L’avevano beccata per un errore. Per mesi era riuscita a passare dalle loro maglie con il suo passaporto falso, i suoi capelli ossigenati, il suo piccolo medaglione a forma di cuore rifatto in forma di croce, e col suo polacco da polacca, persino col suo tedesco imparato a scuola, parlato male come in Slesia potevano parlarlo solo i polacchi. Lei che veniva da una casa dove si mangiava prosciutto e non si parlava yiddish, per quanto quella casa fosse in centro, in mezzo alle altre case e botteghe ebree, e per quanto lo yiddish rendesse facile agli altri ebrei comunicare con i tedeschi, rendendo però anche facile ai polacchi scoprirli dalla loro inflessione, lei che era stata l’unica, con altre due ragazze, a frequentare il liceo femminile della città e non quello ebraico: aveva conoscenti, amiche e amici fra i polacchi, un mondo esterno in cui sapeva muoversi e che in parte le era venuto incontro. Una settimana dopo la fuga era andata a casa della sua migliore amica, Nelly, figlia di un collega di suo padre, un’austriaca cresciuta in Polonia e che ora abita a Vienna. L’aveva aiutata a mettersi l’ossigeno in testa, forse è stata la sua amica ad avere quell’idea, solo che i capelli, oltre che biondi, erano diventati dritti come fusi e soprattutto elastici come gomma e pare che mia mamma fosse scoppiata a piangere vedendosi così.




Fuori dal ghetto giravano in pattuglie, non era facile passare. Poi ho trovato un punto buono, ma anche lì c’era un poliziotto. – Un poliziotto? – Un tedesco, una guardia. Guardava da un’altra parte, solo che a me era venuta paura, mi aveva vista o no? Allora sono andata da lui e gli ho chiesto, ma insomma che cosa sta succedendo qui? – In tedesco? – E in quale altra lingua? – Mamma mia. – Lui ha risposto: dobbiamo sistemare una faccenda con gli ebrei. Poi mi ha lasciata andare. Ha guardato da un’altra parte, l’ha fatto apposta, adesso ne sono certa, scrivilo.




Quella notte poi mia madre è corsa a nascondersi da Zbigniew, che era stato il suo primo grande amore, e l’ha passata in casa sua, in barba al padre antisemita.

Non so esattamente perché fosse finita la loro storia, ma Zbigniew, dopo la guerra, le aveva scritto, spedito collane e maschere dal Ghana, dove era stato mandato come chirurgo, e adesso che è morto e le frontiere sono aperte, suo figlio è venuto varie volte in Germania per tirar su un po’ di soldi, sempre ospite a casa di mia madre che lui, non so da quando, chiama zia. Forse tra loro era finita perché lei si era dovuta rendere conto che non bastavano tutte le canzoni polacche che sapeva cantare e canta ancora, da quelle sentimentali a quelle sconce, che non serviva commuoversi sulle note di Chopin, anche se ancora oggi si commuove, che il prosciutto, il bagno in casa, le lezioni di tennis e l’abitudine di portare i fiori quando si è invitati non bastavano più, che non avevano più nessun valore. Che le toccava stare con gli ebrei: una costrizione da trasformare in scelta.

Dentro al ghetto, che era il centro di Zawiercie, chiuso da un muro, il centro dove era la sua casa e le case e le botteghe degli altri ebrei, dove si accalcavano quanti prima avevano abitato fuori da quella cerchia o nei paesi lì intorno, mia madre aveva conosciuto mio padre, figlio di una famiglia numerosa e ortodossa, di una famiglia di commercianti più ricca della sua, dove la madre dirigeva lo spaccio di zucchero all’ingrosso e in qualche modo i sette figli, che tornando a casa mangiavano polpette da teglie enormi, tenute in caldo dentro al forno, ognuno per conto suo, e quando gli pareva.

Zbigniew era galante come lo sono tutti i polacchi, che ancora oggi salutano una donna baciandole la mano, deve aver amato le passeggiate in campagna e credo anche la musica e la poesia, e tutto questo piaceva a mia madre, non perché corrispondesse a una qualche sua passione, ma solo perché era giusto che in amore fosse così. Mio padre invece negli anni del «gymnasium» andava a giocare a pallone più che a scuola, disperazione di sua madre che non aveva tempo per stargli dietro. Così lui restava in giro quanto e dove voleva, e qualche volta rientrava malconcio e pesto, perché aveva fatto a botte, e le prendeva un’altra volta da sua madre. Di quelle sue lotte giovanili testimoniava il suo naso incrinato, dal quale in certi giorni respirava a fatica.

