XII
Ambivalenza
(1794)
Questa è la nostra situazione, ora. Danton ha chiesto alla Convenzione di ascoltare Fabre ma la Convenzione si è rifiutata. E allora?, fa lui. Non è disposto ad ammettere che al momento non ne è il capo incontrastato e che nelle sezioni il potere è in mano a Hébert. «E allora? Io non sono come Robespierre, che si torce le mani a ogni sconfitta», dice a Lucile. «Sono arrivato fin qua vincendo, perdendo e ancora vincendo. C’è stato un periodo in cui Maximilien collezionava soltanto sconfitte».
«Sarà per questo che è così prevenuto nei loro confronti».
«Lascia stare i suoi preconcetti. Quel dannato Comitato ormai mi teme. Non appena commetteranno un errore, al loro posto subentrerò io».
Parole combattive. Ciononostante non è questo l’uomo che lei conosce. C’è chi sostiene che Georges non si sia mai ristabilito del tutto dopo la malattia, ma le sue condizione fisiche sembrano buone. Altri invece sostengono che lo abbia rammollito la palese felicità del suo secondo matrimonio. Ma Lucile sa bene che queste sono sciocchezze. Secondo lei, è il primo matrimonio a turbarlo davvero. Da quando è morta Gabrielle gli manca qualcosa, una sorta di inappellabile spietatezza. È una cosa difficile da esprimere a parole e naturalmente lei spera di sbagliarsi. Ma la spietatezza sarà necessaria, ne è convinta.
La nostra situazione è anche la seguente: Robespierre ha riammesso Camille dai giacobini. A un prezzo: che lui crollasse in tribuna, che si mettesse quasi a piangere dinanzi alla società divertita. Hébert sul giornale sbraita contro «l’uomo indotto in errore» che protegge Camille per imperscrutabili ragioni personali. In privato se la ridacchia sotto i baffi.
Il club dei cordiglieri vuole che a Camille sia imposto di non avvalersi del suo nome per i suoi pamphlet. Non che sia di vitale importanza: Desenne si rifiuta di continuare a stampare le prossime uscite e gli altri editori, per quanto allettati dalle vendite, non osano avvicinarsi.
«Vieni con me da Robespierre, forza», dice Danton a Lucile. «Prendi il bambino e andiamo subito a interpretare una bella scena strappalacrime. Una scena di riconciliazione. Ci portiamo dietro anche Camille perché gli porga delle belle scuse e tu interpreterai il ruolo della famiglia repubblicana, così Maximilien sarà indotto a ravvedersi. Io sarò conciliante in tutto e per tutto, badando bene a non dargli quelle pacche vigorose e mascoline sulle spalle che tanto lo terrorizzano».
Lucile scuote la testa. «Camille non verrà, è troppo impegnato a scrivere».
«A scrivere cosa?».
«La vera storia della rivoluzione, dice. La storia segreta della Storiasegreta».
«Cosa vuole farne?».
«Probabilmente bruciarla. Cos’altro, se no?».
«Purtroppo ogni parola che pronuncio sembra peggiorare la situazione».
«Non capisco un’affermazione del genere, Danton». Robespierre, che stava leggendo – il suo Rousseau, purtroppo –, si tolse gli occhiali. «Non vedo come una tua parola a questo punto...». Lasciò la frase in sospeso secondo il suo stile abituale. Per qualche istante il viso parve spoglio e molto segnato; allora si rimise gli occhiali, assunse ancora una volta un’espressione scontrosa e opaca. «Io in effetti ho da dirti soltanto una cosa: tronca ogni rapporto con Fabre, rinnegalo; in caso contrario io non potrò più avere nulla a che fare con te. Se invece acconsenti, possiamo riprendere il discorso. Accetta di sottostare alla guida del Comitato in tutti gli ambiti e ti garantisco personalmente l’incolumità».
«L’incolumità? Dio santo, mi stai minacciando?», disse Danton.
Robespierre rimase a osservarlo pensieroso. «Vadier», gli rammentò. «Collot. Hébert. Saint-Just».
«Preferirei garantirmi l’incolumità con i miei metodi».
«È probabile che i tuoi metodi ti portino alla rovina». Robespierre chiuse il libro. «Assicurati soltanto che non portino alla rovina anche Camille».
Danton all’improvviso andò su tutte le furie. «Stai attento che non sia Camille a portare alla rovina te».
«Cosa vuoi dire?».
«Hébert se ne va in giro a spettegolare e a ridacchiare su Camille sostenendo che la vostra non è una normale amicizia, ne sono sicuro».
«Non lo è infatti, mi pare ovvio».
Non capisce o si rifiuta di capire? Quest’ottusità che Robespierre coltiva da vero professionista è una delle sue armi. «Hébert sta avviando ulteriori indagini sulla vita privata di Camille».
Robespierre scagliò una mano in avanti, con il palmo rivolto verso Danton; un gesto così teatrale poteva averglielo insegnato Fabre.
«Dovrebbero farti una statua in questa posizione», disse Danton. «Avanti, sai bene di cosa parlo. So che ai tempi di Annette non c’eri, ma ti assicuro che il tuo amico non ci ha mai fatto annoiare, tra i pomeriggi languidi e non del tutto decorosi trascorsi nel salottino di Annette e le sere passate all’Île de la Cité a consumare atti contronatura fra le deposizioni giurate. Maître Perrin non l’hai mai conosciuto, vero? Ma non era l’unico». Danton si mise a ridere. «Togliti quell’espressione dalla faccia, nessuno pensa che tu rientri nei gusti di Camille. A lui piacciono gli uomini molto ben piazzati, piuttosto brutti e con un debole per le donne. Desidera ciò che non può avere. Almeno a mio giudizio».
Robespierre allungò la mano verso la penna, ma poi parve cambiare idea e lasciò perdere. «Danton, hai bevuto?», chiese.
«No. Be’, non più del solito, considerata l’ora. Perché?».
«Credevo di sì. Cercavo di trovare una scusa al tuo comportamento». Dietro le lenti azzurre, gli occhi di Robespierre saettarono su Danton per ritrarsi subito dopo. L’improvvisa assenza di emozioni pareva avergli scarnificato il viso fino all’osso; i lineamenti erano così sottili da sembrare incisi nell’aria. «Penso che tu stia divagando», disse, «l’argomento mi pare che fosse Fabre». La mano si riallungò verso la penna. Era più forte di lui.
(Robespierre, taccuini privati: «Danton ha parlato con disprezzo di Camille Desmoulins, attribuendogli un vergognoso vizio privato»).
«Allora, hai preso una decisione?». Non aveva alcuna inflessione nella voce, era come Dio che parla dall’interno di una roccia.
«Cosa vuoi che ti dica? Cosa speri che faccia? Non posso rinnegarlo – che parola stupida».
«È vero, avete lavorato fianco a fianco, non è facile districarsi».
«È un mio amico, da tempo».
«Eh già, un tuo amico». Robespierre accennò un sorriso. «So bene in che conto tieni gli amici... ma suppongo che lui non abbia gli stessi difetti di Camille. Qui è in discussione la sicurezza del paese, Danton, e un patriota dovrebbe essere ansioso di anteporla alla moglie, ai figli e agli amici. Adesso non c’è spazio per i sentimenti personali».
Danton restò senza fiato e gli vennero le lacrime agli occhi. Si strofinò il viso, si guardò le dita umide. Provò a parlare, ma gli risultava difficile.
