CLARISA

 

 

 

 

 

Clarisa nacque quando in città non c'era ancora la luce elettrica, vide in televisione il primo astronauta levitare sopra la superficie della luna e morì di sgomento quando venne il Papa in visita e gli andarono incontro gli omosessuali travestiti da suore. Aveva passato l'infanzia tra cespugli di felci e corridoi illuminati da lampade a olio. I giorni passavano lenti a quei tempi. Clarisa non si adattò mai ai soprassalti dei nostri giorni, mi parve sempre che fosse come fissata nell'aria color seppia di un ritratto dell'altro secolo. Suppongo che una volta avesse un vitino verginale, un portamento aggraziato e un profilo da cammeo, ma quando la conobbi io era già un'anziana signora un po' strampalata, con le spalle rialzate come due leggere gobbe e una testa nobile coronata da una ciste sebacea, attorno alla quale arrotolava i suoi capelli bianchi. Aveva uno sguardo sagace e profondo, capace di penetrare la malvagità più recondita e di tornare indietro intatto. Nei suoi molti anni di esistenza assurse a fama di santa, e dopo la sua morte molti ne tengono la fotografia su un altare domestico, accanto ad altre immagini venerabili, per chiederle aiuto nelle difficoltà minori, benché il suo prestigio di operatrice di miracoli non sia riconosciuto dal Vaticano e certamente mai lo sarà, perché i benefici da lei concessi sono d'indole capricciosa: non cura ciechi come santa Lucia né trova marito alle zitelle come sant'Antonino, ma dicono che aiuti a sopportare il malessere dell'ubriachezza, le difficoltà della coscrizione e l'agguato della solitudine. I suoi prodigi sono umili e improbabili, ma necessari quanto le spettacolari meraviglie dei santi da cattedrale.

La conobbi durante la mia adolescenza, quando lavoravo come domestica in casa della Signora, una dama della notte, come Clarisa chiamava quelle del mestiere. Già allora era quasi puro spirito, sembrava sempre sul punto di spiccare il volo e di uscire dalla finestra. Aveva mani da guaritrice, e chi non poteva pagare un medico o era deluso dalla scienza tradizionale aspettava il turno affinché lei gli alleviasse i dolori o lo consolasse della cattiva sorte. La mia padrona soleva chiamarla perché le applicasse le mani sulla schiena. All'occasione, Clarisa frugava nell'anima della Signora allo scopo di raddrizzarle la vita e condurla sui sentieri di Dio, sentieri che l'altra non provava nessuna urgenza di percorrere, perché questa decisione le avrebbe rovinato gli affari. Clarisa le prodigava il calore curativo delle sue palme per dieci o quindici minuti, secondo l'intensità del dolore, poi accettava un succo di frutta come ricompensa per i suoi servigi. Sedute una di fronte all'altra in cucina, le due donne chiacchieravano dell'umano e del divino, la mia padrona più dell'umano e lei più del divino, senza tradire la tolleranza e il rigore delle buone maniere. Poi cambiai posto e persi di vista Clarisa fino a un paio di decenni dopo, quando tornammo a incontrarci e potemmo ristabilire l'amicizia fino a oggi, senza badare ai vari ostacoli che vennero a interporsi, compreso quello della sua morte, che seminò un certo disordine nelle comunicazioni.

Persino nei tempi in cui la vecchiaia le impediva di muoversi con l'entusiasmo missionario di un tempo, Clarisa mantenne la sua costanza nel soccorrere il prossimo, spesso anche contro la volontà dei beneficiari, come nel caso dei ruffiani di calle República, che dovevano sopportare, sprofondati nella massima mortificazione, le pubbliche arringhe di quella buona signora nel suo inalterabile affanno di redimerli. Clarisa rinunciava a tutto ciò che aveva per darlo ai bisognosi, in generale aveva solo i vestiti che si portava addosso, e verso la fine della vita le risultava difficile trovare poveri più poveri di lei. La carità diventò un cammino di andata e ritorno, e non si sapeva più chi dava e chi riceveva.