Era stato per ripicca verso la sufficienza dimostratagli dal primo della classe, nei racconti di mio padre chiamato solo «kujon», secchione o sgobbone, che nell’ultimo anno di liceo si era messo sotto a studiare e con uno sforzo disperato era riuscito persino a fare il migliore esame di maturità di tutto il voivodato. Fu una notizia da giornale, una notizia che allora fece scoprire a mia madre l’esistenza di quel ragazzo, di cinque anni più grande di lei, e in seguito glielo fece apparire interessante.

Si erano conosciuti e messi insieme nel ghetto, anche perché mio padre sembrava l’uomo giusto per quei tempi e per quel luogo, dal quale si usciva solo per andare a lavorare nelle fabbriche tedesche, e scortati da tedeschi e cani.

Lui sapeva l’ebraico e lo yiddish, conosceva le preghiere e lo stretto indispensabile del Talmud, e agli altri ebrei sembrava uno dei loro, non un po’ sospetto perché incapace di esprimersi nella loro lingua, lui conosceva sionisti e comunisti e socialisti del Bund, lui aveva dimestichezza con l’arte di distillare vodka clandestina e col mercato nero in generale, e aveva spalle larghe e grosse mani, quelle che io ho ereditato in miniatura, la stazza e la camminata di chi sa attaccare e difendersi, la fama del coraggio e dell’intelligenza. Ma poi si era scoperto che cantava bene e cantava volentieri per mia madre, anche se regali e fiori gli restavano inconcepibili, e sapeva persino parlar di libri, di quei libri che divorava, e quando poi sono fuggiti dal ghetto, mia madre da sola e all’ultimo momento, mio padre già prima e con un codazzo di fratelli minori e di nipoti, credo che fossero innamorati.

Non so se mia madre sapesse come raggiungerlo e non so quanto lui abbia contato nella sua scelta di scappare. Meno dei genitori, meno di sua madre, questo è certo. Credo anche di aver capito che alla fine conta solo la forza della voglia di vivere: la forza, più che la voglia, è diversa in ognuno.

Ma posso immaginare i discorsi netti e veementi di mio padre, tipo «qui ci ammazzano e tu che aspetti?», la sua difesa del principio «si salvi chi può», le sue istruzioni per dimenticarsi al più presto ogni remora e resistenza indotta dalla buona educazione. In ogni caso, fuori si sono ritrovati e rifugiati insieme.

Quando presero il fratello di mio padre, Jossele, una sua nipotina e non ricordo chi altro, loro erano nascosti in un’altra casa. Decisero che non si poteva più restare in gruppo, che ognuno doveva cavarsela da solo, mia madre, mio padre, Mietek, il maggiore dei nipoti, mentre Benjamin, che era troppo piccolo, lo avevano affidato a dei pastori, su nei monti Tatra. I pastori lo facevano dormire in una cuccia per cani, ma pare che quando i miei sono andati a riprenderlo dopo la guerra, non volesse abbandonare le sue pecore, piangeva disperato.

Gli altri sono morti, morti i genitori di Mietek e Benjamin, i genitori di mio padre, i suoi fratelli tutti e sei, gli zii e i cugini numerosi, dal primo grado all’ultimo, come tutti i parenti di mia mamma, suo fratello, suo padre, sua madre.

Mentre era alla macchia, sola, mia madre ha saputo, non so come, che suo padre non era finito ad Auschwitz. Ma forse c’era anche finito, non ricordo, sta di fatto che lui, direttore di una cristalleria che ancora oggi esiste, si era rivelato indispensabile al funzionamento della fabbrica e così si erano dati da fare per riaverlo indietro. L’avevano sistemato in un alloggio dentro alla cristalleria, lui stava lì e lavorava e non poteva chiaramente uscire, ma anche questo mia mamma lo sapeva. A un certo punto attraverso un collega molto stimato da suo padre le è arrivata una lettera che le proponeva un incontro. Il collega l’ha accompagnata all’appuntamento, facendole trovare la Gestapo al posto di suo padre. L’hanno presa per uno stupido errore, dichiara raccontando tutta la vicenda, durante il nostro viaggio in Polonia, come ha fatto a fidarsi di quell’uomo?




