e li vide immersi nel piacere. Il paralume a frange irradiava una luce calda che rivelava gli amanti sul letto. Sua madre si era trasformata in una creatura tonda, rosea, gemente, opulenta, un ondeggiante anemone di mare, tutta tentacoli e ventose, tutta bocca e mani e gambe e orifizi, roteando e roteando incollata al gran corpo di Bernal, che per contrasto le parve rigido, impacciato, dai movimenti spasmodici, un pezzo di legno scosso da una ventata inesplicabile. Fino allora la bambina non aveva mai visto un uomo nudo e la sorpresero le fondamentali differenze. La natura maschile le parve brutale, e ci mise molto a superare il terrore e a costringersi a guardare. Ma presto la vinse il fascino della scena e poté osservare attentamente, per imparare da sua madre i gesti che erano riusciti a strapparle Bernal, gesti più possenti di tutto il suo amore, di tutte le sue preghiere, dei suoi sogni e dei suoi silenziosi richiami, di tutte le sue cerimonie magiche per attirarlo al suo fianco. Era certa che quelle carezze e quei sussurri contenessero la chiave del segreto, e se fosse riuscita a impadronirsene Juan José Bernal avrebbe dormito con lei nell'amaca che ogni sera appendeva a due ganci nella stanza degli armadi.

Elena passò i giorni seguenti in stato crepuscolare. Perse completamente l'interesse per quanto la circondava, lo stesso Bernal compreso, che passò a occupare un posto secondario nella sua mente, e si immerse in una realtà fantastica che sostituì in tutto e per tutto il mondo dei vivi. Continuò a compiere i suoi doveri per la forza dell'abitudine, ma la sua anima era assente da tutto ciò che faceva. Quando la madre notò la sua mancanza d'appetito, l'attribuì all'imminenza della pubertà, benché Elena fosse evidentemente troppo giovane, e trovò il tempo di sedersi in disparte con lei e di metterla al corrente della disgrazia di esser nata donna. La bimba ascoltò in un silenzio imbronciato la predica sulle maledizioni bibliche e il sangue mestruale, convinta che a lei non sarebbe mai capitato.

Il mercoledì Elena provò appetito per la prima volta in una settimana. Si infilò nella dispensa con un apriscatole e un cucchiaio, e divorò il contenuto di tre barattoli di piselli, poi tolse il vestito di cera a un formaggio olandese e se lo mangiò come una mela. Poi corse nel patio, e piegata in due vomitò un verde miscuglio sui gerani. Il dolore di pancia e il sapore acido in bocca le restituirono il senso della realtà. Quella notte dormì tranquilla, avvolta nella sua amaca, succhiandosi il dito come ai tempi della culla. Il giovedì si svegliò allegra, aiutò sua madre a preparare il caffè per i pensionanti e poi fece colazione con lei in cucina, prima di andare a scuola. Ma ci arrivò lamentandosi di forti crampi allo stomaco, e tanto si contorse e chiese il permesso di andare in bagno che a metà mattina la maestra l'autorizzò a tornare a casa.

Elena fece un lungo giro per evitare le strade del quartiere e si avvicinò a casa dal retro, che dava su un dirupo. Riuscì ad arrampicarsi sul muro e a saltare nel patio con meno rischi del previsto. Aveva calcolato che a quell'ora sua madre doveva essere al mercato, e siccome era il giorno del pesce fresco ci avrebbe messo molto a tornare. In casa c'erano solo Juan José Bernal e la signorina Sofia, che da una settimana non andava al lavoro perché aveva un attacco di artrite.

Elena nascose i libri e le scarpe sotto un cumulo di tovaglie, e scivolò in casa. Salì la scala appiccicata alla parete, trattenendo il respiro, finché sentì la radio strepitare nella stanza della signorina Sofia e si tranquillizzò. La porta di Bernal cedette immediatamente. Dentro era buio e per un momento non vide nulla, perché veniva dallo splendore del mattino nella strada, ma conosceva la stanza a memoria, aveva misurato lo spazio tante volte, sapeva dove si trovava ciascun oggetto, in quale punto preciso il pavimento scricchiolava e a quanti passi dalla porta c'era il letto. Comunque attese che gli occhi si abituassero alla penombra e che le apparissero i contorni dei mobili. Pochi istanti dopo poté distinguere anche l'uomo sul letto. Non era bocconi, come tante volte l'aveva immaginato, ma supino sulle lenzuola, con addosso solo le mutande, un braccio teso e l'altro sul petto, una ciocca di capelli sugli occhi. Elena sentì che di colpo tutta la paura e l'impazienza accumulate durante quei giorni svanivano completamente, lasciandola netta, con la tranquillità di chi sa ciò che deve fare. Le parve di aver vissuto quel momento molte volte; si disse che non aveva niente da temere, si trattava solo di una cerimonia un po' diversa dalle precedenti. Lentamente si tolse l'uniforme scolastica, ma non si azzardò a liberarsi anche delle mutandine di cotone. Ora poteva vedere meglio Bernal. Si sedette sul bordo del letto, vicino alla mano dell'uomo, cercando di fare in modo che il suo peso non provocasse neppure una piega nelle lenzuola, si chinò lentamente, finché il suo volto non fu a pochi centimetri da lui e poté sentire il calore del suo respiro e l'odore dolciastro del suo corpo, e con infinita prudenza gli si distese accanto, piegando ogni gamba con attenzione, per non svegliarlo. Attese, ascoltando il silenzio, finché si decise a posare una mano sul ventre di lui in una carezza quasi impercettibile. Quel contatto provocò un'ondata soffocante nel suo corpo, credette che il rumore del suo cuore rimbombasse in tutta la casa e svegliasse l'uomo. Le ci vollero diversi minuti per recuperare il raziocinio, e quando si sincerò che non si muoveva rilassò la tensione e appoggiò la mano con tutto il peso del braccio, così leggero peraltro che non turbò il riposo di Bernal. Elena ricordò i gesti che aveva visto fare a sua madre, e mentre introduceva le dita sotto l'elastico delle mutande cercò la bocca dell'uomo e lo baciò come aveva fatto tante volte davanti allo specchio. Bernal gemette ancora addormentato e allacciò la bambina alla vita con un braccio, mentre con l'altra mano afferrava quella di lei per guidarla e la sua bocca si apriva per restituire il bacio, mormorando il nome dell'amante. Elena lo sentì chiamare sua madre, ma invece di ritirarsi si strinse ancor più contro di lui. Bernal la prese per la vita e se la mise sopra, sistemandola sul proprio corpo mentre iniziava i primi movimenti dell'amore. Solo allora, sentendo la fragilità estrema di quello scheletro da passerotto sul petto, un barlume di coscienza trafisse l'ovattata bruma del sonno, e l'uomo aprì gli occhi. Elena sentì che il corpo di lui si tendeva, si vide presa per le costole e respinta con tal violenza che finì a terra, ma si rimise in piedi e tornò da lui per abbracciarlo di nuovo. Bernal la colpì in faccia e saltò giù dal letto, atterrito da chissà quali antiche proibizioni e incubi.

