III
Il visibile esercizio del potere
(1792-1793)
Danton pensò: gli ambasciatori sono una vera seccatura. Ogni giorno trascorreva una parte della giornata a fissare muto le cartine rivoltandosi nella mente l’Europa, la Turchia, la Svezia, l’Inghilterra, Venezia... L’Inghilterra tienila fuori da questa guerra. Prega, implora per la neutralità. La flotta inglese tienila alla larga... e in ogni caso, poiché gli agenti inglesi sono ovunque, parla di sabotaggio e documenti falsi... Sì, certo che Robespierre ha ragione, l’Inghilterra è fondamentalmente una nazione nemica. Ma se ci infiliamo in una guerra del genere, riusciremo a uscirne durante l’arco naturale delle nostre vite? Non che ci aspettiamo di compierlo, pensa risentito.
Da quando ha lasciato l’incarico, alcune di queste faccende non sono più di sua diretta competenza, ma le cose che lo tengono impegnato sono sempre molte: le difficoltà del processo al re, la stupidità e le divisioni create dai brissottini. Nonostante il robespierricidio, s’aggrappa ancora a una mezza speranza che gli amici di Brissot siano animati da buone intenzioni. Non desiderava essere tirato nella mischia, ma gli hanno precluso qualsiasi altra strada.
Presto, probabilmente entro l’anno, spera di andarsene da Parigi. Magari s’inganna, ma vorrebbe lasciare tutto in mano agli altri. Scacciati i prussiani, si è assicurato quelle case e quelle fattorie. Per quanto riguarda i bambini, Antoine cresce robusto e François-Georges è un marmocchio grassottello e sereno, che non corre assolutamente il rischio di morire. E poi c’è un altro pargolo in arrivo. Ad Arcis, Gabrielle comincerà a capire chi è veramente lui. Qualunque cosa abbia fatto, qualunque divergenza di opinioni ci sia fra loro, sente di esserle devoto. In campagna torneranno a essere persone normali.
Ogni volta che beve troppo immagina questo futuro fatto di semplicità. È un peccato che con lui ci sia spesso Camille a strapparlo da questi sogni, lasciandolo con le lacrime agli occhi o a inveire contro la trappola del potere in cui gli pare di essere caduto. Se poi in altri momenti speri meno in questo futuro... Una cosa non gli è chiara, per quale motivo insegua Lucile, considerate le complicazioni che comporta. Eppure continua...
«Non mi piacciono i palazzi sontuosi, sono contenta di essere a casa». Così dice Gabrielle, e le sue parole sembrano interpretare un sentimento generale. Camille è contento di salutare il personale dell’ufficio e il personale dell’ufficio è contento di salutare lui. Come dice Danton, non ci mancheranno certamente altre faccende di cui preoccuparci. Chi non condivide del tutto quel sentimento è Lucile. Le piaceva scendere gli scaloni d’onore; le piaceva il visibile esercizio del potere.
Almeno però ora è dispensata dalla compagnia di Gabrielle e di Louise Robert. Nelle ultime settimane Louise ha esercitato la sua immaginazione di romanziera sul loro ménage – e ne hanno d’immaginazione, i romanzieri! «Osserva l’espressione di piacere e d’interesse che ha Camille quando Danton si degna di mettere le mani addosso a sua moglie in sua presenza!», diceva. «Perché voi tre non mettete su casa insieme, dopo essere andati via di qui? Siete già sulla buona strada».
«E io», s’intromise Fabre, «posso venire per la colazione?».
«Sono stanca di questo dramma che recitate», continuò Louise, «un uomo si innamora della moglie del suo migliore amico, oh che tragedia e via dicendo, oh com’è terribile la condizione umana. Tragedia? Ma se fate fatica a restare seri».
Era vero; facevano tutti fatica a restare seri, compreso Danton. Per fortuna Gabrielle non c’era durante lo sproloquio della talentuosa romanziera. Gabrielle in passato è stata buona con Lucile, ma adesso è sempre, costantemente di cattivo umore. È ingrassata molto con l’ultima gravidanza, si muove a fatica, dice che le manca il respiro, che la città la soffoca. Per fortuna i suoi genitori hanno appena venduto la casa a Fontenay e si sono trasferiti a Sèvres, dove hanno comprato due proprietà immerse nel verde. In una ci vivono loro e nell’altra vivranno la figlia e il genero quando lo decideranno. I Charpentier non sono mai stati poveri, ma è molto probabile che i quattrini li abbia tirati fuori Georges-Jacques, il quale preferisce che non si sappia di quanta liquidità dispone.
Dunque, pensa Lucile, Gabrielle ha la possibilità di evadere; ma nell’appartamento di rue des Cordeliers se ne sta seduta silenziosa e immobile nelle consuete pose della donna incinta. A volte piange, e quell’ochetta di Louise Gély trotterella giù per le scale per andare a versare qualche lacrimuccia con lei. Gabrielle piange per il suo matrimonio, per la sua anima e per il re; Louise, immagina lei, per una bambola rotta o un gattino travolto per strada. È una cosa che non sopporto, pensa. Meglio la compagnia degli uomini.