Viveva in un cadente palazzotto di tre piani, con alcune stanze vuote e altre affittate come deposito a una distilleria per cui un'acida pestilenza da ubriaco contaminava l'ambiente. Non abbandonava quell'edificio, eredità dei suoi genitori, perché le ricordava il suo passato nobiliare e perché da più di quarant'anni suo marito vi si era sepolto vivo, in una stanza in fondo al patio. L'uomo era stato giudice di una lontana provincia, incarico che aveva esercitato con dignità fino alla nascita del suo secondo figlio, quando la delusione gli aveva strappato l'interesse ad affrontare la propria sorte, e si era rifugiato come un topo nella tana maleodorante della sua stanza. Usciva molto raramente, come un'ombra fuggevole, e apriva la porta solo per metter fuori la bacinella e raccogliere il cibo che la moglie gli lasciava ogni giorno. Comunicava con lei per mezzo di biglietti scritti con la sua perfetta calligrafia e di colpi alla porta, due per il sì e tre per il no. Attraverso le pareti della sua stanza si potevano sentire la sua raucedine asmatica e qualche parolaccia da bucaniere che non si sapeva esattamente a chi fosse diretta.

"Pover'uomo, almeno Dio se lo chiami accanto al più presto e lo metta a cantare in un coro di angeli," sospirava Clarisa senza un'ombra di ironia; ma l'opportuno decesso di suo marito non fu una delle grazie elargite dalla Divina Provvidenza, dato che le è sopravvissuto fino ad ora, benché debba avere più di cento anni, a meno che non sia morto e le tossi e le maledizioni che si sentono siano solo l'eco di ieri.

Clarisa sposò lui perché fu il primo che glielo chiese, e ai suoi genitori parve che un giudice fosse il miglior partito possibile. Lasciò il sobrio benessere del focolare paterno e si adattò all'avarizia e alla volgarità di suo marito senza pretendere un destino migliore. L'unica volta che la si sentì pronunciare un commento nostalgico per le raffinatezze del passato fu a proposito di un pianoforte a coda con cui si dilettava da bambina. Così venimmo a sapere della sua passione per la musica, e molto più tardi, quando era già anziana, le regalammo, in un gruppo di amici, un modesto pianoforte. Erano già passati più di sessant'anni da quando aveva visto una tastiera da vicino, ma si sedette sullo sgabello e suonò a memoria e senza la minima incertezza un Notturno di Chopin.

Un paio d'anni dopo le nozze col giudice nacque una figlia albina, che appena cominciò a camminare accompagnava sua madre in chiesa. La piccola fu talmente esaltata dagli orpelli della liturgia che cominciò a strappare le tende per vestirsi da vescovo, e presto l'unico gioco che la interessasse era di imitare i gesti della messa e di intonare cantici in un latino di sua invenzione. Era ritardata senza rimedio, pronunciava solo parole in una lingua sconosciuta, sbavava continuamente e soffriva di incontrollabili attacchi di malvagità, durante i quali dovevano legarla come una belva feroce per evitare che azzannasse i mobili e attaccasse le persone. Con la pubertà si calmò e aiutava sua madre nei mestieri di casa. Il secondo figlio venne al mondo con un dolce viso asiatico, sprovvisto di curiosità, e l'unica abilità che riuscì ad acquisire fu quella di stare in equilibrio su una bicicletta, ma non gli servì a molto perché sua madre non si azzardò mai a lasciarlo uscire di casa. Passò la vita a pedalare in cortile su una bicicletta senza ruote fissata a un cavalletto.

L'anormalità dei figli non minò il solido ottimismo di Clarisa, che li considerava anime pure, immuni dal male, e li trattava solo con affetto La sua maggior preoccupazione consisteva nel mantenerli incontaminati dalle sofferenze terrene; ogni tanto si chiedeva chi avrebbe pensato a loro quando lei fosse mancata. Il padre invece non parlava mai di loro, si afferrò al pretesto dei figli ritardati per crogiolarsi nella vergogna, abbandonare il lavoro, gli amici e persino l'aria fresca e seppellirsi nella propria stanza, occupato a copiare con pazienza da monaco medievale i giornali su un registro notarile. Intanto sua moglie spendeva fino all'ultimo centesimo della dote e dell'eredità, e poi si mise a fare ogni genere di mestieri umili per mantenere la famiglia. Le miserie proprie non la distolsero dalle miserie altrui, e anche nei periodi più difficili della vita non trascurò le sue opere di misericordia.

Clarisa possedeva una comprensione illimitata per le debolezze umane. Una sera, quando era già una vecchietta dai capelli bianchi, stava cucendo in camera sua quando sentì rumori inconsueti in casa. Si alzò per controllare di che si trattava, ma non riuscì a varcare la soglia perché si imbatté in un uomo che le puntò un coltello alla gola.