(Maximilien Robespierre, taccuini privati: «Danton si è reso ridicolo inscenando un pianto [...] a casa di Robespierre»).
«Non è necessario», disse Robespierre, «né utile».
«Il vero menomato sei tu», articolò infine Danton, la voce stanca, piatta, «non Couthon. Tu sei menomato nell’anima. Non sai di avere qualcosa che non va, Robespierre, non lo sai? Ti sei mai chiesto se Dio creandoti abbia trascurato qualche particolare? Facevo battute sul tuo conto, dicevo che eri impotente, ma a te non mancano solo i coglioni. Chissà se sei vero: ti vedo camminare, parlare, ma sei realmente vivo?».
«Sono vivo, sì». Robespierre aveva lo sguardo basso. Congiunse la punta delle dita come un testimone nervoso. «Sono vivo, a modo mio».
«Danton, cosa è successo?».
«Non è successo niente. Non abbiamo le stesse idee su Fabre. Il colloquio», disse poggiando meditabondo il pugno nel palmo della mano, «non ha avuto alcun esito».
Cinque e trenta della mattina, rue Condé; si sentirono dei colpi forti al portone e Annette si tirò le coperte sulla testa perché non ne voleva sapere. Un istante dopo balzò a sedere spaventata. Si precipitò giù dal letto: che c’è, che succede adesso?
Qualcuno in strada gridava. Si avvolse uno scialle addosso; sentì le voci agitate di Claude e di Elise, la domestica. Elise era una ragazza bretone con il faccione pieno, superstiziosa, alla buona e maldestra, che non parlava molto bene francese; fece capolino dalla porta. «Sono quelli della sezione», disse, «vogliono sapere se il vostro amante è qui, dicono. Non mentitegli, non sono nati ieri».
«Il mio amante? Cercano Camille?».
«L’avete detto voi, Madame», ribatté Elise con un sogghigno.
La ragazza era in camicia da notte; in una mano teneva un mozzicone fumante di candela. Annette per scansare la domestica le diede una spinta e la luce cadde sul pavimento. «Era il mio moccolo», protestò lei, «non il vostro».
Nel buio pesto Annette si scontrò con un corpo. Una mano le afferrò il polso. Nel fiato dell’uomo sentì la puzza del vino bevuto la sera precedente. «Che abbiamo pescato qui?», chiese lui. Annette tentò di divincolarsi ma quello strinse la presa. «Abbiamo la signora, mezza svestita».
«Basta, Jeannot», disse un’altra voce. «Sbrigatevi, ci serve un po’ di luce».
Furono aperte le persiane; la luce che proveniva dalle fiaccole della strada salì sulle pareti; Elise portò altre candele. Jeannot, con gli occhi pieni di lascivia, fece un passo indietro. Indossava i rozzi panni cascanti del sanculotto osservante; calato sulla fronte aveva il berretto rosso con una coccarda tricolore lavorata all’uncinetto. Sembrava un tale zotico che Annette – in altre circostanze – sarebbe scoppiata a ridere. Nella stanza s’accalcarono cinque o sei uomini che inveendo e sfregandosi le mani fredde si guardavano intorno. Il popolo, pensò Annette, l’adorato popolo di Maxime.
Si fece avanti il tizio che aveva richiamato all’ordine Jeannot, un ragazzo con la faccia da topo e un cappotto nero e logoro. In mano aveva un fascio di carte.
«Salute e fratellanza, cittadina. Siamo i rappresentanti della sezione Muzio Scevola». Le agitò davanti il primo foglio del mucchio; la dicitura «SEZIONE LUSSEMBURGO» era stata cancellata e accanto era tracciato con l’inchiostro il nuovo nome. «Ho qui», disse scartabellando fra i documenti, «un mandato d’arresto per Claude Duplessis, funzionario pubblico in pensione e residente a quest’indirizzo».
«Che idiozia», fece Annette, «dev’esserci un errore. Arresto per quali imputazioni?».
«Cospirazione. Abbiamo l’ordine di perquisire i locali e sequestrare tutti i documenti sospetti».
«Come osate presentarvi in questa casa a un’ora simile...».
«Quando Père Duchesne ha uno dei suoi attacchi di bile non si aspetta che spunti il sole», disse uno degli uomini presenti.
«Père Duchesne? Capisco. Significa che Hébert non ha il coraggio di colpire Camille e ha mandato te e la tua gentaglia a terrorizzare la sua famiglia. Dammi quei fogli, fammi vedere il mandato».
Gli strappò le carte di mano. Il portaordini, come a difendersi, arretrò di un passo. Uno dei sanculotti le afferrò la mano con cui stringeva i fogli e le strappò di dosso lo scialle lasciandole il petto mezzo scoperto. Annette, raccogliendo tutte le forze, si liberò dalla presa e si strinse lo scialle fin sotto la gola. Tremava, ma – e sperava che gli altri se ne fossero accorti – più di rabbia che di paura. «Sei tu Duplessis?», chiese il portaordini, guardando oltre Annette.
Claude era riuscito a vestirsi. Sembrava intontito, ma dalla stanza dietro di lui proveniva un vago odore di bruciato. «Cercate me?». La voce gli tremava un po’.
Il portaordini sventolò il mandato. «Sbrigati, non possiamo starcene qua così. Questi cittadini vogliono finire il lavoro in tempo per tornarsene a casa a fare colazione».
«Che meritano con la massima sollecitudine», ribatté Claude. «Ci mancherebbe, dopo essersi presi il disturbo di svegliare una casa tranquilla e terrorizzare mia moglie e le domestiche. Dove pensavate di portarmi?».
«Preparati una sacca, alla svelta».
Claude annuì con un lento movimento del capo e si avviò.
«Claude!», lo chiamò Annette. «Claude, ricordati che ti amo».
Lui si voltò a guardarla annuendo torvo. Raggiunse la camera inseguito da un coro di licenziosità; il diversivo però funzionò, perché mentre quelli si perdevano in sbeffeggi, lui sbatté la porta; Annette sentì la chiave girare nella toppa e i grugniti degli uomini che tentavano di buttare giù l’anta a spallate.
Si rivolse al portaordini: «Come ti chiami?».
«Non ha alcuna importanza».
«Sono sicura che non ne abbia, ma lo scoprirò. Non la passerai liscia. Cominciate a perquisire, non troverete niente di interessante».
«Che razza di gente sono?», sentì uno di loro chiedere a Elise.
«Gente senza Dio e presuntuosa, Monsieur».
«Davvero lei sta – mi spiego – con Camille?».
«Lo sanno tutti. Passano ore dietro una porta chiusa, dice che leggono i giornali».
«E il vecchio che fa?».
«Un cazzo».
Gli uomini scoppiarono tutti a ridere. «Forse dovremmo portarti alla sezione per farti qualche domanda», disse uno. «Scommetto che ne sentiremmo delle belle». Allungò le dita per palpare la stoffa della camicia da notte e poi le strizzò un capezzolo. Elise mandò un gridolino di finto dolore e raccapriccio.
Come se non bastasse, pensò Annette. Afferrò il portaordini per il braccio. «Tieni sotto controllo questa gente. Hanno anche un mandato per molestare le mie domestiche?».
«Parla come la sorella della Capeto», commentò Jeannot.
«Questo è un affronto. Potete star sicuri che da qui a qualche ora questa faccenda sarà sottoposta alla Convenzione».
