II
Robespierricidio
(1792)
«Mi sono innamorato di te fin dalla prima volta che ti ho vista». Oh, pensò Manon, e ancor prima no? Le pareva che le lettere, gli scritti che gli aveva mandato avrebbero dovuto smuovere la sensibilità dell’unico uomo – ormai ne era certa – che avrebbe potuto renderla felice.
Le cose non avvennero in modo affrettato. Fra loro due erano scorsi fiumi di inchiostro nei periodi di lontananza; in quelli in cui erano vicini – cioè quando si trovavano nella stessa città – di rado avevano un momento tutto per sé per stare insieme. Il loro destino era nelle conversazioni impegnate, ore intere di salotto: prima di parlare il linguaggio dell’amore, parlavano quello dei legislatori. Persino a questo punto Buzot non diceva molto. Sembrava perplesso, dibattuto, tormentato. Era più giovane di lei e riusciva meno a controllare le sue emozioni. Aveva una moglie: brutta e più anziana.
Manon azzardò: mentre François-Léonard se ne stava seduto con la testa fra le mani, gli poggiò i polpastrelli sulla spalla. Era un gesto di consolazione, e le fermava il tremore delle dita.
Occorreva segretezza. I giornali le attribuivano degli amanti; il nome di Louvet compariva spesso. In pubblico Manon fino a quel momento aveva reagito con scherno: ma non hanno proprio nessun argomento, qualche intuizione un pochino più arguta? (In privato, però, quelle prese in giro, quelle battute mordaci la riducevano sull’orlo del pianto; si chiedeva perché le fosse inflitto lo stesso trattamento riservato a quella giovane bizzarra e selvaggia che era Théroigne, lo stesso trattamento – a ben pensarci – riservato un tempo alla Capeto). I giornali li sopportava pure; ben più arduo era sopportare la ridda di pettegolezzi che facevano capo al Ministero della Giustizia.
Danton, le era stato riferito, sosteneva che suo marito fosse cornuto da anni, nel più ampio senso morale, almeno, se non in quello fisico. Ma come poteva quell’uomo immaginare la sua situazione? Come poteva comprendere le delicate soddisfazioni del rapporto fra una donna casta e un uomo degno di stima? Era impossibile pensare un tizio come lui fuori da un contesto di grossolana fisicità. Aveva visto sua moglie; da quando era ministro l’aveva portata una volta al Maneggio, nella galleria del pubblico, a sentirlo berciare davanti ai deputati. Era una donna spenta, gravida, che probabilmente aveva come unico pensiero le pappette e le minestrine per i pargoli. Ciononostante è una donna: come può sopportare, domandò Manon a voce alta, il corpo sovrappeso di quel tanghero steso sopra di lei?
Fu un commento improvviso, come se glielo avesse tirato fuori la scossa di fortissima ripugnanza che provò; il giorno dopo, ovviamente, fu ripetuto in ogni angolo della città. Al pensiero Manon diventava scarlatta.
Venne a trovarla il cittadino Fabre d’Églantine. Accavallò le gambe e congiunse la punta delle dita. «Dunque, mia cara», disse.
Quella rivoltante ostentazione di familiarità la irritò. Un tale poco serio come lui, che frequentava signorine ai margini estremi della buona società, che era tutto pose teatrali e commenti maligni alle spalle altrui: mandavano proprio un tipo del genere a controllarla per fare poi rapporto. «Il cittadino Camille», le disse, «sostiene che il vostro ormai noto commento lasci trasparire una profonda attrazione per il ministro. Come del resto lui ha sempre sospettato».
«Mi sfugge del tutto come egli possa intuire i miei sentimenti, visto che non ci siamo mai incontrati».
«No, me ne rendo conto; perché non farlo?».
«Non avremmo nulla da dirci».
Manon aveva visto la moglie di Camille Desmoulins al Maneggio e dai giacobini, nella galleria riservata al pubblico; aveva tutta l’aria di una ragazza compiacente e di lei si diceva che avesse compiaciuto Danton. E che Camille lo tollerasse e forse non soltanto... Fabre notò il leggero sobbalzo del capo di chi si ritrae spaventato di fronte all’eventualità di sapere. Eppure la mente di quella donna doveva essere una cloaca; nemmeno noi, pensò, azzardiamo congetture inpubblico su cosa fanno i colleghi a letto.
Manon si chiese: perché devo sopportare quest’uomo? Se fossi proprio obbligata a comunicare con Danton, non potrebbe esserci un altro tramite? In apparenza no. Forse Danton, pensò, non si fida di molta gente, come lascerebbero intendere le sue maniere espansive?
Fabre la guardò divertito. «Chi ci perde siete voi», le disse. «L’impressione che avete è sbagliata: Camille vi piacerebbe assai più di me. Detto per inciso, è convinto che in queste elezioni avrebbero dovuto estendere il voto alle donne».
Manon scosse il capo. «Dissento. La maggior parte delle donne non sa niente di politica. Non ragiona...» – in mente aveva le donne di Danton – «non ha alcun pensiero costruttivo. Sarebbero semplicemente influenzate dai mariti».
«O dagli amanti».
«Forse nei vostri circoli».
«Riferirò a Camille le vostre parole».
«Non scomodatevi. Non ho alcun desiderio di polemizzare con lui, di persona o meno».
«Rimarrà sconvolto apprendendo la sempre più scarsa opinione che avete di lui».
«Mi prendete per una cretina?», controbatté lei dura.
Fabre alzò un sopracciglio, come faceva ogni volta che provava a farle saltare i nervi. La studiava giorno dopo giorno, raccogliendo i suoi stati d’animo e le sue espressioni e conservandoli per i tempi futuri.
Dunque, la segretezza. Però un po’ d’onestà occorreva, e François-Léonard lo riconobbe. «Siamo tutti e due sposati e comprendo l’impossibilità... da parte tua, in ogni caso... di disonorare il vincolo matrimoniale».
Ma sento che è giusto così, gridò Manon. Il mio istinto mi dice che non ci può essere niente di sbagliato.
«L’istinto?». Buzot alzò lo sguardo. «Manon, c’è da diffidare. Sai bene che non abbiamo nessun incontestabile diritto alla felicità... o che piuttosto abbiamo bisogno di riflettere attentamente sulla natura di tale felicità... Non abbiamo alcun diritto di far soffrire gli altri per soddisfare i nostri desideri». Le salde dita di Manon erano ancora appoggiate sulla sua spalla; ma il viso era poco convinto, aveva un’espressione... avida. «Manon?», fece lui. «Hai letto Cicerone, Suidoveri?».
Aveva letto Cicerone? Conosceva i suoi doveri? «Ma certo...», gemette. «Sono una donna di vaste letture e so quale ruolo hanno gli obblighi, e che non si persegue la propria felicità a costo della sofferenza altrui. Pensi che non me lo sia già ripetuto mille volte?».
«Sì». Buzot sembrava in imbarazzo. «Ti ho sottovalutato».
«Sai, se ho una colpa...». S’interruppe per un breve istante in attesa di un’educata protesta. «Se ho una colpa è quella di parlare chiaro. Non riesco a sopportare l’ipocrisia, i modi educati che vanno a scapito dell’onestà... Devo parlare con Roland».
«Parlare per dirgli cosa?».
Domanda legittima. Fra loro due non era successo niente – non nel senso che Danton e i suoi amici attribuivano a succedere. (Manon s’immaginò i piccoli seni di Lucile Desmoulins stretti fra le dita di Danton). C’era stata soltanto la precipitosa dichiarazione di lui, la precipitosa risposta di lei, ma da allora François-Léonard non l’aveva toccata, a malapena le aveva sfiorato una mano.
«Mio caro», Manon chinò la testa, «questa cosa va assai al di là della sfera fisica. Come dici tu, in quel senso per noi non è possibile niente. Ed è ovvio che io debba sostenere Roland, il periodo è critico, sono sua moglie e non posso abbandonarlo. Tuttavia... non posso permettere che viva nel dubbio riguardo alla vera natura delle cose. Fa parte del mio carattere, devi capirlo».
Buzot alzò lo sguardo. Aveva il volto corrucciato. «Manon, non hai niente da raccontare a tuo marito, non è accaduto nulla. Abbiamo semplicemente palesato i nostri sentimenti...».
«Appunto, li abbiamo palesati! Roland non mi ha mai palesato i suoi, ma io li rispetto, so che ne ha; deve averne, come tutti, del resto. Devo dirgli: ecco la verità, ho incontrato l’uomo che amo; la nostra situazione è questa; non rivelerò il suo nome; non è accaduto nulla e nulla accadrà; ti resterò una moglie fedele. Mi capirà; saprà che il mio cuore è altrove».
Buzot abbassò gli occhi. «Manon, sei implacabile. È mai esistita una donna come te?».
Ne dubito, pensò lei. Disse: «Non posso tradire Roland. Non posso lasciarlo. Il mio corpo, penserai tu, è fatto per il piacere, ma il piacere non è la considerazione più importante». Eppure le vennero in mente le mani di Buzot: piuttosto robuste per un uomo tanto elegante e ben curato. I suoi seni non erano come quelli della Desmoulins; lei aveva allattato, aveva dei seni coscienziosi.
