XI
I vecchi cordiglieri
(1793-1794)
Un altro diario era finito: non un taccuino rosso, ma uno di quelli piccoli e insignificanti con la copertina marrone. Le vecchie annotazioni sono una sagra dell’imbarazzo, pensò Lucile; aveva cominciato a strappare le pagine e a bruciarle, tanto che i quaderni ormai erano tutti sbrindellati.
A quei tempi ciò che scriveva nei diari ufficiali – come li chiamava fra sé e sé – era molto diverso da ciò che finiva nei taccuini marroni. Il tono dei primi si faceva via via più banale, a parte qualche passaggio meditato e molto bello, scritto apposta per solleticare o fuorviare il lettore. I secondi, i diari privati, erano riservati ai pensieri foschi, precisi: pensieri sgradevoli annotati in una calligrafia minuta. Appena terminava uno di questi taccuini, lo sigillava in un pacchetto che riapriva solo quando doveva infilarci il successivo, magari un anno dopo.
In un giorno freddo e nebbioso, tra il rumore dei passi attutiti nelle strade e i grandi edifici distanti e luminosi, entrò a Saint-Sulpice e si fermò davanti all’altare maggiore, dove tre anni prima si era sposata. Le lettere tracciate sulla parete con la vernice rossa le annunciarono: «QUESTO È UN EDIFICIO NAZIONALE: LIBERTÀ, UGUAGLIANZA, FRATELLANZA O MORTE». La Vergine, con il volto talmente danneggiato da essere irriconoscibile, teneva in braccio il bambino decapitato.
Forse se non avessi incontrato Camille avrei vissuto una vita ordinaria. Nessuno avrebbe incoraggiato le mie fantasie. Nessuno mi avrebbe insegnato a pensare. A undici anni avevo davanti a me la possibilità di essere una creatura normale. Quando ne avevo dodici Camille venne a casa nostra. Ne fui avvinta fin dalla prima volta che lo vidi.
La vita di Lucile si sta riscrivendo da sola; così le pare.
Nell’appartamento Camille lavorava sotto una luce fioca. Viveva d’alcol e dormiva tre ore a notte.
«Ti rovinerai gli occhi», gli disse lei.
«Sono già rovinati». Posò la penna. «Guarda, un giornale».
«Allora è vero».
«Penso che sarebbe più giusto dire che si tratta di una serie di pamphlet, essendo io l’unico autore. Me lo stamperà Desenne. Nel primo numero – questo – parlo soltanto del governo britannico. Metterò in evidenza che, dopo il recente discorso in cui Robespierre elogia Danton, chiunque critichi Danton esibisce una pubblica ricevuta delle ghinee ricevute da Pitt». Si fermò per appuntare queste ultime parole. «Non sarà una vera provocazione, ma un altro rovescio che si abbatterà sui detrattori di Danton e preparerà il terreno per un appello alla clemenza nei tribunali e al rilascio di alcuni sospetti».
«Camille, ma faresti davvero una cosa del genere?».
«Certo, potendo contare sull’appoggio di Danton e Robespierre. Non credi?».
Lucile congiunse le mani. «Sempre che loro due mantengano un’intesa», disse. Non gli aveva raccontato della visita di Fouquier.
«La manterranno», ribatté lui tranquillo, «solo che Robespierre è una persona cauta. Dovrebbe essere più determinato».
«Cosa ti ha detto del caso Barnave?».
«Non esiste un “caso Barnave”. Sono andato a dargli l’ultimo saluto. Secondo me non doveva essere giustiziato e gliel’ho detto». Ecco cosa era sfuggito alle orecchie di Fouquier, pensò Lucile. «Non che la mia assoluzione gli sia stata utile, ma era necessario a me essere perdonato per il ruolo che ho avuto nel trascinarlo fin là».
«Ma Maxime cosa ha detto?».
«Credo che abbia capito. E poi lui cosa c’entrava? Ho conosciuto Barnave a Versailles, a casa di de Viefville, mio cugino. Quasi non gli ho rivolto la parola, ma lui mi ha notato ugualmente, come se già sapesse che mi avrebbe rincontrato. Quella notte ho deciso che sarei andato da Mirabeau». Camille chiuse gli occhi. «L’ordine per la stampa è di cinquantamila copie».
Nel pomeriggio passò Louise. Anche se non lo ammetteva, si sentiva sola. Non voleva stare con sua madre, ma era una compagnia obbligata se restava a casa. Angélique si era presa i bambini per qualche giorno; in loro assenza, e soprattutto quando il marito non era in casa, Louise tornava a essere la ragazzina timida che correva su e giù per le scale. Danton quando la vedeva con le mani in mano le diceva: «Va’ a spendere un po’ di denaro». Ma Louise non desiderava niente per sé e non si risolveva a rinnovare l’appartamento. Non si fidava del suo gusto; e poi pensava che il marito preferisse che le cose restassero come le aveva disposte Gabrielle.
Un anno, un anno e mezzo prima, in quanto moglie di Danton sarebbe stata trascinata fra i caustici pettegolezzi dei salotti, obbligata a sedere impettita fra le consorti dei ministri e dei deputati parigini, donne compassate di trenta, trentacinque anni che leggevano tutte le novità librarie e parlavano annoiate delle amanti del marito con l’accento snob della capitale. Ma Gabrielle non aveva queste abitudini; e Louise faticava parecchio con le visite che riceveva. Lei o ammutoliva o era troppo diretta. Gli argomenti di cui parlavano le altre le parevano talmente insignificanti che era certa ci fossero dei doppi sensi che le sfuggivano. Non aveva altra scelta che stare al gioco; per riguardo alla sua posizione le avevano gettato un libro di regole, ma poi avevano lasciato che lo leggesse al bagliore dei lampi.
Dunque – e mai l’avrebbe previsto – l’appartamento dall’altra parte del caseggiato era il posto più accogliente dove andare. In quel periodo la cittadina Desmoulins se ne stava con la famiglia e gli amici più stretti; sosteneva di non avere alcuna voglia di perdere tempo con le sciocchezze della società. Louise passava le giornate in quel salottino a cercare di ricostruire il recente passato dai vaghi indizi che poteva cogliere. Lucile non le faceva mai domande personali; lei invece non ne conosceva di altro genere. A volte parlavano di Gabrielle: a bassa voce, con naturalezza, come se fosse ancora viva.
«Che viso incupito», le disse Louise quel giorno.
«Devo finire di scrivere questa cosa», le rispose Lucile, «e poi starò con te e cercheremo di tirarci un po’ su».
Louise si mise a giocare con il bambino, una creatura dai lineamenti talmente delicati che non era possibile fosse figlio di Danton. Adesso parlava molto, perlopiù con un linguaggio incomprensibile, come se sapesse di essere il figlio di un politico. Appena lo misero a letto, lei prese la chitarra e si mise a pizzicarne piano le corde. Si accigliò. «Non mi pare di essere portata», disse a Lucile.
«Devi essere concentrata per suonare, e provare pezzi più facili. Ma io non posso parlare, non mi esercito mai».
«No, in effetti no. Prima frequentavi le mostre e i concerti pomeridiani, ora te ne stai lì seduta a leggere e scrivere lettere. A chi scrivi?».
«Oh, a diverse persone. Ho una fitta corrispondenza con il cittadino Fréron, un vecchio amico di famiglia».
Louise drizzò le orecchie. «Gli sei molto affezionata, vero?».
Lucile sembrò divertita. «Soprattutto quando è lontano».
«Se morisse Camille lo sposeresti?».
«È già sposato».
«Immagino che divorzierebbe. O magari gli muore la moglie».
«Sarebbe una coincidenza davvero singolare. Perché parli così spesso di morte?».
«Esistono centinaia di malattie, non si può mai dire».
«Dopo essermi sposata lo pensavo anch’io. Ogni cosa mi spaventava».
«Ma tu non resteresti vedova, vero?».
«Sì, credo di sì».
«Camille senz’altro non lo vorrebbe».
«Non capisco questa tua convinzione, considerato il suo egoismo».
«Se morissi tu, lui si risposerebbe».
«Nel giro di una settimana», convenne Lucile. «Se morisse anche mio padre. Cosa assai probabile secondo la tua logica, per cui le persone muoiono due alla volta».
«Esisteranno pure altri uomini che non ti dispiacerebbe sposare».
«Non me ne viene in mente nessuno. A parte Georges».
Era il modo in cui Lucile metteva fine alle loro conversazioni, non appena aveva la sensazione che Louise si stesse spingendo troppo oltre: le ricordava con inequivocabile crudeltà come stavano le cose. Non ne provava piacere, ma sapeva che altri si sarebbero fatti meno scrupoli. Louise rimase seduta a fissare lo sfacelo di quell’anno nella luce che dall’azzurro mutava al grigio, tentando dei pezzi troppo difficili per le sue capacità. Camille lavorava. Gli unici rumori in casa erano gli accordi dissonanti e le note imprecise.
Alle quattro Camille entrò con un mucchio di fogli in mano. Si sedette sul pavimento davanti al caminetto. Lucile li raccolse e si mise a leggere; dopo un po’ alzò lo sguardo. «Bellissimo», disse intimidita, «penso che sia la cosa migliore che tu abbia mai scritto».
«Vuoi leggerla, piccola Louise?», chiese Camille. «Parla molto bene di tuo marito».
«Mi piacerebbe interessarmi di politica, ma lui non vuole».
«Forse se te ne interessassi con cognizione di causa», replicò irritato, «non gliene importerebbe. Sono i tuoi stupidi, volgari pregiudizi che non vuole stare a sentire».
