Per due o tre volte l’anno si andava e si tornava dalle vacanze in Italia, in aereo. Sull’autobus che porta all’aeroplano ci mettevamo ognuna davanti a una porta, perché non si sapeva da quale parte l’autobus avrebbe accostato l’aereo e fatto uscire i passeggeri. Se apriva la porta sul mio lato, ero io che dovevo correre verso la scala davanti e occupare i posti nelle prime file di seconda classe, altrimenti lo faceva lei. Allora i posti non li assegnavano ancora al check-in.
Funzionava a meraviglia, non so quante volte eravamo riuscite a accaparrarci la primissima fila, aspettando raggianti che l’altra, con calma, arrivasse. Mia madre si diceva orgogliosa di me, che eravamo una magnifica squadra. Mi diceva che ero un «Kumpel», un buon compagno, uno con cui si può «Pferde stehlen», rubare cavalli, espressione che esiste identica anche in polacco.
Arrivate a destinazione, una andava al nastro dei bagagli, l’altra, direttamente, a recuperare un carrello. Forse si facevano anche due file diverse al controllo passaporti per vedere chi si disimpegnava prima, e quella poi correva a prendere il carrello, ma non ricordo bene.
Per anni abbiamo corso per aggiudicarci quei carrelli e quei posti un po’ migliori degli altri per un volo che dura un’ora scarsa. Adesso, da Monaco a Milano o viceversa, viaggiamo quasi solo in treno, con il vagone letto. Ci sono tre letti in ogni vagone, basso, centrale e alto. Il migliore è quello in basso, ma non si possono scegliere, li assegna il computer dell’agenzia. Spesso, se le capitava uno degli altri due, mia madre si rivolgeva alla persona che occupava il letto in basso, dicendo che, purtroppo, per suoi problemi di salute, durante la notte avrebbe dovuto fare su e giù diverse volte e andare al bagno. Chiedeva, alla persona in questione, se non le dispiaceva cedere il suo letto e di solito le dispiaceva meno dell’idea di un sonno interrotto continuamente. Poi invece ha capito che il computer assegna prima il letto in basso, poi quello in mezzo, poi quello in alto, e nell’agenzia in cui è cliente continua a farsi fare prenotazioni finché non esce quella giusta. Le altre vanno cancellate.
Racconta divertita e soddisfatta di questi suoi pezzi di bravura che lei, con uno dei suoi rari termini in yiddish, chiama «stiklech», pezzetto, piccolo tiro, ricorrente nell’espressione «stiklech drejn», più o meno giocare un tiro, ma forse si potrebbe tradurre meglio, conoscendo in italiano il gergo dei ladruncoli e dei piccoli piazzisti.
Dovunque ci siano dei posti non numerati, corre a prendersi i migliori. Ma quando arriva in ritardo e trova che altri tengono occupate sedie o poltrone, mia madre dichiara che non è corretto occupare un posto libero e vi si siede sopra. È per fatti del genere che non siamo più una squadra così magnifica.
Come l’eroe di un western che si esercita a estrarre la pistola per essere il più rapido nel caso in cui lo attacchino alle spalle, lei ha sempre fatto prove di inganni, defezioni, tradimenti. L’amico che le aveva parlato del viaggio in Polonia, organizzato da un gruppo di sopravvissuti della loro zona, non si era impegnato abbastanza per convincerla a venire, benché lei avesse mostrato grande interesse e ricevuto presto anche la mia adesione: aveva persino tardato a farle avere il programma o non glielo aveva spedito proprio per niente. Da tutto ciò mia madre si convinse che non doveva fargli piacere averla come compagna di viaggio e stava quasi rinunciando, per pensare poi esattamente il contrario, «ora ci mancherebbe che non ci andassi».
Io ero dell’idea di partire, cogliere l’occasione di quella singolare gita organizzata, temendo che un rinvio equivalesse a una rinuncia definitiva, visto che, per quasi cinquant’anni, di un ritorno in Polonia non si era mai parlato, e pensando che condividere il tragitto con un gruppo di persone che avevano passato esperienze simili, e pure ritornavano in gran parte per la prima volta, fosse più bello, più sensato e anche meno duro che aggirarci in quelle lande noi due, da sole.
Mia madre mi ascoltava consenziente, ma svagata, tornando continuamente a chiedersi come mai quello fosse stato così tiepido con lei. Sapeva che dovevano venire anche vecchi amici di lui da Israele, e lui forse non voleva farle conoscere questi amici, per chissà quale motivo, «sai la gente è strana, è poco generosa, o forse c’è di mezzo qualche vecchia storia e non vuole che a Monaco si sappia».
Invece poi, durante il viaggio, Jósek si mostrò tanto affettuoso e disponibile con me e mia madre, quanto glielo consentivano la sua indole riservata e vagamente solitaria e la sua timidezza maschile, mascherata da indifferente superiorità. Pensai che anche la sua presunta ostilità alla nostra partecipazione fosse esistita solo nella testa di mia madre che aveva travisato il suo abituale atteggiamento di orgoglio difensivo.