«Pensi che sia una buona idea parlargliene?», fece Buzot. «Pensi» – (che Dio mi aiuti) – «pensi che serva a qualcosa?».
Aveva il vago sentore che fosse il modo sbagliato di affrontare la questione. Ma del resto non aveva esperienza, era vergine da questo punto di vista; e sua moglie, che aveva sposato per denaro, era brutta e più anziana.
«Sì, sì, sì, c’è qualcuno di sicuro!», esclamò Fabre. «Che bello scoprire che gli altri non sono migliori di te».
«Non è Louvet?».
«No. Barbaroux, magari?».
«Ma figuriamoci. Ha una cattiva reputazione e gusti banali. E per Madame», Camille sospirò, «è piuttosto tondo e appariscente».
«Chissà come la prenderà il virtuoso Roland».
«Una donna di quell’età», fece Camille disgustato, «e per giunta così brutta».
«Ti senti male?», chiese Manon al marito. Faticava ad ammorbidire il tono di voce. Lui, accasciato sulla sedia, aveva un’espressione di dolore mentre si costringeva ad alzare gli occhi su di lei.
«Mi dispiace», aggiunse. Nel senso che le dispiaceva per lui: per quel che la riguardava non avvertiva alcuna necessità di chiedere scusa; lo stava mettendo semplicemente al corrente della situazione per non dover ricorrere a comportamenti degradanti, ipocrisie, a nulla che potesse essere interpretato come inganno.
Aspettò che il marito dicesse qualcosa, ma poiché taceva, riprese: «Capisci perché non ti rivelo il suo nome».
Roland annuì.
«Ti sarebbe d’intralcio sul lavoro, d’ostacolo, nonostante siamo persone con la testa sulle spalle». Attese. «Non sono una donna capace di tenere a freno le proprie emozioni. La mia condotta, ad ogni modo, sarà irreprensibile».
Alla fine lui parlò.
«Manon, come sta Eudora, nostra figlia?».
Lei rimase sbigottita, rabbiosa per l’illogicità della domanda. «Lo sai che sta bene e che è affidata alle migliori cure».
«Sì, ma perché non è qui con noi?».
«Questo non è un posto adatto per una bambina».
«Danton si è portato i figli a Place des Piques».
«Sono piccoli, possono lasciarli alle bambinaie. Eudora invece è tutt’altro discorso, avrebbe bisogno della mia attenzione, ma io sono molto occupata. E poi non è bella e non ha talento, cosa dovrei fare con lei?».
«Manon, ha solo dodici anni».
Abbassando lo sguardo, lei vide la mano nervosa del marito che si contraeva; allora s’accorse che si era messo a piangere, che le lacrime gli scorrevano silenziose sulle guance. Non vorrebbe che la veda piangere, pensò Manon, e con un’espressione di sconcerto e dolore lasciò la stanza e richiuse piano la porta, come quando il marito era malato, lui paziente e lei infermiera.
Roland rimase ad ascoltare il ticchettio dei passi e appena svanì si permise di emettere un suono, un suono che a lui parve naturale, naturale come il linguaggio: era il lamento soffocato di un animale, un lamento luttuoso proveniente da un torace stretto. Non si fermava; al contrario del linguaggio non aveva meta, non trovava la necessaria fine. Era per lui, per Eudora; per tutti quelli che incrociavano il cammino di quella donna.
Eléonore: quando sarà tutto finito, aveva pensato, Maxime mi sposerà. Ne aveva fatto cenno alla madre. «Credo di sì», aveva risposto Mme Duplay tranquilla.
Pochi giorni dopo suo padre la prese da parte. Con un gesto imbarazzato e assorto si lisciò i capelli radi sul capo. «Lui è un grande patriota», disse, ma la cosa sembrava preoccuparlo. «Credo che sia molto legato a te, però mi sembra una persona riservata nelle questioni personali, giusto? Non che lo vorremmo diverso. È un grande patriota».
«Già». Eléonore s’era innervosita. Suo padre credeva forse che non fosse abbastanza orgogliosa di lui?
«È un grande onore che viva con noi e mi pare ovvio che dovremmo fare tutto il possibile... È che tu, ai miei occhi, sei già sposata».
«Ah», esclamò lei. «Capisco».
«Farei affidamento su di te... per qualsiasi cosa possa rendergli la vita più gradevole».
«Padre, non hai sentito? Ho detto che ho capito».
Alla fine si sciolse i capelli, che le si sparsero sulle spalle squadrate e lungo la schiena. Li scostò dai piccoli seni e s’avvicinò allo specchio per guardarsi meglio. Forse è una pazzia immaginare che con questa faccia insignificante... Lucile Desmoulins il giorno prima era andata da loro con il bambino. L’avevano riempita di attenzioni e avevano chiacchierato, poi, passato il bambino a Victoire, lei si era seduta in disparte, la mano abbandonata sul bracciolo della sedia come un fiore sciupato dal gelo. Appena era arrivato Maxime, le era spuntato il sorriso; il viso di lui s’era acceso di un piacere improvviso. Il sentimento che aveva per Lucile si chiamava affetto fraterno; ma nel mio caso, pensò Eléonore, se a questo mondo ci fosse un po’ di giustizia, dovrebbe essere qualcosa di più.
Si passò la mano sulla pancia piatta e sui fianchi. Cominciava a provare piacere per la morbidezza della propria pelle; sentiva quello che avrebbe sentito la mano di lui. Però, appena voltò le spalle allo specchio, vide le linee forti e squadrate del suo corpo, e coricandosi sul letto, poggiando la testa contro il cuscino, non le rimase che un senso di delusione. Mentre aspettava, il corpo le si irrigidì, anticipando quello a cui andava incontro.
Lo sentì salire le scale; risoluta, si girò verso la porta. Per una terribile frazione di secondo immaginò che il cane – oddio, è mai possibile – si precipitasse nella stanza, le saltasse addosso, e fra guaiti e leccate le si attaccasse (come era portato a fare) ai capelli pulitissimi e ben spazzolati.
Ma il pomolo girò e non entrò nessuno. Maxime indugiava sulla soglia, quasi volesse tornare indietro e ridiscendere le scale. Poi però si decise e avanzò di qualche passo. Gli sguardi s’incontrarono; non c’era alternativa. Fra le mani lui teneva delle carte, e mentre si sporgeva a poggiarle, sempre con lo sguardo fisso sul viso di Eléonore, qualcuna cadde a terra.
«Chiudi la porta», fece lei. Sperava di non dover aggiungere altro, come in un’intesa perfetta; ma appena quelle parole le uscirono di bocca sembrarono un suggerimento pratico, quasi la infastidisse una corrente d’aria.
«Sei sicura di quel che fai, Eléonore?».
Sul viso di lui comparve un’espressione impaziente e autoironica: sembrava proprio che fosse decisa. Le prese le mani e le baciò la punta delle dita. Voleva dirle in modo chiaro: non possiamo; mentre si chinava a raccogliere i fogli caduti, gli affluì il sangue al viso e si rese conto che era impossibile chiederle di rivestirsi e andarsene.
Eléonore si tirò a sedere. «Non protesteranno», fece, «capiscono la situazione. Non siamo dei bambini, non ci complicheranno la vita».
Chissà, pensò lui. Si sedette sul letto e le accarezzò il seno, il capezzolo gli si inturgidì nel palmo. Sul viso si leggeva la preoccupazione per lei.
«Va bene così», fece Eléonore, «sul serio».
Nessuno l’aveva mai baciata. Maxime lo fece con molto tatto, ma ciononostante lei parve sorpresa. Sarà meglio che mi spogli, pensò lui, altrimenti fra poco me lo dirà lei – ripetendogli che andava bene così. Toccò la carne estranea, morbida, sconosciuta; c’era stata una ragazza con la quale si era visto i primi tempi che aveva frequentato Versailles, ma non era per niente una brava ragazza, ed era stato facile perdersi di vista, ed era stato più facile da allora non fare nulla: il celibato è fattibile, ma il celibato a metà è durissimo, le donne non mantengono i segreti e i giornali sono avidi di pettegolezzi... Eléonore non pareva aspettarsi o desiderare indugi. Premette il suo corpo irrigidito dal dolore che immaginava contro quello di lui. La tecnica la conosce, pensò Maxime, ma nessuno l’ha mai introdotta all’arte. Sa che potrebbe sanguinare? Sentì un’acuta fitta di nausea.
«Eléonore, chiudi gli occhi», le sussurrò. «Dovresti cercare di rilassarti, qualche momento e ti sentirai...». Meglio, stava quasi per dire; come se fosse una malattia. Le accarezzò i capelli, la baciò di nuovo. Lei non lo toccò; non le passò neppure per la testa. Maxime le aprì un po’ le gambe. «Non voglio che ti spaventi», le disse.
«Va bene così», rispose lei.
