C’è una ricostruzione di Auschwitz-Birkenau nel prossimo edificio del museo, un modello in gesso dietro una vetrina che sta dentro una sorta di pilastro, in mezzo alla stanza. Accanto, davanti alla finestra, rimane invece una piccola teca con dei granelli grigio chiaro che sembrano ghiaia industriale. È il Zyklon B e la nostra guida spiega come funzionava.

Abbiamo una guida in polacco perché quasi tutto il gruppo lo parla o lo capisce, comunque tutti i vecchi. Ci sono anche lettere di corrispondenza fra la ditta fornitrice e la direzione del campo, potrei leggerle io che so il tedesco, ma non mi interessa.

Sto guardando i grani chiari che sono il gas e io non lo sapevo. Non faccio in tempo a fissarli che mia madre, mia madre che mi sta vicina, cui sono rimasta a fianco, si mette a gridare, grida di nuovo «la mia mamma, la mia mamma», poi non urla più niente di preciso o niente che io abbia potuto distinguere o ricordare, ma grida, continua a urlare forte e accompagna le sue grida col movimento avanti e indietro della testa e del corpo.

Tutti le stanno intorno, le stanno addosso, ma io non riesco a restarle accanto perché mi è entrato in testa il suo grido, l’immagine di mia nonna che muore asfissiata, forse è solo la foto che mio nonno è riuscito a salvare insieme ad altre quando l’hanno richiamato in fabbrica e lui dev’essere passato da casa non so come, la foto ora appesa sopra il letto di mia madre, forse è una qualsiasi figura messa insieme da quelle viste nei documentari, o nessuna delle due, forse solo nelle gambe e nella trachea la suggestione di un senso di morte inalata.

Comunque mi distacco, faccio un giro intorno al pilastro con dentro le minuscole baracche, i forni, le camere a gas, intorno al modello che non ho mai guardato, perché anche a me viene il lamento, a bocca chiusa, un mugolio che sale a conati, a ritmo, e il corpo lo accompagna come picchiando la testa contro muri che non ci sono. È solo un giro della stanza, poi prendo fiato, scaccio la nonna e torno da mia madre.

Ci sono persone del gruppo che la portano via da quella teca, da quella stanza, la fanno sedere sul pianerottolo dove c’è una panchina. Forse qualcuno la spinge un po’, forse prende il suo braccio, ma lei ci va da sola, gridando e piangendo mentre cammina, credo con un tono un po’ più basso. C’è anche quella del Valium che mi chiede di nuovo perché non gliel’abbia dato, infastidita.

Allora mi prende una furia e le rispondo che se mia madre vuole strillare, che strilli pure, anzi che urli così forte che anche l’ultimo visitatore possa sentirla, perché non è venuta per visitare un museo. È un furore bello, sono orgogliosa di mia madre, vicina, così vicina a lei da guardarla con appena una mano appoggiata alle sue spalle, un abbraccio abbozzato, e aspettare che finisca di piangere, che si calmi, respiri e si rialzi per continuare il giro insieme agli altri, non come se niente fosse, ma come se fosse giusto, giusto e naturale far tremare i muri con il pianto.

Resto lì, rassicurando le persone preoccupate, e alla fine dico «mamma, andiamo», o forse «maminka» o «mamush», e lei si rimette in piedi, si sistema un po’ la faccia, si avvia verso le scale.




Dopo poco, sono arrivate le sorelle Zweigl, che erano dei pezzi grossi nel lager, non capò o roba del genere, ma contavano, e mi hanno portato dei vestiti e qualcosa da mangiare che io poi mi sono fatta fregare subito. – E tu, come le conoscevi, queste sorelle Zweigl? – Da Zawiercie, no. – Ma loro come facevano a sapere che eri arrivata? – Non lo so, si sapeva, si sapeva tutto. Infatti poi è venuta anche la mia amica Nadia. – Venuta dove? – Da me, nel blocco della quarantena. – Come? Andava e veniva così? Si sarà sganciata dopo il lavoro, prima di rientrare nella sua baracca, penso. – Ah, ecco.




Poi non è più successo niente del genere, neanche quando in un altro edificio siamo entrati in una rovina di camera a gas rimontata al coperto. Non ho capito bene cosa ci facesse lì, per via delle spiegazioni in polacco, e come al solito non chiedevo niente. Vedevo che era un posto dove si deponevano lumini come nei cimiteri e ne abbiamo acceso uno anche noi. Anche dov’era il muro per le esecuzioni c’erano i lumini, i fiori e le pietre che si usa mettere sulle tombe ebraiche e ho messo una pietra in cima al muro.