«Camille», disse dolcemente Lolotte, «è una bambina. Perché ti aspetti che sappia le cose?».
Alle cinque venne Robespierre. «Come stai, cittadina Danton?», le chiese col tono di chi si rivolge a un’adulta. Diede un bacio sulla guancia a Lucile e un buffetto sulla testa a Camille. Portarono il bambino; lo prese in braccio e disse: «Come stai, figlioccio?».
«Non domandarglielo», rispose Camille. «Fa discorsi di cinque ore filate, come Necker, e altrettanto incomprensibili».
«Non ne sono tanto sicuro, non ha l’aria del banchiere». Robespierre teneva il piccolo contro la sua spalla. «Diventerà un vanto dell’avvocatura parigina?».
«Un poeta», decise Camille. «Vita di campagna e piaceri vari».
«È probabile», fece Robespierre. «Dubito che il suo vecchio e noioso padrino riuscirà a farlo rigare dritto». Passò il bambino al padre e si sedette con la sua usuale compostezza accanto al fuoco, tutto serio. «Quando saranno pronte le bozze, devi dire a Desenne di mandarmele immediatamente. Leggerei il manoscritto, ma detesto accapigliarmi con la tua grafia».
«Allora sarai costretto a correggerle tu, altrimenti ci vorrà troppo tempo. Non toccare la punteggiatura però».
«Oh, Camille d’Églantine», lo canzonò Robespierre. «L’im- portanza non è nella punteggiatura, ma nel contenuto».
«Non ci vuole molto a capire perché non vincerai mai un premio letterario».
«Credevo che ci avessi messo corpo e anima in questo nuovo giornale, che ti stesse molto a cuore».
«Mi sta molto a cuore, e anche la punteggiatura».
«Quando uscirà il secondo numero?».
«Spero che ne sia pronto uno ogni cinque giorni: il 5 dicembre, il 10, durante il ci-devant Natale e via dicendo, fino a compimento dell’opera».
Robespierre esitò per qualche istante. «Mostrami tutto, però, perché non vorrei che mi attribuissi parole che non ho detto o opinioni che non mi appartengono».
«Farei mai una cosa del genere?».
«Sì, lo faresti e lo fai. Guarda l’espressione negli occhi di tuo figlio: sa bene di che pasta sei fatto. Come chiamerai il giornale?».
«Ho pensato a “Le Vieux Cordelier”, era un’espressione che usava Georges-Jacques: “Noi vecchi cordiglieri”, diceva».
«Sì, mi piace. Vedete», Robespierre si stava rivolgendo alle donne, «è un modo efficace di rimettere al loro posto i nuovi cordiglieri, Hébert e i suoi. Sono persone che non rappresentano nulla, che non incarnano nulla, criticano e si oppongono soltanto a ciò che fanno gli altri, cercando di distruggerlo. I vecchi cordiglieri invece sapevano che tipo di rivoluzione volevano e hanno rischiato per realizzarla. Erano solo gli inizi, ma a guardare bene, anche se a quei tempi non sembrava, sono stati momenti eroici».
«Era a quei tempi che ti chiamavano “la Candela di Arras”, cittadino Robespierre?».
«A quei tempi!», esclamò lui. «Questa ragazzina parla come se fosse stato sotto il regno di Luigi XIV. Te l’avrà detto tuo marito, immagino».
«Già, io di mio non so niente».
Camille e la moglie si scambiarono un’occhiata: la strangoliamo subito o più tardi?
«È vero, è vero», disse Robespierre. «È successo perché chiamavano Mirabeau “la Fiaccola della Provenza”. In questo modo», aggiunse inesorabile, «volevano rimarcare la mia insignificanza».
«Sì, Georges-Jacques me l’ha spiegato. Allora perché pensi che quelli siano stati tempi eroici?».
«E a te cosa fa pensare che siano eroi soltanto quelli che creano grande trambusto?».
«Non ci avevo mai riflettuto. I libri, suppongo».
«Qualcuno dovrebbe indirizzarla nelle letture».
«È una donna sposata», disse Camille, «ormai per lei l’istruzione è un capitolo chiuso».
«Capisco di averti rievocato un ricordo spiacevole», disse Louise, «me ne scuso. Non era mia intenzione offenderti».
Robespierre sorrise scuotendo la testa ma si girò dall’altra parte: non aveva tempo da perdere con quella ragazzina. «Camille, tieni a mente le mie parole: vai piano. Non possiamo sottrarre poteri al Tribunale. Se lo facessimo, e accadesse di subire una disfatta in guerra, ci sarà un altro settembre. Il popolo che si fa giustizia da solo lo abbiamo già visto e non è uno spettacolo piacevole. Il governo dev’essere forte, non può esitare, altrimenti cosa penseranno i patrioti al fronte? Un esercito forte merita di avere alle spalle un governo forte. Dobbiamo aspirare all’unità. La forza può rovesciare un trono, ma soltanto la prudenza può sostenere una repubblica».
Camille annuì, riconoscendo la disadorna ossatura di un prossimo discorso. Si sentiva in colpa per aver preso in giro Maxime dicendo che voleva essere Dio; non lo era: Dio non era così vulnerabile.
Maxime se ne andò. «Mi sento come un uovo nella bocca di un cane», disse Camille alzando lo sguardo su Louise. «Spero che tu ti ritenga rimproverata a sufficienza, altrimenti per favore vai a casa e prega tuo marito di suonartele».
«Povera me, pensavo fosse acqua passata», disse Louise.
«Non ci si dimentica mai del tutto di certe cose».
Pochi minuti dopo entrò Danton. «Oh», fece Lucile, «il vecchio cordigliere in persona».
«Ecco dove sei», disse lui alla moglie. «Ho mancato di poco il nostro amico?».
«Ma se lo sai benissimo», ribatté Camille. «Sarai stato dietro la porta finché non lo hai visto uscire».
«Stando ognuno per conto suo lavoriamo meglio insieme». Si lasciò cadere su una poltrona, allungò le gambe e osservò Camille. «Che c’è di così preoccupante?», gli chiese all’improvviso.
«Non so... continua a dirmi di andarci piano come se... come se non dovessi fare nulla che lui non farebbe. Però cosa farebbe lui non me lo dice».
Camille era ancora seduto sul pavimento e Lucile gli si inginocchiò accanto: i loro grandi occhi erano tutti per Georges-Jacques, e il bambino si rotolava nel mezzo. Ma guarda, pensò Louise detestandoli, sembra sempre che aspettino la comparsa di un ritrattista con i gessetti e il blocco da disegno. Se uno pensa alla sfilza di amanti che ha avuto lei... È rivoltante la facilità con cui recitano la commedia. Camille intanto diceva: «Maxime non vuole sentirsi messo con le spalle al muro da un’idea non collaudata. Ma è inevitabile, bisogna pur rischiare. Non mi importa di essere il primo a farlo. Louise, questo lo considereresti un sentimento eroico?».
«Fare l’eroe è la tua vocazione, giusto?», rispose lei sarcastica.
Scoppiarono tutti a ridere. Di Camille.
Cinque dicembre: «Ai vecchi cordiglieri!». Fabre alzò il bicchiere; aveva il viso incavato e paonazzo. «Che il secondo numero abbia successo come il primo».
«Grazie». Camille in verità faceva il modesto; quantomeno aveva chinato il capo e abbassato gli occhi, segni esteriori della grazia interiore. «Non pensavo che il giornale sarebbe andato tanto bene. Sembra quasi che le persone lo stessero aspettando... Mi imbarazza tutto questo favore da parte del pubblico».
Il deputato Philippeaux – uno di quei misteriosi deputati che sono sempre in missione e che fino alla settimana precedente Camille conosceva appena – si sporse per dargli dei buffetti sulla mano. «Ma perché è un giornale straordinario! Sapete... ho scritto anch’io un pamphlet, ma ho l’impressione che se tu avessi visto la quantità di cose che ho visto io, avresti fatto un lavoro di gran lunga migliore». Il deputato si aggiustò l’elegante cravatta. «Tu riesci a toccare i cuori, io soltanto ad appellarmi alle coscienze. Ho visto scannare, capite?». Non gli riusciva facile usare le parole forti; era nel gruppo della Pianura, non della Montagna, ed era abituato a levigare le proprie opinioni – fino a quel momento.
«Oh, scannare», fece Fabre. «Il nostro ragazzo non ce la farebbe. Per lui un brissottino con uno stiletto nascosto fra le carte della difesa è già abbastanza. Non sopporterebbe spettacoli truci, temo. Credo che perderebbe i sensi, ma attenzione: con grazia».
La capacità di Fabre di reagire alle difficoltà è sorprendente. E anche quella di Camille. Una parte di lui si sente pesante come il piombo; l’altra è pronta allo scontro, a impegnare tutto se stesso nello sforzo di trascinare la gente all’ira furiosa che fa prudere le dita, o alla perdita della ragione in un lungo, estatico svenimento. Si sente leggero, molto giovane. In quel periodo Hubert Robert (pittore la cui specialità sono, purtroppo, le rovine suggestive) gli sta sempre alle calcagna; Boze, anche lui pittore, lo guarda sempre torvo e a volte gli si avvicina con le sue crudeli mani d’artista per tirargli i capelli. Nei momenti più tristi Camille pensa: preparati a essere immortalato.
