L’altra sera in televisione una tizia sosteneva di essere la reincarnazione di una ragazza ebrea uccisa in un campo di sterminio. Me l’ha detto il mio amico Olek, al telefono da Roma, e parlando con me continuava a seguire le tappe ricostruite non si sa come di quella vita precedente, il racconto preciso dei ricordi prenatali, e ripeteva «è allucinante». Allora ho concluso in fretta la telefonata, dicendo che il programma interessava anche a me, benché non fosse vero, e ho acceso il televisore. Si vedeva una donna sulla trentina, psicologa secondo una scritta apparsa all’altezza del busto, che ormai non raccontava più di un’altra se stessa di nome Anna o Hanna, Baumann o Naumann, ma spiegava al pubblico di quel programma e al pubblico a casa, vasto e invisibile, il senso ricavato da quell’esperienza, e tutte le sue conclusioni. Poi la parola è passata agli esperti: a psicologi, parapsicologi, preti, lama buddhisti con monaci interpreti, a uno psichiatra ebreo che ha preso la parte della scienza, ma anche quella della religione definendola «non-dogmatica» e ha concesso che sì, la tradizione mistica ebraica contempla l’idea della metempsicosi, però si tratta di una reincarnazione anonima e insondabile. Dubito che ne sapesse di più e che conoscesse bene l’argomento. Poi una signora anziana, ebrea pure lei, ha parlato del campo di concentramento come di un’esperienza altissima – ha detto proprio così: «guardi che il campo di concentramento è anche un’esperienza altissima» – e a quel punto risaltava il suo abbigliamento tutto bianco e la sua lunga collana di legno, mentre riferiva di un tale, allievo prediletto (si dice allievo? seguace? adepto?) del guru indiano Sri Aurobindo, di questo tale dal nome indiano reso santo dal soggiorno in un lager nazista, offrendolo come esempio alla giovane psicologa, che accetta volentieri l’ammaestramento e ribadisce «è una cosa molto bella che lei mi dice» con un sorriso sulle labbra. Ho continuato a guardare ancora un po’ quel programma sulla reincarnazione ripetendomi, per attutire il fastidio e un vago senso di profanazione, «ma chi sei tu per ridere di queste persone in buona fede, ma in fondo che ne sai tu...»
Io, già da un pezzo, vorrei sapere un’altra cosa. Vorrei sapere se è possibile trasmettere conoscenze e esperienze non con il latte materno, ma ancora prima, attraverso le acque della placenta o non so come, perché il latte di mia madre non l’ho avuto e ho invece una fame atavica, una fame da morti di fame, che lei non ha più. Parlo solo di questo, di questa fame particolare e chiaramente nevrotica che si scatena in certi momenti davanti a un pezzo di pane, pane di qualsiasi tipo, buono, cattivo, fresco, gommoso, secco. Arrivo perfino ad azzannare tozzi di pane duro, non ne butto mai via nemmeno un po’, raccatto le briciole dalla tovaglia per mangiarle. Soffro di una leggera bulimia da pane, ragione principale, forse unica, della mia abbondanza fisica così spesso criticata da mia madre. Ma anche senza sfoghi incontrollati devo sempre mangiare tutto il panino che ho preso in mensa. Me l’ha insegnato lei che il pane è sacro, che lei, quando vede in strada un pezzo di pane, lo raccoglie e lo mette da qualche altra parte più in alto, per non lasciarlo lì, per terra. Ho imparato fin troppo bene la lezione, forse sta tutto qui.
Mia mamma da piccola non era una mangiona come me, non le piaceva mai niente. Lo ha raccontato tante di quelle volte per criticare quei genitori moderni che assecondano i capricci dei bambini cucinando apposta per loro solo i piatti preferiti. Dice che quella sua inappetenza gliel’ha curata soltanto la guerra e riscuote gli sguardi complici di chi appartiene alla sua generazione e ricorda l’eroismo della fame. Non dice di quale fame ha sofferto e che molti sono i significati della frase «non c’era niente da mangiare». Non dice che per puro caso o miracolo non è morta di fame o, più probabilmente, morta ammazzata per astenia da denutrimento, ammazzata col gas.
Dopo la guerra aveva fame, mia mamma, mangiava, mangiava sul serio: i suoi vestiti di allora vanno bene a me, che sono più alta di dieci centimetri e peso dieci chili in più. Non capisco come sia possibile, visto che dalle foto dell’epoca risulta appena un po’ rotonda. Devo proprio indossarli, indossare per esempio l’abito di seta sciancrato a pois bianchi per avere una prova del suo diverso appetito, di una fame che negli anni si è di nuovo placata.
Adesso che è anziana, pur avendo superato le fisime dell’adolescenza, ha ripreso un rigido controllo sulla nutrizione e una certa diffidenza verso i cibi che non conosce da sempre, tenuta a freno e celata per non sembrare una persona difficile o, peggio, un’ignorante plebea che, come il contadino del proverbio tedesco, «mangia solo ciò che conosce».
