Le seconde nozze

 

Il 24 maggio 1940 la camera da letto di Trockij venne mitragliata da un gruppo di stalinisti di cui faceva parte anche il pittore David Alfaro Siqueiros. Il tentativo fallì: Trockij e Natalja riuscirono a mettersi in salvo, rotolando dietro il letto.

A causa della fin troppo pubblicizzata rottura con Trockij, Rivera finì immediatamente tra i principali indiziati, a breve distanza dal tentato assassinio. Ma, come Siqueiros, Rivera aveva buone conoscenze tra i funzionari del governo. Due di loro, scoperto il nascondiglio da cui Diego aspettava che le acque si calmassero, andarono a avvertirlo che era in pericolo e a consegnargli un passaporto provvisto di visto d'entrata per gli Stati Uniti. "Scivolai silenziosamente fuori dal Messico e mi diressi a San Francisco" scriverà Diego.

Dopo l'attentato a Trockij e la partenza di Diego per gli Stati Uniti, Frida si ammalò gravemente. Quando, tre mesi più tardi, Ramón Mercader, che dopo vari tentativi era finalmente riuscito a conquistarsi la sua fiducia e la sua amicizia, assassinò Trockij conficcandogli un piccone da ghiaccio nel cranio, Frida si sentì annientata. Fu lei a chiamare Diego a San Francisco per dargli la notizia: "Stamattina hanno ammazzato il vecchio Trockij", gli disse piangendo.

""Estúpido"! E' colpa tua se l'hanno ammazzato. Perché lo hai portato in Messico?"

Poiché aveva conosciuto l'assassino a Parigi e lo aveva invitato a cena nella sua casa di Coyoacán, Frida finì tra gli indiziati.

Se Diego non perse troppo tempo a piangere l'ex compagno, grande fu la sua arrabbiatura quando seppe che Frida era stata arrestata e che la sua salute stava deteriorandosi. Per conto della moglie andò dal dottor Eloesser per chiedergli un parere e dei suggerimenti. Il medico raccomandò che Frida andasse a San Francisco e le telefonò per farle sapere che era contrario alle terapie che le stavano facendo seguire a Città del Messico. Secondo il suo punto di vista, il suo problema era una "crisi di nervi" per la quale l'intervento chirurgico suggerito dai medici messicani non sarebbe servito a nulla.

 

Diego ti ama moltissimo [scrisse il dottor Eloesser] e tu ami lui. Si dà pero anche il caso, e tu lo sai meglio di me, che oltre a te Diego abbia due grandi amori: 1) la pittura; 2) le donne in generale. Non è mai stato, né sarà mai, monogamo, cosa che del resto è stupida e contraria alle leggi della biologia.

Rifletti, Frida, su questa base. Cosa "vuoi" fare?

Se pensi di essere in grado di accettare i fatti così come sono, di potergli vivere accanto a queste condizioni e, per vivere più o meno serenamente, di poter annegare la tua naturale gelosia in un fervore di lavoro, pittura, insegnamento, qualsiasi cosa... e essere assorbita fino al momento di andare a letto la sera esausta dal lavoro [allora sposalo].

Una delle due. Rifletti, cara Frida, e decidi.

 

Frida decise. All'inizio di settembre prese un aereo per San Francisco, dove Diego e il dottor Eloesser erano a aspettarla all'aeroporto. Dopo aver passato qualche giorno con Diego nel suo appartamento, fu ammessa all'ospedale Saint Luke, dove il dottor Eloesser smentì le gravi diagnosi dei medici messicani e prescrisse riposo e astensione dall'alcol. Raccomandò anche una terapia a base di calcio e di impulsi elettrici. La salute e lo spirito di Frida vennero presto rimessi a nuovo.

Il nuovo matrimonio con Diego venne annunciato da Frida come un dato di fatto, eppure arrivare alla decisione finale non era stato facile. Tra le tante complicazioni c'era la sua relazione sentimentale con il giovane Heinz Berggruen, oggi rispettato mercante d'arte e collezionista, allora

venticinquenne e approdato in Messico dalla Germania nazista. Berggruen aveva incontrato Diego Rivera e i due uomini erano diventati buoni amici. Un giorno Rivera accennò che Frida era arrivata a San Francisco, per farsi vedere la gamba dal dottor Eloesser. "Mi portò all'ospedale" ricorda Berggruen "e non dimenticherò mai il modo in cui mi guardò quando, un minuto prima di entrare nella stanza di Frida, mi disse: "Sarai molto colpito da Frida." Lo disse in modo secco. Diego era estremamente percettivo e intuitivo; sapeva cosa sarebbe successo. Forse voleva persino che succedesse. In lui c'era qualcosa di diabolico. Mi portò dentro tenendomi per mano."

Quando l'esile giovinetto dai grandi occhi seduttivi, dalla bellezza fragile e poetica e dalla sensibilità romantica e quasi femminea entrò nella stanza di Frida, "ci fu un clic" dice Berggruen. "Lei era splendida, bella come nei suoi dipinti. Io rimasi e Rivera se ne andò. Le feci visita ogni giorno per tutto il mese che passò in ospedale."

Non avevano molta privacy - era regola dell'ospedale che i pazienti non si potessero chiudere a chiave dall'interno e la stanza aveva una porta girevole -

ma "il rischio della scoperta" dice Berggruen "non faceva che aumentare l'eccitazione dell'essere insieme. Per gente giovane e piuttosto scatenata - e Frida era una persona molto scatenata e appassionata - il pericolo non era che un incentivo in più.

Quando Frida andò a New York, Heinz Berggruen fece il viaggio con lei, per discrezione precedendola di un giorno e aspettandola a una delle stazioni lungo il percorso. La coppia passò circa due mesi al Barbizon-Plaza Hotel. "Eravamo molto felici. Per me Frida era una tremenda rivelazione. Mi trascinava alle feste. Nel giro di Julien Levy c'erano feste in continuazione. Nonostante la gamba le facesse male, riusciva a muoversi con molta facilità."

Ma con il passare delle settimane, cominciarono i litigi. "Frida era una donna tempestosa. Io ero impressionabile e immaturo." Le riconciliazioni cominciarono a seguire le separazioni. Non del tutto innamorata, a differenza del suo compagno, e più vecchia di lui di otto anni, Frida era forse un po' prepotente.

"Prendeva la nostra relazione più alla leggera di quanto non facessi io," dice Berggruen "nel nostro rapporto c'erano moltissime cose che mi facevano stare male. Può darsi anche che mi chiedesse più di quanto io ero in grado di darle.

Non ero abbastanza adulto per esserle di guida. Volevo occuparmi di me e della mia vita e sentivo che con Frida avrei incontrato ostacoli e complicazioni immensi. Era in una tale agonia. La sua relazione con Diego era estremamente complicata. Le cose non facevano più clic. Con me era profondamente infelice.

D'altra parte sentiva di avere bisogno di qualcuno di forte a cui appoggiarsi.

Fisicamente Diego era un uomo molto pesante; in un certo senso era un enorme animale, mentre Frida era così fragile sia fisicamente che mentalmente. Lui le forniva qualcosa di solido a cui appoggiarsi."

L'idillio newyorkese finì dolorosamente. Frida accettò la proposta di Diego di risposarlo e Berggruen rientrò a San Francisco prima di lei. Non si videro mai più.

Per la verità Diego aveva chiesto la sua mano molte volte, e il dottor Eloesser aveva fatto da intermediario, avvertendo lei che Diego non avrebbe cambiato le sue abitudini e dicendo a Rivera che la separazione aveva esacerbato la malattia di Frida e che sposandola di nuovo poteva aiutarla a stare meglio. Diego sapeva che la salute di Frida si stava deteriorando. "La risposerò" disse a Emmy Lou Packard "perché ha veramente bisogno di me." Ma la verità era che anche Diego aveva bisogno di lei. La separazione, disse, "cominciava a avere un brutto effetto su tutti e due".

Frida venne consigliata anche da altri amici. Anita Brenner le scrisse della "follia" di Diego e, parlando dalla prospettiva di una donna che sapeva davvero cosa fosse l'indipendenza e che aveva una profonda conoscenza della natura umana, le disse (in spagnolo):

 

Fondamentalmente Diego è una persona triste. E' in cerca di quel calore e di quella certa aria che stanno sempre esattamente al centro dell'universo.

Naturalmente cerca anche te. Anche se non sono sicura che sappia che di tutte tu sei l'unica che lo ha amato davvero (forse anche Angelina [Beloff]). E' naturale che tu voglia tornare da lui, ma io non lo farei, perché quello che attira Diego verso di te è ciò che lui non ha e, se non riesce a averti completamente legata a sé, continuerà a cercarti e a avere bisogno di te. E' naturale volergli essere vicini e volerlo aiutare, prendersi cura di lui, tenergli compagnia, ma questo è esattamente quello che lui non può tollerare. Ogni volta che gira l'angolo viene stregato dalla luna. E tu potresti essere la luna, se scegliessi di stare in una posizione elusiva... mi sembra che per te la cosa migliore sarebbe continuare a fare la civetta. Non lasciarti legare del tutto, fai qualcosa della tua vita; perché è questo che ci salva quando arrivano i colpi e le ferite. Soprattutto, dentro di noi, il colpo non è così violento se c'è qualcosa che ci permette di dire: eccomi qui, valgo qualcosa.

Non sono così completamente identificata come l'ombra di qualcun altro che, se non posso essere nella sua ombra, non sono nessuno e sento di essere stata insultata e umiliata fino a non sopportarlo più. Quello che sto dicendo, per concludere, è che ognuno di noi dipende solo da se stesso...

 

Nonostante i suggerimenti di Brenner, il 23 novembre 1940 da New York Frida mandò un cablogramma al dottor Eloesser per informarlo che sarebbe arrivata a San Francisco il 28 novembre.