Il punto essenziale è che i limiti non sono più in voga. Oggi sosteniamo che la rivoluzione non avanza in maniera diretta e spietata, usando un linguaggio e una politica che trascendono sempre più nel volgare e nel semplicistico: oggi sosteniamo che la rivoluzione è flessibile, sottile ed elegante. Mirabeau diceva: «La libertà è una puttana a cui piace farsi scopare su un materasso di cadaveri». Camille sa che è così, ma troverà un modo più gentile di spiegarlo ai suoi lettori.
Ormai poteva essere se stesso, che significava quanto di più diverso da Hébert fosse possibile immaginare. Non ha bisogno di fare concessioni al linguaggio di strada, di protestare e presentarsi come l’erede di Marat; anche se pensava ancora al corpo florido di Simone abbandonato fra le sue braccia e a quel figurino che aveva ucciso il suo amico. Ma basta con Marat e la sua fosca angoscia; ora lui ha intenzione di creare un’atmosfera nuova, da ultima Thule, molto semplice e luminosa, con parole levigate e quasi trasparenti. L’aria di Parigi è come il sangue secco; lui (con il permesso e l’approvazione di Robespierre) ci farà sentire che respiriamo ghiaccio, seta e vino.
«A proposito», disse Philippeaux, «avete saputo che hanno arrestato de Sade?».
«Il deputato Philippeaux, il deputato Philippeaux», disse Robespierre. «Di ritorno da una missione attacca la conduzione della guerra. I comandanti della Vandea», sfogliava intanto il pamphlet del deputato, «Hébert li tiene tutti in pugno, e quindi sono tutti sospettati legittimi. A parte Westermann, che è amico di Danton. Purtroppo», Robespierre prese la penna, «Philippeaux non si ferma qui». Chinò il capo per sottolineare alcune frasi. «Accusa il Comitato di essere il responsabile ultimo della guerra. Sembra quasi voglia dire che la guerra sarebbe finita da un pezzo se non fosse stata prolungata per intascare denaro».
«Philippeaux ha trascorso molto tempo con Danton e Camille», disse il membro del Comitato. «Una constatazione, nient’altro».
«Questa sarebbe una di quelle tesi che farebbero breccia in Camille», continuò Robespierre. «Tu credi a una cosa simile? Mah, io non so».
«Metti in dubbio la buona fede dei tuoi colleghi del Comitato?».
«In effetti sì, anche se sono profondamente convinto che ci sia bisogno di mantenerlo in funzione. Arrivano voci da Lione circa il comportamento del nostro amico Collot. Dicono che interpreti gli ordini per punire i ribelli come occasioni per massacrare il popolino».
«Sono voci».
Robespierre congiunse la punta delle mani. «Collot è un attore, un produttore teatrale, mi pare. Un tempo si sarebbe accontentato di mettere in scena drammi su terremoti e pluriomicidi, ora può mettere in pratica le sue fantasie. Quattro anni di rivoluzione, cittadino, e ovunque la stessa avidità, la stessa meschinità, lo stesso egoismo e la stessa diabolica sete di sangue. Non riesco proprio a immaginare cosa abbiano dentro le persone». Poggiò la fronte sulla mano. Il suo collega lo fissò sbalordito. «Nel frattempo cosa fa Danton? Possibile che incoraggi il deputato Philippeaux?».
«Potrebbe farlo, se intravedesse qualche vantaggio temporaneo. Il Comitato deve mettere a tacere Philippeaux».
«Non ce n’è bisogno». Robespierre batté la penna sul foglio stampato. «Non vedi che attacca Hébert? Ci penserà lui. Che Hébert si renda utile una volta tanto».
«Ma hai lasciato che Camille lo attaccasse in questo secondo numero. Dunque», esclamò il collega, «fra i due litiganti il terzo gode? Mi pare che tu sia molto abile, molto».
Decreto della Convenzione nazionale:
Il consiglio esecutivo, i ministri, i generali, tutti gli organismi costituiti sono posti sotto la sorveglianza del Comitato di salute pubblica.
Camille: non capisco perché dovrei aspettarmi dei plausi per il terzo numero. Avrebbe potuto scriverlo chiunque, in fondo è una sorta di traduzione. Leggevo Tacito che scriveva del regno dell’imperatore Tiberio e a de Sade avevo detto che non vedevo differenze: ho controllato e avevo ragione. Le nostre vite somigliano a quelle che descrive l’annalista: famiglie intere cancellate dal boia, uomini che si suicidano piuttosto che essere trascinati per le vie come delinquenti comuni, altri che denunciano gli amici per salvarsi la pelle; tutti i sentimenti umani sono corrotti, è svilita la pietà davanti a un delitto. Mi ricordo la prima volta che l’ho letto, molti anni fa; e se la ricorderà anche Robespierre.
Non mi sembrava che ci fosse da aggiungere altro; questo era sufficiente per portare il testo all’attenzione del pubblico. Togliete i nomi degli antichi romani e – nella vostra testa – sostituiteli con quelli dei francesi e delle francesi, delle persone che conoscete, che vivono nella vostra strada, delle quali avete visto compiersi il destino, un destino che tra non molto potreste condividere.
Si è reso necessario ovviamente rimaneggiare in parte il testo – come direbbe Hébert, ho sprecato il tempo in stronzate. A Robespierre non l’ho mostrato. Sì, immagino che gli verrà un colpo. Ma sarà un colpo salutare, non pensate? Insomma, se riconosce in che stato versiamo, dovrà riflettere sul ruolo che ha avuto nel crearlo. Sembra assurdo affermare che lui è Tiberio, e infatti non dico questo; ma avendo accanto a lui un determinato tipo di uomo – sì, lo ammetto, mi riferisco a Saint-Just – non so cosa potrebbe diventare.
Tacito in un passaggio descrive l’imperatore «senza pietà, senza collera, fermo e impenetrabile, senza ombra di emozioni».
Suona familiare.
«Le Vieux Cordelier», n. 3:
Non appena le parole divennero crimini contro lo Stato, fu breve il passo per trasformare in delitti gli sguardi, il dolore, la compassione, i sospiri e addirittura il silenzio [...].
Per Libone Druso fu un crimine contro lo Stato chiedere a un indovino se sarebbe diventato ricco [...]. Fu un crimine contro lo Stato il fatto che uno dei discendenti di Cassio avesse in casa un ritratto dell’antenato. Mamerco Scauro commise il reato di scrivere una tragedia in cui alcuni versi sottintendevano dei doppi sensi. Fu un crimine contro lo Stato che la madre del console Furio Gemino piangesse la morte del figlio [...]. Era necessario gioire per la morte di un amico o di un parente se si voleva sperare di scampare a propria volta alla morte.
Un cittadino era noto? Avrebbe potuto formare una fazione. Sospetto.
Un altro cercava di ritirarsi dalla vita pubblica? Sospetto.
Sei ricco? Sospetto.
Sei evidentemente povero? Di certo nascondi qualcosa. Sospetto.
Sei malinconico? Devi essere turbato dallo stato in cui versa la nazione. Sospetto.
Sei allegro? Sicuramente gioisci delle catastrofi della nazione. Sospetto.
Sei un filosofo, un oratore o un poeta? Sospetto.
«Questo non me l’avevi fatto leggere», disse Robespierre; la voce era inespressiva. Il vento gli spazzava sul viso le ultime foglie morte dell’anno. Ne prese una fra il pollice e l’indice e nel trattenerla le vene della mano sporsero nette nella luce del pomeriggio. Era stata una bella giornata; il tramonto, di un rosso vivo e liquido, posava gli ultimi raggi sul fiume, più sinistro che suggestivo.
«È come il sangue», disse Camille, «almeno a me fa quest’impressione. Non ti ho nascosto nulla. È probabile che tu abbia una copia di Tacito sui tuoi scaffali».
«Sei in malafede».
«Devi ammettere che è un pezzo molto ben riuscito. Se non lo fosse non avrebbe catturato l’immaginazione del pubblico. Sì, è un ritratto della vita che conduciamo adesso».
«E lo mostri all’Europa intera? Non riesci a contenerti? Vuoi diventare la lettura prediletta dell’imperatore? Ti aspetti un messaggio di congratulazioni da Pitt, dei fuochi d’artificio a Mosca e dei brindisi alla tua salute nei campi degli émigré dall’altra parte del Reno?». Robespierre parlava con un tono di voce calmo e piatto, come se le sue fossero domande sensate. «Allora, rispondi». Posò le mani sul parapetto di pietra del ponte e si voltò a guardare Camille; aspettava.
«Perché ce ne stiamo qua fuori?», chiese lui. «Fa freddo».
«Preferisco parlare all’aperto. Al chiuso non c’è modo di mantenere i segreti».
«Vedi, lo ammetti tu stesso. Vi divora il tarlo della cospirazione. Manderete alla ghigliottina le pareti e gli stipiti delle porte?».
«Io non sono divorato da nulla, se non dal desiderio di fare il meglio per la nazione».
«Allora metti fine al Terrore». Camille fu scosso da qualche brivido. «Sei tu la guida morale, l’unico che può riuscirci».
«Così il governo ci crollerebbe addosso e cadrebbe il Comitato». La voce di Robespierre era un mormorio rapido e incalzante. «Non posso, non mi assumo questo rischio».
«Infiliamoci in qualche vicolo». I due s’incamminarono. «Cambia il Comitato», disse Camille, «ti chiedo solo questo. Collot e Billaud-Varennes non sono persone degne di essere legate al tuo nome».
«Sai bene perché sono dentro. Sono il nostro contentino alla sinistra».
«Dimentico sempre che la sinistra non siamo noi».
«Vuoi avere un’insurrezione sulla coscienza?».