Si lamenta spesso di essere un’ingenua e di fidarsi troppo. La settimana scorsa è successa una tragedia: le hanno rubato i tappeti. Mi chiama la mattina e non rispondo perché sono andata a comprare le sigarette, riprova qualche ora dopo trovando occupato, riprova ancora e a quel punto mi fa spedire un fax con l’invito di contattarla subito, telefona alla portinaia per farmi citofonare e lascia l’identico messaggio sulla segreteria della mia vicina di pianerottolo.

Quando mi trova al telefono, con una voce da moribonda rantola nella cornetta che poteva anche morire, ma non è morta, che morirà con me irraggiungibile, perché sempre attaccata al telefono, e allora, visto che sta alzando il volume come nelle sue solite scenate e considerati i precedenti falsi allarmi comunicati via citofono, le urlo anch’io di smetterla con le tragedie e a quel punto lei mi dice dei tappeti.

Che li aveva fatti portare in cantina perché devono rinnovare la moquette e che stanotte non sa perché si è svegliata ed è scesa a vedere se c’erano i tappeti, ma i tappeti non c’erano più, e aggiunge subito che quando lei mi lascia un messaggio, io devo richiamarla immediatamente, e io ribatto che ieri sera ero rientrata tardi, che stamattina ero andata a far la spesa, che poi avevo risposto ai messaggi e avrei chiamato pure lei, e mentre le sto parlando capisco che la sua voce registrata è precedente alla scoperta del furto: ma lei sta già per chiedermi dov’ero ieri sera e con chi ero, e perché non chiamo mia madre prima di tutti gli altri, e allora io le ho chiesto se non fosse il caso di sospendere, in via eccezionale, lo psicodramma madre-figlia e pensare al da farsi.

Lei farfuglia qualcosa su problemi con l’assicurazione e, virando al piagnisteo, dichiara quanto le dispiaccia per quei tappeti, «che dovevano un giorno essere tuoi e io mi sono sempre fidata di quella donna, io sono un’ingenua », e che l’aveva vista sistemare i tappeti nell’ascensore, e quella delusione personale, «io che mi fidavo e le volevo bene, a lei e a suo fratello che sembravano tanto gentili e affettuosi, che mi mandavano le cartoline dalla Polonia, e io che i polacchi li ho sempre difesi, non come tutti quegli ebrei che dicono che sono peggio dei tedeschi, ma quella era solo furba e falsa, quei due sono una banda, una vera banda», perché l’altro giorno quando lei aveva telefonato alle due, la donna era ancora in casa, di solito se ne va via prima, il che vuol dire che stava aspettando il fratello, che verso quell’ora smonta dalla portineria, lo aspettava per portare via i suoi tappeti, e poi si è accorta che non sa nemmeno dove stanno di casa, né lui né lei, «e vatti a fidare di qualcuno, il benessere è un veleno che corrompe tutti, tutti quanti, e quei tappeti avevano un valore affettivo», detto con voce affranta, strozzata, dura, velata di pianto, accesa, fredda, graffiante, in un’unica tirata, sempre costellata di frecciate contro di me.

Le ho anche risposto, cattiva, che quando uno è ricco corre il rischio che lo derubino. Poi l’ho richiamata almeno tre volte per sentire come andava e se c’erano novità, sapendo che lei non lo avrebbe fatto.

Ma non riuscivo a dispiacermi perché non capivo quanto c’era di vero e quanto di falso, quanto era il solito gioco con me nella parte del verme e lei in quella della santa donna, quanto il solito sfogo di aggressività su chi è deputato a subirla, quanto le dispiacesse per i tappeti, quanto per il loro valore affettivo e quanto per quello materiale, quanto per la donna e suo fratello: quella donna di cui aveva detto una volta, «vedi, non tutti i polacchi odiano gli ebrei, dipende, per esempio la mia Stasia mi ama», facendo capire che lei era ben diversa da quegli altri ebrei.