"Zitta, puttana, o ti faccio fuori," la minacciò.

"Non è qui, figliolo. Le dame della notte stanno dall'altra parte della strada, dove si sente la musica."

"Non fare la scema, questa è una rapina."

"Come?" sorrise incredula Clarisa. "E cosa credi di poter rubare, qui?"

"Siediti lì, che ti lego."

"Ma neanche per idea, figliolo, potrei essere tua madre, non mancarmi di rispetto."

"Siediti!"

"Non gridare che spaventi mio marito, è di salute cagionevole. E intanto metti via quel coltello, che rischi di far male a qualcuno," disse Clarisa.

"Senta, signora, io sono qui per rubare..." borbottò il rapinatore sconcertato.

"No, questo non è un furto. Non ti lascerò commettere un peccato. Ti darò un po' di soldi di mia volontà. Non me li stai portando via, te li sto dando io, chiaro?"

Prese la borsa e tirò fuori quanto aveva, che doveva servirle per il resto della settimana. "Non ho altro. Siamo povera gente, come vedi. Vieni in cucina, che metto su un tè."

L'uomo mise via il coltello e la seguì con le banconote in mano. Clarisa preparò il tè per due, servì gli ultimi biscotti che le rimanevano e lo invitò a sedersi in sala.

"Come ti è venuta la peregrina idea di derubare questa povera vecchia?"

Il ladro le raccontò che la osservava da giorni, sapeva che viveva sola e aveva pensato che in una casa tanto grande ci sarebbe pur stato qualcosa da portar via. Era la sua prima rapina, disse, aveva quattro figli, era senza lavoro e non poteva tornare a casa un'altra volta a mani vuote. Lei gli dimostrò che il rischio era troppo grande, non solo potevano arrestarlo, ma poteva addirittura finire all'inferno, benché lei dubitasse in verità che Dio lo castigasse con tanto rigore, al massimo sarebbe finito in purgatorio, sempre che si pentisse e non lo facesse più, naturalmente. Gli offrì di aggiungerlo all'elenco dei suoi protetti, e gli promise di non denunciarlo. Si salutarono con un paio di baci sulle guance. Per i dieci anni seguenti, fino alla morte di Clarisa, l'uomo le mandò per posta un regalino a ogni Natale.

Non tutte le conoscenze di Clarisa erano di questa risma; conosceva anche gente prestigiosa, signore d'illustre prosapia, ricchi commercianti, banchieri e uomini politici, cui faceva visita in cerca di aiuto per il prossimo, senza star a pensare a come sarebbe stata accolta. Un giorno si presentò nell'ufficio del deputato Diego Cienfuegos, noto per i suoi discorsi incendiari e per essere uno dei pochi politici incorruttibili del paese, il che non gli impedì di ascendere a ministro e di finire sui libri di storia come padre spirituale di un certo trattato di pace. A quei tempi Clarisa era giovane e piuttosto timida, ma possedeva già la stessa tremenda determinazione che la caratterizzò nella vecchiaia. Andò dal deputato a chiedergli di usare la sua influenza per procurare una ghiacciaia moderna alle Madri Teresiane. L'uomo la fissò sbalordito, non riuscendo a capire le ragioni per cui avrebbe dovuto aiutare le sue nemiche ideologiche.

"Perché nel refettorio delle suore fanno colazione gratis cento bambini al giorno, e sono quasi tutti figli di comunisti e protestanti che votano per lei," replicò dolcemente Clarisa.

Nacque così tra loro una discreta amicizia che doveva costare molte inquietudini e favori all'uomo politico. Con la stessa logica irrefutabile otteneva dai gesuiti borse di studio per ragazzi atei, dall'Azione delle Dame Cattoliche abiti usati per le prostitute del suo quartiere, dall'Istituto Germanico strumenti musicali per un coro ebraico, dai proprietari di vigneti fondi per la lotta contro l'alcolismo.

Né la sepoltura del marito nella sua stanza mausoleo né le estenuanti ore di lavoro quotidiano poterono evitare che Clarisa rimanesse gravida ancora una volta. La levatrice l'avvertì che con ogni probabilità avrebbe dato alla luce un altro anormale, ma lei la tranquillizzò con l'argomento che Dio mantiene un certo equilibrio nell'universo, e come crea alcune cose storte così ne crea altrettante diritte, per ciascuna virtù c'è un peccato, per ciascuna gioia una sventura, per ogni male un bene, e così nell'eterna rivoluzione della ruota della vita tutto si compensa attraverso i secoli. Il pendolo va e viene con precisione inesorabile, diceva.