Siamo poi stati molto bene insieme, formando, come accade sempre nei viaggi organizzati, il nostro gruppo piccolo in mezzo a quello grande, mia mamma e io, Jósek e i suoi amici, Adam e Marga da Israele, Hella Buchweiss da Londra. Oggi mi chiedo quanto abbia contribuito al fatto che siamo davvero state davanti a casa sua e a quella di mio padre a Zawiercie, a Varsavia e Cracovia e Auschwitz-Birkenau, l’idea di mia madre che ci fosse qualcosa di strano e la spinta irresistibile di andarlo a scoprire.
Non sempre però i suoi famosi falsi allarmi si sono sciolti con tanta evidenza in fumo, provocando a lei per prima un grande senso di sollievo. C’era una mia amica, ai tempi la consideravo la migliore, che era venuta a trascorrere una settimana con noi in Italia, sul lago Maggiore. Io allora avevo un fidanzato italiano, lo stesso che è poi diventato mio marito, che la sera e nei fine settimana veniva spesso a trovarci. Si cenava insieme sulla terrazza della casa che dà sul lago, a volte Gianni portava la chitarra e suonava qualche canzone italiana, si comunicava a fatica perché la mia amica parlava tedesco o inglese, Gianni italiano. Una mattina che solo io e mia madre eravamo già alzate, lei mi chiama dal giardino e mi dice di stare attenta perché la mia amica avrebbe intenzione di portarmi via il ragazzo.
Mi sono arrabbiata tremendamente, le ho chiesto di dimostrarmelo, di darmi almeno un elemento di sospetto, perché non è possibile che uno accusi il prossimo di certe intenzioni senza neanche uno straccio di prova. Mia mamma replica solo, ti avviso di stare attenta, ho visto come lo guarda, quella è una gatta, ti invidia, farebbe qualsiasi cosa per avere un uomo. Io non avevo visto niente di tutto questo, né allora, né in seguito. A quei tempi ero certo molto ingenua, può anche darsi che alla mia amica Gianni piacesse, ma certo non piaceva lei a lui, questo riuscivo a capirlo anch’io, era innamorato. E poi l’amica non corrispondeva per niente ai suoi gusti. Mia madre però questo non lo vedeva o non lo considerava come non considerava il problema della lingua, il poco tempo, il fatto che la mia amica allora non abitasse nemmeno a Monaco, ma a Gerusalemme. Anche lei avrebbe potuto star tranquilla. Invece non ci riusciva. Non aveva potuto fare a meno di comunicarmi i suoi sospetti, e farlo subito, e esprimerli nel modo più frontale, perché se occorreva poter sempre reagire agli inganni, tanto più era necessario proteggere la figlia da invisibili nemici.
Guarda che io le cose non le dico così a casaccio.
– Che vorresti dire? – Aveva un diario e io l’ho letto. – Cosa? –
Ho visto i suoi atteggiamenti, mi sono allarmata, e nel diario... –
c’era scritto che le piaceva Gianni e allora tu ti sei spaventata
ancora di più e non hai potuto fare a meno... – No, c’era scritto
che lei invidiava tutto questo: questa vita, questa bella casa,
ecc. – È meglio che lasciamo perdere. – Però, qualche volta ho
fiuto. – Lasciamo perdere.
Qualche volta, purtroppo, mia mamma ha fiuto: perché parecchi sono
i casi in cui ha accusato qualcuno di cose assolutamente
inverosimili, gravi o futili che fossero i sospetti, senza prove o
argomenti plausibili a sostegno delle sue tesi. Per quanto riguarda
la mia persona sono più che certa dei suoi abbagli: certa di non
essermi drogata, di non aver subito gravidanze e aborti, certa di
non aver avuto mai neanche l’accenno di una relazione con il tale
amico, o altri segreti amanti.
Mia madre non si rende conto che le parole pronunciate con tanta sincerità e desiderio di proteggere nascono velenose come la calunnia e ancora meno è sfiorata dal pensiero che per rendersi immuni al loro effetto non c’è altra terapia e profilassi che reputarle subito infondate, schierandosi con l’accusato, contro di lei, e contro la mera ipotesi che potrebbe aver intuito qualcosa di vero.
Ma c’è sempre questa paura che la spinge ogni volta a svegliarsi con un determinato tarlo e a farlo crescere a dismisura, fino a confonderlo con la realtà, e a resistere a ogni sforzo per convincerla che le cose non stanno così o che almeno non c’è niente per provarlo. Le sue domande sono spesso a trabocchetto, le conversazioni al telefono prendono l’aspetto di un terzo grado. Per lei ogni parola può trasformarsi all’improvviso in una possibile menzogna, le cose più comuni in indizi d’altro e le persone in qualcosa di oscuro, una minaccia. In quei momenti tutto deve per forza essere diverso da come appare, non può nemmeno unire in sé due o più aspetti. Crede di poter strappare la maschera, che dietro un nome falso ce ne sia uno vero, e dimentica che un nome falso è diventato il suo vero nome.