In più non riuscivo a capire come era stato possibile che l’avessero fregata, proprio lei che ti chiedeva ogni volta dove sei stata, con chi, chi è, cosa fa, cosa fanno i suoi genitori, mariti e mogli, lei che sospettava e continua a sospettare dei miei amici o dei suoi amici, per non parlare di altri, dipendenti o conoscenze, lei che non prende per vero quello che uno le dice, lei che in realtà non si fida per niente. E poi non riuscivo a capire, come non ho mai capito, se quella tendenza al sospetto, quel suo tratto che chiamo paranoico, per tenermelo lontano, perché mi aveva reso così difficile il rapporto con lei, e a lei aveva giocato brutti scherzi, le venisse dalla fuga con il passaporto falso, croce e capelli chiari, da gente come il collega di suo padre, o piuttosto dal peso dei beni accumulati e dalla posizione di capo di un’azienda, perché quello è un tratto ricorrente nei ricchi e potenti, non ci vuole uno sterminio per tirarlo fuori. Per questo non riuscivo a dispiacermi.

Eppure l’avevano fregata, l’avevano delusa altre volte, tanto o poco non importa. E di quella Stasia che l’amava, lei si era fidata. E le dispiaceva perché le voleva bene. E le dispiaceva per i suoi tappeti perché erano stati la sua unica passione e perché li aveva acquistati quando mio padre c’era ancora e perché avrebbe voluto lasciarli a me. E le dispiaceva per il valore che dovevano avere al giorno d’oggi i suoi tappeti caucasici, allora comprati per pochi soldi. E per l’assicurazione che non le avrebbe risarcito niente. E per il popolo polacco antisemita, cui lei, nonostante tutto, restava affezionata. E capendolo pian piano mi sono dispiaciuta anch’io.

Ho pensato con rabbia che se c’era una cosa che uscisse dall’anonimato di una casa ricca e elegante, ma priva di oggetti che valessero oltre la ricchezza e l’eleganza, di una casa con niente che avesse storia e memoria, erano quei tappeti maledetti e proprio quelli dovevano portarle via, come se non bastasse che le avevano già tolto tutto. E che forse quei tappeti, che per me erano soltanto oggetti belli comprati da mia madre, avrebbero potuto segnare un nuovo inizio, diventare i tappeti della mamma e poi i tappeti della nonna, viaggiando nel tempo e nello spazio come traccia di continuità.

Il giorno dopo ci siamo riappacificate, io esprimendo il mio rammarico, lei dichiarando quasi serena, «pazienza per i tappeti, le perdite vere sono altre», e ai capi opposti del telefono abbiamo lottato entrambe contro il pianto, al pensiero di mio padre. Capivo che il cambio di quella voce prima risoluta e poi commossa non era da signora ricca e borghese, ma di chi, almeno in parte, finge e vuole esserlo. Quindi, per un attimo, si dispera, si dispera non solo per un furto di tappeti, ma anche per la parte che le viene sottratta, per una finzione non sostenibile al momento, e quando percepisce che la finzione è finzione e che di oggetti di famiglia, di oggetti dal valore affettivo, non ne possiede e non se ne può permettere, allora si tira su e si accorge che non è successo quasi niente, e poi torna subito a fare la signora.

Ma quei tappeti non sono mai stati rubati. Il giorno dopo si ritrovano in casa da qualche parte. La signora Stasia non li aveva sistemati nell’ascensore. Mia madre non si fida nemmeno di se stessa. Preferisce la moltiplicazione degli allarmi all’idea di una mossa sbagliata, di un errore fatale.

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In questa luce tutto sembra così chiaro. I genitori sanno che i figli sbagliano e che bisogna educarli a non sbagliare. Ma certi, credo, sanno che anche dagli errori si impara. Molti altri non ne vogliono sapere nulla e tuttavia lo sanno ugualmente perché così è capitato a loro. Mia madre invece sa che se commetti un errore, puoi essere spacciata. Per questo non deve solo educare sua figlia a non sbagliare, deve impedire che sbagli, qui e ora. Per questo mia madre, finché io sbaglio, non potrà ritenere compiuto il suo compito di educatrice. E io sbaglierò sempre, lo farò solo ai suoi occhi o per davvero, così come lei stessa che, nonostante tutto, commette pure degli errori. E il senso di impotenza che le viene dal fatto di saperlo accresce il suo zelo e la sua furia. Per questo mia madre non educa, ma addestra.