Jeannot sputò nel fuoco con una penosa mancanza di mira. «Un branco di avvocati», disse. «È la rivoluzione, questa? No, non finché le teste di cazzo non saranno tutte morte».
«Di questo passo non ci vorrà molto», commentò il portaordini.
Claude tornò con due sanculotti alle calcagna. Aveva indossato il cappotto pesante e si stava infilando i guanti nuovi, con cura e molta calma. «Pensa un po’», disse, «mi hanno accusato di aver bruciato le carte. Cosa ancora più bizzarra, hanno insistito per frapporsi tra me e la finestra. Sotto c’è un cittadino con la picca. Come se una persona della mia età si gettasse dal primo piano privandosi del piacere di una tale compagnia». Uno degli uomini lo prese per un braccio. Claude si divincolò. «So camminare da solo. E ora permettetemi di congedarmi da mia moglie».
Prese la mano della donna nella sua inguantata e si portò le sue dita alle labbra. «Non piangere, Annette mia», le disse, «non piangere. Fa’ recapitare un messaggio a Camille».
Sull’altro lato della strada accostò una carrozza nuova e lucente. Due occhi sbirciarono fuori, poi la tendina si riabbassò.
«Che gran seccatura», disse il calderaio Père Duchesne. «Abbiamo scelto la notte sbagliata. O il pettegolezzo sbagliato? Ne girano tanti, anche di più succulenti. Ne sarebbe valsa la pena, di alzarsi presto per trascinare fuori dal confortevole letto dell’incesto Camille, tentando di provocare una sua reazione violenta. Speravo di poterlo arrestare per turbamento della quiete pubblica. Comunque si prenderà lo stesso un brutto spavento. Voglio proprio vedere questa volta dietro chi si nasconderà».
Annette, disperata, un’ora dopo era in rue Marat. «E hanno distrutto la casa», terminò il racconto. «E poi Elise. Sì, sarà pure una domestica del tutto inadeguata, ma io non resto a guardare mentre della gente di strada mette le mani addosso al mio personale. Lucile, mi daresti un bicchiere di brandy? Ne ho bisogno». Appena la figlia lasciò la stanza, sussurrò: «Oh Camille, Camille, Claude s’è affrettato a bruciare le carte e tutte le tue lettere sono andate in fumo. Almeno credo. Oppure le ha prese la sezione».
«Capisco», fece lui, «però erano assai caste».
«Ma io le voglio». Gli occhi di Annette erano pieni di lacrime. «Mi risulta insopportabile non averle».
Camille le accarezzò la guancia con la punta delle dita. «Te ne scriverò delle altre».
«Io voglio quelle e basta. Come faccio a chiedere a Claude se le ha bruciate? Ma se è stato lui, vuol dire che sapeva dove le tenevo e cosa erano. Pensi che le abbia lette?».
«No, Claude è una persona corretta. Al contrario di noi». Camille sorrise. «Annette, appena torna a casa glielo chiederò io».
«Ti vedo piuttosto allegro, marito». Lucile era tornata.
Annette lo guardò. È vero, pensò: possibile che sia incrollabile? Buttò giù il brandy tutto d’un sorso.
Il discorso di Camille alla Convenzione fu breve, chiaro e inquietante. Qualcuno mormorò che i parenti dei politici potevano essere sospettati come tutti gli altri; la maggior parte dei presenti però aveva l’aria di sapere perfettamente cosa intendeva Camille descrivendo l’invasione a casa Duplessis. Erano fortunati che non fosse successo a loro, disse; ma chissà, forse fra non molto...
Guardando i banchi semivuoti, i deputati capirono che aveva ragione. Si alzò un applauso quando accennò alle selvagge razzie subite per mano di un ex cassiere di un botteghino di teatro, un borbottio di consenso quando deplorò un sistema che dava spazio ad azioni inqualificabili. Appena lasciò l’aula, Danton balzò in piedi e chiese di mettere fine agli arresti.
Alle Tuileries: «Porgete i miei ossequi al cittadino Vadier», disse Camille, «e riferitegli che c’è il procuratore della Lanterna». Gli assistenti prelevarono Vadier da una riunione del Comitato di polizia. «Se dai ordine di chiudere il giornale, puoi mettere le mani direttamente su di me», gli disse Camille sorridendo e spingendolo contro il muro.
«Il procuratore della Lanterna!», esclamò lui. «Ero convinto che ti fossi pentito».
«Chiamala nostalgia, chiamala abitudine, chiamala come ti pare, ma renditi conto che non ti sbarazzerai di me finché non avrò delle risposte».
Vadier, incupito, si pizzicò il lungo naso. Giurò sul corpo dell’Essere supremo di non sapere nulla di quella faccenda. Ammise che sì, forse i funzionari della sezione erano sfuggiti al controllo, e sì, era possibile che Hébert agisse per rancore personale, ma lui non era a conoscenza di alcun elemento contro il funzionario in pensione Claude Duplessis. Guardò Camille con franca ripugnanza e notevole preoccupazione. «Hébert», bofonchiò mentre s’affrettava ad allontanarsi, «è un idiota a dare ai dantonisti una possibilità di mettere alla prova la loro forza».
Convocato da un messaggio urgente mentre era al Comitato di salute pubblica, comparve Robespierre, pensieroso e con gli occhi stanchi. Si precipitò incontro a Camille e gli prese le mani, dettò rapido alcuni ordini a un segretario e manifestò l’intenzione di vedere Père Duchesne sprofondare all’inferno. I presenti registrarono il suo tono, la sua premura e soprattutto la stretta delle mani. Svelti, memorizzarono i segnali che mandava il suo viso per scervellarsi più tardi a interpretarli; all’istante, e in modo impercettibile – con un’alzata di sopracciglio, uno sguardo prolungato un secondo di troppo, il sussulto interrogativo di una narice che annusa il vento politico –, le alleanze cominciarono a cambiare. Verso mezzogiorno l’espressione sul viso di Hébert era meno compiaciuta; per la verità si diede latitante e decise di perseverare in questa condizione anche dopo il rilascio di Claude Duplessis; finché, qualche settimana dopo, una mattina presto fu lui stesso a sentire una pattuglia e a scoprire di non avere amici.
Il nuovo calendario non funzionava. Nevoso fu un mese senza neve e la primavera sarebbe arrivata prima di germinale. Sarebbe stata esageratamente in anticipo, perciò le ragazze con i cesti di fiori avevano cominciato a riunirsi agli angoli delle strade e le sarte si erano messe a cucire i semplici vestiti patriottici per l’estate del ‘94.
Nei giardini del Lussemburgo, tra le fonderie dei cannoni, gli alberi esposero anzitempo le proprie insegne verdi. Fabre d’Églantine guardava le stagioni cambiare dalla sua cella nell’Edificio nazionale che un tempo era stato il Palazzo del Lussemburgo. Le giornate luminose, ventose e inclementi peggioravano il dolore che sentiva nel petto. Ogni mattina si esaminava nell’elegante specchio che aveva mandato a prendere a casa e osservava il viso sempre più magro e la sospetta lucentezza degli occhi, lucentezza che nulla aveva a che fare con un futuro luminoso.