Fréron è tornato a casa sano e salvo dalla sua missione a Metz. Da quel che scrive sui giornali non pensereste mai che un tempo è stato un gentiluomo. Lapin scriveva bene – il mestiere lo aveva nel sangue –, ma le sue opinioni diventavano sempre più violente, quasi si trattasse di una gara da vincere a tutti i costi: certe volte era impossibile distinguere i suoi scritti da quelli di Marat. Malgrado tanta ferocia, l’altro ammiratore di Lucile non lo considerava un avversario di cui avere paura. Eppure una volta lei aveva chiesto a Fréron, in tono serio: «Ci sarai sempre quando avrò bisogno di te?». Lui aveva risposto che ci sarebbe stato fino alla fine dei tempi, una cosa simile. Il problema – che si riproponeva con cadenza settimanale – era la posizione di vecchio amico di famiglia di cui godeva: il sabato e la domenica poteva fare un giro in campagna a Bourg-la-République. Ovunque lei andasse, lui la seguiva cercando di sorprenderla da sola. Povero Lapin. Non ha speranze.
Era difficile a volte ricordare che esistevano una Mme Fréron e una Mme Hérault de Séchelles.
Hérault si presentava di sera, mentre i giacobini erano in seduta. Noiosi, li definiva, terribilmente noiosi. In realtà la politica lo affascinava, ma non immaginando che affascinasse anche lei, provava a mettersi sul suo piano. «Parlano di controllare il mercato», diceva, «e di come tranquillizzare quegli assurdi agitatori sanculotti che son sempre lì a piagnucolare per il prezzo del pane e delle candele. Hébert non sa se metterli alla berlina o appoggiarli».
«Hébert sta facendo molta strada», gli rammentava lei con dolcezza, e lui: «Sì, alla Comune Hébert e Chaumette sono molto forti...», ma poi s’interrompeva per la sensazione di apparire sciocco e di essere stato distolto dal suo proposito ancora una volta.
Hérault era amico di Danton, sedeva fra i banchi della Montagna ma non riusciva a rimediare ad alcuno dei suoi modi aristocratici. «Non è soltanto come parli e come ti comporti, profondamente aristocratico è tutto il tuo pensiero», gli diceva lei.
«No, per niente. È molto moderno, molto repubblicano».
«Prendi il tuo atteggiamento nei miei confronti. Non riesci a toglierti dalla testa l’idea che prima della rivoluzione, se mi avessi rivolto anche solo uno sguardo, mi sarei sdraiata a terra in un atto di simulata adorazione. E se non lo avessi fatto di mia spontanea volontà, sarei stata incoraggiata dalla mia famiglia. E forse in questo caso non ci sarebbe stata simulazione. Questa era la mentalità delle donne a quei tempi».
«Se ciò che dici è vero, ed è ovvio che lo sia, come si riflette sulla nostra situazione attuale?». (Le donne non cambiano, pensa lui). «Non sto tentando di esercitare alcuna prerogativa su di te. Il mio unico desiderio è vedere che ti godi la vita».
Lei congiunse le mani sul cuore. «Quanto altruismo!».
«Cara Lucile, la cosa peggiore di tuo marito è stata fare di te una donna sarcastica».
«Lo sono sempre stata».
«Stento a crederlo davvero, Camille è un manipolatore».
«Anch’io, se è per questo».
«Lui cerca sempre di convincere gli altri di essere innocuo, in modo che la pugnalata che ti rifila alla schiena ti colga ancora più di sorpresa. Saint-Just, che non ammiro in maniera incondizionata...».
«Oh, cambia argomento, Saint-Just mi è antipatico».
«Perché mai, mi chiedo?».
«Non mi piacciono le sue idee politiche e lui mi terrorizza».
«Ma sono le stesse idee di Robespierre, e cioè quelle di tuo marito e di Danton».
«Staremo a vedere. Lo scopo principale di Saint-Just sembra quello di migliorare l’essere umano secondo un certo piano che lui ha in mente ma che – devo dire – ha difficoltà a spiegare a tutti noi. Andiamo, l’intento di migliorare l’essere umano è un’accusa che non si può muovere a Camille e a Georges-Jacques. Anzi, loro semmai cercano spesso di fare il contrario».
Hérault aveva l’aria pensierosa. «Non sei stupida, Lucile, per nulla».
«Lo sono stata, ma l’intelligenza è contagiosa».
«Il guaio è che Camille vuole provare a opporsi a Saint-Just».
«Ovvio, e a tutti i livelli. Saremo anche affetti da pragmatismo, ma ci basta uno scontro di personalità per ricordarci quali sono i nostri principi».
«Santa pace», fece Hérault, «stasera doveva essere dedicata alla seduzione. Sembra che ci siamo distratti».
«Tanto valeva che andassi dai giacobini». Lucile gli fece un bel sorriso. Lui aveva un’espressione abbattuta.