L’addestramento si differenzia dall’educazione perché cerca di trasformare ciò che insegna in riflesso. Ogni volta che facevo un errore, vero o presunto, mia madre reagiva e reagisce ancora oggi. Sembrano cose insignificanti, come il fatto che quando cucino non richiudo subito i barattoli e gli sportelli degli armadi, e come ogni altra mia sbadataggine e dimenticanza, ma rimandare o dimenticare qualsiasi cosa può essere un errore molto grave. Nell’addestrare è contemplato l’uso della violenza come metodo o sanzione, e mia madre infatti urlava, partiva dall’errore del momento, dalle patate che, tornata a casa, non avevo messo a bollire, e scaldandosi sempre di più cominciava a gridare che ero inaffidabile, che facevo solo quello che mi andava, che me ne fregavo altamente di tutti gli altri, un’egoista, ecco cosa sei, una sporca, schifosa egoista.

Non mi ha mai messo le mani addosso, neanche per allungarmi un ceffone, ma in un film ho visto un ufficiale americano addestrare i marines sbraitando sempre di nuovo «pezzi di merda» e «rotti in culo» o altre amenità di questo tipo. Serve per ottenere dal soggetto che creda almeno un poco di essere un pezzo di merda, perché è più facile da plasmare.

Mia mamma, che è una signora, solo rare volte e nei momenti di massima ira si è lasciata sfuggire un insulto volgare, cosa che, litigando con lei, purtroppo capitava molto più spesso a me e a mio padre. In quei casi lei si dimostrava ferita a morte e guadagnava punti. Del resto poteva fare a meno delle oscenità, menava colpi meno forti ma più mirati, i suoi polli li conosceva bene. In più non conta mai la singola parola, ma la forza d’urto dell’insieme, i gesti i toni e i timbri, l’impatto della voce, la mimica del volto, occhi accesi e bocca contratta, dura.

Lo scopo dell’addestramento è rompere la volontà dell’addestrando, perché in caso contrario potrà anche obbedire, ma non avrà gli ordini nel sangue, quando l’istruttore non ci sarà più. Raggiungere tale scopo è vitale. Per questo l’istruttore deve far paura, superare nel cuore dell’allievo la paura del nemico. Dev’essere la paura che l’istruttore incute nel dare gli ordini. Deve paralizzare la paura dell’allievo, ogni altro suo sentimento e volontà. Si può fiaccare la volontà in molti modi. Si può anche non reagire subito a un errore come l’allievo si aspetterebbe, ma, lanciando messaggi minimi che l’altro percepisce, far salire la tensione e la paura. Prima si controlla come funzionano i segnali indiretti: così poi, quando si decide che è giunta l’ora d’attaccare, l’altro è già sfiancato.

Sto parlando di mia mamma. Mia mamma che mi ha urlato in faccia, non so più per quale motivo, che ho una faccia buona e una da mostro o, in un’altra occasione, che il mio egoismo è tale da farmi dimenticare i morti e i vivi, e «quindi tu non venire più sulla tomba di tuo padre, né sulla mia quando non ci sarò più». Mi accorgo di aver dimenticato oltre la metà di quelle scene e parole, di conservare solo i frammenti delle frecce più tremende, tremende per me in quel momento, non sono certa che fossero davvero le peggiori.

Sto parlando di mia madre che ancora quest’estate si è alzata da tavola di scatto ed è andata a chiudersi nella sua stanza lasciando soli me e un ospite mio amico, per ricomparire solo la mattina dopo, quando finalmente c’è stato uno scontro sulla grigliata di ferragosto, alla quale avevo comunicato di non voler partecipare: lei che lo reputava un favore minimo e dovuto, un’inezia che soltanto una figlia cattiva poteva rifiutare a sua madre, minacciando di non andarci neppure lei, usando l’arma dell’egoismo ormai spuntata dall’eccessivo uso, e spiegando alla fine chiaro e tondo che dovevo andare con lei perché «du gehörst zu mir», «tu appartieni a me». Quella è stata la prima volta in cui sono riuscita non soltanto a ribattere che le appartenevo «un corno», ma anche a restare ferma sul fatto che «mamma, mi dispiace, io non ci vengo».