Venne a sapere che le iniziative di Danton non avevano fortuna, che Danton non s’incontrava con Robespierre. Incontralo, chiedeva insistente ai muri della cella, fai il prepotente, pregalo, ingannalo, imponiti. A volte restava sveglio ad ascoltare la baldoria che faceva la marmaglia dantonista in giro per la città; la risposta era il silenzio. Camille è di nuovo amico di Robespierre, gli disse uno dei suoi carcerieri, aggiungendo che né lui né la moglie lo credevano un aristocratico e che il cittadino Robespierre era il vero amico dell’uomo che lavora, e la sua durevole buona salute l’unica garanzia di trovare lo zucchero e la legna da ardere a un prezzo ragionevole.
Fabre ripassò a mente tutte le cose che aveva fatto per Camille; non erano molte. Mandò a prendere la serie intera dell’Enciclopedia e il suo piccolo telescopio d’avorio; in loro compagnia si mise ad aspettare la fine, che giungesse naturale o meno.
Il 17 piovoso non pioveva. Robespierre parlò alla Convenzione per gettare le basi della sua politica futura, dei suoi progetti per la Repubblica della Virtù. Mentre usciva dalla sala s’alzò un mormorio di costernazione. Sembrava più stanco di quanto fosse ragionevole, anche se aveva trascorso ore alla tribuna; aveva le labbra esangui, gli occhi scuri e incavati per la spossatezza. Qualcuno, fra i superstiti di quell’epoca, ricordò l’improvviso crollo di Mirabeau. Robespierre però si presentò puntale alla riunione del Comitato e con gli occhi passò dall’uno all’altro per capire chi fosse rimasto deluso.
Ventidue piovoso: si svegliò durante la notte senza riuscire a respirare. Fra una crisi e l’altra si costrinse a sedere a tavolino, ma non sapeva più cosa voleva scrivere. Un’ondata di nausea lo lasciò carponi sul pavimento. Non morirai, si diceva mentre s’affannava a espellere l’aria imprigionata nei polmoni, non morirai, si ripeteva a ogni espirazione, non morirai; non è la prima volta che ti capita.
Appena passò l’attacco, si obbligò ad alzarsi. Non posso farlo, rispose il suo corpo: mi hai consumato, mi hai ucciso, mi rifiuto di servire un padrone del genere.
La testa gli ricadde in avanti. Se rimango qui, pensò, mi addormenterò steso a terra, e se prenderò freddo sarà la fine.
Allora, gli rispose il corpo, non avresti dovuto trattarmi come uno schiavo, abusando di me attraverso il digiuno e la castità e le poche ore di sonno. Che farai adesso? Comanda al tuo intelletto di tirarti su dal pavimento, comanda alla tua mente di rimetterti in piedi domani mattina.
Robespierre s’aggrappò alla gamba della sedia, poi allo schienale, osservando la mano che si arrampicava sul legno. Si stava addormentando. La distanza che lo separava dalla mano gli pareva infinita. Sognò la casa del nonno. Non ci sono i barili per la birra preparata in settimana, disse una voce, tutta la legna è stata usata per costruire i palchi. I palchi o i patiboli? Ansioso, frugò nella tasca alla ricerca della lettera di Benjamin Franklin. «Sei una macchina elettrica», c’era scritto.
Eléonore lo trovò alle prime luci del giorno e con il padre rimase di guardia alla porta. Alle otto arrivò Souberbielle. Parlò lentamente, scandendo le parole come si fa con un sordo: non riesci a rispondere per i postumi, disse, e lo ripeté. Robespierre annuì per indicare che aveva capito. «Devo fare testamento?». Per cogliere il suo sussurro, Souberbielle si era dovuto chinare.
«Ma non credo proprio», gli rispose gioviale. «Perché? Lasci una cospicua eredità?».
Lui scosse la testa; chiuse gli occhi e accennò un sorriso.
«Non hanno mai qualcosa di serio», spiegò Souberbielle, «per quanto si possa trattare di una malattia piuttosto che di un’altra. A settembre pensavamo di perdere Danton: tanti anni di duro lavoro e palpitazioni possono ridurre a un rottame perfino un uomo forte come lui. Il cittadino Robespierre non è altrettanto forte. Ma non è in punto di morte. In realtà nessuno muore per i disturbi che ha, semplicemente gli complicano la vita. Per quanto tempo? Ha bisogno di riposare, questo è l’importante, ha bisogno di tenersi lontano da tutto. Direi un mese. Se esce prima di un mese da questa stanza, declino ogni responsabilità».
Passarono a trovarlo i membri del Comitato. Gli occorse qualche istante per distinguerne le facce, anche se capì subito che si trattava di loro. «Dov’è Saint-Just?», bisbigliò. Ormai bisbigliare era diventata un’abitudine. Non ti sforzare quando respiri, gli aveva detto il medico. Gli uomini del Comitato si scambiarono delle occhiate.
Se n’è dimenticato, si dissero. «Ti sei dimenticato», gli dissero. «Saint-Just è partito per la frontiera e torna fra dieci giorni».
«E Couthon? Non potete portarlo su per le scale?».
«È malato. È malato anche lui».
«Sta per morire?».
«No, ma la sua paralisi è peggiorata».
«Domani ci sarà?».
«No, domani no».
Chi governerà il paese, allora?, si chiese Robespierre. Saint-Just. Poi disse: «Danton...». Non sforzarti quando respiri, gli aveva raccomandato il medico, se non ti sforzi il respiro tornerà da solo. Si mise una mano sul petto affannato. Non riusciva ad accettare quel consiglio. Non faceva parte della sua esperienza.
«Lascerete che Danton prenda il mio posto?».
I membri del Comitato si scambiarono un’altra occhiata. Robert Lindet si chinò su di lui. «È tuo desiderio?».
Robespierre scosse violentemente la testa. Sentiva la voce di Danton dire con la sua cadenza snob: «Atti contronatura fra le deposizioni giurate... Ti sei mai chiesto se Dio creandoti abbia trascurato qualche particolare?». Con gli occhi cercò lo sguardo del massiccio avvocato normanno, uomo di poca teoria, senza pretese, sconosciuto alle folle. «Il mio posto non dev’essere suo», disse infine, «non deve governare. Senza vertu».
Il viso di Lindet era impassibile.
«Per qualche tempo non potrò essere con voi», disse Robespierre. «Poi tornerò».
«Sono parole familiari», commentò Collot, «ma non riesce a ricordare dove le ha già sentite. Non ti preoccupare, non abbiamo pensato che fosse giunto il momento della tua apoteosi».
E Lindet, con voce gentile, ripeté: «Sì, sì, sì».
Approfitta della mia debolezza, pensò Robespierre guardando Collot. «Per favore, datemi un foglio», bisbigliò. Voleva prendere un appunto: appena fosse stato meglio, Collot andava ridimensionato.
I membri del Comitato furono molto educati nel parlare con Eléonore. Non erano del tutto convinti che Robespierre si sarebbe rimesso in un mese come sosteneva il dottor Souberbielle; lei comprese che se mai fosse morto l’avrebbero trattata come la vedova Robespierre, al pari di Simone Evrard, la vedova Marat.
Trascorsero i giorni. Souberbielle gli diede il permesso di ricevere più visite, di leggere e scrivere, ma soltanto lettere private. Poteva ricevere le notizie del giorno, se non lo facevano agitare; ma notizie che non lo facevano agitare non esistevano.
Tornò Saint-Just. Al Comitato procediamo benissimo, sgomineremo le fazioni, gli disse. Danton parla ancora di negoziati di pace?, chiese lui. Sì, ma è l’unico. I buoni repubblicani parlano di vittoria.