Ma non andava bene così. Maxime non riusciva a imporsi in quel corpo rigido e asciutto senza ricorrere a una brutalità di cui dentro di sé non trovava il bandolo. Trascorso un minuto o due si appoggiò sui gomiti e guardò Eléonore. «Non affrettare le cose», le disse. Le fece scivolare una mano sotto il sedere. Eléonore, avrebbe voluto dire, io non sono esperto, ma tu non mi sembri proprio portata. Lei inarcò il corpo contro il suo. Le avevano detto che nella vita per ottenere quello che voleva doveva impegnarsi a fondo, stringere i denti e non arrendersi mai... povera Eléonore, povere donne. Inaspettatamente e da un angolazione piuttosto inconsueta lui riuscì a penetrarla. Lei non emise suono. Maxime le raccolse la testa contro la propria spalla così da non vederla in viso e non sapere se le stava facendo male. Si mosse delicatamente – non che ci fosse molto da muoversi – e trovò una posizione più gradevole. Ne è passato di tempo, pensò un’altra volta, o lo fai spesso o è meglio non farlo proprio. E così, per ovvi motivi, finì tutto in fretta. Le seppellì nel collo un verso di liberazione. La lasciò andare e la testa di Eléonore ricadde sul cuscino.
«Ti ho fatto male?».
«Va bene così».
Maxime le si stese accanto e chiuse gli occhi. Eléonore starà pensando: è questa allora la cosa di cui si chiacchiera tanto? Era certo che lo stesse pensando. Era sul proprio disappunto che lui non riusciva a passare sopra, un’amara sensazione di disonore che aveva in gola. Qui c’è da trarre qualche insegnamento, pensò; quando i piaceri che ci neghiamo non si rivelano piaceri, ne usciamo vinti due volte, non soltanto perché perdiamo un’illusione, ma anche perché ci sentiamo inutili. Con la ragazza di Versailles era stato molto meglio, ma era impossibile tornare a quei tempi, non gli era concesso sconfiggere l’avversione che provava per gli incontri casuali. Doveva forse dire a Eléonore: mi rincresce che sia durato così poco, capisco che non ti sia piaciuto? Ma perché dirlo visto che lei non aveva pietra di paragone e avrebbe ripetuto ancora una volta: «Va bene così».
«Mi alzo», disse Eléonore.
Lui la cinse con un braccio. «Rimani». Le baciò i seni.
«Va bene. Sei vuoi».
Maxime fece un’impacciata ricognizione. Sangue non ce n’era, o almeno non gli pareva. Pensò: forse sa che in realtà non è tutto qui, che con il tempo migliora, perché sarà consapevole che per certe persone è una parte importante della vita.
Ora Eléonore era finalmente un po’ più rilassata, sorrideva. Era il sorriso di chi ha raggiunto una meta. Come si fa a indovinare cosa le passa per la testa? «Questo letto non è molto grande», disse.
«No, però...». Se era lì che voleva andare a parare, avrebbe dovuto dirglielo e basta. Avrebbe dovuto dire: Eléonore, Cornélia, per quanto ti sia grato di avermi liberamente e generosamente offerto il tuo corpo, non ho intenzione di trascorrere le mie notti con te, neppure se tutta la tua famiglia ci aiuta a spostare i mobili. Chiuse di nuovo gli occhi. Tentò di pensare alla scusa che avrebbe usato con Maurice al momento di lasciare la casa, a come avrebbe fatto fronte alle domande di Mme Duplay e alle lacrime certe. Allora gli vennero in mente le recriminazioni che sarebbero piovute sulla testa confusa e innocente di Eléonore e le cattiverie delle altre donne. E d’altronde non voleva andarsene, ritrovarsi nelle stanze fredde e solitarie di un altro distretto, incontrare Maurice Duplay dai giacobini, salutarlo con un cenno del capo e trattenersi dal chiedergli notizie della famiglia. E sapeva, senza la minima ombra di dubbio, che sarebbe successo di nuovo. Appena Eléonore avesse deciso che era l’ora, sarebbe corsa di sopra e lo avrebbe aspettato, e lui non sarebbe stato capace di mandarla via, esattamente come la prima volta. Si chiese con chi si sarebbe confidata, poiché aveva bisogno di un consiglio sulla frequenza con cui farlo; e mentre cercava di individuare i confini delle sue amicizie femminili, gli si riversarono addosso altre disastrose eventualità. Meno male che Eléonore conosceva a malapena Mme Danton.
A quel punto Maxime doveva essersi addormentato. Quando si svegliò, lei non c’era più; erano le nove di sera. Domani, pensò, Eléonore se ne andrà per strada tutta allegra, elargendo sorrisi a tutti, e si presenterà a casa della gente senza un vero motivo.
Nei giorni seguenti Maxime fu sopraffatto dal senso di colpa. La seconda volta Eléonore fu meno tesa, più tranquilla, ma non diede segno di provare piacere. Gli venne in mente che se fosse rimasta incinta si sarebbero dovuti sposare molto in fretta. Forse, quando si riunirà la Convenzione, in casa verrà gente nuova, pensò, e magari lei farà colpo su qualcuno e io, con un atto di generosità, potrò sollevarla da qualsiasi legame o promessa.
Ma nel suo cuore sapeva che non sarebbe andata così. Eléonore non avrebbe fatto colpo su nessuno. La sua famiglia non lo avrebbe permesso. Oggi, pensò, la gente sposata può divorziare, ma il nostro vincolo potrà sciogliersi solo davanti alla morte.
Al ministero Camille se ne stava dietro lo scrittoio, con la mente affollata dai pensieri. Ricordava la notte trascorsa nell’appartamento del cugino de Viefville prima di incontrare Mirabeau. C’era Barnave che gli si era rivolto come a una persona degna di rispetto. Barnave gli piaceva. Adesso era in prigione accusato di complicità con la corte; imputazione di cui era più che colpevole. Camille sospirò. Ai margini di una lettera d’incoraggiamento che stava scrivendo ai giacobini di Marsiglia disegnava delle barche in alto mare.
I deputati della Convenzione in quei giorni si stavano riunendo a Parigi. Augustin Robespierre: Camille, non sei cambiato affatto. E Antoine Saint-Just... doveva avere pazienza nei confronti di Saint-Just, ed evitare gli accessi di illogica animosità...
«Ho la sensazione che covi dei pensieri odiosi», disse a Danton.
E Danton, ossessionato dalla solidarietà: «Prova, prova con tutto te stesso a mantenere la pace», disse con la sua voce stanca di avvocato. «Devi, non puoi essere una costante delusione per Maximilien. Gli faciliti le cose se metti fine alle tue sconsideratezze».
«Saint-Just non mi pare un tipo sconsiderato».
«Non ne ha l’aria».
«In questo modo si accattiverà tutti, ne sono sicuro».
«“Accattiverà”». Danton si mise a ridere. «Con quel sorrisetto gelido e ragionato, il ragazzo mi inquieta».
«Forse cerca di rendersi simpatico».
«Hérault si ingelosirà. Le donne avranno qualcun altro a cui interessarsi».
«Non si deve preoccupare, a Saint-Just non interessano le donne».
«Lo dicevi anche di san Maximilien, ma ora lui ha la sua affascinante Cornélia. Mi sbaglio forse?».
«Non lo so».
«Io sì».
Era ormai sulla bocca di tutti, come l’ipotetica infedeltà della moglie di Roland e il ménage che si conduceva a Place des Piques. Ma guarda con che genere di cose si tiene occupata la gente, pensò Camille.
Forse a breve Danton avrebbe lasciato l’incarico. Per quel che lo riguardava, ne sarebbe stato contento. Tuttavia pareva chiaro che i sostenitori di Roland avrebbero cercato di far restare quest’ultimo ministro dell’Interno, nonostante fosse già stato eletto alla Convenzione. Anche dopo lo scandalo dei gioielli della Corona, il vecchio burocrate polveroso era ancora sulla cresta dell’onda. E se rimaneva in carica lui, perché non Danton, che era più necessario alla nazione?
Non voglio restare qui ancora per molto. Mi trasformerò in un Claude, pensò. Non voglio neppure parlare alla Convenzione, non sarebbero in grado di ascoltarmi. D’altra parte, si disse, non è questione di quello che voglio io.
Era più preoccupante pensare che Danton volesse lasciare l’incarico. Non aveva rinunciato neppure ora ai suoi sogni – alle sue illusioni – di andarsene da Parigi per sempre. Camille lo aveva trovato nel cuore della notte tutto solo, nel cono di luce gialla delle candele, che studiava gli atti delle sue proprietà ad Arcis, ogni pietra di confine che le delimitava, ogni corso d’acqua, ogni diritto d’accesso. Quando aveva alzato la testa, gli aveva visto negli occhi i campi, i boschi cedui, i ruscelli e le case rurali.
Danton era trasalito. «Ah, credevo che finalmente fosse arrivato il mio assassino». Aveva la mano, palmo verso il basso, posata sulle carte. «Chissà, forse pensavo che fossero i prussiani».
Negli ultimi tempi Fabre era stato evasivo, considerò Camille. Non che fosse sua abitudine parlare chiaro, era il tipo che se avesse dovuto scegliere fra i quattrini e la fama di rivoluzionario... No, si sarebbe rifiutato di scegliere, avrebbe confusamente continuato a volere entrambe le cose.
«Che interpretazione dobbiamo dare alla sparizione dei gioielli della Corona?», aveva chiesto Camille a Danton.
La domanda era: cosa dobbiamo pensare oppure cosa dobbiamo dire? Camille lo aveva guardato rimuginare su quell’ambiguità.
«Secondo me dobbiamo dire che è colpa della negligenza di Roland».