Secondo Rivera, prima di accettare di risposarlo, Frida avrebbe posto alcune condizioni (forse, dopo tutto, i consigli di Anita Brenner avevano avuto qualche effetto):

 

...si sarebbe mantenuta da sola, con i proventi del suo lavoro; io avrei pagato una metà delle spese di casa, niente di più; e non avremmo avuto rapporti sessuali. Per spiegare quest'ultimo punto del patto matrimoniale disse che, con l'immagine di tutte le mie altre donne che le scattava nella mente, non avrebbe in nessun caso potuto fare l'amore con me, perché le si sarebbe creata una barriera psicologica non appena io avessi fatto un'avance.

 

L'8 dicembre 1940, giorno del cinquantaquattresimo compleanno di Diego, Frida e Rivera si sposarono per la seconda volta. La cerimonia fu breve. Erano presenti soltanto due amici. Frida indossava un costume messicano dalla lunga gonna verde e bianca e uno scialle marrone. Il suo viso era bellissimo, anche se stravolto da mesi di sofferenza. Alla cerimonia non seguì alcun festeggiamento.

Dopo il matrimonio Frida e Diego rimasero insieme in California per quasi due settimane, prima che lei rientrasse in Messico in tempo per passare il Natale in famiglia.

In febbraio Diego aveva finito di dipingere quanto gli era stato commissionato a San Francisco. L'assassino di Trockii era stato catturato e non aveva accusato Rivera di essere suo complice. Diego preparò i bagagli e tornò in Messico, dove fece ritorno alla casa blu di Calle Londres, pur continuando a tenere San Angel come studio.

La riconciliazione dei Rivera si tradusse presto in una routine confortevole e ragionevolmente felice, una routine non più determinata soprattutto da Diego, quanto piuttosto dall'accordo reciproco o dal compromesso; da allora in poi Frida avrebbe vissuto più o meno secondo i suoi termini. Avendo guadagnato in sicurezza e indipendenza grazie alle mostre e grazie alla fermezza con cui aveva difeso la propria autonomia economica e sessuale, Frida divenne più materna nei confronti di Diego, attitudine che risulta con evidenza dalla lettera al dottor Eloesser del 15 marzo 1941:

 

"Queridísimo doctorcito":

Hai ragione a pensare che sono una bestia, visto che non ti ho scritto nemmeno quando siamo arrivati a Mexicalpán de las Tunas, ma devi renderti conto che non è stata pigrizia da parte mia, quanto piuttosto che al mio arrivo ho avuto un sacco di cose da sistemare in casa di Diego e tu ormai devi avere un'idea di quanto abbia bisogno che ci si prenda cura di lui e quanto tempo assorba, dato che come sempre quando arriva in Messico è d'umore infernalmente cattivo fino a che non riesce a riacclimatarsi al ritmo di questa terra di follia. Questa volta il cattivo umore è durato più di due settimane, fino a che non gli hanno portato alcuni meravigliosi idoli di Nayarit e, a vederli, il Messico ha ricominciato a piacergli. L'altro giorno poi ha mangiato un delizioso "mole" con anatra e anche questo ha contribuito a restituirgli il gusto della vita. Si è riempito di "mole" con anatra tanto che io credevo avrebbe fatto indigestione, ma come sai Diego ha una resistenza a tutta prova. Dopo quei due episodi, gli idoli di Nayarit e il "mole" con anatra, ha deciso di uscire e di andare a Xochimilco a dipingere acquerelli e a poco a poco l'umore gli è migliorato.

 

Secondo Emmy Lou Packard, che raggiunse il Messico con Rivera per continuare a lavorare come sua assistente e che visse nella casa blu di San Angel per quasi un anno, in casa Rivera una giornata tipo cominciava con una ricca colazione, durante la quale Frida o Emmy Lou leggevano a voce alta il giornale del mattino, pieno di notizie di guerra, per Diego che aveva problemi agli occhi e non voleva affaticarli. Dopo la colazione, Rivera si dedicava al lavoro. Verso le dieci o le undici andava allo studio di San Angel insieme a Emmy Lou. All'una e mezzo o alle due ritornavano a casa per il pranzo.

Se aveva passato la mattina dipingendo, a volte Frida non si presentava con le sue solite gonne ondeggianti, ma in abiti da lavoro, pantaloni di cotone e una giacca da operaio in stile occidentale, e invitava Diego e Emmy Lou nel suo studio perché vedessero cosa aveva fatto. "Diego sembrava sempre come intimidito dal suo lavoro. Non diceva mai niente di negativo. Era continuamente sorpreso dalla sua immaginazione" ricorda Emmy Lou. "Aveva l'abitudine di dire: "E' un pittore migliore di me.""

Se non aveva passato la mattina a dipingere, Frida era magari andata al mercato con un'amica o con una delle sorelle a comprare fiori, oggetti per la casa o altro che le colpisse la fantasia.

A Frida piacevano anche i lavori domestici: abbellire la casa per Diego non era una fatica, ma un piacere e Rivera spesso prendeva parte alle decisioni domestiche; quando Frida ristrutturò la cucina, coprendone le pareti di piastrelle blu, bianche e gialle come era d'uso nella tradizione locale, volle prima sentire il parere di Diego. Il quale naturalmente diede la sua

approvazione: la cucina divenne enfaticamente "mexicanista", con le grandi pentole d'argilla appoggiate sui ripiani piastrellati e una moltitudine di bricchetti di terracotta appesi alla parete a formare la scritta "Frida e Diego".

Anche la sala da pranzo era decorata con un gusto che dimostrava l'attaccamento dei Rivera alla cultura "campesina" del Messico. Alle pareti erano appese nature morte naïve, maschere e altri oggetti dell'arte popolare e i pavimenti di legno erano dipinti di "polvo de congo", la vernice gialla usata nelle case dei contadini, e coperti di "petates" di paglia. Come nelle case dei poveri, le luci erano costituite da spoglie lampadine elettriche appese a un filo e di solito sulla tavola di legno grezzo e non verniciato Frida metteva una tela cerata a fiorellini. Gli ospiti ci passavano ore, bevendo da boccali di argilla rossa e mangiando in piatti di terracotta; quell'invenzione "borghese" che era il soggiorno veniva usata di rado.

Emmy Lou Packard ricorda che "per Diego ogni giorno Frida trasformava la tavola in natura morta", sistemando piatti e frutta e sei o sette enormi mazzi di fiori che si portava a casa dalle sue spedizioni mattutine al mercato e che si limitava a infilare in barattoli d'argilla, spesso lasciandoli nella carta in cui erano avvolti. Diego si metteva sempre a capotavola per avere la vista migliore, con Frida e Emmy Lou ai lati.

A Frida piaceva ravvivare il quadro con alcuni animali: uno scoiattolino in gabbia oppure, libero di muoversi, il piccolo pappagallo Bonito, che all'epoca era il suo animale preferito e che aveva l'abitudine di andare a annidarsi sotto le sue coperte quando era a letto a riposare.

 

L'umore sereno e tranquillo della lettera del 15 marzo al dottor Eloesser era, già in luglio, completamente mutato, come risulta evidente dalla lettera inviata all'amico il 18 luglio. Nel frattempo il padre era morto e la sua salute era peggiorata. Ciononostante, Frida parla delle sue disgrazie mantenendo un tono vivace e impetuoso: persino con un amico intimo come Eloesser, Frida cerca di nascondere il lutto e il dolore dietro una facciata di "alegría".

 

Carissimo "doctorcito",

che cosa dirai di me: che somiglio più alla musica di un sassofono che a quella di un gruppo jazz. Neanche un grazie per le tue lettere, né per il maschietto [il feto che il dottor Eloesser le aveva mandato in regalo] che mi ha dato tanta gioia, neppure una parola per mesi e mesi. Avresti perfettamente ragione a mandarmi al diavolo. Ma tu sai che, se non ti scrivo, non vuole dire che ti ricordi meno. Tu sai che ho il grande difetto di essere pigra, come soltanto io posso esserlo, per quel che riguarda la scrittura di una lettera. Ma credimi, ti ho pensato molto e sempre con lo stesso affetto...

Il mio zoccolo, zampa o piede sta meglio. Le mie condizioni generali sono piuttosto fott... Credo dipenda dal fatto che non mangio abbastanza - fumo un sacco - e cosa strana! Non bevo più "nessun" cocktailino o cocktailaccio. Mi sento qualcosa nello stomaco che mi fa male e ho in continuazione voglia di ruttare. (Pardon ho fatto un rutto!!) La mia digestione è quella di un "vil tiznada" [un vile ubriacone]. L'umore è abominevole. Ogni giorno che passa divento più intrattabile (nel senso messicano del termine) non-valorosa (per usare il linguaggio dello stile accademico spagnolo), vale a dire "molto brontolona". Se la medicina offre qualche rimedio per migliorare l'umore di gente come me, procedi pure a darmi un consiglio in proposito di modo che lo possa buttar giù immediatamente, per vedere che effetto fa...

Il matrimonio bis funziona bene. Una piccola quantità di litigi, migliore comprensione reciproca e, da parte mia, meno indagini fastidiose sulle altre donne, che con frequenza occupano una parte preponderante del suo cuore. Puoi capire da questo che finalmente ho imparato che "la vita va così" e il resto è pane dipinto [una semplice illusione]. Se mi sentissi meglio di salute si potrebbe dire che sono felice: ma questo fatto di sentirmi un vero rottame dalla testa alla punta

dei piedi certe volte mi sconvolge il cervello e mi fa passare dei momenti amari...

Non dimenticarmi.

Un mucchio d'amore e di baci da

Frida.