Camille si fermò di nuovo a guardare l’altra riva del fiume. «Sì. Se è necessario sì». Tentò di arginare il panico che gli montava dentro, di frenare il battito del cuore: Robespierre non è abituato ad avere un’opposizione e Camille non è abituato a opporsi a Maxime. «Risolviamo la questione per sempre, anche a duro prezzo».
«È quello che vuole Danton? Altra violenza?».
«Maxime, come chiami ciò che avviene ogni giorno a Place de la Révolution?».
«Preferisco sacrificare gli aristocratici che sacrificarci tra noi. Mi lega un vincolo di fedeltà alla rivoluzione e agli uomini che l’hanno realizzata. Ma tu la stai diffamando davanti a tutta l’Europa».
«Credi che la fedeltà sia la maschera sotto cui fingere che prevarrà la ragione e la giustizia?». Il fiume aveva inghiottito la luce e il vento s’era alzato più forte, strattonando i pastrani con insistenza. «Perché abbiamo fatto la rivoluzione? Pensavo che fosse per poterci scagliare contro l’oppressione, per liberarci dalla tirannia. Ma anche questa è tirannia. Indicamene una peggiore nella storia. Gli individui uccidono per potere, avidità e piacere del sangue, ma indicamene un’altra che uccide con efficienza e per i piaceri della virtù, beandosi delle sue astrazioni sulle tombe ancora aperte. Affermiamo che tutto questo ci serve per preservare la rivoluzione, ma la rivoluzione non è altro che un cadavere che cammina».
Robespierre non lo guardava, ma gli afferrò il braccio con la mano. «Quello che dici è tutto vero, ma io non so in che modo agire», sussurrò. Una pausa. «Vieni, andiamo a casa».
«Ma l’hai detto tu che non possiamo parlare al chiuso».
«Non c’è bisogno di parlare, mi pare. Ormai abbiamo detto tutto».
Hébert, «Père Duchesne»:
Ecco a voi, miei coraggiosi sanculotti, un grande uomo di cui vi siete dimenticati. Siete dei veri irriconoscenti. Egli infatti sostiene che senza di lui non ci sarebbe stata alcuna rivoluzione. Un tempo si chiamava il procuratore della Lanterna; voi credete che io parli di quel famoso tagliateste dalla maschera così celebre da mettere in fuga gli aristocratici; no, al contrario, la persona in questione si vanta di essere il più pacifico degli uomini. A dargli ascolto non possiede più fiele di un piccione; è talmente sensibile che non può sentir parlare di ghigliottina senza rabbrividire fin dentro le ossa [...]. È un gran peccato che non riesca a parlare, altrimenti proverebbe alla Montagna e al Comitato di salute pubblica come a essi manchi il buonsenso.
Ma se Maître Camille non parla, si vendica scrivendo, con grande soddisfazione dei moderati, degli aristocratici e dei monarchici.
Verbale del club dei giacobini:
CITTADINO NICOLAS (interrompendo): Camille, sei a un passo dalla ghigliottina!
CITTADINO DESMOULINS: Nicolas, tu sei a un passo dall’arricchirti! Un anno fa banchettavi con una mela cotta, adesso sei lo stampatore del governo.
(Risate)
Hérault de Séchelles rientrò dall’Alsazia a metà dicembre. Il lavoro era finito. Gli austriaci si stavano ritirando e il fronte era al sicuro; Saint-Just lo avrebbe seguito a distanza di una o due settimane, cinto di gloria.
Andò a trovare Danton, ma Danton non c’era. Gli lasciò un biglietto in cui fissava un incontro, ma Danton non si fece vedere.
In piedi davanti a una finestra delle Tuileries guardava sfilare i carri di morte, e a volte li seguiva fino alla meta mescolandosi tra la folla. Venne a sapere di mogli che denunciavano i mariti al Tribunale e di mariti che denunciavano le mogli; di madri che offrivano i figli alla giustizia della nazione e di figli che tradivano i genitori. Vide delle donne affrettarsi ad allattare i figli fino all’arrivo del carretto. Vide uomini e donne scivolare a faccia in giù nel sangue dei loro amici e i carnefici rialzarli tirandoli per le braccia legate. Vide teste gocciolanti mostrate alle folle che urlavano. «Come mai ti costringi ad assistere a questi spettacoli?», gli chiesero.
«Imparo a morire».
Ventinove frimaio: Tolone cadde in mano all’esercito repubblicano. L’eroe del giorno era stato un giovane capitano d’artiglieria, un certo Bonaparte. «Se per gli ufficiali le cose continuano di questo passo», disse Fabre, «a Bonaparte do tre mesi prima che gli taglino la testa».
Tre giorni dopo, il 2 nevoso, le forze governative annientarono i resti dell’esercito ribelle della Vandea. I contadini catturati vennero considerati dei fuorilegge da fucilare sul posto; non rimase nulla a parte la sanguinaria caccia all’uomo per campi, boschi e paludi.
Nella stanza verde con gli specchi argentati gli eterogenei e faziosi membri del Comitato di salute pubblica cercavano di risolvere le loro divergenze. Stavano vincendo la guerra e mantenevano una pace precaria nelle strade di Parigi. «La rivoluzione è in marcia grazie a questo Comitato», proclamò il popolo.
S’era fatto buio. Eléonore pensava che nella stanza non ci fosse nessuno. Quando vide Robespierre girare la testa si prese uno spavento: il viso, tra le ombre, appariva bianco. «Non vai al Comitato?», gli chiese sottovoce. Lui si era girato a fissare di nuovo il muro. «Accendo la lampada?», domandò lei. «Parlami, ti prego, non ci può essere niente di così terribile».
In piedi, dietro la spalliera della sedia, gli posò una mano sulla spalla; lo sentì irrigidirsi. «Non mi toccare».
Eléonore tolse la mano. «Che cosa ho fatto di male?». Aspettò la risposta. «Non comportarti come un bambino. Non puoi startene qui seduto al freddo e al buio».
Nessuna risposta. Lei uscì lasciando la porta accostata. Tornò dopo qualche istante con un accenditoio che accostò alla legna già disposta nel camino. S’inginocchiò per accudire le prime fiammelle, i capelli bruni lungo la schiena.
«Non voglio luce», disse lui.
Eléonore si sporse a sventolare la fiamma dopo averci messo sopra un altro pezzetto di legno. «Se non ci bado io, tu lo lasceresti spegnere subito, è sempre così. Sono appena tornata dalla lezione. Il cittadino David oggi ha lodato il mio lavoro. Vuoi vederlo? Corro di sotto a prendere la cartella». Ancora inginocchiata, con le mani piantate sulle cosce, lo guardò.
«Alzati», fece Robespierre, «non sei la mia serva».
«No?». La voce di Eléonore era tranquilla. «E cosa sono? Parlare a una serva come parli a me sarebbe contrario ai tuoi principi».
«Cinque giorni fa», disse lui, «ho proposto alla Convenzione di istituire un Comitato di giustizia che esamini i verdetti del Tribunale rivoluzionario e revisioni i casi di persone incarcerate sulla base di sospetti. Ero convinto che fosse quello che occorreva; invece pare di no. Ho appena sfogliato il quarto numero del “Vieux Cordelier”. Eccolo». Lo spinse sullo scrittoio. «Leggi».
«Impossibile, con questo buio». Eléonore accese le candele e ne sollevò una per guardarlo in faccia. «Hai gli occhi rossi. Hai pianto. Non credevo che le critiche della stampa ti facessero quest’effetto, pensavo che fossi superiore».
«Non si tratta di critiche», le rispose, «non sono le critiche il problema. Il problema è un altro, sono le richieste, le richieste fatte direttamente a me. Vengo citato per nome. Guarda». Indicò il punto sulla pagina. «Eléonore, c’è forse qualcuno più clemente di me? In carcere ci sono settantacinque sostenitori di Brissot e io mi sono battuto per la loro vita all’interno dei comitati e alla Convenzione. Ma per Camille non è abbastanza, figuriamoci. Mi vuole trascinare per forza in una sorta... in una sorta di arena da combattimento. Leggi».
Eléonore prese il pamphlet e per avere un po’ di luce avvicinò una sedia allo scrittoio.
Robespierre, tu eri il mio compagno di collegio e ricordi la lezione che la storia e la filosofia ci hanno impartito: l’amore è più forte e più duraturo della paura.
L’amoreèpiùforteepiùduraturodellapaura; Eléonore alzò gli occhi su di lui e li riabbassò sulla pagina stampata.
Ti sei già avvicinato moltissimo a quest’idea nel provvedimento che hai fatto approvare oggi, durante la seduta del 30 frimaio. Si tratta della proposta di un Comitato di giustizia. Ma per quale motivo la clemenza sarebbe diventata un crimine sotto la Repubblica?
Eléonore alzò lo sguardo. «La prosa è pulitissima», disse Robespierre, «priva di presunzione ed esibizionismo, priva di ironia. Camille crede in ogni parola che scrive. In passato credeva alla metà, era il suo stile».
Rilasciate quei duecentomila cittadini che chiamate “sospetti”. Nella Dichiarazionedeidirittidell’uomo non c’è posto per l’incarcerazione sulla base del sospetto.