Entrando dentro il rudere per una specie di porta, mi è venuta una stretta o un magone, ma dev’essere stato un po’ finto, un po’ troppo previsto. Ero tranquilla adesso e anche mia madre lo sembrava, ero priva di tensioni o di pensieri, di cose che pensavo di dover fare. Accendevo lumini, mettevo pietre, io che da settimane stavo rimuginando che un campo di sterminio non è un cimitero, ma la negazione di tutti i cimiteri, non si può usarlo come se lo fosse, o forse bisogna appropriarsene in quel senso, perché l’averci negato i cimiteri forse ci autorizza a inventarceli proprio nel luogo dell’annientamento, e dove sennò. Invece adesso tutto era semplice: gli altri accendevano lumini, bastava fare come loro, capire che contava solo essere lì, insieme agli altri.

Fuori camminavamo a piccoli gruppi dietro alla guida, lungo la strada fra gli edifici prima occupati dai prigionieri. C’è stata qualche goccia di pioggia, poi ha smesso. Molte di quelle costruzioni di mattone rosso sono dedicate ai singoli paesi di provenienza, Polonia, Cecoslovacchia, Francia, Olanda, Italia, Grecia, Belgio, Ungheria e il resto dell’Europa occupata.

Fra le nazioni rappresentate, mi ha raccontato Olek, non molto tempo fa figurava anche la Germania dell’Est, quella buona, come lui ha commentato. Ma non esisteva un solo edificio che documentasse la storia degli ebrei, gli ebrei erano solo cittadini delle nazioni conquistate dai nazisti. Adesso c’è invece, forse l’esposizione è sistemata proprio dove prima si mostravano le vittime tedesche. È l’unica che abbiamo visitato, si notava che l’allestimento era recente, più curato che nel resto del museo: fotografie ingrandite esposte bene, faretti incassati che mandano una luce diffusa, studiata ad arte, e al centro di una stanza quasi spoglia e ancor più buia, un buco quadrato nel pavimento coperto da una lastra di vetro su cui posare i lumini.

Da altoparlanti invisibili usciva incessante la preghiera in ebraico per i morti dei campi di concentramento, «El Mole Rahamim», il Signore della Misericordia, la preghiera che si canta a Yom Kippur e che io conoscevo non dalla sinagoga, ma per uno spettacolo teatrale a cui ho collaborato, dove era interpretata molto bene, meglio che nella versione diffusa ad Auschwitz. È un canto straziante in cui si distinguono i nomi Auschwitz, Maidanek e Treblinka e anche la parola Europa, si prega il Signore di accogliere i santi martiri sulle sue grandi ali.

Natek ci ha comunicato che potevamo rimanere quanto volevamo, dire le nostre preghiere o restare in silenzio, che la commemorazione comune l’avremmo fatta a Birkenau. Poi, con poca gente nella stanza, si è messo a piangere come un bambino, con la sua figura piccola e asciutta, con una faccia da martora o da faina, con quegli occhietti scuri. Piangeva tremando nelle spalle, fra singhiozzi muti o quasi muti e lacrime abbondanti.

Veniva da piangere anche ad altri, qualcuno, per questo, usciva quasi subito, qualcuno si stropicciava gli occhi o tirava su col naso. Quello era il posto giusto, il nostro posto, col disco a ripetere il lamento, con i riflessi delle candele sul vetro che sembravano arrivare fin dentro alla piccola fossa vuota.

Non abbiamo pianto, né io, né mia madre, forse solo qualche lacrima per la commozione generale. Fuori dal cancello abbiamo cercato le toilette e accettato volentieri un pezzo di cioccolato e qualche biscotto comprato al bar. Bisogna mangiare qualcosa, ha detto chi ce li ha offerti, e mi è sembrata un’ottima idea.