 

Per me la morte di mio padre è stata qualcosa di terribile. Credo che si debba a questo se ho cominciato a stare molto meno bene e se sono di nuovo piuttosto magra. Ricordi com'era bello e quanto era buono?

 

La poca salute e la morte del padre depressero Frida; la guerra che si combatteva in Europa non fece che intensificare la sua pena. Con Diego divideva l'angoscia per la gente, i luoghi e i valori politici che erano minacciati o che già erano andati distrutti, angoscia che si approfondì quando in giugno venne invasa la Russia.

Diego aveva sempre amato la Russia e i russi. Negli anni trascorsi a Parigi aveva imparato a parlarne la lingua con Angelina Beloff e con i numerosi amici russi e gli ideali della rivoluzione gli avevano riempito il cuore e la mente per tutti gli anni successivi, nonostante fosse convinto che Stalin li aveva traditi. "In Russia almeno le masse rivoluzionarie sono in marcia" scrisse a Emmy Lou Packard, quando già era tornata negli Stati Uniti. "Sono disperato perché non posso essere con loro."

La sua disperazione era complicata dal fatto che, avendo lasciato il movimento trockista e trovandosi ancora nel mirino del Partito comunista, non aveva una base organizzativa attraverso cui incanalare e trasformare in azione ciò che sentiva.

Frida, nonostante la sua passione per la politica fosse meno intensa di quella di Diego, capiva ciò che provava. ""Pobrecito"!" diceva di lui a Emmy Lou.

"Povero caro! Come è solo adesso che non è nel Partito comunista e in mezzo al movimento."

Durante la notte dell'ultimo dell'anno del 1942, Frida scrisse al dottor Eloesser dal letto, dove era confinata dall'influenza, dall'angina e da "tutti gli altri guai": "Credo che la guerra continuerà a essere intensa per tutto questo anno che è appena nato e che non possiamo sperare di avere giorni felici... non ho molto da dirti, perché vivo la vita più semplice che tu possa immaginare. Diego sta lavorando al Palazzo e io sto in casa a dipingere "moninches" [la parola che Frida usava per scimmie] o a grattarmi la pancia, di tanto in tanto al pomeriggio vado al cinema e non c'è nient'altro da dirti. Più passano i giorni e meno mi piacciono la gente "gusta" i "parties" e le merdose feste borghesi e così mi sottraggo a tutto questo più che posso."

Era naturalmente nei quadri che la cupezza di Frida si rifletteva con più eloquenza. "Autoritratto con treccia", 1941, è uno dei primi autoritratti a mezzo busto prodotti dopo il rientro in Messico da San Francisco. Può essere visto come un commento al nuovo matrimonio, di segno uguale e contrario a "Autoritratto con capelli tagliati", risalente al periodo del divorzio. Viene da immaginare che i capelli sparpagliati sul pavimento dell'autoritratto precedente siano stati raccolti, intrecciati e modellati in forma di ciambella sul capo di Frida. Rimettere i capelli al loro posto corrisponde alla riaffermazione della femminilità che aveva negato, ma tale affermazione non è gioiosa. Le ciocche indisciplinate sembrano tanto sconcertantemente dotate di vita quanto i capelli che aveva ragliato e dipinto l'anno prima; sono i terminali nervosi di una psiche in preda all'ansia. Né meno inquietanti sono le enormi, rapaci foglie tropicali dai bordi acuminati e seghettati che coprono la nudità di Frida. Il loro ritmo vorticoso suggerisce il tumulto che si nasconde dietro la calma dei lineamenti. Spessi gambi che fanno pensare ai vasi sanguigni di "Le due Fride"

le cingono il petto, togliendole ogni libertà di movimento. Il senso di oppressione è rinforzato dalla stretta strangolante delle perle precolombiane e i colori spenti del dipinto contribuiscono a creare un'atmosfera di malinconia.

Anche se il matrimonio poteva, secondo la sua definizione, "funzionare bene", le rose non sarebbero state senza spine.

In "Autoritratto con Bonito", 1941, Frida indossa eccezionalmente una "semplice blusa di colore nero che fa pensare al lutto: per il padre, per le vittime della guerra e forse anche per la morte di Bonito, che le sta appollaiato sulla spalla. Il fogliame che le incornicia il volto brulica letteralmente di vita. Le farfalle hanno scavato buchi in varie foglie; il messaggio è che la vita non è altro che un transito. Una farfalla è rimasta imprigionata nella tela di ragno tesa tra i capelli di Frida e una foglia, legame - per quanto agghiacciante -

tra Frida e il mondo. Sempre, quando era infelice, Frida cercava di riaffermare il suo attaccamento alla vita. Uno dei modi, che sarebbe diventato sempre più importante via via che gli anni passavano e che la sua esistenza andava progressivamente restringendo il proprio campo d'azione, fu di fare dell'unità con la natura non una semplice abitudine (adorando gli animali che possedeva, curando i suoi fiori, accomodando la frutta nei recipienti eccetera), ma una questione di fede.

"Radici" mette in chiara evidenza il crescente desiderio di Frida di diventare profondamente parte della natura. In una pagina di diario del 1944 scrisse del "miracolo vegetale del paesaggio del mio corpo". Il suo desiderio di fertilità si trasformò nella convinzione quasi religiosa che tutto ciò che sta sotto il sole è intimamente collegato e che lei poteva partecipare al flusso universale.

"Radici" è in questo senso il ribaltamento (o la controparte) di "La mia balia e io". Nel dipinto del 1937, Frida era la bambina attaccata al seno-pianta della terra madre. In "Radici", è Frida a nutrire la natura dando vita a una pianta rampicante.

Il gomito appoggiato al cuscino del letto, Frida sogna che il suo corpo copra una grande estensione di terreno desertico. La sua presenza solitaria in quel luogo selvaggio ha il mistero e la naturalezza da sogno della "Zingara che dorme" di Rousseau, un quadro che sicuramente Frida conosceva e amava. Sul petto le si apre una finestra, attraverso la quale non si vedono le sue ossa rotte o l'utero sterile, bensì il paesaggio roccioso che le sta alle spalle. Da questo mistico utero spunta un rampicante verde e flessibile, che si ramifica lussureggiante lungo il terreno desertico. Il sangue di Frida scorre lungo le arterie della pianta e prosegue in rosse vescichette che si estendono come insinuanti radici oltre il bordo delle foglie. Frida diventa dunque una sorgente di vita, le cui radici affondano nell'arido suolo messicano. "Radici" può anche alludere all'idea che, dopo la morte, i cicli naturali trasformano il corpo in fertile riproduttore di vita: davanti a Frida la terra si spacca e dà forma a scuri burroni e una caverna simile a un sepolcro giace ai suoi piedi. Se Frida riesca a rimanere sospesa sul precipizio dipende dalla continuazione del sogno.

 

I mecenati, la politica e il riconoscimento pubblico.

 

Negli anni quaranta, forse grazie alla fama ottenuta attraverso le mostre fatte all'estero e la partecipazione alla grande "Mostra internazionale del Surrealismo" di Città del Messico, la carriera di Frida fece un salto. Il riconoscimento le procurò patroni, lavori su commissione, un incarico come insegnante, un premio, una borsa di studio, la partecipazione a varie

organizzazioni culturali, conferenze, progetti artistici e persino qualche invito occasionale a scrivere per giornali e riviste. Per Frida tutto questo fu probabilmente un forte incentivo a prendersi più sul serio come artista. Inoltre era decisa a guadagnarsi da vivere e quindi lavorava con una diligenza che non aveva mai avuto prima.

I quadri che produceva avevano generalmente dimensioni maggiori di quelli realizzati negli anni trenta e davano l'impressione di essere rivolti a un pubblico più vasto, di non essere più soltanto privati talismani o immagini votive destinati a rispondere ai suoi bisogni o al piacere personale di Diego.

Grazie alle accresciute capacità tecniche, il suo realismo compositivo e formale si fece più accurato, le sue immagini più sofisticate e meno ingombre di grazia infantile. Dipinse un gran numero di autoritratti a mezzo busto, pieni di dettagli e (relativamente) vendibili, e pochi ritratti narrativi del tipo di "La colonna spezzata" e "Albero della speranza", nei quali la sua figura appare immersa in situazioni fantastiche e sempre dolorose e che sembrano più prossimi ai dipinti-"retablo" dei primi anni trenta. Nonostante tutto, la pittura rimase in primo luogo e soprattutto un mezzo d'espressione personale. "Da quando l'incidente mi ha fatto cambiare strada e molte altre cose," disse a Antonio Rodríguez "non mi è stato permesso soddisfare quei desideri che tutto il mondo considera normali e nulla sembrava più naturale che dipingere ciò che non era stato soddisfatto... i miei dipinti sono... la più franca espressione di me stessa, senza tener conto né dei giudizi né dei pregiudizi di nessuno. Ho dipinto un po' e senza avere il minimo desiderio di gloria o di ambizione, ma nella convinzione, prima di tutto, di voler dare piacere a me stessa e poi di voler essere in grado di guadagnarmi da vivere con il mio mestiere.... per dipingere come vorrei e tutto ciò che mi piacerebbe non basterebbero molte vite."

Riferendosi al suo lavoro artistico continuò a denigrarsi. "Quanto alla pittura, continuo a andare avanti" scrisse al dottor Eloesser il 18 luglio 1941. "Dipingo poco, ma sento che sto imparando qualcosa." E continuava a avere bisogno di incitamenti di vario tipo per motivarsi a dipingere. Rivera la aiutava, spesso elogiandola, qualche volta negandole il denaro, ma le sue abitudini di lavoro irregolari, unite ai problemi fisici, le impedivano di produrre quadri con rapidità e quindi di accumularne a sufficienza per organizzare un'altra personale in una galleria commerciale. Ciononostante riuscì a partecipare a varie collettive importanti.