Avete intenzione di sterminare tutti i vostri nemici con la ghigliottina. Si è mai vista follia più grande? Quando ne manderete uno al patibolo, vi inimicherete tutti i parenti e gli amici. Guardate che razza di gente avete messo dietro le sbarre: donne, anziani, uomini accecati dalla bile, i relitti della rivoluzione. Credete che davvero possano costituire un pericolo? Dei vostri nemici non restano che i malati e i codardi? Quelli coraggiosi e forti sono fuggiti oltreconfine, o sono morti a Lione e nella Vandea; tutti gli altri non meritano la vostra collera. Io credo, contrariamente al vostro pensiero, che per consolidare la libertà e mettere in ginocchio l’Europa bisognerebbe istituire un Comitato di clemenza.
«Hai letto abbastanza?», chiese Robespierre.
«Sì. Stanno cercando di forzarti la mano». Eléonore alzò lo sguardo. «Immagino che dietro ci sia Danton».
Sul momento Robespierre non rispose. Poi mormorò, cambiando argomento: «Quando eravamo bambini ho detto a Camille: adesso stai tranquillo, mi prenderò io cura di te. Ci avresti dovuto vedere, Eléonore, ti avremmo fatto pena, penso. Non so cosa ne sarebbe stato di lui se non ci fossi stato io». Sprofondò il viso tra le mani. «E cosa ne sarebbe stato di me se non ci fosse stato lui».
«Ma adesso non siete più dei bambini», ribatté lei sottovoce, «e l’affetto di cui stai parlando non esiste più. Camille è legato a Danton».
Robespierre alzò lo sguardo. Ha il viso trasparente, pensò Eléonore. Trasparente, una parola che piacerebbe anche a lui. «Danton non è un mio nemico», le disse. «È un patriota per il quale metto a rischio la mia reputazione. Ma cosa ha fatto lui nell’ultimo mese? Qualche discorso. Retorica altisonante, che lo consacra alla ribalta ma non significa un bel nulla. Pensa di essere un autorevole statista, ma non rischia niente. Getta il mio povero Camille tra le braci e se ne sta con i suoi amici a scaldarsi le mani».
«Non ti agitare, non serve a niente». Eléonore abbassò di nuovo gli occhi sul pamphlet. «Fra le righe lascia intendere che il Comitato abusi dei propri poteri. Mi pare chiaro che Danton e i suoi si considerano un’alternativa di governo».
«Sì». Robespierre alzò gli occhi, accennò un mezzo sorriso. «Danton mi ha offerto già una volta un posto e senza dubbio lo rifarebbe. Capisci, sperano che io li segua».
«Che tu segua quel branco di imbroglioni? Sarebbe come se seguissi la banda di briganti che ti tiene in ostaggio. Vogliono soltanto sfruttare il tuo nome, il tuo buon nome di uomo onesto».
«Sai cosa vorrei io? Che Marat fosse vivo. A che punto sono arrivato! Ma a lui Camille darebbe ascolto».
«È un’eresia». Eléonore si chinò di nuovo sulle pagine stampate. A Robespierre sembrava che leggesse con una lentezza straziante; pareva soppesare ogni parola. «I giacobini lo espelleranno».
«Lo impedirò».
«Cosa?».
«Ho detto che lo impedirò».
Lei gli sventolò il pamphlet davanti. «Daranno la colpa di questo a te. Pensi forse di riuscire a proteggerlo?».
«Proteggerlo? Oh, sant’Iddio – per lui avrei dato la vita in qualsiasi momento, qualsiasi prima di adesso. Ma ora mi pare... di avere forse il dovere di restare vivo».
«Il dovere nei confronti di chi?».
«Del popolo. Nel caso in cui dovesse accadere il peggio».
«Sono d’accordo. Hai il dovere di restare vivo. Vivo e al potere».
Robespierre si voltò. «Con quanta facilità pronunci queste parole, Eléonore, come se fossero tue da sempre. Sapevi che Collot è tornato da Lione? Ha ultimato “l’opera”, come la definisce lui. Ha chiaro, dritto davanti a sé l’ampio sentiero della rettitudine. Essere un buon giacobino è facile. Collot non ha il minimo dubbio, il minimo scrupolo – anzi, sospetto che in quella zucca non abbia niente. Mettere fine al Terrore? Secondo lui non abbiamo neppure cominciato».
«La prossima settimana arriva Saint-Just. Dei tempi della scuola, Maxime, non ne vorrà sapere, non accetterà scuse».
Robespierre sollevò il mento con una fierezza cieca, riflessa. «Non gli saranno offerte delle scuse. Conosco Camille. È più forte di quanto si possa pensare. Certo, non esternamente, non in modo visibile, ma io lo conosco. Ha una vanità dura come una corazza di ferro... e perché non dovrebbe essere così? Viene dal 12 luglio, dalle giornate prima della Bastiglia. Ha l’esatta percezione di quello che ha fatto, del rischio che ha corso. Io avrei rischiato lo stesso? No di certo. Non avrebbe avuto senso, nessuno mi avrebbe neanche rivolto uno sguardo. E Danton? No, neppure lui avrebbe rischiato tanto. Era un giovanotto rispettabile, un avvocato, un uomo sposato. Come vedi, Eléonore, quattro anni dopo siamo ancora qua a guardare con soggezione a quanto è accaduto in una frazione di secondo».
«Che stupidaggine».
«Non credo. Le cose importanti vengono sempre decise in una frazione di secondo. Camille è salito su una sedia davanti a migliaia di persone e la sua vita è cambiata in quell’istante. E tutto quello che è venuto dopo, naturalmente, non ha niente di sublime».
Eléonore si alzò; si staccò da lui. «Vai a trovarlo?».
«Adesso? No, ci sarà Danton e probabilmente staranno festeggiando».
«Be’, che male c’è? Sarà anche finito il regno della superstizione, ma oggi è Natale».
«Incredibile», fece Danton. Tirò indietro la testa e buttò giù un altro bicchiere: non aveva l’aria di un autorevole statista. «Fuori della Convenzione ci sono dei dimostranti che invocano un Comitato di clemenza. Davanti alla libreria di Desenne fanno la fila per chiedere di stampare un’altra edizione del pamphlet. Il prezzo di copertina era di due lire e ora se lo rivendono per venti franchi. Camille, da solo hai dato un colpo mortale all’inflazione».
«Adesso però mi dico che sarebbe stato molto meglio avvertire Robespierre. Riguardo a quello che ho scritto, ovviamente».
«Ma per l’amor di Dio». Danton, immenso, spavaldo e vigoroso, era l’amato capo di una nuova forza politica. «Che qualcuno vada a prendere Robespierre, che lo trascini fuori dal suo buco. È ora di farlo ubriacare». Batté la mano sulla spalla di Camille. «È ora che la rivoluzione si lasci un po’ andare. La gente non ne può più di spargimenti di sangue e si vede da come sta reagendo a quanto hai scritto».
«Però avremmo dovuto cambiare il Comitato entro questo mese. Tu ci saresti già dovuto entrare».
Intorno a loro riprese il ronzio della conversazione. Con la sua dichiarazione Danton li aveva rincuorati. «Non c’è bisogno di precipitarsi», disse, «andrà bene il mese prossimo, ora prepariamo il terreno per il cambiamento. Non dobbiamo imporre noi la questione, saranno gli altri a venirci incontro di loro spontanea volontà». Camille scoccò un’occhiata a Fabre. «Ma perché non sei contento?», gli chiese perentorio Danton, «hai appena conseguito il successo più importante della tua carriera. In nome della Repubblica ti ordino di gioire».
Poco dopo giunsero Annette e Claude. Lei aveva un’aria guardinga, abbottonata, ma lui sembrava in vena di tenere un grande discorso. «Eh già», disse rivolto trenta centimetri sopra la testa del genero. «In passato non mi sono mai profuso in complimenti, è vero, ma adesso mi voglio congratulare con te, dal cuore. È un atto di grande coraggio».
«Come mai queste parole? Pensi che mi vogliano tagliare la testa?».
All’improvviso ci fu un silenzio totale, protratto. Nessuno aprì bocca né si mosse. Per la prima volta in tanti anni Claude scoprì che era possibile guardare le persone in viso. «Ma Camille», disse, «chi può volerti fare del male?».
«Sono in tanti», rispose lui con fare distaccato. «Billaud perché l’ho sempre preso in giro. Saint-Just perché ha la mania del comando e io non gli vado dietro. Tutti i membri del club dei giacobini che vogliono il mio sangue da quando ho difeso Dillon. Dieci giorni fa hanno sollevato la questione del processo Brissot: che diritto avevo di svenire senza averli informati? E poi Barnave: vogliono sapere come ho osato andare alla Conciergerie per parlare con un traditore».
«Robespierre però ti ha difeso», ribatté Claude.
«Sì, è stato molto buono. Ha spiegato che ho un’emotività eccessiva. Ha spiegato che mi conosce da quando avevo dieci anni e che sono sempre stato così. Mentre scendeva dalla tribuna mi ha sorriso annuendo col capo. Aveva gli occhi taglienti: mi ha inciso addosso il valore come un orafo che apponga il suo timbro».
«Ma non è stato soltanto questo», disse Lucile, «ti ha elogiato sinceramente».
«Certo. Il club era commosso, lusingato. Per qualche istante Robespierre ha concesso loro di sbirciare nella sua vita privata... Be’, capite bene, si trattava di una commovente prova della sua natura umana».
«Cosa vorresti dire?», chiese Claude.
«Allora, torno a una mia precedente convinzione. Maximilien è Gesù Cristo, è più che lampante, ha anche accettato di farsi adottare da un falegname. Cosa farà durante la prossima riunione, quando chiederanno la mia espulsione, mi domando?».
«Ma finché Robespierre è al potere non ti può succedere niente», disse Claude, «è impossibile. Andiamo, è veramente impossibile».