Insomma, la mia amica mi ha detto che bisognava fare in modo di tirarmi fuori da lìì dalla quarantena, il più presto possibile, perché facevano selezioni tutti i giorni. Così ha avvisato il dottor Martini, il proprietario della cristalleria, che stava lì come politico da chissà quanto, che ero arrivata anch’io e mi avevano messo in quarantena. – E il dottor Martini dov’era? – Ad Auschwitz. – Auschwitz uno o Auschwitz due? – Auschwitz. – Uno? – Credo proprio di sìì – E voi comunicavate da Birkenau ad Auschwitz? – Attraverso quelli che lavoravano fuori, suppongo. In ogni caso, il dottor Martini aveva un amico che stava con lui... – Ad Auschwitz? – Sì – ... che aveva una moglie che dirigeva il blocco infermeria e mi poteva fare entrare – a Birkenau? – chiaramente – e così sono passata in infermeria, ma anche lì non andava bene, anche lì venivano a scremare, così alla fine hanno trovato il modo di farmi assegnare al «Kanada» dove la Nadia già lavorava. Il «Kanada» andava molto bene invece, no? – Ah sìì fregavamo i vestiti.

Ci vuole un quarto d’ora per arrivare in autobus da Auschwitz I ad Auschwitz II, forse persino un po’ di più, ma già un bel pezzo prima di raggiungere l’entrata si viaggia lungo il filo che allora era ad alta tensione e adesso è solo un filo. Il pullman si è fermato in mezzo al campo, di fianco ai binari, poco prima che finiscano.

C’è questo: la recinzione, il cancello, il binario in mezzo che sembra larghissimo visto di fronte, le baracche ai lati invece piccole, disperse. La sola cosa che sia al suo posto, o al posto che credevo dovesse avere, sono i binari, la loro simmetria prepotente, la fine tronca. Guardando indietro, dal centro verso il cancello aperto, riconosco Auschwitz, nel resto no.

Andiamo alla baracca più vicina, entriamo, rivediamo le tavole di legno esposte al museo, usciamo dopo poco, ci fermiamo un po’ lì davanti, poi torniamo verso il pullman e i binari. Mia mamma non ha voglia di girare e a me sta bene rimanere lì con lei. Non so perché dovrei visitarle tutte, quelle sparute costruzioni in legno, solo una minima parte di quante erano allora, e dalle cui finestre entra il sole. È settembre, c’è l’erba in tutto il campo, un’erba piuttosto alta che sembra un prato. Dopo la breve pioggia il cielo è tornato limpido con poche nuvole, un cielo più alto e azzurro del nostro, come è sempre in Polonia.

Siamo quasi gli unici visitatori a Birkenau, il solo gruppo comunque, il solo pullman. Poi il territorio è enorme, ci si disperde facilmente. Non me la facevo così grande Auschwitz, grande da contenere forse una città, sarà perché le immagini cinematografiche non trasmettono lo spazio. In ogni caso non misurerò il campo a piedi, da un capo all’altro, non sono qui per fare l’agrimensore. Molti dei nostri stanno accanto al pullman a parlare, altri girano un poco, ma rimangono sempre uniti, in gruppo.

Sono quell’erba, quel cielo a far sì che io non provi ad allontanarmi nemmeno per qualche minuto da mia madre, perché non poteva esserci l’erba, ad Auschwitz c’era la neve, c’era il ghiaccio. Poi ammetto che poteva anche non esserci la neve, ma almeno il fango o la terra nuda, la terra calpestata dai piedi coperti dalle pezze, milioni di piedi, sulla quale non cresceva niente.

Forse non era così, forse a settembre in qualche angolo restavano chiazze di verde, ma adesso tutto è stato ricoperto da quell’erba proverbiale che solo lì non può crescere sui morti. Poi mi sono ricordata delle fosse, ma non riuscivo a liberarmi dalla sensazione di camminare su un terreno dove sopra cresce l’erba e sotto non c’è niente. Anche questo cielo non dev’esserci stato, così alto e chiaro al posto della cappa nera. Siamo all’aperto, ho pensato, un posto con l’erba e il cielo è all’aperto.

Pensavo questo mentre aspettavamo di riunire tutti per poi andare insieme in uno spazio dedicato alle vittime ebree a commemorare i nostri morti. Quasi per ultima è arrivata Hella Buchweiss, si avvicinava a grandi passi risoluti e ancora prima di raggiungerci ha gridato, la mia baracca, ho ritrovato la mia baracca.

Subito intorno a quella donna imponente si è formato un crocchio, ma davvero signora, dov’è, ce la può indicare, e mentre lei puntava il braccio verso una delle costruzioni e continuava a spiegare come mai era certissima che fosse proprio quella, qualcuno andava da quelli che si tenevano in disparte per dire che la signora Buchweiss ha riconosciuto la sua baracca, e tutti si sono animati, parevano quasi contenti e trattavano Hella Buchweiss con rispetto. Sembrava avesse toccato la toppa a nascondino e gridato «libera per tutti».