Ogni volta che era a Parigi, il generale Dillon passava a fare una visita. Era un piacere vederlo con la sua splendida statura, la testa castana e quella capacità di apparire sempre più giovane. Valmy indubbiamente gli aveva fatto bene; non c’è niente che rinvigorisce un uomo come la vittoria. Passava di pomeriggio, quando la Convenzione era riunita. Aveva un approccio talmente intrigante da poter essere elevato a strategia; Lucile non poté fare a meno di parlarne a Camille, il quale convenne sulla sua magnifica elusività. Infatti, mentre Lapin lanciava dolorose allusioni alle infedeltà di Camille e Hérault infieriva dicendole che lei doveva essere infelice e che a cambiare le cose ci avrebbe pensato lui, il generale s’accomodava e le raccontava delle storie, la vita in Martinica, le splendide frivolezze della vita di corte prima della rivoluzione. Le raccontò della figlia minore, coetanea di Lucile, a cui avevano raccomandato di non esporsi alla luce forte per non suscitare, con il suo colorito acceso, il livore della pallida regina. Le raccontò la storia della sua folle e illustre famiglia franco-irlandese. Le riferì con dovizia di particolari le idiosincrasie della sua seconda moglie, Laure, e delle più o meno belle e fatue amanti del passato. Le descrisse la fauna delle Indie occidentali, la calura, l’azzurro del mare, le verdi alture rigogliose che scendevano a precipizio nell’acqua, i fiori che perdevano i petali e marcivano prima di sbocciare; le descrisse il cerimoniale idiota a cui presenziava il governatore di Tobago, ovvero lui. In breve, le raccontava com’era bella la vita del rampollo di un’antica e illustre famiglia che non si era mai dovuto preoccupare del denaro né di altro e che disponeva di una grande bellezza, di altrettanta eleganza e di un’estrema adattabilità.
Passava poi a illustrarle che giovanotto davvero speciale avesse sposato. Sapeva citare passi interi degli scritti di Camille con una certa accuratezza. Le spiegava – proprio a lei – che le persone sensibili come Camille dovevano essere lasciate libere di fare come più aggradava loro, purché non sconfinassero nel delittuoso, o almeno nel troppo delittuoso.
Poi, di quando in quando, la cingeva con un braccio e tentava di baciarla dicendole: cara piccola Lucile, permettimi di fare l’amore con te fino in fondo. Appena lei rifiutava, con espressione incredula lui le chiedeva perché non si godesse di più la vita. Non pensava mica che Camille se la sarebbe presa a male?
Quello che questi signori non sapevano, quello che non capivano, era chi fosse lei veramente. Non avevano idea della straziante tortura che aveva escogitato per sé, della graticola sulla quale passava i propri giorni e le proprie settimane. Si legava caviglie e polsi e si domandava con freddezza: e se a Camille accadesse qualcosa? E se – per dirla brutalmente – lo assassinassero? (Lo sa il cielo che se fosse stata un’assassina, la tentazione sarebbe venuta anche a lei). Beninteso, non era la prima volta che se lo domandava, era dal 1789 che la questione la inquietava, ma la sua ossessione per lui non accennava a diminuire, anzi. Niente l’aveva preparata a questo; era opinione comune che in un matrimonio d’amore, dopo un anno di passione, le emozioni si acquietassero. Nessuno le aveva neanche lontanamente prospettato che poteva accadere di innamorarsi e rinnamorarsi di continuo, fino a farne una malattia, a soffrire nello spirito, prosciugandosi giorno dopo giorno. Se non ci fosse stato Camille – se non ci fosse stato mai più –, la sua vita futura sarebbe stata ridotta a un quarto, e l’avrebbe trascinata solo per dovere, fredda, incerta e sofferente, fino alla morte, tanto la sua parte più importante era già andata perduta. Se gli fosse accaduto qualcosa si sarebbe uccisa, pensava: lo renderò ufficiale, così almeno potranno seppellirmi. Al bambino penserà mia madre.
Naturalmente non parlava con nessuno di queste torture: l’avrebbero presa per una sciocca. In quel periodo Camille stava trasformando le proprie debolezze in punti di forza. Legendre lo rimproverava perché non parlava più molto spesso alla Convenzione. «Mio caro Legendre», diceva lui, «non tutti hanno i tuoi polmoni». Sei un maldestro, insinuava il suo sorriso, un uomo rozzo, goffo e spocchioso. I colleghi montagnardi contavano su di lui per interpretare le farneticazioni di Marat, con il quale solo lui e Fréron erano ancora in contatto (Marat aveva un nuovo avversario, un ex prete sanculotto e becero di nome Jacques Roux).
«Rispetto alla tua epoca sei avanti di due secoli», gli diceva Camille. Marat, sempre più viscido e furente, lo guardava sorpreso. Forse era un complimento.
A quel punto, Camille voleva una Convenzione senza brissottini e che il re e la regina finissero sotto processo. S’inoltrò nell’inverno del ’92 smanioso e con lo sguardo acceso. Quando era a casa, Lucile era felice; poteva dedicarsi alle imitazioni del marito, che ormai (madre e sorella ne convenivano) erano quasi perfette. Quando Camille non c’era, se ne stava seduta davanti alla finestra per vedere se arrivava. Parlava di lui agli altri con un tono piuttosto scocciato.
Almeno per quell’anno nessuno temeva gli alleati, forse soltanto i quartiermastri che dovevano occuparsi del pane ammuffito e degli scarponi con le suole di cartone, e che vedevano i contadini sputare sulle banconote del governo e allungare le loro manacce in cerca d’oro. La Repubblica era più piccola di suo figlio, che, quasi sempre da una posizione supina, guardava il mondo coi rotondi occhi di ossidiana e sorrideva senza distinzioni. Robespierre passava a vedere come stava il figlioccio e le vecchie amiche della madre arrivavano nel pomeriggio, tendevano al piccolo un dito per farglielo stringere e raccontavano degli aneddoti inutili sui loro figli da piccoli. Camille lo prendeva in braccio e gli sussurrava che non lo avrebbero mai ostacolato in alcun modo, che avrebbero soddisfatto ogni suo capriccio e che, per via della sua evidente saggezza naturale, non avrebbe mai dovuto frequentare nessuna scuola. Lucile si dava un gran da fare con le piccole cose, gli indicava il gatto e il cielo e gli alberi. Ma dentro di lei sentiva – sentimento di cui si vergognava – di non volersi imprimere nella mente del figlio: era una viaggiatrice con un biglietto a breve percorrenza.