Poiché in Messico la sua opera fu presentata al pubblico più tardi e, almeno finché visse, in situazioni di minor prestigio, Frida riconobbe sempre che il suo valore artistico era stato riconosciuto in primo luogo negli Stati Uniti.

Eppure la sua fama stava crescendo anche in Messico.

Nella seconda metà degli anni quaranta, il lavoro di Frida godeva nel suo paese di sufficiente rispetto per essere incluso nella maggior parte delle collettive più importanti. E anche "la scena artistica" messicana stava cambiando. Sebbene continuassero a dipingere i loro affreschi social-realisti, i muralisti avevano smesso di fare ombra ai modernisti o ai pittori da cavalletto a orientamento surrealista. Rufino Tamayo, il cui lavoro era stato ufficialmente condannato perché troppo europeo, era ora alla guida dell'avanguardia. Le influenze straniere erano meno sospette e si sapeva di più degli sviluppi in campo artistico negli altri paesi. Se la galleria d'Arte messicana Inés Amor era stata un tempo l'unico spazio espositivo importante, se ne stavano aprendo ora molte altre. Per poterli esporre e vendere, le gallerie hanno bisogno di prodotti artistici facili da trasportare. Per questa ragione i quadri da cavalletto, che erano stati considerati un emblema della decadenza borghese, divennero il prodotto pittorico più comune e popolare. Frida, naturalmente, non aveva mai smesso di produrre piccoli olii da cavalletto.

Un segno della sua fama crescente si ebbe nel 1942, quando venne selezionata come membro fondatore del Seminario di cultura messicana, un'organizzazione che inizialmente comprendeva circa venticinque tra artisti e intellettuali e il cui scopo era quello di promuovere la diffusione della cultura messicana attraverso conferenze, mostre e pubblicazioni.

Nel 1946, insieme a altri cinque artisti, Frida venne inoltre scelta come destinataria di una borsa di studio governativa, ma l'onore più grande arrivò nel settembre di quello stesso anno, all'annuale Mostra nazionale tenuta al Palazzo delle belle arti. Orozco ricevette il Premio nazionale delle arti e delle scienze per i murali realizzati nell'ospedale di Gesù di Città del Messico, ma un accordo speciale tra il presidente e il ministro dell'educazione rese possibile l'assegnazione di altri quattro premi per la pittura, di cinquemila pesos ciascuno. Tali premi andarono a Frida (per il suo "Mosè"), a Doctor Atl, Julio Castellanos e Francisco Goitia. Pur se imprigionata in un busto di gesso applicatole dopo un intervento alla spina dorsale, Frida si presentò al ricevimento inaugurale a ritirare il premio vestita come una principessa.

Ci furono anche incarichi pubblici. Nel 1941 le venne chiesto di dipingere una serie di ritratti delle "Cinque donne messicane che più si sono distinte nella storia del "popolo"", per usare le parole di Frida, per la sala da pranzo del Palazzo Nazionale. "Adesso sono costretta a scoprire che genere di scarafaggi fossero queste donne" scrisse al dottor Eloesser.

Sfortunatamente questi ritratti di donne celebri non furono mai realizzati.

Un'altra, meno importante, commissione governativa andò invece a buon fine, ma il dipinto, un tondo, una straordinaria natura morta che Frida produsse nel 1942

per la sala da pranzo del presidente Manuel Avila Camacho, venne respinto. Forse la signora Avila Camacho lo trovò troppo pieno di frutti, verdure e fiori la cui inquietante allusività rimandava senza mezzi termini all'anatomia umana.

Frida continuò dunque a avere problemi a trovare e soddisfare i clienti. Lungi da lei l'idea di corteggiare e ingraziarsi i suoi protettori, Frida rifiutò di piegare se stessa o i suoi lavori ai loro gusti.

Persino quando le vendite cominciarono a andare bene, verso la metà degli anni quaranta, guadagnarsi da vivere non era facile. Un appunto del 1947 nel libro dei conti che Frida teneva mostra, per esempio, che "Le due Fride" fu venduto per quattromila pesos al Museo d'arte moderna di Città del Messico; secondo il direttore del museo, Fernando Gamboa, il quadro venne acquistato perché Frida aveva un disperato bisogno di denaro e nessun altro voleva comprarglielo. A quell'epoca, comunque, Frida aveva svariati, entusiasti protettori, che di tanto in tanto concorrevano tra loro per l'acquisto di un suo quadro. Tra loro il più potente era Eduardo Morillo Safa, ingegnere agricolo e diplomatico, che nel corso degli anni comprò qualcosa come trenta dei suoi quadri e che nel 1944, oltre al proprio, le commissionò i ritratti delle due figlie, Mariana e Lupita, della madre, doña Rosita Morillo, della moglie e del figlio.

I ritratti fatti da Frida a altre persone sono sempre meno vibranti e originali dei suoi quadri a tema o degli autoritratti, forse perché, ritraendo un particolare individuo, non si sentiva libera di proiettare nell'immagine tutta la sua complessa fantasia e tutto ciò che sentiva, quella "realtà che era soltanto sua..

Frida adorava i bambini. Li trattava da pari e sia nella sua opera che nella vita attribuì loro una dignità tutta particolare. Già a partire dal 1928, quando Rivera, sapendo che aveva bisogno di denaro, le trovò un posto come insegnante d'arte per bambini, il suo rapporto con gli studenti era sia quello di un bambino in mezzo a altri bambini sia quello di un adulto che non vuole "rovinare" la creatività dei giovani. Come Rivera, che scrisse un'elegia dedicata all'arte infantile, Frida era convinta che, prima di essere

"trasformati in idioti dalle scuole o dalle mamme", essi possedessero poteri creativi più puri degli adulti. "Diego mi ha procurato un lavoro come insegnante di disegno" disse Frida, "e io mi sono messa a pancia in giù sul pavimento insieme ai miei ragazzini. Abbiamo disegnato e gli ho detto: "Non copiate più, dipingete le vostre case, madri, fratelli, l'autobus, le cose che capitano."

Abbiamo giocato a biglie e a trottola e siamo diventati sempre più amici."

Oltre Morillo Safa, un altro dei patroni preferiti di Frida era l'ingegnere José Domingo Lavin, che nel 1942 le commissionò un grande ritratto circolare della moglie e nel 1945 la incaricò di dipingere il "Mosè". Il quadro fu il risultato di una conversazione casuale avvenuta durante un pranzo a casa dei Lavin.

L'ospite mostrò a Frida una copia appena acquistata del "Mosè e il monoteismo"

di Freud. Lei ne lesse qualche pagina e gli chiese di prestarglielo. Ne era affascinata e, quando lo ebbe terminato, disse che le sarebbe piaciuto mettere in un quadro le idee che le erano venute leggendo il libro. Dopo tre mesi "Mosè"

era terminato. Due anni più tardi, durante una serata a casa di Domingo Lavin, Frida tenne una conferenza informale sull'opera.

Le frasi d'apertura della spiegazione fornita da Frida sono interessanti, perché rivelano il suo modo candido e assolutamente non pretenzioso di parlare del suo lavoro artistico:

 

Dato che è la prima volta in vita mia che cerco di "spiegare" uno dei miei lavori a un gruppo di più di tre persone, mi perdonerete se sarò un po' confusa e un po' polverosa...

Ho letto [il "Mosè" di Freud] soltanto una volta e mi sono messa a dipingere a caldo. Ieri, scrivendo queste parole per voi, l'ho riletto e vi devo confessare che trovo il quadro molto incompleto e piuttosto diverso da quella che dovrebbe essere l'interpretazione di ciò che Freud analizza così meravigliosamente nel suo "Mosè". Ma adesso non c'è niente da fare, non si può aggiungere né si può togliere nulla, così parlerò di ciò che ho dipinto, proprio così com'è, e di ciò che potete vedere qui nel quadro. Naturalmente il soggetto principale è "MOSE'"

o la nascita dell'EROE. Ma io ho generalizzato a modo mio (un modo molto confuso) i fatti o le immagini che mi hanno colpita di più leggendo il libro.

Quanto a quello che ci ho messo "di mio", ditemi voi se ho colpito nel segno o no.

 

Data la vastità del tema e la moltitudine di piccole figure presenti nel quadro, da molti il "Mosè" di Frida è stato paragonato a un murale. L'opera è però ben lontana dal poter essere definita arte "pubblica". Maneggiando il suo soggetto storico in modo così liberamente individualistico, Frida è riuscita a trasformarlo nell'espressione della sua personale preoccupazione per la procreazione come parte del ciclo della vita. Persino la composizione del quadro fa pensare alla procreazione: Frida ha combinato un metodo ingenuamente aggiuntivo di organizzazione delle forme (visibile nelle varie sezioni del dipinto) con una coerenza complessiva basata su una simmetria bilaterale e sul rimando all'anatomia della regione pelvica femminile. La nascita di Mosè è, molto a proposito, posta al centro del dipinto.

Il bambino nasce sotto un immenso sole rosso i cui raggi terminano in mani. Da un punto di vista iconografico, naturalmente, questa immagine ha le sue origini nei rilievi egizi del periodo Amarna, ma per Frida la fonte più diretta deve essere stato quel murale realizzato da Rivera alla Scuola preparatoria, nel quale le mani alla fine dei raggi di luce significavano, secondo Diego, "Energia solare, fonte di ogni vita". Sempre nella stessa vena, nel suo discorso sul "Mosè" Frida spiegò che nel dipinto il sole era concepito come "il centro di tutte le religioni, come Primo DIO e creatore e riproduttore di VITA."