«Sì, avrebbe dovuto organizzare meglio la sorveglianza, mi sbaglio? Fabre il giorno dopo era dalla cittadina Roland. È uscito alle dieci e mezzo ed è tornato all’una. Pensi che sia andato a redarguirla?».
«Come faccio a saperlo?».
Camille gli aveva scoccato una divertita occhiata di sottecchi. «E dopo che lui l’ha lasciata, la cittadina è andata dal marito a dirgli che era appena passato l’uomo che aveva rubato i gioielli della Corona».
«Come fai a saperlo?».
«Forse è tutta una mia fantasia. Secondo te lo è?».
«Potrebbe», aveva detto Danton con una nota d’insoddisfazione nella voce.
«Non fidarti di Dumouriez».
«No, queste sono parole di Robespierre. Sono stufo di sentirle».
«Robespierre non sbaglia mai».
«Forse al fronte dovrei andarci io, per incontrare determinate persone e chiarire alcune cose».
Dunque: gli umori bucolici di cui Danton cadeva preda non potevano che essere una forma di paura. Dio sa se era abbastanza vulnerabile, per quanto fosse strano usare questa parola nei suoi riguardi. Era vulnerabile a Dumouriez e per giunta ai sostenitori dei Borboni, nell’affanno di mantenere le promesse fatte... «Non c’è niente di cui preoccuparsi, a noi penserà M. Danton».
Camille scacciò in fretta quel pensiero scuotendo indietro i capelli con un gesto nervoso, come se nella stanza, oltre a lui, ci fosse qualcun altro. Gli pareva di sentire la voce di Robespierre arrivare da una fredda giornata primaverile del 1790: «Appena accordi il tuo affetto a una persona, la ragione vola via dalla finestra. Pensa un momento al conte de Mirabeau – con oggettività, se ci riesci. Il suo modo di vivere, le sue parole, le sue azioni mi mettono immediatamente in guardia: allora, se rifletto un po’, scopro che quell’uomo cerca soltanto la sua affermazione personale. Detto questo, perché tu non riesci ad arrivare a questa conclusione, visto che è piuttosto chiara? In altre situazioni non cedi ai tuoi sentimenti quando questi sono contrari ai più vasti fini; ad esempio hai il terrore di parlare in pubblico, ma non permetti che ciò ti fermi. Dunque è così che si fa: devi essere implacabile verso i tuoi sentimenti».
E se un giorno Camille sentisse nell’orecchio quella voce ostinata e inesorabile pronta a sostenere che Danton non è una persona integra? La risposta l’aveva, tempestiva, non logica, ma abbastanza raggelante da sospendere la logica. Contestare il patriottismo di Danton significava mettere in dubbio l’intera rivoluzione. Un albero si riconosce dai frutti e Danton aveva generato il 10 agosto. In precedenza aveva generato la repubblica dei cordiglieri, poi la Repubblica di Francia. Se Danton non è un patriota, allora abbiamo condotto gli affari della nazione con colpevole negligenza. Se Danton non è un patriota, non lo siamo neppure noi. Se Danton non è un patriota, allora bisogna rifare tutto da capo, a partire dal maggio del 1789.
Era un pensiero che avrebbe spossato perfino Robespierre.
Quando a Parigi giunse la notizia della vittoria di Valmy, la città iniziò a delirare per il sollievo e la gioia, e solo dopo qualcuno cominciò a chiedersi come mai i francesi non ne avessero approfittato stanando Brunswick e colpendo a morte la sua ritirata. La Convenzione nazionale, riunitasi per la prima volta, aveva proclamato ufficialmente la Repubblica di Francia e la vittoria era il migliore degli auspici. In breve tempo sul suolo francese non ci saranno nemici, o quantomeno non ci saranno nemici stranieri. I generali avanzeranno fino a Magonza, a Worms e a Francoforte, il Belgio sarà occupato, l’Inghilterra, l’Olanda e la Spagna entreranno in guerra. Verrà poi il tempo delle sconfitte, e per il tradimento, la cospirazione e la semplice apatia la ricompensa sarà atroce; con il diminuire delle presenze alla Convenzione, sui banchi vuoti sembrerà di vedere la Morte che sorride familiare ed entusiasta.
Nel frattempo, alla Convenzione, il fenomeno più sorprendente era la voce di Danton; la si sentiva ogni giorno, su ogni questione, ma la sua arrogante potenza non smetteva mai di sbalordire. Per evitare di sedersi fra i banchi dei ministri, prendeva posto nell’ultima fila in alto, alla sinistra dell’aula, con gli altri deputati parigini e i più accaniti fra quelli delle province. Quei posti, e i loro occupanti, saranno chiamati la Montagna. I girondini, i brissottini – definiteli come più vi aggrada – si spostano sulla destra, e fra loro e la Montagna c’è la zona chiamata la Pianura o la Palude, in consonanza con la tremebonda natura dei suoi occupanti. Ora che la spaccatura era visibile non sembrava esserci motivo di usare riserbo o discrezione. Non mancava giorno in cui Buzot non riversasse nell’opprimente, soffocante e sudaticcia aula i sospetti di Manon Roland su Parigi, città tiranna, sanguisuga, necropoli. A volte lei lo guardava dalla galleria del pubblico, sempre rigida nell’applauso; di fronte agli altri i due si comportavano come educati estranei, e non meno educati, ma non così estranei, erano nel privato. Louvet aveva in una tasca un discorso dal titolo “Robespierricidio”, che conservava per pronunciarlo al momento giusto.
Il nodo cruciale – a settembre, ottobre e novembre – era infatti il tentativo di predominio dei brissottini; il loro esercito privato di sedicimila uomini giunti dalle province invocava per le strade il sangue degli aspiranti dittatori – Marat, Danton, Robespierre – che soprannominava il Triumvirato. Il ministro della Guerra trasferì quell’esercito al fronte prima che per le strade ci fossero scontri; ma le linee schierate nella Convenzione non erano di sua competenza.
Marat sedeva da solo, chino sulle sue sanguinarie preoccupazioni. Quando si tirava su per parlare, i brissottini si affrettavano a lasciare l’aula o iniziavano a fissarlo con disgusto, mormorando fra loro; col passare del tempo però iniziarono ad ascoltarlo, perché le parole di Marat li riguardavano molto da vicino. Parlava con il braccio ripiegato poggiato alla tribuna e il collo, corto e possente, tirato all’indietro, facendo precedere le sue considerazioni dalla risatina demoniaca che si era coltivato. Era malato, ma nessuno conosceva il nome della malattia.
Robespierre lo incontrò, anche se di sfuggita. Lo conosceva da sempre, ma aveva evitato un rapporto più stretto. Parlando con Marat si correva il rischio di essere criticati per le sue posizioni, o incolpati di dettargli i suoi scritti e di istigare le sue ambizioni. Ma in fondo non si poteva essere troppo esigenti nella scelta; il clima vigente rendeva necessaria la conta dei propri amici. Forse da quel punto di vista l’incontro non fu un successo, poiché servì soltanto a mostrare le divisioni interne ai patrioti. Il fisico di Robespierre, giovane, minuto, ben fatto, possedeva un’armoniosa tensione felina nascosta dagli abiti di buon taglio; le sue emozioni, magari quelle che traspaiono in viso, erano state sepolte con le vittime di settembre. Marat, seduto di fronte a lui con un fazzoletto sporco in testa, diede un colpo di tosse. Parlava borbottando, infiammato dalla passione, batteva il pugno lurido sul tavolo, rosso in viso per la frustrazione. «Robespierre, tu non mi capisci».
Robespierre lo guardò con freddezza, la testa appena inclinata di lato. «È possibile».
Dieci ottobre: due mesi dopo il colpo di Stato. Sotto gli occhi di Robespierre il club dei giacobini (dove lui parlava ogni sera) “depurò” le proprie file. Furono espulsi Brissot e i suoi colleghi, eliminati dal corpo del patriottismo come sudici scarti. Ventinove ottobre: la Convenzione, Roland in piedi. I suoi sostenitori lo applaudivano e lo incoraggiavano, ma il vecchio sembrava una marionetta esangue i cui fili erano manovrati dall’abitudine e dal dovere; Robespierre, insinuò, vorrebbe assistere un’altra volta ai massacri di settembre. Sentendo quel nome la Gironda proruppe in grida e proteste.
Robespierre si alzò dal suo posto sulla Montagna. Si avviò verso il podio, la piccola testa volta verso il basso, come a suggerire un atteggiamento bellicoso. Gaudet, il girondino presidente della Convenzione, cercò di fermarlo. La voce di Danton risuonò sopra la baraonda: «Lasciatelo parlare, e quando avrà finito chiederò io la parola. È ora di mettere in chiaro alcune cose».
VERGNIAUD (gliocchipuntatisuDanton): Era quello che temevo... la loro alleanza. La temevo già da un po’.
GAUDET (accanto): Con Danton si può trattare.
VERGNIAUD: Fino a un certo punto.
GAUDET: Fino al punto in cui finiscono i quattrini.
VERGNIAUD: Non è così semplice. Che Dio ti aiuti se non riesci a capirlo.
GAUDET: Sul podio c’è Robespierre.
VERGNIAUD: Non è una novità. (Chiudegliocchi;ilsuovisopallidoeappesantitosidisponeinrughevigili). Quell’uomo non sa parlare.
