È arrivata ad Auschwitz-Birkenau insieme agli ebrei ungheresi, nella primavera o estate del ’44. Otto treni di notte, cinque di giorno, composti di quaranta-cinquanta vagoni, cento persone circa in ciascuno. Le camere a gas lavorano tutte, quattro crematori e ai lati due fosse per bruciare i cadaveri in eccesso, da quattrocento a ottocento i componenti del «Sonderkommando», i prigionieri addetti alla liquidazione e a loro volta liquidati quasi tutti, a turni continui.

Le hanno subito rubato la razione, ma ha ritrovato un’amica che le ha spiegato come comportarsi, le ha dato istruzioni. Ha intravisto Mietek nel campo degli uomini. Ha cominciato a fumare perché non sopportava la puzza e il fumo dei crematori.

Me l’ha detto poco tempo fa perché, a un’altra filippica contro le mie sigarette, ho risposto che anche lei era stata una fumatrice, e forte per giunta. Mi ha guardato come una povera cretina. È stata l’unica volta in cui ha usato Auschwitz come argomento.

Lavorava nel «Kanadakommando», nei depositi degli oggetti rubati ai prigionieri e agli uccisi. Nel gergo del lager si chiamava così perché il Canada veniva considerato il paese del bengodi, di ogni ricchezza. È stata fortunata a riuscire a farsi assegnare al «Kanada» dove potevi rubare qualche indumento da nascondere sotto l’uniforme. Lei l’ha fatto. La sua amica, che aveva più esperienza, la costringeva a lavarsi, due volte al giorno, con l’acqua gelida o con la neve. Non pregava Dio, ma la sua mamma che sapeva morta. Pregava tutte le sere.

Non parla della fame, solo ultimamente, come accennando a una cosa risaputa, ha detto «sai la fame e la paura di essere ammazzata nelle camere a gas», per concludere che i problemi di un mio amico che le stavo raccontando le sembravano sciocchezze. Ha detto che non riesce a partecipare a quel genere di problemi, ma io le ho creduto a metà, visto che si agita moltissimo per questioni ancora meno importanti. Gliel’ho detto, le ho detto che era un bene, il segno che era viva, e pare che lei fosse disposta ad accettare i miei argomenti. Comunque anch’io ho ragione solo in parte.

In quel periodo Auschwitz-Birkenau e tutti i campi attigui erano sovraffollati per via degli ebrei ungheresi, circa un milione di deportati in cinque o sei mesi, la maggior parte sterminati subito. Fra quelli che, non registrati, venivano tenuti nel «Depot-Lager», campo deposito, c’erano i gemelli usati da Josef Mengele per i suoi esperimenti.

Forse a novembre dello stesso anno mia madre è stata selezionata per un trasporto in un altro campo, Weißwasser in Cecoslovacchia. Durante il viaggio nel carrobestiame molte prigioniere sono morte. «Non credere ci fosse solo Auschwitz» ha detto mia madre. A Weißwasser si moriva di fame, di stenti e di malattie oppure ammazzati in vari modi, per capriccio o punizione.

C’era anche lì la sua amica Nadia che oggi vive in Israele. Probabilmente mia madre si è ammalata di epatite a Weißwasser, non ad Auschwitz. Per curarsi si «organizzava » scarti di carota, frugando in mezzo ai rifiuti.

Nadia, che allora doveva essere la più forte e sveglia delle due, oggi sembra molto più vecchia, fragile e lagnosa di mia madre. Le è morto il marito, non ha figli, le poche volte che sente mia madre si lamenta con tono rivendicativo. Le dà un po’ sui nervi.

Sono state liberate dai russi che hanno ballato il kasačok tutta la notte. Mia madre e Nadia non hanno saccheggiato, come facevano in molte, ma in una casa, abbandonata da una famiglia di tedeschi in fuga, non hanno saputo resistere a una scorta di marmellate. Hanno caricato i vasetti in una carriola e l’hanno trascinata per un bel pezzo, per quanto dovesse costare una fatica enorme ai loro fisici scheletrici. Forse non riuscivano nemmeno ad assaggiarla. Anche oggi mia madre deve avere sempre una scorta di marmellata ed è bravissima a farla in casa.