La nascita di Mosè rappresenta la nascita di tutti gli eroi. Su entrambi i lati dell'evento centrale di nascita c'è un gruppo di eroi della storia che spazia da Cristo a Lenin, da Budda a Hitler: i "parrucconi", come li chiamava Frida. Sopra di loro ci sono gli dei, mentre al di sotto ci sono le masse in ebollizione delle guerre che trasformano la storia. Nell'angolo in basso a sinistra c'è, disse Frida, "il primo uomo, il costruttore, in quattro colori (le quattro razze), accompagnato dal suo progenitore, la scimmia". Nell'angolo in basso a destra c'è "la madre, la creatrice dal bambino in braccio" accompagnata da una scimmia femmina, anch'essa con una creatura tra le braccia. Tra il paradiso affollato di divinità e la sfilata di eroi stanno uno scheletro umano e uno scheletro di animale e, per buona misura, un diavolo. Le grandi dita che circondano l'intera scena rappresentano la terra che apre le proprie mani per proteggere e accogliere i morti, "con generosità e senza fare distinzioni": esattamente il genere di mani monumentali e avvolgenti che Rivera di tanto in tanto inseriva nei suoi murali.

"A fianco del bambino, su entrambi i lati," spiegò Frida "ho messo gli elementi della sua creazione, l'uovo fertilizzato e la divisione della cellula." Uno scroscio di pioggia accompagna la rottura delle acque del parto e (come in "Fiore di vita") le tube, che somigliano sia a fiori che a mani umane, sporgono dall'utero messo in posizione centrale.

A separare la scena di nascita dalle sezioni storiche laterali ci sono due vecchi tronchi, il simbolo preferito da Frida per indicare il ciclo della vita e della morte. Dal legno putrefatto spuntano nuovi germogli coperti di verdi foglioline e i vecchi rami spezzati sono disegnati in modo da somigliare a tube.

La nuova vita, diceva Frida, germoglia sempre dal "tronco del tempo". In primo piano al centro del quadro, come simbolo d'"amore", una chiocciola di mare, aggrovigliata in una greca di radici simili a vene, spruzza il suo liquido all'interno di una conchiglia.

 

"La Esmeralda" non si riferisce né a un negozio di smeraldi né a una gioielleria di Città del Messico. E' invece la scuola di pittura e scultura del ministero dell'educazione pubblica, così battezzata dagli studenti dal nome della via in cui sorgeva. Quando venne aperta, nel 1942, c'erano più insegnanti che studenti, poiché il direttore, Antonio Ruiz, pittore di opere di piccolissimo formato piene di umorismo e di fantasia, diede il via alle attività assumendo un eccezionale gruppo di ventidue docenti. Già nel 1943 il gruppo includeva artisti di chiara fama come Jesús Guerrero Galván, Carlos Orozco Romero, Agustín Lazo, Manuel Rodríguez Lozano, Francisco Zúniga, María Izquierdo, Diego Rivera (che insegnava composizione) e Frida Kahlo. Il salario iniziale di Frida era di 252

pesos per dodici ore d'insegnamento, tre giorni alla settimana. Anche se, dopo i primi tre anni di impiego, il suo lavoro ebbe un andamento a dir poco informale, per un decennio Frida continuò a avere il titolo di insegnante.

Non tutti gli istruttori erano messicani - tra loro ad esempio c'era il poeta surrealista di origini francesi Benjamin Péret -, ma il loro spirito era enfaticamente "mexicanista". Sebbene la sede scolastica fosse in cattive condizioni e priva di comodità, visto che consisteva di una vasta aula e di un cortile dove gli studenti dipingevano (quando pioveva, l'acqua inondava il cortile e gli studenti dovevano camminare su assi di legno), per gli insegnanti della Esmeralda l'intero Messico era uno studio. Invece di chiedere agli studenti di disegnare a partire da calchi di gesso o di copiare i modelli europei, li mandavano nelle strade e nei campi, a lavorare dal vivo e dalla natura. Il loro obiettivo non era di produrre artisti, ma di "preparare degli individui la cui personalità creativa si sarebbe più tardi espressa nelle arti"; il programma, della durata di cinque anni, comprendeva corsi di matematica, spagnolo, storia, storia dell'arte e francese. Il contatto diretto con gli insegnanti doveva sollecitare l'iniziativa di ogni singolo studente. Dato che gli allievi erano per lo più poveri, iscrizione e materiali erano gratuiti.

Uno dei primi studenti, il pittore Guillermo Monroy, ricorda che "all'inizio c'erano soltanto dieci studenti circa. Poi dal mio quartiere arrivò una banda di circa ventidue ragazzini. Quando entrai nella scuola, non sapevo nulla di arte, perché lavoravo e venivo da una famiglia di muratori. Avevo fatto soltanto sei anni di scuola e non sapevo neppure che le scuole d'arte esistessero. Verniciavo mobili e ero tappezziere, Più avanti decisi di imparare a intagliare il legno, perché lavoravo in un negozio di mobili coloniali. Fu così che, da lavoratore, andai alla Esmeralda".

L'arrivo di Frida alla Esmeralda fece scalpore. Alcuni studenti erano pieni di ammirazione; altri, come Fanny Rabel (all'epoca Fanny Rabinovich), inizialmente erano scettici:

 

E' un vecchio vizio delle donne non avere fiducia nelle donne. Così all'inizio, quando mi dissero che per insegnante avrei avuto una donna, l'idea non mi piacque. Avevo sempre avuto soltanto insegnanti e compagni maschi. In Messico quasi tutto era gestito dagli uomini e a scuola c'erano pochissime ragazze. Il mio insegnante di paesaggi, Feliciano Peña, mi aveva detto: "Be', ho visto questa Frida Kahlo in ufficio, mi ha guardato e mi ha chiesto: "Insegni qui?" e io le ho detto: "Sì." Allora Frida ha detto: "Che storia è questa dell'insegnamento? Io non so niente di insegnamento."" Peña era molto arrabbiato e mi disse: "Come fa a fare l'insegnante se non sa niente di insegnamento?"

Ma nel momento in cui la incontrai ne rimasi affascinata, perché Frida aveva il dono di affascinare la gente. Era unica. Aveva una enorme "alegría", umorismo e amore per la vita. Aveva inventato un linguaggio tutto suo, un modo tutto suo di parlare lo spagnolo, pieno di vitalità e accompagnato dai gesti, dalla mimica, dalla risata, da scherzi e da un grande senso dell'ironia. La prima cosa che fece quando la incontrai fu di dirmi: "Oh, tu sei una delle "muchachitas"! Sarai mia studente! Senti, come si fa questa cosa del fare lezione? Io non lo so. Di cosa si tratta? Non ho la minima idea di come si insegni. Ma penso che andrà tutto bene." Questo mi disarmò. Era molto amichevole e il suo rapporto con gli studenti cominciò sulla base familiare e egualitaria del "tu a tu". Diventò una specie di sorella grande, una specie di madre che guarda i suoi "muchachitos".

 

Nei ricordi di Guillermo Monroy, Frida era "fraterna, un'insegnante straordinaria, una compagna. Era come un fiore in movimento. Ci disse di dipingere quello che avevamo a casa: vasi d'argilla, arte popolare, mobili, giocattoli, Giuda. In questo modo a scuola non ci sentivamo degli estranei".

Se Frida era "un fiore in movimento", il suo allievo Monroy ricorda nei dettagli come insegnava ai suoi studenti:

Ricordo la prima volta che entrò nella scuola. Comparve all'improvviso come uno stupendo ramo in fiore, piena di allegria, gentilezza e fascino. La cosa era sicuramente dovuta all'abito da tehuana che indossava e che avrebbe portato sempre con tanta grazia. I giovani che sarebbero stati suoi studenti... la accolsero con vero entusiasmo e emozione. Dopo averci salutati con calore, chiacchierò brevemente con noi e subito dopo, in tono molto animato, ci disse: "Bene, bambini, mettiamoci al lavoro, io sarò la vostra cosiddetta insegnante, non sono niente del genere, voglio soltanto esservi amica, non sono mai stata un'insegnante di pittura e credo che non lo sarò mai, perché continuo a imparare. Dipingere è sicuramente la cosa più straordinaria che ci sia, ma farlo bene è molto difficile, è necessario farlo, imparare molto bene la tecnica, avere un'autodisciplina molto rigida e soprattutto avere amore, sentire un grande amore per la pittura. Una volta per tutte vi voglio dire che se la mia piccola esperienza di pittrice vi può in qualche modo servire sarete voi a dirmelo e che con me dipingerete tutto quello che volete e sentite. Cercherò di capirvi meglio che posso. Di tanto in tanto mi permetterò di fare qualche piccola osservazione sul vostro lavoro, ma vi chiedo anche, da "cuates"

[compagni] quali siamo, che voi facciate lo stesso con me, quando vi mostrerò il mio lavoro. Non vi prenderò mai la matita per correggervi; voglio che sappiate, bambini cari, che al mondo non esiste un solo insegnante capace di insegnare arte. Farlo è davvero impossibile. Di sicuro parleremo a lungo di questa o di quella questione teorica, delle differenti tecniche usate nelle arti plastiche, di forma e contenuto in arte e di tutte quelle altre cose che sono strettamente collegate al nostro lavoro. Spero che con me non vi annoiate, ma se vi dovesse capitare, vi chiedo, per favore, di dirlo, va bene?" Queste parole semplici e piuttosto pure furono pronunciate senza affettazione e con completa spontaneità, con una assoluta mancanza di pedanteria.

Dopo un breve silenzio, la maestra Frida chiese a tutti gli studenti cosa volessero dipingere. Davanti a una domanda così diretta, l'intero gruppo rimase sconcertato per qualche momento: ci guardavamo l'un l'altro e non sapevamo cosa rispondere, ma io, vedendo quanto era carina, le chiesi con grande franchezza di posare per noi. Lei, visibilmente commossa e con un lieve sorriso di assenso che le sbocciò sulle labbra, chiese una seggiola. Non appena si fu seduta, si trovò circondata di cavalletti e studenti.