«Dunque secondo te io sono protetto. Ma essere protetti è irritante».
«Finiamola», disse Danton poggiando il bicchiere. Si sporse in avanti; era del tutto sobrio, contrariamente a quanto sembrava qualche minuto prima. «Tu sai qual è il mio indirizzo politico, cosa cerco di fare. Ora che i pamphlet hanno avuto il risultato sperato, il tuo compito è di tenere alto l’umore di Robespierre e, inoltre, di tenere la bocca chiusa. Non ha senso correre rischi. Nel giro di due mesi tutta l’opposizione moderata si sarà cristallizzata intorno a me. E sarà sufficiente che io esista».
«Nel mio caso però è problematico», borbottò Camille.
«Credi non sia in grado di proteggere i miei seguaci?».
«Sono stufo di essere protetto», sbottò lui. «Sono stanco di compiacere te e placare Robespierre e correre dall’uno all’altro appianando le situazioni e prodigandomi davanti alla vostra mostruosa e arrogante presunzione, che fagocita ogni cosa. Ne ho abbastanza».
«Se le cose stanno così», disse Danton, «il tuo ruolo in futuro sarà molto, molto limitato».
Il giorno dopo il Comitato di giustizia proposto da Robespierre cadde vittima del rigore rivoluzionario di Billaud-Varennes. Al club dei giacobini, in presenza dell’Incorruttibile, Billaud disse senza peli sulla lingua che era stata un’idea stupida fin dall’inizio.
Quella notte Robespierre non dormì. Non rimuginava sulla sconfitta; rimuginava sull’umiliazione. Non ricordava un’altra occasione in cui qualcuno si fosse fatto beffa dei suoi desideri manifesti; o meglio, lo ricordava ma vagamente, come qualcosa accaduto in una precedente incarnazione. La Candela di Arras aveva illuminato un altro mondo.
Era seduto accanto alla finestra, da solo, all’ultimo piano; guardava gli spigoli scuri della sommità del tetto e le stelle nel mezzo. Avrebbe voluto pregare, però non ci sarebbero state parole che avrebbero potuto commuovere o anche solo sfiorare la cieca e implacabile divinità che si era impossessata della sua vita. Tre volte si alzò per assicurarsi che la porta fosse ben chiusa, con il catenaccio tirato e la chiave girata nella toppa. Il buio a poco a poco svanì; la strada sembrava popolata di ombre... Sottoilregnodell’imperatoreTiberio... I fantasmi delle anime morte, con le facce d’argilla, pregavano di essere ammessi; furtivi, si portavano dietro l’odore selvatico e le lunghe ombre di animali da circo.
Il giorno seguente Camille si recò a casa dei Duplay. S’informò della salute e dei quadri di Eléonore. «Lucile diceva che sarebbe venuta a trovarti, ma non sa quando è il momento opportuno, per via delle lezioni. Perché non vieni tu da noi?».
«Va bene», rispose lei poco convinta. «Come sta il bambino?».
«Benissimo. È meraviglioso».
«Ti somiglia, Camille. Avete gli stessi lineamenti».
«Che gentile, sei la prima che lo dice in questi diciotto mesi. Posso salire?».
«Non è in casa».
«Cornélia, su, sai bene che c’è».
«È occupato».
«Ti ha detto di non far passare nessuno o soltanto me?».
«Ascolta, ha bisogno di un po’ di tempo per riordinare le idee. La notte scorsa non ha dormito. Sono preoccupata».
«È molto arrabbiato con me?».
«No, non lo è. Penso piuttosto che sia... sconvolto dal fatto che lo consideri responsabile di questa ondata di violenza e che lo hai criticato in pubblico».
«Gli avevo detto che mi riservavo il diritto di metterlo in guardia quando il paese si fosse trasformato in una tirannia. Le nostre coscienze sono di pubblico dominio, per cui in che altro modo posso esprimere la mia opinione?».
«Lo spaventa che tu ti metta in una situazione tanto brutta».
«Vai a dirgli che sono qui».
«Non vorrà vederti».
«Eléonore, vai a dirglielo».
La donna cedette. «Va bene».
Lo lasciò da solo, in piedi, con la gola che gli bruciava dal dolore. Mentre saliva le scale si fermò a riflettere, poi arrivò in cima. Bussò. «C’è Camille».
Sentì una sedia che si spostava, uno scricchiolio: nessuna risposta.
«Ci sei? Camille è di sotto. Insiste per vederti».
Robespierre aprì la porta. Era certa che fosse stato dietro l’uscio sin dal primo momento. Che assurdità, pensò. Maxime sudava.
«Non devi farlo salire, te l’ho detto. Perché non mi dai mai retta?». Cercava di parlare con molta calma.
Eléonore si strinse nelle spalle. «Come vuoi».
Robespierre aveva la mano sul pomello della porta; lo muoveva avanti e indietro sulla superficie levigata, facendo oscillare l’anta di una quindicina centimetri.
«Vado a dirglielo», fece lei. Guardò giù per la tromba delle scale come se Camille potesse arrivare di corsa e scavalcarla dandole una spallata. «Non so se lo accetterà».
«Ma cosa gli passa per la testa, santo cielo? Che cosa si aspetta?».
«Io non capisco perché non vuoi farlo entrare. Sapete entrambi che ti ha messo in una situazione molto difficile, e tu sai che lo difenderai, cosa che secondo me è chiara anche a lui. Qui non si tratta di capire se riuscirete ad appianare le divergenze, perché tanto accadrà. Tu, pur di giustificare le sue azioni, metti a rischio la tua reputazione. Quando sei di fronte a Camille scaraventi fuori dalla finestra ogni tuo principio».
«Non è vero, Eléonore», disse lui a bassa voce. «Non è vero e lo dici soltanto per una contorta forma di gelosia. E anche lui deve prendere atto che le cose non stanno così: dev’essere costretto a riflettere. Senti», nella voce gli riaffiorò l’agitazione, «come ti pare che stia?».
Eléonore aveva le lacrime agli occhi. «Al solito».
«Ha una brutta cera? È sconvolto?».
«No, è sempre il solito».
«Santo cielo». Stancamente, con dei gesti delicati, Robespierre tolse la mano sudata dal pomello e con le dita tese se l’asciugò sull’altro braccio. «Ho bisogno di lavarmi le mani».
La porta si richiuse piano. Eléonore tornò di sotto asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. «È come ti avevo detto», fece. «Non ti vuole vedere».
«Pensa che sia per il mio bene, vero?». Camille scoppiò in una risata nervosa.
«Sono sicura che tu possa capire come si sente. Hai cercato di usare il suo affetto per te per costringerlo ad appoggiarti in un’iniziativa che non condivide».
«Non la condivide? E da quando?».
«Forse da ieri, dopo la sconfitta che gli è toccata. Ora sta a te venirne a capo. In me non ha fiducia e io di politica non capisco niente».
Una vacua tristezza aveva riempito lo sguardo di Camille. «Benissimo», fece, «posso vivere anche senza la sua approvazione». Si diresse verso la porta prima che Eléonore potesse accompagnarlo. «Addio, Cornélia, non credo che d’ora in poi ci vedremo più molto spesso».
«Perché, dove vai?».
Sulla soglia della porta aperta, Camille si voltò di scatto: tirò a sé Eléonore, le fece scivolare una mano sul seno e la baciò sulle labbra. Due uomini che stavano lavorando rimasero a osservarli. «Povera te», disse, poi la sospinse delicatamente verso la parete. Mentre lo guardava andare via, lei si portò il dorso della mano contro le labbra. Nelle ore che seguirono sentì ancora la pressione di quelle dita che le toccavano il seno e continuò a torturarsi la mente con il colpevole pensiero di non aver mai avuto un vero amante.
Lettera a Camille Desmoulins, 11 nevoso, anno II:
Non sono un fanatico o un entusiasta, né un uomo incline ai complimenti; se ti sopravvivrò ti erigerò una statua con l’iscrizione: «Degli uomini malvagi ci avrebbero costretto ad accettare una libertà impastata di fango e sangue. Camille ce la fece amare scolpita nel marmo e ricoperta di fiori».
«Certo non è vero», disse lui, «ma questa la conserverò gelosamente fra le mie carte».
«Noto», disse Hérault, «che hai compiuto il generosissimo sforzo di venire a parlare con me, quando avresti potuto benissimo voltarti dall’altra parte. Vorrà dire che ai tuoi occhi sarò diventato un caso pietoso come Barnave. A proposito, sai che è tornato Saint-Just?».
«Ah».
«Forse è il caso di non inimicarsi troppo Hébert».
«Il mio quinto pamphlet è in via di preparazione», disse Camille. «Libererò il pubblico da quell’accentratrice, irragionevole sconcezza, fosse l’ultima cosa che faccio».
«Potrebbe esserlo benissimo». Hérault sorrise, ma senza affabilità. «So che godi di una posizione privilegiata, ma a Robespierre la sconfitta non piace».
«Robespierre è a favore della clemenza. Certo, ha subito uno scacco, ma troveremo un’altra strada».
«In che modo? Credo che lui lo ritenga molto più di uno scacco. Non ha una base di sostenitori, se non fra l’opinione patriottica. Ha pochissimi amici. Ha piazzato alcuni dei suoi vecchi seguaci nel Tribunale ma non può contare su alcun ministro, né su alcun generale: sono aspetti che ha trascurato. Il suo potere è esclusivamente nelle nostre menti, e sono certo che lui ne è consapevole. Se può essere sconfitto una volta, perché non potrebbe esserlo una seconda, e poi ancora, e ancora?».