Adesso sostiene di mangiare «con la testa» e rimprovera me di non farlo, di non salire tutti i giorni sulla bilancia per poter intervenire sui mezzichili prima che diventino uno intero e poi due e poi una mole fisica sproporzionata e offensiva del gusto e dell’ideale estetico e chissà di che altro. Lei mi rinfaccia il mio automatico rimpinzarmi di pane e deposita nel mio piatto la metà della sua porzione perché assolutamente non può mangiare più di così, io covo rancori per la mania di una vecchia di badare così severamente alla propria linea e di parlarne così spesso e come se si trattasse di una questione morale, lei percepisce che io sono un po’ bulimica, io, con l’ausilio delle mie mezze nozioni di psicologia, penso che lei, sin dall’infanzia, abbia avuto una tendenza all’anoressia che torna a manifestarsi sempre più forte negli anni. Siamo agli antipodi, penso con soddisfazione e vergogna per il mio corpo e la mia fame. Forse è per questo che vorrei sapere se è possibile che quella fame me l’abbia attaccata lei, se mi ha passato la sua fame, così come oggi, pur chiamandomi spesso «la mia cicciona», mi passa le sue mezze cotolette, le sue patate, i suoi mezzi piatti di pasta, vorrei sapere se mi ha passato la sua fame da mezza morta per superare quella mezza morte e riconquistare il carattere, la personalità, la psicologia individuale di prima della fame. Me lo chiedo. Me lo chiedo per non dover pensare che l’esperienza dei campi di concentramento, non solo non sia «altissima», ma non sia affatto un’esperienza, che non si impari niente, che non si diventi né più buoni né più cattivi, e una volta che è passata è passata, ritratta nei più remoti recessi dell’anima dove logora, opprime, persiste. Forse logora opprime e persiste perché non può essersi volatilizzata del tutto, ma, informe com’è, informe come sarà per sempre, non incide sul comportamento e sulla persona di chi è tornato nella norma, è tornato nel tessuto sociale, è tornato nel mondo dei vivi e dei sazi che hanno il diritto di essere vivi e sazi. Me lo chiedo perché non riesco a rassegnarmi a quanto mi sembra di aver potuto rilevare con tanta evidenza e tante volte dall’esempio più vicino, da mia madre.
Mia mamma una bambina che non mangia, una ragazza che ruba calze di seta e rossetti, per farsi bella di nascosto da sua madre, che è sempre stata «più curata e vezzosa di te», mia madre che leggeva fino all’ultima pagina romanzi scandinavi per lei noiosissimi, perché quelli bisognava leggere e «io allora ero un po’ snob», mia madre che non ha mai sopportato i grassi e i brutti, che è sempre stata «un’esteta», è quella che conosco, è quella che mi irrita, è quella che mi sembra il contrario di me stessa, perché io voglio essere il contrario di lei. È quella che con due soldi in tasca è scappata dal ghetto, sapendo che lo stavano per liquidare, sapendo il significato di quelle parole, dicendo a sua madre «me ne vado, non voglio bruciare nei forni!», quella chi è?
Piange, cinquant’anni dopo, in Polonia, urla di aver lasciato sola «la mia mamma, la mia mamma». Strilla come un’aquila nel museo installato ad Auschwitz I, quel solido complesso alberghiero dove né lei né nessuno di quegli ebrei è stato, davanti a una teca che mostra un campione di Zyklon B, urla di nuovo come una bambina «mamma, mamma». L’ho amata di un amore pieno e orgoglioso per quella sua scenata «in pubblico». Io amo una madre sopravvissuta che raccoglie il pane per strada e molto meno l’altra che sale sulla bilancia tutte le mattine, e non riesco a metterle insieme, e so di avere a che fare con un mistero irrisolvibile, so che non riuscirò mai a conoscere mia madre e so anche che la conosco fin troppo bene e che tutte le nostre beghe non sono, né più né meno, che i soliti conflitti e le comuni follie familiari.
Mia madre nella stanza marrone di un albergo a Varsavia, grande, brutta e buia come sono le stanze di tutti gli alberghi molto alti e non nuovissimi, solo un po’ più triste, un po’ più buia, un po’ più marroncina di quelle in Occidente. È la prima cosa che vediamo con calma in questo paese, lei dopo cinquant’anni esatti. Non lo sapevo che erano proprio cinquant’anni, così come non so molte altre cose: non sapevo, per esempio, perché già prima di partire e poi sull’aereo lei fosse stata così tesa e taciturna, potevo immaginarlo, certo, visto che anch’io ormai da giorni ero agitata per la paura, paura di questo viaggio, che per lei più che un viaggio era un ritorno, potevo capirla.