Frida Kahlo era lì di fronte a noi; grave, straordinariamente quieta, immersa in un silenzio così profondo e impressionante che nessuno, nessuno di noi, osava interromperlo....

 

I suoi studenti concordano che l'insegnamento di Frida non seguiva alcun programma. La pittrice non imponeva loro le sue idee; lasciava piuttosto che il loro talento si sviluppasse a seconda del loro temperamento e gli insegnava a essere autocritici. Le sue osservazioni erano penetranti, ma mai scortesi e sapeva mitigare sia gli elogi che le critiche mettendo in chiaro che si trattava soltanto di un punto di vista personale, che poteva essere sbagliato. "Mi sembra che questo particolare dovrebbe avere un colore un po' più forte" diceva.

"Questo dovrebbe essere in equilibrio con quello; questa parte non è molto ben fatta. La farei in questo modo, ma io sono io e tu sei tu. E' soltanto un'opinione e potrei sbagliarmi. Se ti serve, tienine conto, altrimenti lasciala perdere."

"Il solo aiuto che ci dava era di stimolarci, nient'altro" dice un altro dei suoi allievi, Arturo García Bustos. "Non diceva neanche mezza parola su come dovevamo dipingere o a proposito di stile, come faceva invece il maestro Diego.

Non aveva la pretesa di dare spiegazioni. Ma era entusiasta di noi. Aveva l'abitudine di dire: "Come l'hai dipinto bene!" oppure: "Questa parte è venuta molto male." Quello che ci insegnava, fondamentalmente, era l'amore per la gente e il gusto per l'arte popolare."

Fanny Rabel è convinta che "la grande lezione di Frida sia stata insegnarci a guardare attraverso l'occhio dell'artista, a aprire gli occhi per vedere il mondo, per vedere il Messico. Non ci influenzò attraverso il suo modo di dipingere, ma attraverso il suo modo di vivere, di guardare il mondo, la gente e l'arte. Ci fece sentire e capire un certo tipo di bellezza del Messico di cui da soli non ci eravamo resi conto. La sua sensibilità non ce la trasmetteva attraverso le parole. Eravamo molto giovani, semplici e malleabili, uno di noi aveva soltanto quattordici anni, un altro era un contadino. Non eravamo degli intellettuali. Non ci impose niente. Frida diceva: "Dipingete quello che vedete, quello che volete." Ognuno di noi dipingeva in modo diverso e ognuno seguiva la propria strada. Non dipingevamo come lei. Facevamo un sacco di chiacchiere, scherzavamo e eravamo amici. Non ci faceva lezione. Diego invece poteva costruire una teoria su tutto in un minuto. Ma lei era istintiva, spontanea.

Diventava felice di fronte a ogni cosa bella." ""Muchachos"," annunciava "chiusi qui a scuola non possiamo fare niente. Andiamo in strada. Andiamo a dipingere la vita della strada." E ecco che andavano nei mercati, nei quartieri poveri, nei conventi d'epoca coloniale e nelle chiese barocche, in città vicine come Puebla, alle piramidi di Teotihuacán.

Dopo qualche mese Frida scoprì che il lungo percorso tra Coyoacán e La Esmeralda si ripercuoteva sulla sua salute. Non voleva però rinunciare all'insegnamento.

Fu così che chiese agli studenti di andare a casa sua. Inizialmente furono in molti a fare avanti e indietro tra il centro della città e Coyoacán, ma il grosso presto o tardi rinunciò al suo corso, scoraggiato dal lungo viaggio in autobus. Nella vita dei quattro che rimasero - Arturo García Bustos, Guillermo Monroy, Arturo Estrada e Fanny Rabel - Frida divenne una figura centrale.

Sarebbero rimasti con lei per anni, anche dopo la conclusione della scuola. Come gli studenti di Diego venivano chiamati "Los Dieguitos", quelli di Frida finirono per essere chiamati "Los Fridos".

Quando arrivarono da lei la prima volta, Frida disse loro: "Il giardino è tutto nostro. Andiamo a dipingere. Questa è la stanza dove potete mettere le vostre cose da lavoro. Io vado a dipingere nel mio studio. Non verrò tutti i giorni a vedere il vostro lavoro." Il suo orario era in effetti imprevedibile. Poteva fare le sue critiche una volta ogni quindici giorni, ma anche tre volte la settimana, talvolta alla presenza di Rivera, che a sua volta faceva commenti sul lavoro. Tali occasioni somigliavano a feste: Frida offriva da bere e da mangiare e certe volte, finito il lavoro, si portava gli studenti al cinema.

Per i suoi allievi la casa di Coyoacán era in sé una parte della loro

educazione. Per modelli avevano tutto ciò che era a portata di mano: scimmie, cani, gatti, rane e pesci, tutte le piante del giardino, tutti gli oggetti artistici sparsi per la casa. Frida cercò di sviluppare in loro un senso estetico legato alle piccole cose di tutti i giorni, facendoli giocare a sistemare e risistemare frutta, fiori e piatti di terracotta sulla tavola della sala da pranzo per vedere chi riusciva a creare la composizione più originale.

"[Lei] rinnovava costantemente la scenografia degli oggetti che la circondavano"

ricorda Fanny Rabel. "Un giorno aveva venti anelli e il giorno dopo ne metteva altri venti. Il suo ambiente era pieno di cose, tenute sempre in grande ordine."

Frida trasformò i suoi allievi in una famiglia - la sua famiglia - e la casa in un luogo esotico dove farli abitare, dove potevano incontrare un nuovo intero mondo. "Quando era ammalata e stava in casa, c'era sempre gente attorno" dice Fanny Rabel. "Era una delle cose che mi impressionavano di più: tutta questa gente, gente folle come Jacqueline Breton, Leonora Carrington [pittrice surrealista inglese, trasferitasi in Messico nel 1947], Esteban Frances [pittore surrealista spagnolo], Benjamin Perét, artisti, collezionisti e amici di ogni genere. Li guardavo a occhi spalancati e Frida aveva l'abitudine di strizzarmi l'occhio, perché ero così impressionata. E dopo tutti questi anni ricordo che avevo l'abitudine di dirle che pensavo che non sarei mai stata un'artista, perché ero troppo normale, mentre bisogna avere una grossa personalità per essere dei grandi artisti. Allora Frida mi rispondeva: "Sai perché fanno tutte quelle follie? Perché non hanno nessuna personalità. Devono inventarsela. Tu diventerai un'artista, perché hai talento. Sei un'artista, dunque non hai bisogno di fare tutte quelle cose.""

Come sosteneva con convinzione che tra arte e vita deve esistere un contatto diretto, così Frida voleva che i suoi studenti leggessero (Walt Whitman e Majakovskij, per esempio) e imparassero dalla storia dell'arte; li mandava dunque al Museo di antropologia o in altri musei a fare schizzi di sculture precolombiane o di oggetti dell'arte coloniale. Per Frida l'arte preispanica era la "radice della nostra arte moderna", e oltre agli anonimi pittori di "retablo"

i suoi artisti preferiti erano María Estrada, Hermenegildo Bustos, José María Velasco, Julio Ruelas, Saturnino Herrán, Goitia, Posada, Doctor Atl e

naturalmente Diego. Agli allievi mostrava libri che contenevano riproduzioni di dipinti di autori europei come Rousseau e Brueghel. Picasso, diceva loro, era un "pittore grande e dalle molte facce". Facendoli lavorare con diapositive e microscopio e parlando di microorganismi, piante e animali, riuscì a trasmettere loro il suo interesse per la biologia. Desiderosa di dividere con loro la sua fascinazione per la vita e i processi legati al ciclo della nascita, non esitò a includere l'educazione sessuale tra le materie di studio. Prestava loro libri che illustravano lo sviluppo dell'embrione umano, ma anche libri di arte erotica, che adorava.

Alla Esmeralda alcuni dei suoi studenti avevano studiato pittura murale con Diego: conoscendo i loro interessi, Frida riuscì a fare affidare loro la realizzazione di vari murali.

Fece anche altre cose per promuoverne la carriera. Li aiutò a trovare lavoro come assistenti di artisti e a presentare in pubblico le loro opere. Fecero una mostra già nel giugno del 1943, quando avevano appena iniziato a studiare con lei, e nel 1944 insieme a altri studenti della Esmeralda, presentarono i loro lavori al Palazzo delle belle arti. Nel febbraio del 1945 ci fu un'altra collettiva alla galleria di Arti plastiche di Avenida Palma, tenuta da un amico di Frida

Il contributo dei "Fridos" alla "Mostra di arte libera 20 novembre", tenuta nel 1945, una enorme tempera a cui Estrada García Bustos e Monroy avevano lavorato insieme nel giardino di Frida, era pieno di fervore rivoluzionario.

Provocatoriamente intitolato "Chi ci sfrutta e come ci sfrutta", suscitò una grande, se pur non del tutto favorevole, attenzione. Tanto per cominciare, qualcuno gettò dell'acido solforico contro il dipinto. Poi, quando i dirigenti del dipartimento di belle arti lo fecero rimuovere dalla mostra, ci fu un uragano di proteste pubbliche. La calma ritornò soltanto quando uno degli assistenti di Diego riparò il danno che era stato fatto all'opera e un famoso collezionista la comprò per novecento pesos.

La controversia politica non aveva niente di sorprendente.

E Frida aveva sempre considerato i suoi studenti come dei "compagni" e Rivera non esagerava la passione politica che la moglie riversava su di loro quando scrisse: "Incoraggiava lo sviluppo di uno stile pittorico personalizzato e incitava i suoi seguaci a avere solide opinioni politiche e sociali. I suoi studenti sono per lo più membri del Partito comunista." Per convinzione personale, ma anche sull'esempio di Diego, Frida inculcava nei suoi studenti le teorie della sinistra. Già nel 1946 Rivera aveva fatto domanda di riammissione al partito e Frida, pur avendo tentennato per qualche tempo, finì per seguirne le orme politiche. Secondo un amico, "Se Diego avesse detto: "Sono il Papa", Frida sarebbe diventata papista."