GAUDET: Non nel modo in cui intendi tu.
VERGNIAUD: Ma non ha la minima attrattiva.
GAUDET: Alla gente piace molto. Il suo stile, intendo.
VERGNIAUD: Ah, sì, la gente. Il popolo.
Robespierre, contrariamente al suo solito, era arrabbiato. Non tollerava gli insulti di Roland in veste di oppositore, di quel rimbambito con una moglie baldracca e i suoi continui, ossessivi brontolii sui conti dell’operato di Danton. E non ne poteva più neppure delle insinuazioni, dei mormorii dietro la mano, delle voci randagie per strada che gridavano settembre e passavano oltre. Anche Danton le aveva sentite; a volte gli si leggeva in viso.
La voce di Robespierre, sopra al borbottio dell’aula, grondava disprezzo: «Nessuno di voi osa muovermi accuse in faccia».
Fece una pausa, un breve silenzio affinché la Gironda potesse contemplare la propria vigliaccheria.
«Io vi accuso».
Si fece avanti Louvet, che cercava freneticamente i fogli del suo robespierricidio nelle tasche dalla redingote. «Ah, il pornografo», disse Filippo Égalité, e la sua voce piovve dalle altezze della Montagna. Ovunque s’alzarono gli sghignazzi. Poi tornò il silenzio.
Robespierre si scostò di lato per lasciargli il podio. In viso aveva un sorriso paziente e riluttante; alzò gli occhi sui deputati parigini, poi s’andò a sedere in linea con lo sguardo di Louvet e attese che l’oratore desse inizio alla sua invettiva.
«Ti accuso di calunniare insistentemente i nostri migliori patrioti. Di aver diffuso le tue calunnie nella prima settimana di settembre, quando le maldicenze erano colpi mortali. Ti accuso di aver umiliato e proscritto i rappresentanti della nazione». Louvet si fermò – i montagnardi urlavano, latravano contro di lui –, era difficile continuare. Robespierre girò la testa, li guardò e il rumore s’attenuò fino a smorzarsi in un altro silenzio.
Louvet riprese; la voce, però, calibrata per parlare all’opposizione, per sostenere uno scontro verbale, aveva il timbro sbagliato, e appena se ne accorse – e si disse: così non va – gli tremò un pochino. Per farsi forza poggiò le mani sul podio, ma i palmi madidi di sudore non trovarono l’appoggio che cercavano.
La testa della preda che voleva catturare era rivolta verso di lui; un fascio di luce la colpiva in pieno, e dietro le lenti scure sembrava che non ci fossero gli occhi. Pareva non avere alcuna espressione. Louvet si lanciò in avanti come se volesse saltare: «Ti accuso di esserti eretto a oggetto di idolatria: di aver permesso alla gente, in tua presenza, di indicarti come l’unico uomo in grado di salvare la nazione e di averlo sostenuto tu stesso. Ti accuso di mirare a diventare il potere supremo».
Che avesse finito di parlare o che semplicemente stesse facendo una pausa, la Montagna aveva ripreso a strillare a volume raddoppiato, Louvet vide Danton scattare in piedi e precipitarsi di sotto come se volesse sistemare la faccenda a pugni; vide gli amici di Danton in piedi, Fabre che lo tratteneva con ostentati gesti teatrali. Scese dalla tribuna degli oratori con le spalle ingobbite, come se lo avesse colpito la tisi; Robespierre rimbalzò in piedi. Tornò sul podio con un atteggiamento che lasciava intendere che non li avrebbe trattenuti: con voce ferma e distaccata chiese tempo per preparare la propria difesa. Danton sarebbe piombato sulla tribuna degli oratori, li avrebbe terrorizzati, avrebbe smontato al momento ogni accusa; non era questo il metodo di Robespierre. Salutò Danton con un cenno del capo che somigliava a un inchino e poi lasciò l’aula; attorno gli si assiepò un capannello di montagnardi, suo fratello Augustin gli afferrò il braccio dicendo che la Gironda lo avrebbe ucciso.
«Brutto momento», fece Legendre. «Chi se lo sarebbe aspettato? Io no».
Danton era pallidissimo. La cicatrice gli risaltava in viso. «Mi stanno mettendo in trappola», disse.
«Tu in trappola, Danton?».
«Sì, io. Se colpiscono Robespierre, colpiscono me, se si battono contro di lui, devono battersi anche contro di me. Ditelo a quella gente. Ditelo a Brissot».
Lo dissero a Vergniaud. «Non sono né Brissot né un brissottino», rispose lui, «o almeno non mi ritengo tale. Questa parola la usano con estrema prodigalità, tuttavia con Danton siamo stati duri. Ci infastidisce il potere che ha nel Ministero, siamo stati sgarbati con i suoi amici e alcuni di noi hanno permesso che le mogli facessero commenti personali. Abbiamo chiesto di vedere i suoi conti, richiesta che naturalmente lo irrita. In poche parole, non ci siamo inchinati davanti a lui. Ciononostante non avrei creduto che covasse del risentimento nei nostri confronti. Che pericolosa ingenuità». Allargò le braccia. «Ma lui e Robespierre in privato non si detestano? La cosa ha importanza, del resto? Eh sì, alla fine l’avrà».
E Louvet: era stato il suo grande momento e lo aveva affrontato sudando freddo per la paura, con il brutto ricordo dei riconoscimenti che gli aveva reso il duca. Dopotutto era soltanto Louvet il romanziere, un peso piuma, trascurabile, la piccola preda per la tigre in fasce. Adesso si chiederanno come mai i suoi amici, tanto accaniti contro Robespierre, glielo abbiano lasciato fare. La Pianura ha visto Robespierre lasciare il podio, sedersi e fare un gesto per chiedere silenzio: non erano mica atteggiamenti da despota. Ma soltanto io, pensò Louvet, saprò che avevo finito prima ancora di cominciare, ai piedi della tribuna; io soltanto ho retto uno sguardo che mi ha rivoltato lo stomaco, sopra il dolce sorriso rassicurante da Giuda.
«Lo consideriamo un figlio nostro», disse Mme Duplay.
«In realtà però», replicò Charlotte Robespierre, «è mio fratello, motivo per cui i diritti che vanto su di lui precedono quelli che voi e le vostre figlie immaginate di vantare».
Mme Duplay – più volte madre – poteva a buona ragione affermare di capire le ragazze. Capiva Victoire e la sua mortale timidezza, Eléonore e la sua serietà, la sua goffaggine, Babette e la sua infantile avvenenza. Capiva anche Charlotte Robespierre, ma non sapeva come prenderla.
Maximilien, appena aveva detto che suo fratello si sarebbe stabilito a Parigi, aveva chiesto consiglio a Mme Duplay su come sistemare la sorella. Lei almeno l’aveva interpretata così. Maxime sembrava in difficoltà a parlare di Charlotte.
«Com’è?». Era sempre stata molto curiosa: Maximilien non parlava mai della sua famiglia. «È silenziosa come te? Cosa mi devo aspettare?».
«Non troppo», aveva risposto lui preoccupato.
Maurice Duplay aveva insistito che la casa era abbastanza grande per tutti. Anzi, c’erano due stanze sgombre, che non erano mai state usate. «Come potremmo permettere a tuo fratello e tua sorella di andare da estranei? No, staremo tutti insieme, come un’unica famiglia», aveva detto.
Il giorno era venuto e si erano presentati al cancello. Augustin aveva dato subito un’impressione positiva: è un ragazzo cordiale e gradevole che, come è logico, non vede l’ora di incontrare il fratello, aveva pensato Madame. Davanti al donnino flessuoso e dal visino dolce che doveva essere la sorella, aveva spalancato le braccia. Lo sguardo freddo di Charlotte l’aveva trafitta con un micidiale atto di parità. Le braccia le erano ricadute sui fianchi.
«Forse ci ritiriamo subito in camera», aveva detto Charlotte, «siamo stanchi».
Alla donna più anziana ardevano le guance mentre faceva strada. Né altezzosa né esigente, era ancora abituata alla deferenza: da parte delle figlie, da parte dei lavoranti del marito. Charlotte invece le si era rivolta con il tono che si usa con l’ultima delle serve.
Sulla soglia della camera, Mme Duplay si era voltata. «È molto semplice, come del resto tutta la nostra casa».
«Lo vedo».
Il pavimento era lucido, le tende nuove, quel tesoro di Babette aveva sistemato un vaso di fiori. Mme Duplay si era tirata di lato per cederle il passo. «Qualsiasi cosa possiamo fare perché stiate più comoda, vi prego di avvertirmi».
Per farmi stare più comoda, diceva il viso di Charlotte, potreste cadere morta stecchita.
Maurice Duplay riempì la pipa e si concentrò sull’aroma del tabacco. Non fumava mai se il cittadino Robespierre era in casa o doveva tornare da lì a poco, per rispetto dei suoi patriottici polmoni. Invece Augustin non ci badava.
«Certo», disse infine Duplay, «non dovrei criticare Charlotte, è vostra sorella».
«Fate pure», ribatté Augustin. «Immagino che toccherà a me spiegarvi chi è, Maxime non lo farà mai. È troppo buono, cerca sempre di non pensare male delle persone».