Clarisa passò senza apprensioni il periodo della gravidanza e diede alla luce un terzo figlio. Il parto avvenne in casa, coadiuvato dalla levatrice e rallegrato dalla compagnia dei figli ritardati, esseri inoffensivi e sorridenti che passavano le ore occupati nei loro giochi, l'una biascicando parole incomprensibili nella sua veste episcopale, l'altro pedalando verso nessun luogo su una bicicletta immobile. In questa occasione la bilancia si mosse nel senso giusto per preservare l'armonia della Creazione, e nacque un bambino robusto, dagli occhi intelligenti e dalle mani salde, che la madre si accostò al petto, grata. Quattordici mesi dopo Clarisa dava alla luce un altro figlio con le caratteristiche del precedente.

"Questi cresceranno sani per aiutarmi a curare i primi due," decise lei, fedele alla sua teoria delle compensazioni, e così fu, perché i due figli minori risultarono dritti come querce e ben dotati quanto a bontà.

In qualche maniera Clarisa se la cavò nel mantenere i quattro bambini senza l'aiuto del marito e senza perdere il suo orgoglio di gran dama sollecitando la carità per se stessa. Pochi si accorsero delle sue ristrettezze finanziarie. Con la stessa tenacia con cui passava le notti sveglia fabbricando bambole di cenci o torte nuziali da vendere, si batteva contro il deterioramento della casa, le cui pareti cominciavano a trasudare un vapore verdastro, e inculcava ai figli minori i suoi principi di buonumore e di generosità con effetti talmente smaglianti che nei decenni seguenti le rimasero sempre accanto, sopportando il peso dei fratelli maggiori, finché un giorno questi ultimi rimasero intrappolati nel bagno e una fuga di gas li trasferì serenamente all'altro mondo.

La venuta del Papa si verificò quando Clarisa doveva ancora compiere gli ottanta, anche se non era facile calcolare la sua età esatta, perché se l'aumentava per civetteria, soltanto per sentirsi dire come si conservava bene agli ottantacinque che vantava. Aveva spirito da vendere, ma il corpo le veniva meno, le costava fatica camminare, in strada perdeva l'orientamento, non aveva appetito e finì per cibarsi di fiori e di miele. Lo spirito andava abbandonandola nella stessa misura in cui le spuntavano le ali, ma i preparativi per la visita papale le restituirono l'entusiasmo per le avventure terrene. Non accettò di vedere lo spettacolo alla televisione, perché sentiva una profonda sfiducia per quell'apparecchio. Era convinta che persino l'astronauta sulla luna fosse un trucco, filmato in uno studio di Hollywood, un inganno come quelle storie in cui i protagonisti amavano o morivano per finta e una settimana dopo si ripresentavano con le stesse facce a soffrire altri destini. Clarisa volle vedere il Pontefice con i propri occhi, perché non le mostrassero sullo schermo un attore in paramenti episcopali, per cui dovetti accompagnarla ad inneggiarlo durante il suo tragitto cittadino. Dopo un paio d'ore di lotta con una moltitudine di credenti e di venditori di ceri, camicette stampigliate, immaginette policrome e santi di plastica, riuscimmo a intravedere il Santo Padre, magnifico in una cassa di vetro portatile, come un bianco delfino nel suo acquario. Clarisa cadde in ginocchio, e rischiò di essere schiacciata dai fanatici e dagli agenti della scorta. In quell'istante, proprio quando avevamo il Papa a un tiro di sasso, sbucò da una via laterale una colonna di uomini vestiti da suore, con le facce tutte truccate, inalberando cartelli a favore dell'aborto, del divorzio, della sodomia e del diritto delle donne a esercitare il sacerdozio. Clarisa frugò nella borsetta con mano tremante, trovò gli occhiali e se li mise per accertarsi che non si trattasse di una allucinazione.

"Andiamo via, figliola. Ho già visto abbastanza," mi disse pallida.

Era talmente sconvolta che per distrarla le offrii di comprarle un capello del Papa, ma non volle, perché non c'era garanzia di autenticità. Il numero di reliquie capillari offerte dai commercianti era tale che bastava a riempire un paio di materassi, come calcolò un giornale socialista.

"Sono molto vecchia e non capisco più il mondo, figliola. La cosa migliore è tornare a casa."