Per arrivare a casa di Marat bisogna camminare lungo uno stretto passaggio fra due negozi e attraversare un cortile con il pozzo in un angolo. Sulla sinistra c’è una scala di pietra con la ringhiera di ferro. Salite al primo piano.
Dopo aver bussato occorre superare il controllo di una o magari di entrambe le sue donne. Ci vorrà un po’ di tempo. Albertine, la sorella di un’infanzia inimmaginabile, è un corpicino smagrito e feroce. Simone Evrard ha un quieto viso ovale, i capelli castani e una bocca solenne e generosa. Oggi non diffidano del visitatore. La via è sgombra; l’Amico del Popolo è nel salottino. «Mi fa piacere che ti precipiti da me», disse Marat intendendo l’esatto contrario.
«Non mi sono precipitato», ribatté Camille, «sono venuto cercando di non dare troppo nell’occhio».
Marat fra le mura di casa. Simone, la moglie defacto, piazzò loro davanti un bricco di caffè, scuro e amaro. «Se si tratta di discutere dei misfatti dei brissottini», disse, «non sarà una faccenda tanto breve. Chiamatemi se vi serve una candela».
«Sei venuto qui di tua iniziativa», chiese Marat, «o ti ha mandato qualcuno?».
«Sembra che le visite non ti piacciano molto».
«Voglio sapere se ti ha mandato Danton, Robespierre o chiunque altro».
«A mio parere, gradirebbero entrambi che tu dessi loro una mano coi brissottini».
«Brissot mi fa schifo». Il tale mi fa schifo, Marat lo ripeteva sempre. Ed era quello che veramente provava. «Ha sempre quest’atteggiamento da capo della rivoluzione, quasi ne fosse lui l’artefice, e poi si spaccia come grande esperto di affari esteri soltanto perché è dovuto espatriare diverse volte per sfuggire alla polizia. Se fosse questo il metro, l’esperto sarei io».
«Dobbiamo attaccare Brissot su tutti i fronti», disse Camille, «la vita che ha fatto prima della rivoluzione, la sua filosofia, i suoi amici, la condotta che ha tenuto in ogni momento critico, dal maggio della rivoluzione fino allo scorso settembre».
«Lo sai che mi ha imbrogliato con l’edizione inglese del mio Lecatenedellaschiavitù? Ha complottato con i suoi editori per pubblicare l’opera illegalmente e io non ho ricevuto neppure uno spicciolo».
Camille alzò lo sguardo. «Per carità di Dio, non vorrai mica che gli muoviamo questa imputazione?».
«E da quando è andato negli Stati Uniti...».
«Sì, lo so, non si può soffrire, ma non è questo il punto».
«Per me sì. Soffro abbastanza».
«Prima della rivoluzione era una spia della polizia».
«Confermo», fece Marat.
«Metti anche il tuo nome sul pamphlet che scriverò».
«No».
«Collabora per una volta».
«Le oche vanno in branco», tenne a precisare Marat.
«Ho capito, ci penso io. Voglio sapere soltanto se Brissot ha in mano qualcosa su di te, qualcosa che potrebbe danneggiarti sul serio».
«Ho sempre vissuto secondo i più alti principi morali».
«Vuoi dire che di te non sa niente nessuno».
«Cerca di non offendermi», fece Marat. Era un consiglio semplice e proficuo.
«Andiamo avanti», disse Camille. «Possiamo rinfacciargli i suoi comportamenti prima della rivoluzione, i deliberati tradimenti di vecchi compagni, le sue dichiarazioni monarchiche, verificabili tramite i miei ritagli di giornale, i suoi tentennamenti dell’89...».
«Cioè?».
«Be’, ha sempre quell’aria tesa, nervosa, qualcuno giurerà di averlo visto tentennare. Poi i suoi rapporti con La Fayette, il ruolo che ha avuto nella tentata fuga della famiglia Capeto, e poi i contatti segreti con la Capeto e l’imperatore».
«Bene, bene», fece Marat. «Fin qui tutto bene».
«I tentativi per sabotare la rivoluzione del 10 agosto e la falsa accusa rivolta ad alcuni patrioti di essere coinvolti nelle stragi delle carceri. L’appoggio dato alla devastante politica federalista. Senza dimenticare, beninteso, che all’inizio era vicino a certi aristocratici, Mirabeau, ad esempio, e Orléans...».
«La tua fede nella memoria corta della gente è commovente, ma credo che sia giustificata. Comunque, anche se Mirabeau è morto, Orléans siede ancora fra i banchi della Convenzione».
«Ma io guardavo avanti, alla prossima primavera, diciamo. Secondo Robespierre la posizione di Filippo è indifendibile. Riconosce che al popolo è stato abbastanza utile, ma preferirebbe che i Borboni fossero tutti fuori dai confini della Francia. Vorrebbe che portasse la famiglia intera in Inghilterra. A suo parere potremmo dargli un vitalizio».