«Sul serio?». Duplay, un po’ sorpreso, attribuì quelle parole a un’autentica cecità fraterna. Il cittadino Robespierre era aperto, giusto, equanime, ma caritatevole proprio no. Non era quello il suo punto di forza.
«Io non ricordo assolutamente mia madre», continuò Augustin. «Maxime sì, ma non vuole mai parlarne».
«Vostra madre è morta? Non lo sapevo».
Augustin era allibito. «Come, non vi ha mai parlato della nostra famiglia?». Scosse la testa. «Che strano».
«Avevamo pensato a una lite, una lite seria, capite bene, ma non volevamo essere invadenti».
«È morta che io ero appena nato. Nostro padre se n’è andato, non sappiamo neppure se sia vivo o morto. Chissà se adesso... sempre che sia vivo... chissà se ha sentito parlare di Maxime».
«Credo di sì, se vive nel mondo civilizzato e sa leggere».
«Certo che sa leggere». La mente di Augustin prendeva tutto alla lettera. «Chissà cosa pensa. Noi siamo stati cresciuti dal nonno, le ragazze sono andate a stare dalle zie. Poi siamo venuti a Parigi, ma Charlotte no, non ha potuto. Dopo è morta Henriette, eh sì, avevamo anche un’altra sorella, con cui Maxime andava molto d’accordo. E secondo me Charlotte era un po’ gelosa. Ha cominciato a occuparsi di noi e delle faccende di casa che era una bambina. Sembra più grande, ma non ha neanche trent’anni. Potrebbe ancora prendere marito».
Duplay fece una tirata alla pipa. «E perché non ci prova?».
«C’è una persona che l’ha delusa. Dovreste conoscerla. Tra l’altro abita qui, un po’ più giù, il deputato Fouché. Avete capito chi è? Quello senza ciglia e con la faccia che sembra verde».
«È stata una grossa delusione?».
«Non credo che le piacesse granché, ma ha voluto convincersi che... Be’, non devo dirvelo io, ci sono persone che nascono con un brutto carattere e per giustificarsi si nascondono dietro i rovesci della vita. Io sono stato fidanzato tre volte, sapete? Quando si arrivava al dunque non accettavano di avere per cognata Charlotte. Badare a noi è tutto per lei, non vuole nessun’altra fra i piedi».
«Mmm. Credete che sia per questo che vostro fratello non si è ancora sposato?».
«Non so. Di occasioni ne ha avute tante, alle donne piace. Ma in fondo... potrebbe non essere un tipo da matrimonio».
«Non andate a dirlo in giro per la città», gli consigliò Duplay, «non una cosa del genere».
«Forse ha paura che le famiglie finiscano quasi sempre come la nostra, non esteriormente, ma in senso più profondo. Le famiglie come la nostra dovrebbero vietarle per legge».
«Non dovremmo stare ad arrovellarci il cervello su ciò che pensa, tanto se volesse ce lo direbbe lui. Molti bambini perdono i genitori. Speriamo che ora voi ci consideriate la vostra famiglia».
«Sì, molti bambini perdono i genitori, ma noi non sappiamo se nostro padre lo abbiamo perso. È molto strano pensare che magari potrebbe vivere da qualche parte, anche qui a Parigi, e leggere di Maxime sui giornali. E se un giorno si presentasse? Perché no, potrebbe venire alla Convenzione, sedersi nella galleria a guardarci... Se lo incontrassi per strada non lo riconoscerei. Da bambino speravo che tornasse... però ne avevo anche un po’ paura, chissà cosa sarebbe successo. Il nonno, quando era di cattivo umore, parlava molto di lui, diceva: “Vedrete che vostro padre morirà alcolizzato”, frasi del genere. E gli altri ci tenevano sempre d’occhio per vedere se gli somigliavamo. Ad Arras, quelli a cui non va giù che Maxime sia arrivato tanto in alto dicono: “Il padre era un alcolizzato e un donnaiolo e la madre era una poco di buono”. In realtà usano termini peggiori».
«Augustin, dovete lasciarvi tutto alle spalle, adesso siete a Parigi e potete cominciare una nuova vita. Spero che vostro fratello sposi la mia figlia più grande e le dia dei figli». Augustin non ne era convinto ma stette zitto. «E per il momento può contare su dei buoni amici».
«Non sono qui da molto, è vero, ma ho l’impressione che abbia soprattutto dei colleghi. Ha un gran seguito di ammiratori, questo sì, ma non l’appoggio di un gruppo di amici come Danton».
«Be’, sono due persone molto diverse, però Maxime ha i Desmoulins: il loro bambino è il suo figlioccio».
«Sempre che sia di Camille. Ecco, vedete... mi dispiace per mio fratello. Niente di quello che ha è davvero quello che sembra».
«Ho il senso del dovere, cosa che non ritengo sia molto frequente», disse Charlotte.
«Questo lo so». Il fratello maggiore, finché era possibile, le si rivolgeva sempre con gentilezza. «Cosa faccio che secondo te non dovrei?».
«Vivere qua».
«Perché?». Una buona ragione per non farlo la conosceva; con ogni probabilità, pensò Maximilien, la conosceva anche lei.
«Tu sei un uomo importante, un grande uomo, dovresti comportarti come se ti fosse ben chiaro. Le apparenze contano, contano eccome. Danton fa bene, si mette in mostra e la gente è pazza di lui. Non sono qui da molto ma fin lì ci sono arrivata anch’io. Danton...».
«Charlotte, Danton spende troppo denaro che nessuno sa con precisione da dove tiri fuori». Il tono di voce suggeriva che la sorella avrebbe dovuto cambiare argomento.
«Danton ha un suo stile», insistette lei. «Raccontano che, quando si riunisce il gabinetto alle Tuileries, non si faccia scrupoli a sedersi sullo scranno del re».
«E senz’altro gli sta appena di misura», ribatté secco Robespierre. «E se mai esistesse uno scrittoio del re, Danton ci metterebbe i piedi sopra. Certe persone, Charlotte, sono così di temperamento, ma si fanno anche dei nemici».
«Da quando in qua ti preoccupi di farti dei nemici? Non ricordo che te ne sia mai fregato un accidente. Pensi che la gente abbia più stima di te perché vivi in una soffitta?».
«Non so perché tu la dipinga molto peggio di quello che è. Ho tutte le comodità, non mi manca niente».
«Staresti molto meglio se ci fossi io a occuparmi di te».
«Charlotte, tesoro, tu ti sei sempre occupata di noi. Non vorresti riposarti un poco?».
«Nella casa di un’altra donna?».
«Tutte le case appartengono a qualcuno e di solito una donna c’è sempre».
«Ma in un bell’appartamento tutto nostro avremmo maggiore intimità».
Questo risolverebbe qualche problema, pensò lui. Mentre lo guardava, Charlotte si rabbuiò in viso, in attesa di essere contraddetta. Maximilien però fu d’accordo. «E c’è un’altra cosa», disse lei.
Il fratello cambiò atteggiamento. «Sarebbe?».
«Le ragazze. Maximilien, ho visto Augustin rovinarsi con le donne».
Allora sapeva. Ma sapeva davvero? «Rovinarsi in che senso?».
«Be’, sarebbe successo se non fosse stato per me. E quella vecchia strega non ha altro scopo nella vita che infilarti le sue figlie nel letto. Se ci sia riuscita è cosa che lascio alla tua coscienza. Quello scricciolo orrendo di Élisabeth guarda gli uomini come se... non trovo le parole. Se si mette in un guaio, io non darei la colpa all’uomo».
«Charlotte, ma di cosa parli? Babette è una bambina. Non ho mai sentito pronunciare una sola parola contro di lei».
«Ora l’hai sentita. Allora che si fa? Cerco un appartamento per noi?».
«No, lasciamo le cose come stanno. Non sopporto di vivere con te. Sei sempre la solita vipera». E la solita squilibrata, pensò.
Cinque novembre: è tutta la notte che la gente si mette in fila per trovare posto nelle gallerie del pubblico. Se spera di scorgere sul viso di Robespierre qualche segno di smarrimento resterà delusa. Lui ormai è abituato a quelle strade e a quelle calunnie. Arras sembra vent’anni fa; non lo avevano preso di mira anche agli Stati Generali? È per via del suo temperamento, pensa.
Robespierre è attento a negare ogni responsabilità per gli avvenimenti di settembre ma, da notare, non condanna lo spargimento di sangue. Evita anche parole di sangue contro Roland e Buzot, risparmiandoli, come se non meritassero la sua attenzione. Sostiene che quanto accaduto il 10 agosto è stato illegale, ma la presa della Bastiglia lo è stata altrettanto. Come dobbiamo considerare questi atti in ambito rivoluzionario? È nella natura delle rivoluzioni infrangere le leggi. Noi non siamo giudici di pace, siamo i legislatori del nuovo mondo.
«Mmm», fa Camille dalla cima della Montagna. «Questa non è una posizione etica, è una scusa».
Parla piano, quasi fra sé e sé, e lo sorprende la violenza con cui all’improvviso gli si scagliano contro i colleghi. «Robespierre è un politico», dice Danton, «un pragmatico, a che cazzo gli serve una posizione etica!».