Per ironia della sorte, le molte domande di riammissione di Diego furono respinte fino al 1954; Frida, forse perché non era mai stata ufficialmente trockista, venne riaccolta nel partito già nel 1948, dopo aver subito il solito umiliante rituale dell'autocritica che l'ortodossia imponeva (Octavio Paz ha detto che quando Rivera ripudiò Trockij e si schierò al fianco di Stalin, la sua domanda di riammissione al Partito comunista messicano fu "un "mea culpa"

abietto e non richiesto". Bertram Wolfe ha raccontato che Frida "puntò i piedi quando Rivera fece il suo voltafaccia politico. Non arrivò mai, ha detto Wolfe, a accettare di umiliarsi o a ammettere, come aveva fatto Rivera sottoponendosi al rituale dell'"autocritica" richiesto dal Partito comunista, che nei suoi trascorsi politici ci fossero delle manchevolezze. Octavio Paz non sarebbe d'accordo. Secondo lo scrittore, nella domanda scritta di riammissione al Partito, Frida non si astenne dalle dichiarazioni umilianti: "La ritrattazione di Frida Kahlo, senza dubbio influenzata da Rivera, non fu meno vergognosa." (O.

Paz, "Realismo sociale in Messico: i murali di Rivera, Orozco e Siqueiros"

(Artscanada, 36 [dicembre 1979-gennaio 1980], pp. 63-64)).

Anche se l'orientamento delle simpatie politiche di Frida non è in discussione, resta da chiarire quale ne fosse l'intensità. Per qualcuno è un'eroina della sinistra; per altri fondamentalmente un'apolitica. Il calore o la freddezza dei suoi argomenti sembravano dipendere dall'atteggiamento politico della persona con cui stava parlando e, naturalmente, da ciò che Diego pensava in quel momento. La gente di sinistra tende dunque a percepire Frida come una comunista convinta, mentre chi è politicamente più sprovveduto o indifferente o chi non approva il suo comunismo tende a vederla come una creatura non politica. (Fatto interessante, sono i suoi studenti maschi che la dipingono come un essere politico; mentre l'unica studentessa, Fanny Rabel, non ricorda di averle visto prendere posizioni politiche: "Era un'umanista, non una donna politicizzata.") Con certezza si può dire che, almeno a partire dagli anni quaranta, Frida mise l'accento sul contenuto sociale dell'arte e prese a interessarsi alla crescita politica dei suoi giovani protetti: raccomandava loro di leggere i testi marxisti e li coinvolgeva nelle discussioni politiche che faceva con Diego. La pittura, diceva, dovrebbe avere un ruolo nella società. Disposta a ammettere la propria personale incapacità di realizzare opere politiche, incoraggiava nondimeno i suoi studenti a seguire la tradizione riveresca di un realismo "mexicanista" e socialmente avvertito e a non farsi prendere nella corrente modernista e di ispirazione europea dei pittori da cavalletto.

 

Il piccolo cervo.

 

In una delle immagini più stoiche dipinte da Frida, "Autoritratto con scimmietta", realizzato nel 1945, una scimmia ragno impugna un nastro che parte tracciando un cerchio intorno alla firma di Frida, si avvolge attorno al collo di un idolo precolombiano, prosegue andando a formare una sorta di cappio attorno al collo di Frida, stringe il collo del suo cane e della sua scimmia e infine si avvolge attorno a un chiodo, acuminato e illusionisticamente dipinto, piantato sul fondo del quadro. Il nastro, che per Frida è abitualmente simbolo di contatto, è qui, come il chiodo, sinistro e minaccioso. Setoso e giallo (giallo per malattia e follia), esso allude a una qualche asfissia psichica, mentre il chiodo evoca il martirio del dolore fisico.

Quando nel 1944 Frida ridusse il proprio orario di insegnamento, la sua salute stava decisamente peggiorando. Il dolore alla spina dorsale e al piede era aumentato. Un chirurgo delle ossa, il dottor Alejandro Zimbrón, le prescrisse l'assoluto riposo e le ordinò un bustino metallico (quello che indossa in "La colonna spezzata"), che per qualche tempo le ridusse in parte la sofferenza.

Senza il suo sostegno, Frida aveva la sensazione di non riuscire a stare né seduta né in piedi. Non aveva appetito e perse circa sei chili nel giro di sei mesi. I continui istantanei svenimenti e una leggera febbre la obbligarono a letto. Poi, dopo un'altra serie di controlli, il dottor Ramírez Moreno le diagnosticò la sifilide e le prescrisse varie trasfusioni di sangue, bagni di sole e un trattamento al bismuto. Altri medici fecero altri esami, radiografie e prelievi spinali compresi. Il dottor Zimbrón disse che la spina dorsale andava rinforzata e le consigliò un intervento, che però non venne eseguito. Il 24

giugno, quando scrisse al dottor Eloesser dal letto, perché la colonna vertebrale le faceva troppo male per riuscire a stare seduta, portava da cinque mesi l'apparecchio prescrittole dal dottor Zimbrón.

 

Sto ogni giorno peggio... All'inizio ho fatto fatica a abituarmici, perché è una cosa infernale adattarsi a questo tipo di apparecchio, ma non puoi immaginare come stessi male prima di mettermelo. Non riuscivo più a lavorare veramente, perché anche i movimenti più insignificanti mi stremavano. Con il bustino sono stata un po' meglio ma adesso sto di nuovo male come prima e mi sento

disperatissima, perché non riesco a trovare niente che migliori le condizioni della mia spina dorsale. I medici dicono che ho le meningi infiammate, ma io non capisco cosa stia succedendo, perché se la ragione è che la spina deve essere immobilizzata per evitare l'irritazione dei nervi, come mai allora, con tutto che ho portato il busto e il resto, continuo a sentire gli stessi dolori e gli stessi disturbi?

Senti, bello, la prossima volta che vieni a trovarmi, spiegami per l'amor di Dio che tipo di fregatura ho e se c'è rimedio oppure se la "tostada" [morte] finirà in un modo o nell'altro per portarmi via. Alcuni medici continuano a insistere per l'intervento chirurgico, ma io non mi lascerò operare a meno che, se è davvero assolutamente necessario, non sia "tu" a farlo.

 

A un certo punto del 1945 Frida venne sigillata in un nuovo busto di gesso ordinatole dal dottor Zimbrón, ma i dolori alla colonna vertebrale e alla gamba peggiorarono e il busto le venne tolto dopo due giorni. La sua cartella clinica dice che le venne iniettato del Lipidol (per un prelievo spinale) e che il Lipidol non venne "rimosso". Ne risultarono una maggiore pressione sul cervello e emicranie continue. Con il passare dei mesi, la spina dorsale prese a dolerle come mai prima di allora, in particolare quando era eccitata. Negli ultimi mesi di vita Frida descrisse come una "punizione" la serie di corsetti ortopedici indossati a partire dal 1944 e i trattamenti a essi collegati. Ventotto busti in totale: uno di metallo, tre di cuoio, gli altri in gesso. Uno, in particolare, disse, non le permetteva né di stare seduta né di stare sdraiata. La rendeva così furiosa che se lo toglieva e di solito si legava con una cintura allo schienale di una seggiola in modo che la spina dorsale avesse un sostegno. Ci fu un periodo in cui per tre mesi rimase in posizione pressoché verticale, con dei sacchi di sabbia attaccati ai piedi per tenerle dritta la spina dorsale.

Un'altra volta Adelina Zendejas, facendole visita in ospedale dopo

un'operazione, la trovò appesa a due anelli metallici, i piedi che sfioravano a fatica il pavimento. Aveva davanti a sé il cavalletto. "Eravamo inorriditi"

ricorda Zendejas. "Dipingeva, scherzava e raccontava buffe storie. Quando si sentì troppo stanca e non ce la fece più a resistere vennero, la abbassarono con un apparecchio e la stesero nel letto, lasciandole però gli anelli in modo che la colonna vertebrale non le si contraesse e le vertebre non si unissero tra di loro."

Sebbene in pubblico ci scherzasse sopra, Frida era ossessionata dalla sua sofferenza. Voleva sapere tutto quello che poteva sulle sue condizioni fisiche e si teneva informata (ma confusa) sulle sue malattie attraverso la lettura di articoli e libri di medicina e consultandosi con numerosi medici. Un invalido ha buone ragioni per essere ipocondriaco. Nel caso di Frida, naturalmente, c'era anche una componente narcisistica. Effettivamente si può sostenere che l'invalidità fosse essenziale all'immagine che aveva di sé e che, se i suoi problemi fisici fossero stati gravi come lei diceva, non sarebbe mai stata in grado di tradurli in arte. Il dottor Eloesser per primo riteneva che la maggior parte degli interventi subiti da Frida non fossero necessari, che l'amica fosse vittima di quella tutto sommato comune sindrome psicologica che spinge il paziente a volere essere operato. Dopo tutto, un'operazione è un modo per attirare su di sé l'attenzione. Sono in molti a credere che, se Frida non fosse stata così malata, Rivera l'avrebbe lasciata e Frida era assolutamente capace di accettare un intervento chirurgico non necessario se questo era il mezzo per tenere legato a sé Diego.