Rientrò nel suo palazzotto estenuata, col fragore delle campane e degli applausi che continuava a rimbombarle nelle tempie. Andai in cucina a preparare una minestra per il giudice e a scaldare l'acqua per un infuso di camomilla da somministrare a lei, per vedere se si calmava un poco. Intanto Clarisa, con un'espressione di grande malinconia, mise tutto in ordine e servì l'ultimo piatto di cibo a suo marito. Posò il vassoio davanti alla porta chiusa e bussò per la prima volta in oltre quarant'anni.

 

"Quante volte ho detto che non voglio essere disturbato?" protestò la voce decrepita del giudice.

"Scusa, caro, volevo solo avvertirti che sto per morire."

"Quando?"

"Venerdì."

"Va bene," e non aprì la porta.

Clarisa chiamò i figli per informarli della sua prossima fine e poi si mise a letto. Aveva una stanza grande, buia, dai pesanti mobili di mogano intagliato che non riuscirono a diventare antichità, perché il deterioramento li bloccò a metà strada. Sul comò c'era un'urna di cristallo con un Bambin Gesù di cera di un realismo sorprendente, sembrava un neonato appena uscito dal bagno.

"Mi piacerebbe che il Bambin Gesù lo tenessi tu, così me lo curi bene, Eva."

"Non mi dirà che pensa di morire, non mi faccia spaventare."

"Devi metterlo all'ombra, se prende il sole si scioglie. È durato per quasi un secolo, e può durare per un altro se lo difendi dal clima."

Le sistemai in cima alla testa i suoi capelli da meringa, le adornai la chioma con un nastro e mi sedetti accanto a lei, pronta a farle compagnia in quel frangente, senza sapere con sicurezza di che si trattasse, perché la situazione mancava di ogni sentimentalismo, come se in realtà non fosse un'agonia ma un semplice raffreddore.

"Sarebbe meglio che mi confessassi, non ti sembra, figliola?"

"Ma quali peccati può aver commesso lei, Clarisa!"

"La vita è lunga e c'è tempo d'avanzo per il male, con l'aiuto di Dio."

"Lei andrà dritta dritta in paradiso, se il paradiso esiste."

"Certo che esiste, ma non è così sicuro che mi ammettano. Quelli sono rigorosi," mormorò. E dopo una lunga pausa aggiunse: "Ripassando i miei peccati, vedo che ce n'è uno abbastanza grave..."

Ebbi un brivido, temendo che quella vecchietta con l'aureola da santa mi dicesse di aver eliminato intenzionalmente i suoi figli ritardati per facilitare la giustizia divina, o di non credere in Dio e di essersi dedicata a fare il bene in questo mondo solo perché nella bilancia le era toccata questa sorte, per compensare il male d'altri, male che a sua volta era privo d'importanza, dato che tutto fa parte dello stesso processo infinito. Ma nulla di così drammatico mi confessò Clarisa. Si voltò verso la finestra e mi disse arrossendo che si era rifiutata di compiere i suoi doveri coniugali.

"Che cosa significa?" chiesi.

"Be'... Voglio dire che non ho soddisfatto i desideri carnali di mio marito, capisci?"

"No."

"Se io gli nego il mio corpo e lui cade nella tentazione di cercar sollievo con un'altra donna, io ho la responsabilità morale."

"Capisco. Il giudice fornica e il peccato è suo."

"No, no. Mi pare che sia di entrambi, bisognerebbe chiedere."

"Il marito ha lo stesso obbligo verso la moglie?"

"Eh?"

"Voglio dire, se lei avesse avuto un altro uomo, la colpa sarebbe anche di suo marito?"

"Che cosa ti viene in mente, figliola!" Mi guardò attonita.

"Non si preoccupi, se il suo peggior peccato è di aver negato il corpo al giudice, sono sicura che Dio ci riderà sopra."

"Non credo che Dio rida per queste cose."

"Dubitare della perfezione divina, questo sì che è un gran peccato, Clarisa."

Sembrava talmente in salute che si faceva fatica a immaginare la sua prossima dipartita, ma supposi che i santi, a differenza dei comuni mortali, abbiano il potere di morire senza paura e nel pieno possesso delle loro facoltà. Il suo prestigio era così solido che molti assicuravano di aver visto un cerchio di luce attorno alla sua testa, e di aver sentito musica celestiale in sua presenza, per cui non mi sorpresi, quando la svestii per infilarle la camicia da notte, alla vista di due enfiagioni sulla schiena, come se stesse per spuntarle un paio di ali da angioletto.