«Non mi piace la distinzione fra reati comuni e reati politici. I nostri avversari potrebbero usarla per sopprimerci, come del resto potremmo usarla noi nei loro confronti. Non vedo a cosa serva. Ammettiamolo, i reati sono tutti uguali».
«No», fece Saint-Just. «E parli proprio tu, procuratore della Lanterna».
«Però quand’ero il procuratore della Lanterna dicevo: vada per la violenza, ora tocca a noi. Non ho mai trovato scuse sostenendo di essere un legislatore del nuovo mondo».
«Robespierre non cerca scuse», ribatté Saint-Just. «La necessità non va né scusata né giustificata».
Camille s’inalberò. «E dove l’hai letta questa, imbecille? Le tue opinioni politiche sono come le favole edificanti che si raccontano ai bambini, hanno tutte una chiusa morale. Che significa quello che hai detto? Non lo sai. E perché lo hai detto? Pur di aprire bocca».
Osservò una vampata di rabbia arrossare la carnagione pallida di Saint-Just. «Da che parte stai?», gli sibilò Fabre in un orecchio.
Fermati, si disse Camille, ti stai inimicando tutti. «Da che parte sto? Lo diciamo a proposito dei brissottini che l’interesse della fazione ottenebra loro la mente. Non è così?».
«Santo cielo, sei proprio d’intralcio», scattò Saint-Just. Camille s’alzò in piedi, spaventato dalle proprie affermazioni più che da quelle degli altri, e pensò che, nel giro di pochi minuti, poteva ritrovarsi fra i rami scuri e le facce indifferenti del giardino delle Tuileries. Fu Orléans ad allungare un braccio per trattenerlo con un sorriso vagamente mondano stampato sul viso. «Dovete andare proprio ora?», chiese come se fosse una festa finita in anticipo. «Non potete uscire dall’aula a metà discorso di Robespierre».
Con un gesto in contraddizione con il tono, lo tirò accanto a sé sulla panca. «Sedete in silenzio», disse. «Se andate via adesso, gli altri chissà come lo interpreteranno».
«Saint-Just mi detesta», disse Camille.
«Non è certo un giovanotto molto cordiale, ma non dovreste sentirvi preso di mira. Ho l’impressione che sulla lista ci sia il mio nome».
«Sulla lista?».
«Dovrebbe averne una, mi sembra il tipo».
«Come Laclos», disse Camille. «Santo cielo, certe volte vorrei tanto tornare al 1789. Mi manca Laclos».
«Anche a me. Anche a me».
Hérault de Séchelles sedeva sullo scranno del presidente. Alzando gli occhi sui colleghi montagnardi inarcò un sopracciglio, come a chiedere spiegazioni. Sembrava che lassù stessero tenendo una sessione parlamentare separata; ora Camille discuteva animatamente con Égalité. Robespierre, giunto alla perorazione, aveva lasciato gli avversari con le spalle al muro e senza parole. Camille avrebbe perduto la parte finale del discorso, non sarebbe stato presente per l’applauso. Era diretto alla porta: il duca doveva averlo lasciato andare. Hérault lo ricordò anni addietro, molto prima che si conoscessero, mentre usciva di corsa dall’aula di un tribunale col mento sollevato e l’espressione a metà fra il disprezzo e l’esultanza. Era l’inverno del 1792 e Camille era ancora di corsa: l’espressione, questa volta, era a metà fra il disprezzo e la paura.
Annette non era in casa; cercò di battere in ritirata, ma Claude aveva riconosciuto la sua voce. «Camille? Che aria alterata. No, non cercare di scappare, devo parlarti».
Anche lui aveva l’aria alterata, ma per un’ansietà discreta, ufficiosa. Nella stanza erano sparsi dei giornali girondini. «Ma insomma», fece Claude, «a cosa si è ridotta la vita pubblica di questi tempi! Che bassezza! Danton doveva proprio rilasciare queste dichiarazioni? Il deputato Philippeaux chiede alla Convenzione di invitare Danton a restare al Ministero – sensato. Danton rifiuta – sensato. Poi però aggiunge che se la Convenzione vuole che Roland mantenga il suo incarico farebbe bene a chiederlo prima alla moglie. Che commento tagliente e personale da fare di fronte a tanta gente, e naturalmente anche gli altri, a loro volta, attaccano sul piano personale. Ora parlano di Lucile e Danton».
«Niente di nuovo».
«Perché permetti che dicano queste cose? Sono vere?».
«Pensavo che, dopo lo scandalo di Annette con l’abate Terray, fossi immune ai giornali».
«Quella era una montatura senza capo né coda, questa è roba in cui la gente crede. Possibile che ti vada bene quel che implica nei tuoi confronti?».
«Cosa implica?».
«Che Danton fa quel che gli pare e tu non riesci a tenergli testa».
«Non ci riesco, no», borbottò Camille.
«Oltre a Danton citano altri uomini. Non voglio che parlino così di Lucile. Dovresti farle capire...».
«Le piace avere una fama che peraltro non merita».
«Perché? Se questo è vero, perché dà adito a tali dicerie? Secondo me tu la trascuri».
«Non è così. Anzi, ce la spassiamo parecchio. Claude, però ti prego di non alzare la voce, ho avuto una pessima giornata. Durante il discorso di Robespierre...».
Dalla porta sporse una testa; di quei tempi la servitù badava poco alla forma. «Monsieur, c’è il cittadino Robespierre».
Robespierre non si era presentato spesso dopo il farsesco fidanzamento con Adèle, però era il benvenuto; di lui Monsieur conservava una buona opinione e s’affrettò ad andargli incontro. Il servitore, dopo aver fatto un gran pasticcio con i titoli da rivolgere all’uno e all’altro, si defilò sbattendo la porta. «Robespierre», disse Claude, «che piacere vedervi. Ci aiutereste a ristabilire un canale di comunicazione?».
«Mio suocero è in preda all’orrore dello scandalo».
«Secondo me tu sei preda di un demone», ribatté schietto Claude.
«Vediamo un po’», fece Robespierre. Inaspettatamente era di ottimo umore, tanto da dover quasi sopprimere una risatina. «Si tratta di Asmodeo?».
«Asmodeo era un serafino, prima di trasformarsi in demone», disse Camille.
«Anche tu, se è per questo. Adesso veniamo a noi: come mai te ne sei andato mentre parlavo?».
«Niente. Credo di aver frainteso una tua frase, ho fatto un appunto e mi sono saltati tutti addosso».
«Sì, lo so, e ne sono molto dispiaciuti».
«Saint-Just no».
«Be’, Saint-Just ha opinioni molto rigide, non permette tentennamenti».
«Non permette? Dio, non ho bisogno del suo permesso. Ha detto che sono d’intralcio. Che diritto ha uno di arrivare in una rivoluzione a cose fatte e dare dell’intralcio a un altro?».
«Camille, non urlare. Immagino che avesse il diritto di esprimere la sua opinione».
«E io no?».
«Nessuno te l’ha tolto, ti hanno soltanto dato una strapazzata per averlo esercitato. Camille ha una sensibilità morbosa», commentò tutto allegro Robespierre rivolto a Duplessis.
«Mi augurerei che fosse più sensibile ad altre faccende», disse Claude, accennando con la testa ai giornali. Robespierre sembrava confuso. Si tolse gli occhiali; aveva gli occhi arrossati. Claude si sorprese della sua pazienza, del suo equilibrio e di come trovasse il tempo per questioni simili.
«Cercate naturalmente di stroncare questi pettegolezzi», disse Robespierre. «O forse non proprio di stroncarli, altrimenti la gente penserebbe a un fondo di verità. Dobbiamo comportarci tutti con molta prudenza».
«Per non attirare l’attenzione sui nostri peccati», chiosò Camille.
E Robespierre, rivolto a Claude: «Devo portarmi via Camille. Non fatevi guastare la tranquillità d’animo dai giornali».
«Credete che me ne sia rimasta molta?». S’alzò per accompagnarli alla porta. «Sabato e domenica verrai a Bourg-la-Reine?».
«Bourg-la-République», lo corresse Camille. «I bravi patrioti non conoscono sabati e domeniche».
«Se vuoi prenditi liberi gli ultimi giorni della settimana», fece Robespierre.
«Sarebbe bello se ci raggiungeste», gli disse Claude, «ma non mi illudo che lo farete».
«Sono molto occupato. La faccenda di Louvet è stata una perdita di tempo».
E non ti lascerebbero venire senza Eléonore, pensò Camille, e Maman come chaperon di Eléonore, e Charlotte come chaperon di Maman, e Babette che strillerebbe come un’aquila se si vedesse negato questo piacere, e Victoire che a quel punto non sarebbe giusto lasciare a casa. «Io devo venire?», chiese al suocero.
«Sì, Lucile ha bisogno di un po’ d’aria fresca e tu di una tregua dai conflitti».
«E tu me la concedi?».
Claude evocò lo spettro di un sorriso.
«Adesso che facciamo?», chiese Camille.
«Quattro passi per vedere se qualcuno ci riconosce. Sai una cosa, secondo me tuo suocero ti si è quasi affezionato».
«Lo pensi davvero?».
«Si sta abituando a te. Alla sua età fa piacere potersi lamentare un po’. Tuttavia penso...».
«Come mai vuoi sapere se la gente ti riconosce?».