Saint-Just adesso aveva ventisei anni. Era un uomo molto attraente e risoluto e parlando si esprimeva con frasi brevi. Parlami del futuro, lo invitò Robespierre. Lui allora gli raccontò della sua repubblica di Sparta: per far crescere una nuova razza umana, disse, i bambini sarebbero stati tolti ai genitori all’età di cinque anni e formati come agricoltori, soldati e legislatori. Anche le bambine?, chiese Robespierre. Ma no, loro non contano niente, staranno a casa con le madri.
Le mani di Robespierre si mossero nervose sulle coperte. Pensò al suo figlioccio, a quando aveva un giorno e il padre gli sosteneva la testa ciondolante con le lunghe dita; a poche settimane prima, quando, aggrappato al colletto del suo soprabito gli aveva tenuto un discorso. Lui però era troppo debole per controbattere. Correva voce che Saint-Just si fosse affezionato a Henriette Le Bas, la sorella di Philippe, il marito di Babette. Lui però non ci credeva: Antoine no, lui non si affezionava a nessuno.
Robespierre aspettò che Eléonore fosse uscita dalla stanza; a quel punto aveva recuperato un po’ di forze, la sua voce era udibile. Fece cenno a Maurice Duplay di avvicinarsi. «Voglio vedere Camille».
«Pensi che sia una buona idea?».
Duplay recapitò il messaggio. Strano a dirsi, Eléonore non sembrò né rallegrarsene né dispiacersene.
Il giorno in cui venne Camille non parlarono di politica o degli ultimi anni. Camille nominò Danton una sola volta; Robespierre voltò il viso di lato nell’antico gesto di rigida ostinazione. Parlarono del passato, del loro passato comune, con il tono di forzata allegria che hanno le persone quando c’è un morto in casa.
Rimasto solo, Robespierre sognò la Repubblica della Virtù. Cinque giorni prima di ammalarsi ne aveva definito le caratteristiche. La sua idea era una repubblica fondata sulla giustizia, sulla comunità e sul sacrificio di sé. Immaginava un popolo libero, buono, colto e bucolico. La tenebra della superstizione non ricopriva più le loro vite: era come acqua salmastra riassorbita dal suolo. Al suo posto prosperava il culto giocondo e razionale dell’Essere supremo. Era un popolo di persone felici, senza i cuori straziati o la carne tormentata da domande che non avevano risposta e da desideri che non avevano sbocco. Gli uomini si accostavano alle questioni di governo con serietà e intelligenza; istruivano i figli e dalla loro terra raccoglievano cibo semplice e in quantità abbondante. I gatti, i cani e tutti gli animali nei campi erano rispettati per la loro natura. Fra i colonnati di marmo bianco, con morbide vesti di lino chiaro, si muovevano composte le ragazze inghirlandate; e vide baluginare il verde scuro degli uliveti e il cielo smaltato d’azzurro.
«Guarda», disse Robert Lindet. Da un foglio di giornale arrotolato tirò fuori un pezzo di pane. «Toccalo, dai. Assaggialo».
Gli si sbriciolò fra le dita con facilità. Aveva un odore acido, di stantio. «Ho pensato che non lo sapessi, vivendo di sole arance», disse Lindet. «Di questa roba se ne trova, ma la qualità ce l’hai sotto gli occhi. La gente non può vivere mangiando pane del genere, e oltretutto non si trova neppure il latte, che i più poveri consumano in grande quantità. Riguardo alla carne si è fortunati se si recupera un pezzo di collo per il brodo. Le donne si mettono in fila fuori dalle macellerie alle tre di mattina e questa settimana la guardia nazionale ha dovuto sedare delle risse».
«Se continua così... non so». Robespierre si passò una mano sulla faccia. «Con il vecchio regime la gente moriva di fame ogni anno. Lindet, il cibo dov’è, dove va a finire? La terra è sempre produttiva».
«Danton sostiene che con le nostre normative abbiamo paralizzato il commercio. Secondo lui – ed è vero – i contadini hanno paura di portare i loro prodotti in città perché magari, non conoscendo tutte le norme, potrebbero essere linciati come speculatori. Noi requisiamo quello che possiamo ma loro nascondono la roba, preferiscono lasciarla marcire. I dantonisti sostengono che se allentiamo i controlli, le merci riprenderanno a circolare».
«E tu cosa dici?».
«Gli agitatori delle varie sezioni sono favorevoli ai controlli e cercano di convincere la gente che non esiste altro mezzo. È una situazione impossibile».
«Dunque...».
«Attendo un tuo consiglio».
«Hébert cosa dice?».
«Scusa, passami il giornale». Lindet lo scosse e a terra caddero delle briciole. «Leggi qua».
«“I macellai che trattano i sanculotti come cani dandogli soltanto ossa senza niente da rosicchiare dovrebbero essere ghigliottinati come nemici del popolo comune”».
Robespierre arricciò il labbro. «Molto costruttivo», commentò.
«Purtroppo, dal 1789 a oggi la gente non è diventata granché più saggia. A loro questa sembra una soluzione».
«Ci sono molti disordini?».
«In un certo senso, ma non per rivendicare la libertà, non pare siano interessati ai loro diritti. Vanno per la maggiore Camille e il rilascio dei sospetti, poiché siamo nel periodo natalizio. Ora però pensano soltanto ai generi alimentari».
«Hébert sfrutterà la situazione».
«Nelle fabbriche di armi c’è molto fermento. Non possiamo permetterci degli scioperi, l’esercito già ora è mal equipaggiato».
Robespierre alzò la testa. «Gli agitatori devono essere arrestati, strade, fabbriche, ovunque. Capisco che la gente ha le sue rimostranze da fare, ma ora non possiamo permetterlo. Il popolo deve sacrificarsi per la nazione. Alla lunga si troverà un modo per uscirne fuori».
«Saint-Just e Vadier del Comitato di polizia tengono in pugno la situazione. Purtroppo», disse esitante Lindet, «senza una decisione politica ai livelli più alti, non possiamo muoverci contro i veri sobillatori».
«Hébert».
«Potendo organizzerà una rivolta e farà cadere il governo. Leggi il giornale. Dai cordiglieri c’è un movimento...».
«Non parlarmene, conosco la situazione anche troppo bene», disse Robespierre. «Discorsi altisonanti per incitare al coraggio e riunioni dietro le quinte. L’unico capace di controbilanciare l’ascendente di Danton è Hébert. E io, mentre tutto crolla, me ne sto qua senza poter fare nulla. Il popolo non resterà fedele al Comitato dopo che l’abbiamo salvato dall’invasione e nutrito come meglio si poteva?».
«Avevo sperato di risparmiarti questo». Lindet estrasse un cartoncino dalla tasca e lo distese. Era un avviso ufficiale con gli orari e le tariffe salariali delle officine governative. Era strappato agli angoli poiché era stato staccato dal muro.
Robespierre lo prese. Sopra vi erano riprodotte le firme di sei membri del Comitato di salute pubblica. Sotto, tracciato rozzamente in rosso, c’era scritto:
CANNIBALI, LADRI, ASSASSINI
Robespierre lo lasciò cadere sul letto. «Ingiuriavano così i Capeto?». Poggiò di nuovo la testa contro il cuscino. «È mio dovere scacciare gli uomini che hanno ingannato e tradito la povera gente mettendole in testa queste idee malvagie. Ti giuro che d’ora in poi non mi lascerò sfuggire la rivoluzione di mano».