«Che cosa, dare dei soldi a Filippo? Ma che idea originale!», disse Marat. «Però, in effetti, la prossima primavera... hai ragione. Diamo corda ai brissottini per altri sei mesi e poi reagiamo». Marat aveva l’aria soddisfatta.
«Spero che riusciremo a incriminarli tutti – Brissot, Roland, Vergniaud – con l’accusa di aver rinviato e ostacolato il processo al re. Magari anche per aver votato affinché rimanesse in vita. Ripeto, parlo per il futuro».
«Certo, potrebbero esserci anche altri che desiderano dilazioni, ostacoli e quant’altro nella vicenda di Luigi Capeto».
«Riusciremo a far superare a Robespierre il suo ribrezzo per la pena di morte».
«Sì, ma io non mi riferivo a lui. Vedrai che quando arriverà l’ora, Danton si assenterà. C’è una buona probabilità che venga richiamato in Belgio dalle attività del generale Dumouriez».
«Quali in particolare?».
«In Belgio presto scoppierà una crisi. Le nostre truppe lo stanno liberando, lo stanno annettendo, o magari entrambe le cose? Il generale per chi lo conquista? Per la Repubblica? Per la defunta monarchia? Forse per sé? Qualcuno dovrà pur andare a sbrogliare la matassa, e occorre una persona che disponga di tutta l’autorità. Non ce lo vedo Robespierre che lascia le sue scartoffie per andare a inzaccherarsi di fango fra i soldati. È una situazione molto più adatta a Danton: traffici loschi ad alto livello, bottino di guerra, bande militari e le tante donne disponibili in un territorio occupato».
La cantilena lenta e affannata con cui Marat parlava era già di per sé sufficiente a far accapponare la pelle. «Glielo riferirò», disse Camille.
«Sì, riferisciglielo. Quanto a Brissot, da un certo punto di vista appare ovvio che abbia sempre cospirato contro la rivoluzione. Però lui e i suoi tirapiedi ormai hanno consolidato le loro posizioni, e per espellerli dalla vita pubblica occorrerà un certo vigore».
Ormai assuefattosi al modo di parlare di Marat, Camille alzò lo sguardo. «Immagino che tu intenda espellerli dalla vita pubblica, non qualcosa di peggio, vero?».
«Proprio adesso che sembrava stessi iniziando a guardare la realtà in faccia. Oppure è questa la speranza dei tuoi due schifiltosi capi? A settembre, quando la patria era in pericolo, Robespierre sapeva bene cosa bisognava fare, ma da allora è diventato un cuore tenero».
Camille, con la testa fra le mani, s’arrotolò una ciocca di capelli intorno al dito. «Conosco Brissot da tanto tempo».
«Il male lo conosciamo sin da quando siamo nati», disse Marat, «ma non per questo lo tolleriamo».
«Frasi fatte».
«Sì, di una profondità a buon mercato».
«Mi dispiace, sono i re che ammazzano i loro avversari, noi coi nostri dovremo ragionare».
«Al fronte la gente se sbaglia muore. Perché i politici dovrebbero essere trattati con più riguardo? La guerra l’hanno scatenata loro: si meritano di morire una decina di volte a testa. Di cosa li possiamo incriminare se non di tradimento, e come li puniamo se non con la morte?».
«Sì, capisco». Con l’unghia Camille cominciò a tracciare dei disegni sul tavolo impolverato, ma si fermò appena se ne rese conto.
Marat sorrise. «Tanto tempo fa, Camille, gli aristocratici venivano a frotte a casa mia in cerca di una cura contro la consunzione. A volte le carrozze bloccavano la strada. Io stesso avevo una bella vettura, i miei abiti erano immacolati ed ero famoso per la pacata cortesia delle mie maniere».
«Già», fece Camille.
«Tu allora eri uno scolaretto e non ne sapevi niente di queste cose».
«Curavi la consunzione?».
«A volte, se la fede era sufficiente. Dimmi, voi che avete fondato i cordiglieri ci andate mai al club?».
«A volte. Ci sono altre persone che lo mandano avanti, non è un problema».
«Hanno preso il sopravvento i sanculotti».
«In effetti».
«Mentre voi frequentate sfere più alte».
«Capisco cosa intendi, però siamo ancora capacissimi di gestire un’assemblea di strada, non siamo rivoluzionari da salotto. Non è necessario vivere in un tugurio...».
«Basta così», fece Marat, «a me preoccupano i nostri sanculotti, nient’altro».
«Quel prete, Jacques Roux... ma si chiama davvero così?».
«No... però magari pensi che io non mi chiami Marat».
«Ha qualche importanza?».
«No, nessuna. Ma gli idioti come Roux traviano le menti. Nel momento in cui dovrebbero pensare a purificare la rivoluzione, incoraggiano il popolo a saccheggiare le drogherie».
«C’è sempre qualcuno pronto ad atteggiarsi a paladino dei poveri e degli oppressi», disse Camille. «Non so a cosa serva, tanto la loro situazione non cambia. L’unica differenza è che chi crede di poterla cambiare sarà venerato dalla posterità».
«Per l’appunto. Quello che non capiscono, che non accettano, è che i poveri vengono tirati in questa come in tutte le altre rivoluzioni come bestie da soma. Se nel 1789 avessimo aspettato i sanculotti, che fine avremmo fatto? Noi abbiamo pensato la rivoluzione nei caffè e l’abbiamo portata nelle strade, adesso Roux la vuole trascinare nel fango. E lui e tutta la sua marmaglia sono agenti degli alleati».