«È un’idea che mi è venuta. Ho scoperto che si dice che sono vanesio. Secondo te è vero?».
«No, non avrei usato questa parola».
«A me sembra di essere una persona oscura».
«Oscura?». Questo è il preludio di una disastrosa crisi di diffidenza, pensò Camille; Robespierre non si era mai riconciliato con la fama, e la sua riservatezza, se non veniva soddisfatta, poteva prendere un risvolto feroce. «Scusami per aver disturbato la tua concentrazione mentre parlavi».
«Non è niente. Louvet è stato stroncato. Adesso ci penseranno due volte prima di attaccarmi ancora. «Ho la Convenzione in...», e chiuse la mano a coppa, «...che bellezza».
«Maxime, sembri molto stanco».
«Se ci penso lo sono. Non farci caso, però. Un risultato è stato ottenuto. Tu, piuttosto, hai un’ottima cera. Come se avessi ancora una gran voglia di rivoluzione».
«Dev’essere la vita debosciata che i brissottini sostengono che io conduca. Mi si presta bene».
Un uomo rallentò il passo per guardarli in faccia. Aggrottò la fronte. «Non sono sicuro», fece Camille. «Vuoi che la gente ti riconosca?».
«No, però volevo scambiare due parole in pace. Non esiste un posto dove stare senza essere spiati».
L’effervescenza stava svanendo; spesso Robespierre aveva il viso emaciato, le labbra ridotte a una linea sottile, preoccupata.
«Ma davvero pensi che gli altri ascoltino sempre le tue conversazioni?».
«Lo so per certo». (Se vivessi con mia sorella Charlotte non ne dubiteresti, pensò Robespierre). «Camille, esigo che tu prenda seriamente i giornali brissottini. Sappiamo che sono spinti dalla cattiveria, ma con te non devono neppure inventare. Non fa una bella impressione che il marito della cittadina Danton, soprattutto mentre lei è indisposta, stia pochissimo a casa e che tu e lui andiate in giro per la città con altre donne».
«Maxime, io passo quasi tutte le sere al comitato di corrispondenza dei giacobini, e Gabrielle non è indisposta, aspetta un bambino».
«Sì, ma all’inizio della settimana, quando le ho parlato, mi era parso che lo fosse. E lei e Georges non si vedono mai insieme, non accettano mai inviti».
«Litigano».
«A che proposito?».
«Politica».
«Lei non mi pare proprio una donna di quel tipo».
«Non sono discussioni teoriche, ma sul modo in cui viviamo ora».
«Camille, non voglio farti la paternale...».
«Sì, invece».
«Benissimo, e allora sia. Smettila di giocare d’azzardo e cerca di far smettere anche Danton. Passa più tempo a casa. Convinci tua moglie a comportarsi in modo rispettabile. Se devi avere per forza un’amante, sceglitene una che non dia nell’occhio e sistema le cose a dovere».
«Ma io non voglio un’amante».
«Tanto meglio. Il tuo modo di vivere è in un certo senso un’onta ai nostri ideali».
«Un momento, calma. Sono ideali che io non ho mai scelto di abbracciare».
«Ascolta...».
«No, ascolta tu, Maxime. Sin da quando ci conosciamo non fai che tenermi lontano dai guai, ma finora sei stato tanto intelligente da non impiegare con me la prosopopea di cui sei capace. Qualche mese fa non avresti parlato di “onta ai nostri ideali”, ti saresti girato dall’altra parte. Sei molto bravo a ignorare quello che non ti sta bene. Adesso però ne fai un problema. O meglio, so io chi lo fa: Saint-Just».
«Che ti sei messo in testa su di lui?».
«Devo combatterlo adesso che la cosa può essermi ancora di qualche utilità. Mi ha detto che sono d’intralcio, perciò deduco che voglia sbarazzarsi di me».
«Sbarazzarsi?».
«Sì, sbarazzarsi di me, neutralizzarmi, rispedirmi a Guise, buon Dio, dove non gli possa più straziare il cuore il violento sdegno che lo assale di fronte alla mia stupida balbuzie».
Si fermarono a guardarsi in faccia. «Posso fare ben poco a proposito dei vostri dissapori personali. Mi sbaglio?».
«Soltanto non schierarti dalla sua parte».
«Io non voglio schierarmi, non ne ho bisogno. Ho grande stima di entrambi, personale, politica... ma non siamo in un brutto quartiere?».
«Sì. Dove stiamo andando?».
«Vuoi venire a trovare mia sorella?».
«A casa c’è Eléonore?».
«Sarà a lezione di disegno. Lo so che non le piaci».
«La sposerai?».
«Non ne ho idea. E poi come faccio? È gelosa dei miei amici, delle mie occupazioni».
«Non sarai obbligato però?».
«Alla fine forse sì».
«Anche... no, niente, non importa».
Molto spesso Camille era stato lì lì per raccontargli cos’era accaduto con Babette la mattina in cui era nato suo figlio. Maxime però le era talmente affezionato, ed era così a suo agio con lei, che sarebbe stata una crudeltà stanare la fiducia dal luogo in cui era riposta. E non essere creduto sarebbe stato peggio; e poteva accadere. Come fare inoltre a riferire con esattezza le parole e i gesti per sottoporli al giudizio altrui senza filtrarli attraverso la propria interpretazione? Era impossibile. Perciò a casa dei Duplay fu gentilissimo con tutti – tranne Eléonore – e molto attento; e nonostante questo quell’episodio continuava a tormentarlo. Una volta aveva cominciato a raccontarlo a Danton, ma poi aveva cambiato discorso; gli avrebbe sicuramente detto che se lo era inventato e lo avrebbe preso in giro per la sua vita immaginaria.
Intanto continuava a scorrergli accanto la voce di Robespierre: «...a volte penso che il vero desiderio dovrebbe essere non quello di assurgere a eroi ma di veder svanire la personalità individuale... una sorta di obliterazione dalla storia. L’intero passato della razza umana è stato falsificato, reinventato a proprio piacimento dai cattivi governi, dai re e dai tiranni perché desse loro lustro. Quest’idea della storia fatta dai grandi uomini, se la si osserva dal punto di vista del popolo, è del tutto insensata. I veri eroi sono coloro che resistono ai tiranni, ed è insito nella natura della tirannia non soltanto uccidere coloro che vi si oppongono, ma anche cancellarne i nomi, eliminarli completamente, affinché resistere appaia impossibile».
Un passante, dapprima incerto, rimase a fissarli. «Scusatemi...», disse. «Buon cittadino... siete Robespierre?».
Robespierre non lo guardò. «Capisci cosa voglio dire a proposito degli eroi? Per loro non c’è posto. Resistere ai tiranni significa essere cancellati. Io quell’oblio lo abbraccio. Il mio nome svanirà dalla pagina».
«Buon cittadino, perdonatemi», insistette il patriota.
Gli occhi di Robespierre si fermarono per un attimo su quell’uomo. «Sì, sono Robespierre», disse. Mise la mano sul braccio del cittadino Desmoulins. «Camille, la storia è un romanzo».
ROBESPIERRE: ...tu non puoi capire come stavano le cose allora. I primi due anni di liceo non ero del tutto infelice, in qualche senso me la passavo bene, ma ero tagliato fuori dagli altri, isolato nella mia cella. E poi è arrivato Camille. Pensi che mi stia facendo prendere dal sentimentalismo?
SAINT-JUST: Sì, alquanto.
ROBESPIERRE: Non capisci com’era allora.
SAINT-JUST: Perché tanto assillo per il passato? Perché non guardi al futuro?
ROBESPIERRE: Molti di noi vorrebbero dimenticare il passato, ma è impossibile, è impossibile scacciarlo del tutto. Tu sei più giovane di me, è naturale che pensi al futuro. Non hai un passato.
SAINT-JUST: Un po’ sì.
ROBESPIERRE: Prima della rivoluzione eri uno studente che si preparava ad affrontare la vita. Non hai mai avuto altra occupazione, sei un rivoluzionario professionista. Rappresenti una generazione totalmente nuova.
SAINT-JUST: Ci avevo già riflettuto.
ROBESPIERRE: Se riuscissi a spiegarmi... Quando è arrivato Camille... Io a volte faccio fatica ad andare d’accordo con gli altri, la gente non mi si affeziona facilmente, e non capivo perché lui mi stesse dietro, anche se ne ero contento. Camille attirava gli altri come una calamita, proprio come adesso. Aveva dieci anni e possedeva quella sorta di... radiosità nera.
SAINT-JUST: Hai una fervida immaginazione.
ROBESPIERRE: La sua presenza mi ha semplificato un po’ la vita. Camille si lamenta sempre che la sua famiglia non gli vuole bene, ma è una cosa che io non ho mai capito. E non ho mai capito che importanza abbia, visto che gli altri lo amano molto.
SAINT-JUST: Insomma tu sostieni che, siccome in passato vi siete frequentati, qualsiasi cosa lui faccia vada bene?
ROBESPIERRE: Ma no. Sostengo che è una persona molto complicata e che qualsiasi cosa combini, il fatto che noi due siamo molto legati permane. Camille è intelligente, lo sai. Ed è anche un buon giornalista.
SAINT-JUST: Ho dei dubbi su quanto valgano i giornalisti.
ROBESPIERRE: Non ti piace proprio, vero?