Dopo che Lindet se ne fu andato, rimase a lungo poggiato contro i cuscini a guardare la luce del pomeriggio che mutava sul soffitto. Calò la sera. Eléonore entrò in punta di piedi con le candele. Mise un ciocco sul fuoco, raccolse le carte sparse per la stanza. Impilò i libri e li rimise sugli scaffali, riempì la caraffa d’acqua e tirò le tende. Gli si avvicinò e gli accarezzò il viso. Robespierre le sorrise.
«Ti senti meglio?».
«Molto meglio».
All’improvviso lei cadde seduta ai piedi del letto come se le forze l’avessero completamente abbandonata; con le spalle curve, si dondolava la testa fra le mani. «Mamma mia», fece, «sulle prime abbiamo pensato che saresti morto. Sembravi un cadavere quando ti abbiamo trovato steso sul pavimento. Se mai dovesse succedere cosa faremmo? Nessuno di noi riuscirebbe ad andare avanti».
«Non sono morto». Robespierre aveva un tono affabile ma risoluto. «E ora ho anche le idee più chiare sul da farsi. Domani andrò alla Convenzione».
Era il 21 ventoso, l’11 marzo secondo il vecchio calendario. Erano trascorsi trenta giorni da quando Robespierre si era ritirato dalla vita pubblica. Gli pareva, in tutti quegli anni, di essere stato rinchiuso in un guscio in cui filtrava poca aria e poca luce: ora era come se la malattia lo avesse rotto e lui fosse stato estratto puro e immacolato dalla mano di Dio.
Dodici marzo: «Il Comitato ha prolungato di un mese il mandato della Convenzione», disse Robert Lindet. «Non c’è stata opposizione». Era talmente formale nel tono da sembrare una gazzetta parlante.
«Mmm», fece Danton.
«Non ci sarebbe opposizione, eh?». Camille prese a camminare avanti e indietro per la stanza. «Non ci sarebbe. I membri della Convenzione obbediscono all’applauso delle gallerie, che il Comitato occupa in massa, immagino».
Lindet sospirò. «Hai ragione, niente viene lasciato al caso». Con gli occhi seguiva Camille. «Ti sentiresti sollevato se Hébert morisse? Suppongo di sì».
«È un fatto scontato?», chiese Danton.
«Il club dei cordiglieri chiama all’insurrezione, alla “grande giornata”. E lo stesso fa Hébert dalle pagine del suo giornale. Non c’è stato governo in cinque anni che di fronte all’insurrezione abbia resistito».
«Ma al governo non c’è mai stato Robespierre», disse Camille.
«Esatto. Dunque, o placherà l’insurrezione prima che scoppi o la reprimerà con la forza delle armi».
«Un uomo d’azione», commentò Danton, e scoppiò a ridere.
«Tu lo sei stato, in passato», fece Lindet.
Danton allargò un braccio. «Io sono l’opposizione».
«Robespierre ha minacciato Collot: se quest’ultimo fosse stato anche minimamente favorevole alla tattica di Hébert, a quest’ora sarebbe in carcere».
«Cosa c’entra con me?».
«È una settimana che Saint-Just va ogni giorno a trovare Robespierre. Tu devi tenere a mente che Robespierre rispetta Saint-Just perché non ha mai messo un piede in fallo. Noi crediamo che alla lunga fra i due possa nascere qualche divergenza, ma non è il momento di perdersi in ipotesi. L’atteggiamento di Saint-Just è questo: se salta Hébert, deve saltare anche Danton. Parla di... controbilanciare le fazioni».
«Non oserebbero. Io sono l’anima della rivoluzione, Lindet, non una fazione».
«Ascolta, Danton, Saint-Just è convinto che tu sia un traditore. Sta cercando le prove che dimostrino la tua connivenza con il nemico. Quante volte te lo devo dire? Per quanto possa sembrare paradossale ne è convinto. E lo sostiene davanti al Comitato, con l’appoggio di Collot e Billaud-Varennes».
«Ma Robespierre», buttò là Camille. «La persona importante è lui».
«Danton, presumo che durante il vostro ultimo incontro voi due abbiate litigato. Temo che Robespierre abbia l’aria di chi sta tentando di prendere una decisione. Non so quanto manchi, forse molto poco. Non si pronuncia contro di te, ma non ti difende più come suo solito. Durante la riunione di oggi è stato molto taciturno. Gli altri pensano che non si sia ancora rimesso dalla malattia, ma non è solo questo. Ha appuntato tutto quello che è stato detto, sempre con gli occhi vigili. Se cade Hébert tu dovrai andartene».
«Andarmene?».
«Sì, andare via».
«Non hai consigli migliori da darmi, amico Lindet?».
«Ci tengo alla tua vita. Robespierre è un profeta, un sognatore. Dunque ti chiedo: che fine fanno i profeti da capi del governo? Quando sarà saltato lui, chi penserà alla Repubblica se non tu?».
«Profeta? Sognatore? Sei molto convincente, ma se pensassi che quell’eunuco cadaverico cova dei piani contro di me gli spezzerei il collo».
Lindet ricadde contro lo schienale della poltrona. «Mah, non so. Camille, riesci a farglielo capire tu?».
«Be’... la mia posizione è in una certa misura... ambivalente».
«Mai parola fu più azzeccata, per la miseria», commentò Danton.
«Camille, oggi Saint-Just si è espresso contro di te al Comitato. E così Collot e Barère. Robespierre ha aspettato che terminassero e poi ha detto che sei stato traviato da personalità più forti. Barère ha replicato che erano stufi di sentire questa storia e sono comparse delle prove del Comitato di polizia, grazie a Vadier. Robespierre ha preso i documenti e li ha messi sul tavolo sotto i suoi, poggiandoci sopra i gomiti. Poi ha cambiato argomento».
«Si comporta spesso così?».
«Per quanto sia incredibile, sì».
«Mi appellerò al popolo», disse Danton, «dovrà pur avere qualche idea in merito al governo che vuole».
«Al popolo si appella Hébert», rispose Lindet, «e il Comitato lo chiama rischio d’insurrezione».
«Hébert non gode del prestigio di cui godo io nella rivoluzione. Neanche lontanamente».
«A mio avviso al popolo non importa più nulla», disse Lindet. «Non gli importa chi rimane a galla e chi cola a picco, se tu, Hébert o Robespierre. Sono sfiniti. Vengono ai processi per svagarsi. È meglio del teatro: il sangue è vero».
«Pare quasi che ti disperi», disse Camille.
«Guarda, io e la disperazione abbiamo poco in comune. Io devo soltanto tenere un occhio sulle scorte alimentari, come mi ha ordinato il Comitato».
«A cui devi i tuoi vincoli di fedeltà».
«Sì, dunque non tornerò».
«Lindet, se ne esco in sella, mi ricorderò dei tuoi buoni uffici».
Robert Lindet annuì; in effetti tentò una sorta di inchino, spiritoso e impacciato. Lui apparteneva a un’altra generazione; non era salito alla ribalta con la rivoluzione. Uomo caparbio e con la mente lucida, la cosa in cui si impegnava era sopravvivere di giorno in giorno; non chiedeva altro che arrivare dalla domenica al lunedì.
Un certo ricorso alla retorica della violenza nelle sezioni: una piccola dimostrazione davanti al municipio. Il 23 ventoso, davanti alla Convenzione, Saint-Just lesse un rapporto riguardante un complotto d’ispirazione straniera che sarebbe stato ordito da alcuni famosi capi di fazione al fine di distruggere il governo rappresentativo e lasciar morire di fame Parigi. Il 24, alle prime ore del mattino, la polizia prelevò Hébert e i suoi seguaci dalle loro case.