"Perversa, bambina perversa!" gridò.

La porta si aprì e la signorina Sofia apparve sulla soglia.

 

Elena passò i sette anni seguenti in un collegio di suore, altri tre in una università della capitale, e poi andò a lavorare in una banca. Nel frattempo la madre si sposò con l'amante e insieme continuarono ad amministrare la pensione, finché non ebbero risparmi sufficienti per ritirarsi in una piccola casa di campagna, dove coltivavano garofani e crisantemi da vendere in città. L'Usignolo collocò il suo manifesto da artista in una cornice dorata, ma non tornò mai più a cantare in spettacoli notturni e nessuno lo rimpianse. Non accompagnò mai la moglie a far visita alla figliastra, né chiedeva di lei, per non eccitare i dubbi della propria mente, ma ogni tanto pensava a lei. L'immagine della bambina rimasta intatta per lui, gli anni non la sfiorarono, continuò a essere la creatura lussuriosa e vinta dall'amore che lui aveva respinto. In verità, man mano che trascorrevano gli anni, il ricordo di quelle ossa leggere, di quella mano infantile sul suo ventre, di quella lingua da bebè nella sua bocca andò crescendo fino a tramutarsi in una ossessione. Quando abbracciava il corpo pesante di sua moglie doveva concentrarsi su quelle visioni, invocando meticolosamente Elena, per risvegliare l'impulso sempre più dilazionato del piacere. Ormai divenuto un uomo maturo, andava nei negozi di abiti per bambini e comprava mutande di cotone per godere accarezzandole e accarezzandosi. Poi si vergognava di quegli istanti viziosi e bruciava le mutandine o le seppelliva in profondità nel patio, in un tentativo inutile di dimenticarle. Si abituò a vagare attorno alle scuole e ai parchi, per osservare da lontano le ragazzine impuberi, che gli restituivano per alcuni istanti troppo brevi l'abisso di quel giovedì indimenticabile.

Elena aveva ventisette anni quando venne per la prima volta in visita a casa di sua madre, per presentarle il fidanzato, un capitano dell'esercito che da un secolo la pregava di sposarlo. I due giovani arrivarono in uno di quei freschi tramonti di novembre, lui in borghese, per non sembrare troppo arrogante in uniforme, e lei carica di regali. Bernal aveva atteso quella visita con l'ansietà di un adolescente. Si era guardato allo specchio instancabilmente, scrutando la propria immagine, chiedendosi se Elena avrebbe notato i cambiamenti o se nella mente di lei l'Usignolo fosse rimasto invulnerabile ai guasti del tempo. Si era preparato all'incontro scegliendo ogni parola e immaginando tutte le possibili risposte. L'unica cosa che non gli venne in mente fu che invece della creatura di fuoco per cui viveva tormentandosi gli sarebbe comparsa dinanzi una donna insipida e timida. Bernal si sentì tradito.

A sera, quando era passata l'euforia dell'arrivo e madre e figlia si erano raccontate le ultime novità, portarono qualche sedia nel patio per godersi il fresco. L'aria era intrisa dell'odore dei garofani. Bernal offrì del vino e Elena lo seguì per prendere i bicchieri. Per qualche minuto rimasero soli, uno di fronte all'altra nella piccola cucina. E allora l'uomo, che aveva aspettato per tanto tempo quell'occasione, prese la donna per un braccio e le disse che era stato tutto un terribile equivoco, che quella mattina lui era addormentato e non sapeva quel che faceva, che non voleva scagliarla a terra né chiamarla così, che avesse pietà e lo perdonasse, per vedere se così riusciva a ritrovare la padronanza di sé, perché in tutti quegli anni il desiderio bruciante di lei l'aveva tormentato senza posa, ardendogli il sangue e corrompendogli l'anima. Elena lo guardò sgomenta e non seppe cosa rispondere. Di quale bambina perversa le stava parlando? Per lei l'infanzia era lontanissima, e il dolore di quel primo amore respinto era chiuso in qualche luogo sigillato della memoria. Non serbava alcun ricordo di quel remoto giovedì.