«Per quale motivo cerchi di spaventarmi?».
«Mi diverte», disse con disinvoltura Hérault. «Non sono mai riuscito a capirti fino in fondo. Tu fai leva sui suoi sentimenti, però lui continua a sostenere che i sentimenti personali dovrebbero essere messi da parte».
«Già, noi tutti lo sosteniamo. Del resto è l’unica cosa sensata, anche se non la facciamo».
«Camille, perché ti sei esposto in questo modo?».
«Non l’hai capito?».
«Sinceramente non ne ho la minima idea. Volevi metterti di nuovo in mostra davanti all’opinione pubblica, suppongo».
«Pensi questo? C’è chi dice che questo scritto sia un’opera d’arte, la cosa migliore mai uscita dalla mia penna. Credi che io sia orgoglioso delle vendite?».
«Io lo sarei».
«Già, i pamphlet hanno un grande successo. Ma adesso a me non importa del successo. Non posso più sopportare questo cumulo di ingiustizie, di ingratitudine e di errori».
È un bell’epitaffio, in caso dovesse servirgli, pensò Hérault. «Riferisci a Danton – per quello che vale, e forse mi rendo conto che potrebbe essere uno svantaggio – che questa campagna a favore della clemenza ha il mio appoggio e la mia simpatia».
«Io e Danton non siamo in buoni rapporti».
Hérault aggrottò la fronte. «Come no? Camille, ma in che situazione ti stai mettendo?».
«Non lo so». Si tirò indietro i capelli.
«Hai di nuovo parlato male di sua moglie?».
«Nient’affatto. Santo cielo... i nostri sentimenti personali vanno messi da parte».
«Allora per cosa avete litigato, per motivi futili?».
«Tutto quello che faccio è futile», ribatté Camille sfoggiando all’improvviso una selvaggia animosità. «Io sono futile e debole, non capisci? Senti, Hérault, devo riferire altro?».
«Soltanto che a mio parere sta temporeggiando troppo».
«Temi che la politica della clemenza arrivi troppo tardi per usufruirne?».
«Ogni giorno c’è qualcuno che non ne usufruisce».
«Forse Danton ha le sue buone ragioni. Quante coalizioni incomprensibili... Fabre è convinto che io sappia tutto di Georges, ma si sbaglia. Non penso che sopporterei di sapere tutto, non credi? Anzi, non lo sopporterebbe nessuno».
«A volte parli proprio come Robespierre».
«La nostra è una lunga frequentazione. È la cosa su cui conto».
«Stamattina mi è arrivata una lettera da un collega del Comitato. Sono accusato di passare agli austriaci i nostri atti segreti». Hérault fece una smorfia. «Manca qualche ulteriore prova documentale prima di arrivare al processo, ma per Saint-Just non sarà un problema. In Alsazia ha cercato di rovinarmi. Non sono uno stupido, ma è stato difficile tenergli testa. Non è servito a molto, comunque».
«Purtroppo hai un difetto di nascita».
«Appunto. Sto andando a presentare le mie dimissioni dal Comitato. Dillo pure a Georges. Ah, e porgigli tanti auguri di buon anno».
SAINT-JUST: Chi paga Camille per scrivere queste cose?
ROBESPIERRE: No, no, tu non capisci. È talmente scosso dalla direzione che hanno preso gli eventi...
SAINT-JUST: È un ottimo attore, devo ammetterlo. Sembra che vi abbia ingannato praticamente tutti.
ROBESPIERRE: Perché guardi sempre con malafede a quello che fa?
SAINT-JUST: Vuoi rendertene conto, Robespierre? O lui è in malafede, e quindi è un controrivoluzionario, oppure ha ammorbidito le sue posizioni politiche, e quindi è un controrivoluzionario.
ROBESPIERRE: Magnifico. Tu non c’eri nell’89.
SAINT-JUST: Abbiamo un calendario nuovo e l’89 non esiste.
ROBESPIERRE: Non puoi giudicare Camille, non sai niente di lui.
SAINT-JUST: Sono le sue azioni a parlare, e comunque conosco Camille da anni. Si è sempre lasciato trasportare dalla corrente finché non si è ricavato un posticino da prostituta della carta stampata. Si vende al miglior offerente ed è questo il motivo per cui lui e Danton hanno tanto in comune.
ROBESPIERRE: Non capisco proprio come tu possa definire prostituzione della carta stampata e compagnia bella un appello alla clemenza.
SAINT-JUST: Ah no? Allora riesci a spiegare come mai nell’ultimo mese si brinda alla sua persona a ogni tavola di aristocratico? Puoi spiegare come mai gente come la Beauharnais gli manda lettere di ringraziamento e d’ammirazione? E a cosa siano dovuti i disordini civili?
ROBESPIERRE: Non sono stati dei disordini civili. Erano cittadini che si presentavano alla Convenzione con legittime petizioni.
SAINT-JUST: Invocando il suo nome. È l’eroe del momento.
ROBESPIERRE: Be’, non è la prima volta che gli capita.
SAINT-JUST: C’è chi sa sfruttare questo successo per fini molto sinistri.
ROBESPIERRE: Tipo?
SAINT-JUST: Una cospirazione contro la Repubblica.
ROBESPIERRE: Chi cospira? Camille non cospira con nessuno.
SAINT-JUST: Ma Danton sì. Con Orléans. Con Mirabeau. Con Brissot. Con Dumouriez e la corte, l’Inghilterra e tutti i nostri amici stranieri.
ROBESPIERRE: Con che coraggio affermi queste cose?
SAINT-JUST: E tu avresti il coraggio di rompere con lui? Convocalo davanti al Tribunale perché risponda di queste accuse.
ROBESPIERRE: Facciamo un esempio. Un tempo lui frequentava Mirabeau, immagino che tu intenda questo. Mirabeau è caduto in disgrazia, ma quando Danton l’ha conosciuto era considerato un patriota. Non era un reato allora trattare con lui e tu non lo puoi rendere tale retroattivamente.
SAINT-JUST: Ma tu non condividevi la cecità generale nei confronti di Riquetti, se ho ben capito.
ROBESPIERRE: No.
SAINT-JUST: Dunque hai messo in guardia Danton, giusto?
ROBESPIERRE: Non mi ha dato retta. Ma non è un reato neppure questo.
SAINT-JUST: No? Io ho dei sospetti riguardo a un uomo a cui – diciamo – sfugge l’odio per i nemici della rivoluzione. Se non è un reato, è comunque un atteggiamento che va ben oltre l’imprudenza. C’era in ballo del denaro, come sempre, quando si tratta di Danton. Impara questa lezione, accetta che la moneta sonante è la misura del suo patriottismo. Dove sono i gioielli della Corona?
ROBESPIERRE: Ne era responsabile Roland.
SAINT-JUST: Roland è morto. Ti rifiuti di guardare in faccia la realtà. È in atto una cospirazione. Questa storia della clemenza è soltanto un espediente per seminare dissidio fra i patrioti e raccogliere qualche facile attestato di buona volontà. Del complotto fa parte Pierre Philippeaux, con i suoi attacchi al Comitato, e a capo c’è Danton. Aspetta e vedrai. Il vero attacco contro Hébert uscirà sul prossimo numero del «Vieux Cordelier», perché per arrivare al potere devono toglierselo dai piedi. Attaccheranno anche il Comitato. Io credo che stiano progettando un colpo militare, con Westermann e anche Dillon.
ROBESPIERRE: Dillon è stato arrestato di nuovo. Pensi a un piano per salvare il delfino? A me pare improbabile.
SAINT-JUST: Questa volta Camille non riuscirà a cavarlo dai guai. Anche se le nostre carceri non sono così sicure.
ROBESPIERRE: Le carceri, accidenti! La gente dice che se non miglioreranno i rifornimenti di carne, faranno irruzione nelle carceri per arrostire i detenuti e mangiarseli.
SAINT-JUST: La gente è ignorante e disperata.
ROBESPIERRE: Che cosa ti aspetti? Problemi come i rifornimenti di carne non me li ricordavo neppure.
SAINT-JUST: Mi pare che tu non stia mettendo a fuoco la questione.
ROBESPIERRE: Danton è un patriota. Portami degli elementi che provino il contrario.
SAINT-JUST: Sei molto ostinato, Robespierre. Che elementi vorresti?
ROBESPIERRE: E poi tu che ne sai delle lettere che riceve Camille?
SAINT-JUST: Ah, quando ti elencavo le persone che cospiravano con Danton, ho dimenticato La Fayette.
ROBESPIERRE: Be’, con questo nessuno è escluso.
SAINT-JUST: Mi pare sia così: nessuno è escluso.
Durante la prima settimana del nuovo anno, a Robespierre furono recapitate delle carte che provavano oltre ogni ragionevole dubbio il coinvolgimento di Fabre nella truffa della Compagnia delle Indie orientali – uno scandalo su cui lo stesso Fabre investigava con la collaborazione del Comitato di polizia. Per una mezz’ora Robespierre le studiò tremante di rabbia e di umiliazione, cercando in ogni modo di non perdere il controllo. Appena sentì la voce di Saint-Just, ebbe l’impulso di uscire dalla stanza; ma di uscita ce n’era una sola.
SAINT-JUST: Cos’hai da dire adesso? Camille doveva esserne al corrente.
ROBESPIERRE: Ha protetto un amico. Non avrebbe dovuto farlo, doveva venire da me.
SAINT-JUST: Fabre ti ha proprio ingannato.