Dopo la celebrazione in cui si è di nuovo srotolata la bandiera, e recitato «El Mole Rahamim», siamo andati alle rovine dei crematori. Sono due su quattro, non completamente distrutte dagli esplosivi con cui i tedeschi le hanno fatte saltare in aria. Non si riconosce nessuna forma, anche se non saprei che forma dare a un crematorio.

Si prendevano pezzi di macerie, frammenti di mattone annerito, e si appoggiavano in qualche pertugio come sulle tombe. Nelle nicchie un po’ protette si mettono i lumini. Mia madre ne ha acceso uno, poi me l’ha dato in mano perché lo sistemassi. Dopo aver trovato il posto adatto, ho pensato di dire anch’io una preghiera per i defunti come facevano in molti.

A Yom Kippur la recito sempre per mio padre, leggendola da un piccolo cartoncino offerto dalla sinagoga e aggiungendo solo il suo nome. È una preghiera breve, facile da ricordare, anche se la dico in italiano o in tedesco perché l’ebraico non lo so: bisogna solo raccomandare al Signore il proprio familiare, farne il nome e poi implorare che lo ammetta nella schiera dei giusti elencando i patriarchi e le loro mogli, da Abramo a Giacobbe.

Comincio con la nonna Helena, il nonno Chaim, poi lo zio Jerzy, la nonna Miriam, il nonno Joachim, la zia Reginka, lo zio Hershel, lo zio Leo, lo zio Jossele, e me ne infischio che quei nomi li conosco parte in polacco, parte in yiddish, parte addirittura in tedesco, ma poi mi accorgo che alcuni sono doppi e altri mancano, che mi mancano i nomi dei fratelli di mio padre, almeno due non li ricordo o non li ho mai saputi e allora scoppio in quello che si dice un pianto disperato, che non è nulla di particolarmente drammatico o violento e nemmeno dura a lungo, ma non si ha la forza di frenarlo, perché è proprio quella a venire meno.

Arriva mia madre, mi tocca e mi chiede cos’è successo e io singhiozzando rispondo i nomi, non so neanche i nomi dei fratelli di papà, non potevo finire la preghiera. Dopo poco arriva anche Hella Buchweiss, vuole sapere perché ho pianto e quando mia madre glielo spiega, lei mi si fa incontro, mi abbraccia e mi bacia, poi dice alla mamma «you have a wonderful daughter», perché non si ricorda che io parlo l’inglese, mia madre il polacco, e mia madre annuisce gravemente, e tutte due hanno un’aria rinfrancata, quasi raggiante e anch’io sono contenta.

Ripartiti, sulla strada per Katowice, fiancheggiata da costruzioni nere per la polvere di carbone, di un nero che ad Auschwitz non c’è più, il pullman ha dovuto fermarsi subito, a Oświęcim, per portare all’ospedale una persona che si era sentita male. Non è niente, ci hanno rassicurato quella sera stessa, solo l’emozione.




Fregavamo i vestiti, per noi stesse o per organizzarci qualcosa da mangiare, qualche sigaretta, ma un giorno ci chiamano a un appello, all’improvviso. Dovevi spogliarti in fretta e buttar via la roba che avevi sotto l’uniforme, farla sparire. Non so come ho fatto, ma mi sono dimenticata addosso una mutandina, devo aver perso la testa: la sorvegliante mi ha chiamato e si è segnata il mio numero. Fine. Arrivederci e via, «durch den Kamin».

Siamo rientrate nella nostra baracca per la notte e tutte quelle donnette cominciavano a fare «ojoj» e «ojwej», sai come fanno, sono andate avanti per un po’ con quel loro «ojojojojoj», insomma mi davano per spacciata, eravamo già al lamento. C’era una sopra di me che tutte le sere, prima di addormentarsi, diceva in yiddish «ah se potessi un giorno tagliarmi una fetta da una forma di pane intera », come una preghiera.

Il giorno dopo ci hanno rapate a zero tutte quante, punizione collettiva, capisci, ma non mi hanno presa. Eravamo disperate. – Disperate? – Completamente calve. – Ma a momenti ti ammazzavano. – Sì, però neanche un capello in testa, che orrore.