Non è successo niente. Lei, stranamente, si è calmata dopo qualche giorno, tornando a essere allegra e affettuosa.

Mia madre infatti non è un istruttore dei marines, è una mamma. Tutto quello che lei fa o dice le viene proprio così, non l’ha studiato. È disperata, furiosa, fuori di sé, ferita, allibita, incapace di capire, in preda al timor panico di non riuscire più a istruirmi. In più le piace educare e spiegare. Non si limita a chiamarmi casinista, «bałaganiasz», in polacco, o in yiddish «schnorer», accattona, per via dei miei vestiti, «Dreckspatz» e «Freßsack» in tedesco, per indicare il mio senso dell’igiene troppo scarso e l’eccessivo appetito, o con solennità teutonica «mein Naturkind», mia selvaggia, non mi mette solo in guardia dal pericolo che «man wird dich ausnehmen wie eine Weichnachtsgans», «ti spenneranno come un’oca a Natale», ma fa seguire a questi termini commento e spiegazione.

Spiega, sempre da capo, sempre allo stesso modo, non importa in quale lingua, perché i barattoli vanno richiusi subito, perché una come te, con tutto il tuo disordine, non può tenersi un marito, perché se ti ingozzi di pane come al solito, non gusti neanche il cibo e poi diventi come la tua amica, che peserà sui cento chili, perché non devi metterti quella gonna che fa risaltare tutto il tuo culone, il tuo «yiddisher toches», culo ebreo, perché non devi tingerti i capelli, perché non parlare di certe cose, perché non fidarsi di certe persone, perché la mamma è l’unica al mondo che ti ama senza secondi fini e quindi va sempre messa al primo posto. Perché la mamma, che a seconda dei momenti, della foga e del metodo è «deine mame», «la tua mamma», o «deine Metter», «tua madre», vuole solo il tuo bene, vuole proteggerti da tutti i mali, non vuole che tu commetta errori, quando lei non ci sarà più.

Dice che quando ero piccola, lei riusciva sempre a parlare con me e io capivo i suoi insegnamenti. Adesso non capisco più o non voglio più capire, ma quelle sue lezioni o prediche, sempre le stesse, sono faticose, opporre al suo ragionamento uno diverso non serve a niente, bisogna aspettare che finisca, o, quando alza il tono, sbraitarle contro: è la voce a contare, non il discorso. Io invece non accetto, ma capisco.

Non sono neanche certa che queste lunghe spiegazioni su come in generale e in particolare bisogna stare al mondo, per quanto siano sfiancanti, facciano parte dell’addestramento, magari sono solo educazione. Del resto sul capitolo addestramento non ho più le idee così chiare. Forse non esiste differenza, e vai a sapere dove sta il confine, e poi lo so fin troppo bene che molti altri figli hanno genitori anche più violenti o più intolleranti o più esigenti o più malati e, come mia mamma, anche loro agiscono sempre per il bene dei ragazzi, per preservarli da ogni sciagura, genitori che non possono nemmeno immaginare la sciagura da cui mia madre è uscita viva.

Mia mamma è una madre come tante altre. Forse quella strana, quella troppo debole, sono io che me la prendo tanto per parole dette per sfogo e rabbia, parole che lei del resto dimentica subito dopo averle pronunciate. Mia mamma, come molte altre, avrebbe voluto una figlia un po’ diversa. E poi mia madre, con tutta la sua durezza, non mi ha insegnato a prevalere a tutti i costi, su tutti gli altri. Mi ha insegnato la buona educazione: che in metropolitana cedi il posto agli anziani, e ti ricordi sempre degli auguri e dei regali, e vedi di alzarti da tavola e di dare una mano, e se ricevi una bomboniera, anche se è solo tua, la apri subito e la offri in giro. E questo che cosa c’entra? Che c’entra come ci si veste e ci si trucca, come ci si mette a dieta, come lavarsi i denti e mettere i vestiti in valigia, come rigovernare la cucina e come comportarsi a tavola, come ringraziare per un invito e come scegliere un regalo da una lista nozze, come risparmiare o spendere i propri soldi, come trattare un marito o gli amici, che cosa c’entra tutto questo e molto altro ancora con la questione degli errori che paghi con la vita?