ROBESPIERRE: Le cospirazioni di cui mi ha riferito erano vere.
SAINT-JUST: Ma certo. Tutte le persone di cui ha parlato si sono comportate come aveva previsto. Cosa ne pensiamo noi di un tale così vicino al cuore subdolo della Repubblica?
ROBESPIERRE: Ormai sappiamo benissimo cosa pensare.
SAINT-JUST: Fabre è sempre stato al fianco di Danton.
ROBESPIERRE: E allora?
SAINT-JUST: Non essere più ingenuo di quanto tu sia già stato.
ROBESPIERRE: Alla prossima riunione Fabre sarà fuori dai giacobini. Mi sono fidato e mi ha fatto fare la figura dell’idiota.
SAINT-JUST: Te l’hanno fatta fare tutti.
ROBESPIERRE: Devo cominciare a riconsiderare la situazione. Sono troppo bendisposto verso le persone.
SAINT-JUST: Posso fornirti una certa quantità di prove di cui dispongo.
ROBESPIERRE: Le conosco le cosiddette prove: sentito dire, denunce e retorica pura.
SAINT-JUST: Sei deciso a perseverare nell’errore?
ROBESPIERRE: Antoine, parli come un prete, questa è la formula che si usa durante il sacramento della confessione, hai presente? Ammetto di aver seguito una linea d’azione fin qui sbagliata. Le persone le osservo mentre agiscono, le ascolto, ma avrei dovuto guardare a fondo nel loro cuore. D’ora in poi scoverò tutti i cospiratori.
SAINT-JUST: Chiunque essi siano. Ora va passato al vaglio il credito di cui hanno goduto durante la rivoluzione, poco o tanto che fosse. La rivoluzione è stata frenata, e l’hanno frenata con i loro discorsi da moderati. Restare fermi significa arretrare.
ROBESPIERRE: Stai confondendo le metafore.
SAINT-JUST: Io non sono uno scrittore, ho da offrire ben più che delle semplici frasi.
ROBESPIERRE: Ritorniamo a Camille.
SAINT-JUST: Va bene.
ROBESPIERRE: È stato indotto in errore.
SAINT-JUST: Non è questa la mia opinione, né quella del Comitato in generale. Noi lo riteniamo responsabile delle sue azioni e siamo fortemente convinti che non debba sfuggire alla punizione che merita per via dei sentimenti personali che ti legano a lui.
ROBESPIERRE: Di cosa mi stai accusando?
SAINT-JUST: Di essere debole.
ROBESPIERRE: Se sono arrivato fin qui non è stato per debolezza.
SAINT-JUST: Allora rinfrescaci la memoria.
ROBESPIERRE: Indagheremo sulla sua condotta come su quella di chiunque altro. È soltanto una persona... Dio mio, quanto ho sperato di poter evitare questa situazione.
Il quinto numero del «Vieux Cordelier» apparve il 5 gennaio, il 16 nevoso. Conteneva degli attacchi a Hébert e alla sua fazione, paragonava (in peggio) i suoi scritti a una cloaca. Lo accusava di corruzione e di connivenza con il nemico. Venivano attaccati anche Barère e Collot, membri del Comitato di salute pubblica.
Verbali del club dei giacobini (1):
CITTADINO COLLOT (dallatribuna): Philippeaux e Camille Desmoulins...
CITTADINO HÉBERT: Giustizia! Chiedo di essere ascoltato!
PRESIDENTE: Ordine! Sottopongo all’assemblea la decisione di dare lettura del quinto numero.
GIACOBINO: Lo abbiamo letto tutti.
GIACOBINO: Che vergogna ammettere di aver letto l’opuscolo di un aristocratico.
GIACOBINO: Hébert è contrario. Non vuole che si sappia la verità.
CITTADINOHÉBERT: No, no, no, non deve assolutamente esserne data lettura! Camille sta cercando di complicare tutto, di sviare l’attenzione dalla sua persona. Mi accusa di rubare fondi pubblici ma è tutto falso.
CITTADINODESMOULINS: Ho le prove in mano.
CITTADINOHÉBERT: Dio mio! Vuole assassinarmi!
Verbali del club dei giacobini (2):
PRESIDENTE: Chiamiamo a intervenire Camille Desmoulins perché giustifichi la sua condotta.
GIACOBINO: È assente.
GIACOBINO: Per il sollievo di Robespierre.
PRESIDENTE: Pronuncerò tre volte il suo nome affinché abbia l’opportunità di presentarsi davanti a questa società.
GIACOBINO: Che peccato che non abbia un gallo da convincere a cantare tre volte. Sarebbe illuminante vedere cosa farebbe Danton.
PRESIDENTE: Camille Desmoulins...
GIACOBINO: È assente. Non è uno stupido.
GIACOBINO: Se non c’è è inutile continuare a chiamarlo.
CITTADINOROBESPIERRE: Discuteremo invece...
CITTADINODESMOULINS: In realtà ci sono.
CITTADINOROBESPIERRE (apienavoce): Dicevo che piuttosto discuteremo dei delitti commessi dal governo britannico.
GIACOBINO: Argomenti che non comportano rischi.
CITTADINODESMOULINS (dallatribuna): Immagino... immagino che sosterrete che sia stato indotto in errore. Lo riconosco... magari a proposito delle motivazioni che spingevano Philippeaux. Nella mia vita errori ne ho commessi tanti. Che questa società mi sia di guida e di consiglio perché io... io in queste materie non mi ci raccapezzo più.
GIACOBINO: Lo sapevo che sarebbe crollato.
GIACOBINO: Una tattica comprovata.
GIACOBINO: Guarda, Robespierre è già balzato in piedi.
CITTADINOROBESPIERRE: Chiedo la parola.
CITTADINODESMOULINS: Robespierre, lasciami...
CITTADINOROBESPIERRE: Taci, Camille, voglio parlare io.
GIACOBINO: Vatti a sedere, Camille, non farai che peggiorare la tua situazione.
GIACOBINO: Ha ragione, scendi e lascia che ci pensi Robespierre a sbrogliarti la matassa. Che meraviglia!
CITTADINOROBESPIERRE (dallatribuna): Cittadini, Camille ci ha promesso di sconfessare i propri errori e di rinunciare alle eresie politiche che riempiono le pagine di questi pamphlet. Ne ha venduto un gran numero di copie e gli aristocratici nella loro falsità e perfidia lo hanno sommerso di lodi: entrambi fattori che gli hanno fatto perdere la testa.
GIACOBINO: Ma guarda, non ha più il vizio delle lunghe pause.
CITTADINOROBESPIERRE: Questi scritti sono pericolosi perché compromettono l’ordine pubblico e alimentano le speranze del nemico. Però dobbiamo distinguere fra l’autore e l’opera. Camille... oh, Camille non è che un ragazzino viziato. Caratterialmente è una brava persona, ma ha cominciato a frequentare cattive compagnie che lo hanno indotto in grave errore. È nostro dovere rinnegare questi scritti, che non avrebbe osato approvare neppure Brissot. Camille però deve restare nel nostro seno. Chiedo pertanto che le edizioni incriminate del «Vieux Cordelier» vengano bruciate davanti a questa società.
CITTADINODESMOULINS: Bruciarenonèunarisposta.
GIACOBINO: Verissimo, l’ha detto Rousseau!
GIACOBINO: Potessimo avere tanta vita da vedere il gran giorno!
GIACOBINO: Disorientato dal suo dio Jean-Jacques! Robespierre ha la faccia verde.
GIACOBINO: Io non vorrei vivere così a lungo da dover subire le conseguenze di tanto acume.
GIACOBINO: Non è detto che accada.
CITTADINOROBESPIERRE: Camille, come puoi difendere questi opuscoli che mandano in sollucchero gli aristocratici? Camille, pensi che ti tratteremmo con tanta indulgenza se tu fossi chiunque altro?
CITTADINODESMOULINS: Robespierre, non ti capisco. Alcuni degli articoli che condanni li hai letti in bozze. Come puoi insinuare che li leggano soltanto gli aristocratici? Sono stati letti dalla Convenzione e da questa società. Anche costoro sono degli aristocratici?
CITTADINODANTON: Cittadini, posso consigliarvi la pacatezza nel giungere alle vostre deliberazioni? E ricordate: colpendo Camille, colpirete la libertà di stampa.
CITTADINOROBESPIERRE: E sia, non bruceremo i pamphlet. Ma un uomo che persevera nei propri errori con tanta tenacia forse non si può più sostenere che sia stato indotto in errore.
(Fabred’Églantinesialzaperuscire)
CITTADINOROBESPIERRE: D’Églantine, non ti muovere!
GIACOBINO: Robespierre deve dirti due parole.
CITTADINOFABRE D’ÉGLANTINE: Posso giustificare la mia...
ALCUNI MEMBRI DELLA SOCIETÀ: Ghigliottinatelo! Ghigliottinatelo!
Lucile Desmoulins a Stanislas Fréron:
23 nevoso, anno II
Torna, torna presto. Non c’è tempo da perdere. Portati dietro tutti i cordiglieri che riesci a trovare, ne abbiamo estremo bisogno. [Robespierre] ha capito che se non agisce e non ragiona in linea con le idee di certe persone perde la sua onnipotenza. [Danton] si sta indebolendo, non ha più il coraggio di un tempo. D’Églantine è stato arrestato e si trova nel carcere del Lussemburgo; le imputazioni a suo carico sono molto serie [...].
Non rido più, non faccio più la dispettosa, non tocco il piano, non sogno; ormai sono soltanto una macchina.