Invece non capivo quasi niente, niente fino a quando lei, in quella stanza d’albergo, è scoppiata a piangere, piangere forte, gridando «oggi sono cinquant’anni», ripetendolo ogni volta che riusciva a prender fiato e a parlare, e io che le chiedevo «ma cosa?» e cercavo di abbracciarla, accarezzandola come una bambina cui è successa una tragedia, come aver perso una bambola o aver trovato morto qualche piccolo animale, e dicevo «va bene, mamma, va bene» o qualcosa di simile, perché è possibile che i dettagli me li stia inventando. «Sono cinquant’anni esatti da quel giorno» ha detto finalmente e, abbracciata a me o sciogliendosi dal mio abbraccio, ha raccontato di quando disse a sua madre che non voleva andare a morire con loro.
Era proprio la sera di quel giorno, a cena con sua madre, suo padre e suo fratello che, molto più bravo di lei – «era molto più bravo di me, Jerzy era molto più bravo» urla mia mamma –, aveva messo sul fuoco le patate, pochissime immagino, o fatto qualcosa del genere, non me lo ricordo, mentre lei aveva gridato «non è vero che ci portano da un’altra parte, so io dove ci portano, non voglio bruciare nei forni». A me ha detto così, ha gridato queste parole, non le dimentico. Poi si è messa a urlare «mamma, mamma» e io ho di nuovo cercato di calmare mia madre come una mamma cerca di calmare una bambina che piange strillando «mamma, mamma», ma non è servito, però lei dopo un po’ è riuscita a fermarsi e a urlare «è stato il giorno peggiore di tutta la mia vita» – è stato peggio di tutto il resto, il giorno in cui ha deciso di scappare e di lasciare sua madre, la sua mamma tanto buona, al destino che sapeva.
Ho aperto una sola volta un libro enorme dal titolo: Calendario degli avvenimenti nel campo di concentramento Auschwitz-Birkenau 1939-1945. Alla data del 27 agosto 1943 – cinquant’anni prima e un giorno e mezzo dopo il nostro arrivo a Varsavia – un paragrafo annota:
«Con un trasporto del RSHA sono arrivati circa 1500 uomini, donne e bambini ebrei dal ghetto di Zawiercie. Dopo la selezione, 387 uomini, cui sono stati assegnati i numeri da 140334 al 140720 e 418 donne, marcate con i numeri da 56520 a 56937, vengono internati nel campo. Le circa 700 persone rimanenti vengono uccise nelle camere a gas».
È l’unica pagina che commemora quelli che durante il viaggio con mia madre in Polonia mi sono forzata, per la prima volta, a chiamare nonni e zii. Zawiercie dista da Auschwitz circa trenta chilometri, anche un treno merci o bestiame sovraccarico ci mette poco ad arrivarci. Inutile immaginare in quale metà siano finiti dopo la selezione. So che il nonno non l’hanno gasato subito, che ha avuto varie e strane peripezie. Ho sentito voci sulle scarpe di Jerzy, fratello minore di mia madre, le scarpe che non avrebbe più avuto nel lager, ma non so né quando né come. Non so più niente della nonna.
Quei carri avranno deportato anche i nonni e gli zii paterni. Ne so ancora meno. A mio padre non posso più chiedere niente, a mia madre non ho mai domandato. Non posso chiederle degli altri se non è lei che accenna a volermi dire qualcosa. Ma anche lei non ne sa quasi niente: «quasi» significa qualche voce come quella sulle scarpe, qualche voce impossibile da accertare, e poi che importa, visto che l’esito non cambia.
Scrivi, dice mia mamma leggendo questa pagina,
scrivi che erano stivali della Wehrmacht, se li sono ripresi prima
di farlo salire sul vagone. – Scusa? – Prima del trasporto, li
aveva avuti per lavorare. È rimasto scalzo, sul treno.
Nella notte dal 25 al 26 agosto 1943 mia mamma è scappata dal
ghetto di Zawiercie con dieci złoti in tasca. Possibile che fossero
stati cinque o sette o venti, le cifre non le ricordo mai, men che
meno quando si tratta di valute che non conosco. Aveva quasi
vent’anni.
Alla sua età mi costava una fatica enorme l’idea di fare una qualsiasi cosa che le immaginavo sgradita. Non le davo mai contro apertamente. Soccombevo ai suoi attacchi, volti a castigare qualche mio peccato, quasi sempre d’omissione, sempre conclusi con l’accusa del mio spropositato egoismo, e a quel verdetto quasi sempre mi rimettevo chiedendo scusa e piangendo. Ma così non ottenevo né il perdono né la fine del litigio, anzi molto spesso la violenza aumentava, sembrava aumentare con le mie parole e soprattutto con il mio pianto. E così lei continuava a urlarmi addosso, io a piangere. A vent’anni, senza altre ragioni che la mia vita da salvare, non avrei avuto la forza di lasciare mia madre, l’avrei accompagnata. Non posso saperlo con certezza, ma mi sembra inimmaginabile il contrario. Forse è anche per questo, per ottenere quest’assoluta fedeltà, che lei, a ogni minimo sgarro, mi ha sempre attaccato con tanta foga.