ROBESPIERRE: Non riesco a capire, secondo i nostri amici, quale scopo dovrebbe avere quest’incontro.
DANTON: Come va il processo?
ROBESPIERRE: Problemi reali non ce ne sono. Crediamo che per domani sarà terminato. Ah, ma forse tu non parli del processo a Hébert? Fabre e Hérault saranno in Tribunale fra qualche giorno. La data esatta mi sfugge, però Fouquier dovrebbe conoscerla.
DANTON: Per caso non stai mica tentando di spaventarmi? Ci hai girato intorno a lungo prima di rispondere.
ROBESPIERRE: A quanto pare, pensi che io ce l’abbia con te. Ti ho chiesto soltanto di prendere le distanze da Fabre. Purtroppo alcuni sostengono che se è sotto processo lui, dovresti esserci anche tu.
DANTON: E tu cosa pensi?
ROBESPIERRE: Le tue attività in Belgio probabilmente non sono state del tutto irreprensibili. Ad ogni modo, per quel che mi riguarda, la responsabilità maggiore la attribuisco a Lacroix.
DANTON: Camille...
ROBESPIERRE: Non mi parlare mai più di Camille.
DANTON: E perché?
ROBESPIERRE: L’ultima volta lo hai fatto in termini ingiuriosi. Con disprezzo.
DANTON: Come vuoi. La questione è la seguente: a dicembre eri pronto ad ammettere che il Terrore andava mitigato, che gli innocenti...
ROBESPIERRE: Non mi piacciono queste espressioni emotive. Dicendo “innocenti” tu intendi “persone che per un motivo o per l’altro hanno la mia approvazione”. Il criterio non è questo: il criterio sono i riscontri del Tribunale. In questo senso non ha pagato alcun innocente.
DANTON: Dio santo! Non credo alle mie orecchie. Costui sostiene che nessun innocente ha pagato.
ROBESPIERRE: Mi auguro che tu non voglia versare altre lacrime. È un talento riservato a Fabre e agli attori, a te non si addice.
DANTON: Mi appello a te per l’ultima volta: tu e io siamo le uniche persone in grado di governare questo paese. Va bene, ammettiamolo pure: non ci sopportiamo. Ma tu non nutri dei veri sospetti su di me più di quanto io non li nutra su di te. Intorno a noi ci sono persone che sarebbero ben contente di guardare mentre ci distruggiamo a vicenda. Rendiamo loro la vita difficile. Facciamo fronte comune.
ROBESPIERRE: Non chiedo niente di meglio. Deploro le fazioni. Deploro anche la violenza. Tuttavia preferisco distruggere le fazioni con la violenza piuttosto che veder degenerare la rivoluzione perché è caduta nelle mani sbagliate.
DANTON: Intendi le mie?
ROBESPIERRE: Vedi, tu parli tanto di innocenza, ma dove sono tutte queste persone innocenti? A me non sembra di incontrarne.
DANTON: Perché guardi l’innocenza ma vedi la colpa.
ROBESPIERRE: Suppongo che se possedessi la tua morale e i tuoi principi il mondo sarebbe un luogo assai diverso. Non reputerei mai necessario punire qualcuno. Non ci sarebbero criminali. E non ci sarebbero delitti.
DANTON: Sant’Iddio! Non posso sopportare oltre te e la tua città. Vado con mia moglie e i miei figli a Sèvres, e se avrai bisogno di me saprai dove trovarmi.
Sèvres, 22 marzo, 2 germinale. «Allora siete venuti», disse Angélique. «Potrete godervi il bel tempo». Diede un bacio ai nipoti, misurò Louise con gli occhi e trovò un pretesto per passarle un braccio intorno alla vita e stringere. Louise la baciò rispettosamente su una guancia. «Perché non siete venuti tutti insieme?», chiese Angélique. «Sì, Camille e tutta la sua famiglia, anche gli anziani. Spazio ce n’è quanto volete».
Louise prese nota di come ad Annette Duplessis fosse stato dato dell’anziana. Non lo avrebbe tenuto per sé. «Volevamo avere un po’ di tempo per noi», le rispose.
«Davvero?». Angélique si strinse nelle spalle; era un desiderio che le risultava incomprensibile.
«Il mio amico Duplessis si è ripreso dopo la dura prova che ha dovuto sopportare?», chiese M. Charpentier.
«Se la cava», rispose Danton. «Ultimamente sembra invecchiato. Del resto non accadrebbe anche a te se Camille fosse tuo genero?».
«Neanche tu mi hai risparmiato i capelli bianchi, Georges».
«Come passano gli anni!», esclamò Angélique. «Ricordo che Claude era un bell’uomo. Stupido, ma bello». Sospirò. «Quanto vorrei riavere indietro gli ultimi dieci anni. E tu, figlia mia?».
«Per niente», rispose Louise.
«Ne avrebbe sei», disse Danton. «Ma io sì, certo che vorrei riaverli indietro! Alcune cose si potrebbero fare diversamente».
«Non è detto che tu disponga del senno di poi», ribatté sua moglie.
«Ricordo un pomeriggio», disse Charpentier, «sarà stato il 1786 o 1787. Venne Duplessis al caffè e io lo invitai a fermarsi per cena. Rispose: al Tesoro non abbiamo un attimo di respiro; appena sarà risolta questa crisi fisseremo una cena».
«E poi?», chiese Louise.
Charpentier scosse la testa con un sorriso. «Questo respiro non è mai arrivato».
Due giorni dopo il tempo peggiorò. Si fece grigio, umido e freddo. La casa era attraversata da correnti d’aria e i comignoli fumavano. Arrivò un flusso costante di visitatori da Parigi. Le presentazioni erano frettolose: il deputato Tizio, il cittadino Caio della Comune. Si chiudevano in una stanza con Danton; le conversazioni erano brevi, ma si udivano le voci stizzite che aumentavano di volume. I visitatori sostenevano sempre di dover tornare a Parigi, di non potersi assolutamente fermare per la notte. La loro aria di arcigna risolutezza e scaltra spavalderia rappresentava per Angélique il preludio di una crisi.
Andò a porre le domande necessarie. Il genero rimase in silenzio per un po’, le larghe spalle curve, il viso deturpato incupito.
«Vogliono che torni a Parigi e usi tutta la mia influenza», spiegò infine. «Ciò significa che hanno in animo di mobilitare la Convenzione intorno a me. Inoltre mi ha scritto una lettera Westermann. Il generale Westermann, te lo ricordi, il mio amico?».
«Un colpo di Stato?». Il viso olivastro di Angélique, che mostrava i primi segni di vecchiaia, sembrò svuotarsi. «Chi ci andrà di mezzo questa volta, chi?».
«Ecco, il punto è proprio questo. Se non posso rimediare a questa situazione senza spargimento di sangue, dovrò lasciare che se ne occupi qualcun altro. Ormai ne sono convinto: non voglio più che uccidano davanti alla mia porta, non voglio questo peso sulla coscienza. Non mi sento più sicuro di niente per mettere a repentaglio anche una sola vita. È così difficile da capire?». Angélique scosse la testa. «I miei amici a Parigi non lo capiscono. Pensano che si tratti di scrupoli stravaganti, di un mio capriccio o di una qualche mia pigrizia, di una paralisi della volontà. Ma la verità è che io quella strada l’ho percorsa e ora sono arrivato in fondo».