La voce dell'agonia di Clarisa si diffuse rapidamente. Io e i figli dovemmo fronteggiare una fila inesauribile di gente che veniva a chiedere il suo intervento in cielo per diversi favori, o semplicemente a salutarla. Molti speravano che all'ultimo momento accadesse un prodigio significativo, come per esempio che l'odore di unguenti rancidi che infestava l'ambiente si trasformasse in un profumo di camelie o il suo corpo rifulgesse di raggi di consolazione. Tra loro comparve il suo amico, il bandito, che non aveva mutato strada e si era mutato in vero professionista. Sedette accanto al letto della moribonda e le raccontò le sue peripezie senza un barlume di pentimento.

"Mi va benissimo. Adesso faccio solo le case dei quartieri alti. Rubo ai ricchi, e questo non è peccato. Non ho mai dovuto usare la violenza, lavoro pulito, da signore," spiegò con un certo orgoglio.

"Dovrò pregare molto per te, figliolo."

"Preghi, nonnina, che male non mi può fare."

Anche la Signora si presentò compunta a dire addio alla sua cara amica, portando una corona di fiori e qualche ciambellina di panforte per contribuire alla veglia. La mia antica padrona non mi riconobbe, ma io non ebbi difficoltà a identificarla, perché non era tanto cambiata, aveva un bell'aspetto malgrado la pinguedine, la parrucca e le stravaganti scarpette di plastica con stelline dorate. A differenza del ladro, veniva a comunicare a Clarisa che i suoi consigli di tanto tempo prima erano caduti in terreno fertile, e ora lei era una cristiana decente.

"Lo dica a san Pietro, che mi cancelli dal libro nero," le chiese.

"Che tremenda delusione proveranno queste brave persone se invece di andare in paradiso finirò a cuocere nelle marmitte dell'inferno..." commentò la moribonda, quando finalmente riuscii a chiudere la porta per lasciarla riposare un poco.

"Se lassù va a finire così, quaggiù non lo saprà nessuno, Clarisa."

"Meglio così."

Fin dalla mattina del venerdì in strada si assiepò una folla, e a malapena i figli riuscirono a impedire lo straripamento dei credenti pronti a impadronirsi di una reliquia qualsiasi, dai pezzi di carta da parati agli scarsi indumenti della santa. Clarisa veniva meno a vista d'occhio, e per la prima volta dimostrò di prendere sul serio la propria morte. Verso le dieci si fermò davanti alla casa un'automobile blu con le insegne del Parlamento. L'autista aiutò a scendere dal sedile posteriore un vecchio che la folla riconobbe immediatamente. Era don Diego Cienfuegos, divenuto un padre della patria dopo tanti decenni di servigi resi al paese. I figli di Clarisa gli andarono incontro e lo accompagnarono nella sua penosa ascensione al secondo piano. Quando lo vide sulla soglia Clarisa si rianimò, le tornarono il rossore sulle guance e il luccichio negli occhi.

"Per favore, fai uscire tutti dalla stanza e lasciaci soli," mi sussurrò all'orecchio.

Venti minuti dopo la porta si aprì e don Diego Cienfuegos uscì trascinando i piedi, con gli occhi umidi, debole e rattrappito, ma sorridente. I figli di Clarisa, che lo aspettavano in corridoio, lo presero di nuovo sottobraccio per aiutarlo, e allora, vedendoli insieme, ebbi la conferma di qualcosa che avevo già notato prima. Quei tre uomini avevano lo stesso portamento, lo stesso profilo, la stessa calma sicurezza, gli stessi occhi savi e mani ferme.

Attesi che scendessero la scala e tornai dalla mia amica. Mi avvicinai per sistemarle i cuscini e vidi che anche lei, come il suo visitatore, piangeva con una certa gioia.

"È stato don Diego il suo peccato più grave, vero?" le mormorai.

"Non è stato un peccato, figliola, solo una mano data a Dio per equilibrare la bilancia del destino. E vedi che è andata benissimo, perché per due figli ritardati ne ho avuti altri due che li curassero.

Quella notte Clarisa morì senza angoscia. Di cancro, diagnosticò il medico vedendo i suoi boccioli d'ali; di santità, proclamarono i devoti ammassati nella strada con ceri e fiori; di sgomento, dico io, perché ero con lei quando ci fece visita il Papa.