«Consapevoli di ciò?».
«Che importa se servono il nemico perché sono degli scellerati o degli stupidi? Il risultato non cambia: stanno sabotando la rivoluzione dall’interno».
«Perfino Hébert comincia ad alzare la voce contro di loro. La gente li chiama enragés. Ultrarivoluzionari».
Marat sputò sul pavimento. Camille, sbigottito, trasalì. «Non sono degli ultrarivoluzionari, non sono nemmeno dei rivoluzionari. Sono dei seguaci dell’atavismo. La loro idea di progresso sociale è quella di un dio che ogni giorno getta pane dal cielo. Ma un cretino come Hébert non lo capirebbe. No, non ho più simpatia di te per Père Duchesne».
«Magari Hébert, in segreto, è un brissottino».
Marat scoppiò in una risata aspra. «Fai progressi, Camille, fai progressi. Mi pare che Hébert ti abbia diffamato... Eh sì, quando verrà l’ora avrai la sua testa, ma prima di lui cadrà qualcun altro. Come dicono le donne, aspettiamo che passi il Natale e poi vedremo cosa possiamo fare per rimettere in carreggiata la rivoluzione. I nostri signori si rendono conto di quanto siamo preziosi noi due, tu con il tuo dolce sorriso e io col mio coltello affilato?».
Hébert, «Père Duchesne», a proposito dei Roland:
Qualche giorno fa mezza dozzina di sanculotti andarono in delegazione a casa del vecchio pelato Roland. Sfortunatamente era il momento della cena [...]. I nostri sanculotti infilarono un corridoio e arrivarono nell’anticamera, però non riuscirono a farsi strada perché l’interno era bloccato da una folla di lacchè. Venti cuochi, carichi delle più prelibate fricassee, gridavano a squarciagola: «Attenti! Attenti! Fate largo! Queste sono le entrée per il virtuoso Roland!», «I manicaretti per il virtuoso Roland!», «Gli arrosti per il virtuoso Roland!». E ancora: «Gli entremets per il virtuoso Roland!». «Che volete?», chiese un cameriere del virtuoso Roland alla delegazione.
«Vogliamo parlare con il virtuoso Roland».
Il cameriere si recò con l’ambasciata dal virtuoso Roland, il quale emerse recalcitrante, la bocca piena, il tovagliolo sul braccio. «La Repubblica deve certamente correre un pericolo», disse, «per interrompere la mia cena». [...] Louvet con la sua faccia di cartapesta e gli occhi incavati lanciava sguardi di cupidigia a sua moglie. Uno dei sanculotti, passando nella dispensa mal illuminata, rovesciò inavvertitamente i dessert. Alla notizia di codesta perdita, la moglie del virtuoso Roland per la rabbia si strappò i capelli posticci.
«Hébert ha un po’ troppa voglia di scherzare», disse Lucile. «Se penso alle famigerate rape servite quella volta a Georges-Jacques!». Passò il giornale a Camille. «I sanculotti ci crederanno?».
«Ma certo, quelli credono a ogni parola. Non sanno mica che Hébert ha una carrozza, pensano che sia Père Duchesne, che fumi la pipa e faccia il calderaio».
«Qualcuno non può chiarire loro le idee?».
«Hébert e io dovremmo essere alleati, colleghi». Camille scosse la testa, senza far cenno al pomeriggio passato da Marat. Di solito non voleva che sua moglie sapesse cosa aveva per la mente.
«Allora dovete proprio andare?», chiese Maurice Duplay.
«Che cosa posso fare? È mia sorella, è convinta che dovremmo avere una casa per conto nostro».
«Ma questa è casa vostra».
«Charlotte non lo capisce».
«Datemi retta», disse Mme Duplay, «tornerà».
Il girondino Condorcet a proposito di Robespierre:
A volte ci si domanda perché tante donne inseguano Robespierre. Il fatto è che la Rivoluzione francese è una religione e Robespierre è il capo della setta. È un prete [...] ma è evidente che tutta la sua forza risiede sul versante femminile. Robespierre predica, Robespierre censura [...]. Vive con molto poco e non ha bisogni. Ha una sola missione: parlare, e parla incessantemente. Arringa i giacobini quando può crearsi dei discepoli, tace quando potrebbe danneggiare la sua autorità [...]. Si è fatto una nomina da austero ai limiti della santità. Ha al suo seguito le donne e i deboli e con solennità ne riceve l’adorazione e l’omaggio.
ROBESPIERRE: Adesso abbiamo due rivoluzioni, il 1789 e il 10 agosto scorso, ma non sembra che nella vita della gente sia cambiato molto.
DANTON: Roland, Brissot e Vergniaud sono degli aristocratici.
ROBESPIERRE: Be’...
DANTON: Nel nuovo senso della parola, intendo. Le rivoluzioni sono un grande campo di battaglia dal punto di vista semantico.
ROBESPIERRE: Forse abbiamo bisogno di un’altra rivoluzione.
DANTON: In cui non compromettersi.
ROBESPIERRE: Precisamente.
DANTON: Ma con le tue note vedute, con i tuoi scrupoli sulla prospettiva di togliere la vita...?