«Che Dio ti perdoni, Georges», mormorò lei. «So che non sei credente, ma io prego ogni giorno per te e Camille».
«Preghi per cosa?», chiese lui guardandola in viso. «Per il nostro successo politico?».
«No, chiedo... chiedo a Dio di essere clemente quando vi giudicherà».
«Capisco, ma non sono ancora pronto per il giudizio divino. E nei tuoi appelli all’Onnipotente potresti includere anche Robespierre. Benché sia certo che loro due abbiano dei colloqui privati più spesso di quanto immaginiamo».
Metà pomeriggio, un’altra carrozza che entrava cigolante nel cortile fangoso, la pioggia che grondava. In una stanza al piano di sopra i bambini strillavano con tutto il fiato che avevano in corpo. Angélique era stremata; il genero parlava con il cane che gli stava accucciato ai piedi tutto bagnato.
Louise pulì il vetro per guardare fuori. «Oh no», mormorò. Lasciò la stanza con lo sprezzante strattone alle gonne che era andata perfezionando.
Dal cielo si riversavano rivoli d’acqua che scorrevano sugli abiti da viaggio del macellaio Legendre come oceani, fontane e canali. «Ma stai vedendo che tempaccio?», chiese perentorio. «Quattro passi e a momenti affogo».
«Non mi far sperare tanto», rispose la zuppa figura accanto.
Rauco e acceso in viso, Legendre si voltò verso il compagno di viaggio per restituirgli i complimenti. «Tu sembri un topo», borbottò.
Angélique s’allungò per prendere il viso di Camille fra le mani e posare la guancia contro i suoi fradici riccioli neri. Mormorò qualche parola senza senso, forse in italiano, inspirando l’odore della lana bagnata. «Non so cosa gli dirò», mormorò lui a sua volta, l’orrore in viso. Lei gli circondò le spalle con le braccia e all’improvviso, con assoluta nitidezza, vide i raggi obliqui del sole colpire i tavolini di marmo, udì il chiacchiericcio e il tintinnare delle tazze, sentì il profumo del caffè appena fatto, l’odore del fiume e il leggero effluvio della cipria per i capelli. Aggrappati l’uno sul viso dell’altra, oscillando appena, rimasero con gli occhi fissi uno sul viso dell’altro, trafitti, pietrificati dal terrore, mentre in cielo correvano le nuvole plumbee e la fosca pioggia torrenziale li avvolgeva come un manto.
Legendre si lasciò cadere pesantemente sulla poltrona. «Ti sia ben chiaro che io e Camille non scorrazziamo per le campagne senza una buona ragione. Pertanto, avendo fatto tutta questa strada, ho intenzione di farmi ascoltare da te. Non sono una persona colta...».
«Non si stanca mai di ricordarcelo», fece Camille, «come se non lo avessimo ben chiaro in mente».
«È una faccenda da affrontare a viso aperto, non da avvolgere in un linguaggio oscuro, facendo finta che sia accaduta ai tempi degli imperatori romani».
«Avanti, allora», disse Danton. «Immaginerai il viaggio che sostengono loro».
«Robespierre vuole il tuo sangue».
Danton era in piedi davanti al fuoco, le mani intrecciate dietro la schiena. Sogghignò.
Camille tirò fuori un elenco di nominativi e glielo passò. «L’infornata del 4 germinale», disse, «tredici esecuzioni in tutto. Il gruppo dirigente dei cordiglieri, Proli, l’amico di Hérault, un paio di banchieri e ovviamente Père Duchesne. Se lo avessero fatto precedere dalle sue caldaie, avrebbero potuto trasformarla in una specie di sfilata carnevalesca. Quando è morto non era in preda a uno dei suoi attacchi di bile. Gridava».
«Tu faresti altrettanto, suppongo», fece Legendre.
«Ne sono più che certo», ribatté freddo Camille. «Ma a me non taglieranno la testa».
«Hanno cenato insieme», disse eloquente Legendre.
«Hai cenato con Robespierre?». Camille annuì. «Ben fatto», fece Danton. «Io non credo proprio che riuscirei a mangiare in sua presenza. Penso che vomiterei».
«Ah, a proposito», disse Camille, «sapevi che Chabot ha cercato di avvelenarsi? Almeno così crediamo».
«In cella aveva un flacone di Charras e Duchatelle, i due farmacisti», spiegò Legendre. «C’era scritto “SOLO PER USO ESTERNO” e lui l’ha bevuto».
«Ma Chabot berrebbe qualsiasi cosa», ribatté Camille.
«È sopravvissuto? Il solito pasticcio, vero?».
«Senti un po’», disse Legendre, «non puoi permetterti di startene lì a sghignazzare. Non ne hai il tempo. Saint-Just assilla Robespierre giorno e notte».
«Di cosa mi accuserebbe?».
«Di tutto e di niente. Dall’appoggio dato a Orléans fino al tentativo di salvare Brissot e la regina».
«Il solito. E tu cosa consigli?».
«La settimana scorsa avrei detto: affrontali. Ma adesso ti dico: salvati la pelle. Scappa da questo paese finché sei in tempo».
«Camille?».
Camille alzò lo sguardo affranto. «Il nostro è stato un incontro amichevole, lui era molto affabile. Anzi, ha persino esagerato un po’ nel bere. Lo fa soltanto quando... quando cerca di zittire le sue voci interiori, se non è un’espressione troppo eccentrica. Gli ho chiesto: per quale motivo non vuoi parlare di Danton? Si è portato una mano alla fronte e ha detto: è subjudice». Si girò di lato: «Potresti prendere in considerazione l’idea di andare all’estero».
«All’estero? Ma no. Nel ‘91, quando sono andato in Inghilterra, eravamo nel giardino di Fontenay e tu mi hai rimproverato aspramente». Danton scosse la testa. «Questa è la mia nazione e io resto qui. Non si può portare la propria patria attaccata alla suola delle scarpe».
Il vento ululava nei comignoli; i cani abbaiavano da una fattoria all’altra. «Dopo tutte le cose che hai detto sulla posterità, ora pare proprio che tu ti rivolga a essa», borbottò Camille. L’acquazzone rallentò in una pioggerella grigia e sottile che infradiciava le case e i campi.
A Parigi le lanterne accese dondolano per le strade; le luci brillano indistinte e soffuse fra la pioggia. Saint-Just è seduto vicino a un fuoco striminzito, sotto una luce misera. Dopotutto è uno spartano, e gli spartani non hanno bisogno di comodità. Ha iniziato a stendere il suo rapporto, l’elenco delle accuse; Robespierre lo strapperebbe se lo vedesse adesso, ma fra qualche giorno sarà esattamente ciò che gli servirà.
Di tanto in tanto si ferma, si guarda alle spalle. Gli pare che ci sia qualcuno nella stanza; ma appena si volta non vede niente. È il mio destino che prende forma nelle ombre della stanza, pensa. È l’angelo custode che avevo tanto tempo fa, da bambino. È Camille Desmoulins che si affaccia sopra la mia spalla e si prende gioco della mia sintassi. Si ferma un istante. Pensa che non esistono fantasmi viventi. Riacquista padronanza di sé. China la testa sul suo compito.
La penna stride. Strane forme alfabetiche si incidono sulla carta. La scrittura è minuta. Su ogni foglio riesce a far entrare un bel po’ di parole.