ROBESPIERRE (senzamoltasperanza): Può il cambiamento essere profondo senza essere violento?
DANTON: Non vedo come.
ROBESPIERRE: A subirne le conseguenze sono le persone innocenti. Anche se poi non è detto che ci siano degli innocenti. Forse è solo uno stereotipo che suona bene.
DANTON: E dei cospiratori che dici?
ROBESPIERRE: Loro sì che dovrebbero patire le conseguenze.
DANTON: Come si riconoscono?
ROBESPIERRE: Processandoli.
DANTON: E se è certo che sono cospiratori, ma non si hanno le prove sufficienti per condannarli? Se uno lo intuisce esclusivamente perché patriota?
ROBESPIERRE: Bisognerebbe riuscire a dimostrare la loro colpevolezza in tribunale.
DANTON: E metti che non ci si riesca? Magari le prove più importanti non possono essere prodotte, sono segreti di Stato.
ROBESPIERRE: In quel caso bisognerà proscioglierli. Un caso sfortunato, direi.
DANTON: Ma davvero? E se gli austriaci fossero alle porte e per rispetto del procedimento penale uno finisse per consegnare loro la città?
ROBESPIERRE: Allora a mio parere bisognerebbe... bisognerebbe mutare i criteri di ammissibilità delle prove. Oppure ampliare la definizione di reato di cospirazione.
DANTON: Bisognerebbe, vero?
ROBESPIERRE: Non sarebbe un esempio di male minore che scongiura un male peggiore? Di solito non sono favorevole a questo concetto semplice, confortante e infantile, tuttavia intuisco che una cospirazione messa a segno contro i francesi potrebbe portare a un genocidio.
DANTON: Snaturare il corso della giustizia è di per sé un male della peggior specie. Toglie ogni speranza di correggerne i difetti.
ROBESPIERRE: Senti, Danton, non lo so, non sono un teorico.
DANTON: Me ne sono accorto, sei uno concreto. Non mi sfugge nulla delle piccole, subdole carneficine che cerchi di organizzare alle mie spalle.
ROBESPIERRE: Perché accetti la morte di un migliaio di persone e impedisci quella di due politici?
DANTON: Forse perché Roland e Brissot li conosco e quel migliaio di persone no. Chiamala mancanza di immaginazione.
ROBESPIERRE: Non potendo provarne la colpevolezza in tribunale, presumo che i sospetti potrebbero essere incarcerati senza processo.
DANTON: Sul serio? Voi idealisti siete i peggiori tiranni.
ROBESPIERRE: Mi sembra un po’ tardi per discuterne, a questo punto mi vedo costretto ad accettare la violenza e molto altro. Avremmo dovuto parlarne l’anno scorso.
Qualche giorno dopo Robespierre era di nuovo dai Duplay: aveva un dolore che gli spaccava la testa, erano tre notti che non dormiva, e una mano gigantesca gli torceva le viscere. Bianco come il gesso e tremante, sedeva con Mme Duplay nella stanzetta affollata dai suoi ritratti, a cui non somigliava più tanto, e non era sicuro che avrebbe mai ripreso un aspetto sano.
«È tutto come lo hai lasciato tu», disse lei. «Abbiamo mandato a chiamare il dottor Souberbielle. Sei molto affaticato, non tolleri turbamenti nella tua vita». Gli coprì la mano con la sua. «È come se avessimo sofferto un lutto. Eléonore non tocca cibo e io non sono riuscita a cavarle una parola di bocca. Non devi più andare via».
Venne Charlotte, ma le dissero che Maximilien aveva preso un rimedio per dormire e che era il caso di abbassare la voce. Le avrebbero comunicato quando si fosse rimesso abbastanza da poter ricevere visite.
Sèvres, l’ultimo giorno di novembre: Gabrielle aveva acceso le lampade. Erano soli: i bambini erano da sua madre, il caravanserraglio di rue des Cordeliers era lontano.
«Vai in Belgio?», gli chiese. Ecco perché era comparso quella sera: per darle la notizia e poi partire.
«Il generale Westermann te lo ricorderai, immagino?».
«Sì, è quello che Fabre definisce un farabutto. Il 10 agosto lo hai portato a casa con te».
«Non so perché lui insinui una cosa del genere. Ad ogni modo, Westermann oggi è un uomo importante ed è venuto di persona dal fronte con un messaggio di Dumouriez. Questo ti fa capire quanto sia urgente».
«Un corriere governativo ci avrebbe impiegato di più? Il generale dopo la promozione avrà messo le ali ai piedi».
«È venuto di persona per sottolineare la gravità della situazione. Credo che sarebbe venuto di persona Dumouriez, se si fosse potuto fare a meno di lui».
«Questo suggerisce una cosa, che di Westermann si può fare a meno».
«Sembra di parlare con Camille», bofonchiò Danton.
«Ah sì? Lo sai che tu invece hai preso qualcuno dei suoi vezzi? Ai tempi in cui ti ho conosciuto non agitavi tanto le mani. Del resto dicono che quando si ha un cane, dopo un po’ si comincia a somigliargli. Dev’essere la stessa cosa».
Gabrielle si alzò e si avvicinò alla finestra per guardare il prato cricchiante di gelo; la minuscola luna di novembre le mostrò la sua faccia sperduta. «Agosto, settembre, ottobre, novembre», disse. «Sembra un secolo».
«Ti piace la casa nuova? Ti senti a tuo agio?».
«Oh sì, ma non credevo di stare tanto sola».
«Preferiresti tornare a Parigi? L’appartamento è più caldo. Ti ci riporto stasera».
Gabrielle scosse la testa. «Sto bene qui, ci sono i miei genitori». Lo guardò. «Però, Georges, mi mancherai».
«Mi spiace, è inevitabile».
Negli angoli della stanza si raccoglieva l’oscurità. La fiamma si ravvivò; delle ombre attraversarono a scatti lo scuro viso sfigurato di Georges. Guardingo, lui tenne immobili le mani, il pugno sinistro nel palmo destro, il corpo curvo verso il calore, i gomiti puntati sulle ginocchia. «Sappiamo già da qualche tempo che Dumouriez ha dei problemi. Non riesce a ricevere i rifornimenti e gli inglesi hanno inondato il paese di soldi falsi. Dumouriez è in disaccordo col Comitato di guerra: non gli va giù che dei tizi che se ne stanno al sicuro a Parigi mettano in dubbio le sue azioni sul campo. E la Convenzione non si aspettava, come di fatto è stato, che appoggiasse l’ordine esistente: loro vogliono diffondere la rivoluzione. È una situazione complicata, Gabrielle». Danton si chinò a mettere un ciocco sul fuoco. «È faggio», disse, «brucia bene». Fra gli alberi stridette una civetta. Il cane da guardia borbottò sotto la finestra. «Altro che Brount», disse, «il cane di Robespierre guarda e tace».
«Allora è un’emergenza? Dumouriez vuole che qualcuno vada sul posto per rendersi conto delle difficoltà in cui si trova?».
«Due inviati sono già partiti. Io e il deputato Lacroix ci andremo domani».
«Chi è Lacroix?».
«È... un... un avvocato».
«Qual è il suo nome?».
«Jean-François».
«Quanti anni ha?».
«Non so... quaranta?».
«È sposato?».
«Non ne ho idea».
«Com’è fisicamente?».
Danton rimase a pensare. «Niente di particolare. Guarda, durante il viaggio forse mi racconterà la sua vita, così al ritorno saprò dirti di più».
Gabrielle si sedette spostando un po’ la sedia per proteggere la guancia dal calore della fiamma. Il suo viso era per metà in ombra. «Quanto starai via?».
«Difficile stabilirlo. Potrei essere di nuovo qua fra una settimana. Non perderemo tempo ora che il processo di Luigi si avvicina, stanne certa».
«Georges, ci tieni davvero così tanto a esserci quando lo uccideranno?».
«È questo che pensi di me?».
«Non so cosa pensare», rispose lei in tono stanco. «L’unica cosa di cui sono sicura è che la situazione è molto più complicata di quanto io immagini, e questo vale per il Belgio, il generale Dumouriez e tutto il resto. Però so che finirà con la morte del re, se qualcuno con la tua influenza non prende le sue difese. Tu dici: tutta la Convenzione è favorevole al processo – ma io so che tu puoi condizionarla. Conosco il tuo potere».
«Ma non hai capito le conseguenze a cui si va incontro esercitandolo. Cambiamo argomento, ho soltanto un’ora di tempo».
«Robespierre sta meglio?».
«Sì, ieri almeno ha parlato alla Convenzione».
«Ed è di nuovo dai Duplay adesso?».
«Già». Danton si appoggiò contro lo schienale della sedia. «Charlotte gliela tengono lontana. A quanto ho sentito dire, gli ha mandato una domestica con della conserva di frutta, ma Mme Duplay non l’ha lasciata entrare; lei allora ha fatto recapitare un messaggio in cui diceva che non voleva che lo avvelenassero».
«Povera Charlotte». Gabrielle fece un mezzo sorriso. Il viso di Danton parve sollevato: l’attenzione della moglie si era spostata sulle banalità, su piccole cose domestiche – le occupazioni in cui preferiva vederla impegnata.
«Ormai mancano soltanto due mesi e, forse, una settimana». Gabrielle parlava della nascita del bambino. S’alzò a fatica e attraversò la stanza; tirò le pesanti tende contro l’oscurità. «Tornerai almeno per festeggiare il capodanno con me?».
«Farò del mio meglio».
Appena se ne fu andato, Gabrielle posò la testa contro un cuscino e s’assopì. L’orologio avanzò ticchettando fino al cuore della notte e i tizzoni mormorarono sulla griglia del caminetto. Fuori, le ali delle civette sferzavano l’aria fredda e nella boscaglia si udivano i richiami dei piccoli animali. Lei sognò d’essere tornata bambina, di mattina, col sole. Poi nei sogni s’insinuarono i rumori dell’inseguimento e lei di volta in volta diveniva preda o cacciatrice.
Robespierre alla Convenzione, gennaio:
Qui non c’è da perorare una causa. Luigi non è un imputato, voi non siete dei giudici. Se è possibile portare Luigi davanti a un tribunale, è possibile assolverlo: potrebbe risultare innocente. Ma se Luigi viene assolto, se è possibile ipotizzare la sua innocenza, che ne sarà della rivoluzione? [...] Non dovete emettere una sentenza a favore o contro un uomo; dovete prendere una misura di salute pubblica, dovete compiere un atto di provvidenza nazionale [...]. Luigi deve morire affinché la nazione possa vivere.