Per di più, l'incisione del bisturi è un fatto certo: a chi ha scarsa presa sulla realtà o non si sente del tutto vivo e in contatto con il mondo può dare una specie di sicurezza. Permette inoltre al paziente di essere passivo, di non prendere decisioni e di avere però qualcosa di concreto e di reale in mano. Un intervento chirurgico ha anche una dimensione sessuale. Può, infine, essere un'espressione di speranza: il prossimo medico, la prossima diagnosi, la prossima operazione, porteranno la salvezza.

 

Gli autoritratti feriti di Frida erano un modo di piangere in silenzio. In immagini che la presentano priva di un piede, senza la testa, squarciata, sanguinante, sapeva trasformare il dolore in scene di enorme drammaticità, destinate a colpire gli altri con l'intensità della sua sofferenza. Proiettando il dolore verso l'esterno e sulle tele, Frida riusciva inoltre a farselo uscire dal corpo. Gli autoritratti sono repliche fisse, immutabili della sua immagine allo specchio eppure né l'immagine allo specchio né le tele soffrono.

Come antidoto al dolore, gli autoritratti feriti possono avere avuto anche un'altra funzione. Basta pensare all'esperienza di vedersi per un attimo allo specchio quando si sta fisicamente o emotivamente molto male. L'immagine nello specchio è sorprendente: ci somiglia, ma non condivide il nostro dolore. La disgiunzione tra la nostra sensazione di sentirci male (una percezione che va dall'interno verso l'esterno) e l'evidenza superficiale, offerta dallo specchio, di un sé apparentemente libero dal dolore (visto dall'esterno) può sortire un effetto di rafforzamento. L'immagine riflessa ci rimanda al nostro familiare io fisico e ci dà il senso della continuità. Se questo è vero e se Frida era attirata dagli specchi, perché la rassicuravano, dipingere l'immagine che vedeva nello specchio era un modo di renderla permanente, oltre che rassicurante. Gli autoritratti potevano dunque servire come strumenti di rassicurazione o di dissociazione. Inoltre, guardandosi ferita nei dipinti, Frida poteva coltivare l'illusione di essere l'osservatrice esterna, forte e obiettiva, della propria disgrazia.

Il 10 maggio mandò un cablogramma a Ella Wolfe per avvertirla che il 21 dello stesso mese sarebbe arrivata a New York per essere operata dal dottor Wilson.

Dato che rifiutava di essere sottoposta a anestesia a meno di non tenere tra le sue la mano della sorella, Cristina l'avrebbe accompagnata.

L'intervento ebbe luogo in giugno all'ospedale di chirurgia speciale. Quattro vertebre vennero fuse con un pezzo d'osso che le era stato estratto dalle pelvi e con una stecca metallica lunga quindici centimetri. La ripresa fu buona.

Durante la convalescenza (due mesi d'ospedale) fu di ottimo umore. Essendole stato vietato di dipingere, inizialmente si dedicò al disegno. Ma dopo un po'

smise di dare retta ai medici e durante il ricovero realizzò un dipinto (non identificato), che più tardi mandò al "Salone del paesaggio", una mostra dedicata ai paesaggi che si tenne a Città del Messico.

Il 30 giugno scrisse a Alejandro Gómez Arias (la lettera è piena di parole inventate, mescolate a vari termini in inglese):

 

Alex "darling"

non ci permettono di scrivere un granché, ma questa mia è solo per dirti che "the hig" operazione ha già avuto luogo. Tre "weeks" fa hanno proceduto al taglio e al taglio delle ossa. E questo dottore è così meraviglioso e il mio "body" così pieno di vitalità, che mi hanno già messa dritta per due minuti sui miei "feet" "da bambolina", ma io stessa non lo "bolivo". Le due "First"

settimane sono state piene di grande sofferenza e di lacrime che non auguro a "nobody". I dolori sono atroci e maligni, ma adesso, questa settimana, i miei strilli sono diminuiti e con l'aiuto delle pillole sono riuscita più o meno a sopravvivere. Ho due enormi cicatrici sulla schiena, di "this" forma. [A questo punto Frida disegna il proprio corpo nudo: sul dorso ci sono due lunghe cicatrici attraversate dai punti. Una delle due le va dalla vita al fondo del coccige, l'altra le attraversa la natica destra.] Da qui [una freccia indica la cicatrice sulla natica] hanno proceduto a tirare fuori una fetta di pelvi per saldarla alla colonna vertebrale, cioè dove la mia cicatrice finisce per essere meno orripilante e più diritta. Cinque vertebre erano danneggiate e adesso diventeranno come una canna di fucile. "The" fastidio è che l'osso tarda molto a crescere e a risistemarsi e devo ancora passare sei settimane a letto prima di essere dimessa e di poter scappare da questa orripilante city per tornare alla mia amata Coyoacán. Come stai? "please" scrivimi e mandami "one" libretto, "please don't forget me". Come sta la tua "mamacita"? Alex, non abbandonarmi sola soletta in questo brutto ospedale e scrivimi. Cristi è molto molto stufa e stiamo bruciando dal caldo. E' spaventosamente caldo e non sappiamo più cosa fare. Che cosa succede in Messico. Che cosa succede con la "raza" da quelle parti?

Dimmi qualcosa di tutti e soprattutto di te.

Tua F.

 

Ti mando un mucchio di affetto e molti baci. Ho ricevuto la tua lettera che mi ha tirato così su di morale! Non dimenticarmi.

 

In ottobre Frida era di ritorno a Coyoacán piena di progetti. Eppure già l'11

ottobre, in una lettera a Eduardo Morillo Safia, Frida parla di "dolori lancinanti". La verità è che la fusione spinale non alleviò in modo definitivo i suoi problemi alla schiena. Dopo essere stata dimessa dall'ospedale e avere fatto ritorno in Messico, Frida fu dapprima obbligata a rimanere a letto e poi chiusa per otto mesi in un busto d'acciaio. Il dottor Wilson le aveva ordinato di condurre una vita tranquilla e di riposarsi spesso, ma Frida non ne volle seguire gli ordini e la sua salute andò peggiorando. Il dolore alla spina dorsale si intensificò, diminuì di peso, sviluppò una grave forma di anemia e le ritornò l'infezione da funghi alla mano destra.

Alejandro Gómez Arias è convinto che il dottor Wilson avesse fuso le vertebre sbagliate. Uno dei medici di Frida, il dottor Guillermo Velasco y Polo, assistente del chirurgo Juan Farill, che qualche anno dopo le saldò altre vertebre a Città del Messico, è della stessa opinione. Secondo le parole del medico, la placca di metallo inserita dal dottor Wilson "non fu messa nel punto giusto, perché era appena al di sotto della vertebra malata. Fu forse per questa ragione che in seguito Frida si mise nelle mani del dottor Farill. Qui all'ospedale inglese la questione era di rimuovere il pezzo di metallo inserito dal dottor Wilson e di cercare di fare una fusione spinale attraverso un innesto osseo." Cristina affermò ripetutamente che l'operazione eseguita a New York era stata così dolorosa che a Frida erano state date dosi massicce di morfina e che aveva cominciato a avere allucinazioni e a vedere animali in giro per la stanza d'ospedale. In seguito, non riuscì più a liberarsi dalla dipendenza dalla droga.

E' vero che fu a quest'epoca che la calligrafia di Frida si fece più grande e meno controllata e spesso il suo diario ha un tono frenetico e euforico.

Vista a posteriori, la fusione spinale fu un fallimento indiscutibile. Ma la stessa Frida aveva detto che il chirurgo era "meraviglioso" e che si sentiva in gran forma. Può darsi che a invertire il decorso della guarigione avesse provveduto proprio Frida. Lupe Marín racconta che "l'operazione eseguita dal dottor Wilson aveva lasciato Frida in condizioni perfette, così loro pensavano, ma durante una notte di disperazione - forse perché Diego non era rientrato o qualcosa del genere - Frida si aggredì con le proprie mani e si riaprì tutte le ferite. Dunque con lei non c'era nulla da fare, assolutamente nulla". Secondo un racconto analogo, qualche tempo dopo la fusione spinale, in una crisi di rabbia, Frida si sarebbe gettata a terra e la fusione si sarebbe "ovinata"

Sfortunatamente, al riguardo non esistono dati medici precisi; c'è chi dice che avesse una osteomielite, un'infiammazione del midollo spinale che causa il progressivo deterioramento delle ossa e che certamente la fusione spinale non poteva curare.

"Albero della speranza" 1946, che in una lettera a Morillo Safa Frida definì "nient'altro che il risultato della maledetta operazione", mostra una Frida piangente, vestita di un rosso costume da tehuana, che seduta fa la guardia a una Frida che giace nuda, ma parzialmente coperta da un lenzuolo, su una lettiga da ospedale. La Frida sdraiata sembra ancora sotto l'effetto dell'anestesia di un'operazione che le ha lasciato delle lunghe incisioni sul dorso - le stesse cicatrici disegnate nella lettera a Alejandro Gómez Arias, soltanto che in questo caso sono aperte e sanguinanti. La Frida seduta tiene orgogliosamente in mano un busto ortopedico dipinto - con tipica ironia - di rosa brillante e guarnito di una fibbia cremisi: una specie di trofeo per la maratona medica a cui sembra aver partecipato. Che indossi un altro busto è evidente dai due bracci che le sostengono il torace. Non è però il sostegno posteriore in realtà a mantenere Frida in posizione eretta; è piuttosto la bandiera che tiene nella mano destra: una bandiera verde che porta, scritte in rosso, le parole che Frida ripeteva spesso agli amici: "Albero della Speranza, mantieniti saldo." E' il primo verso di una canzone di Veracruz che a Frida piaceva cantare. La canzone prosegue: "Non lasciare che i tuoi occhi piangano, quando ti dico addio, suggerendo che l'albero della speranza è una metafora per indicare una persona e, nel caso particolare di questo quadro, la Frida guardiana che piange di compassione, ma siede ferma e composta. L'idea di realizzare un quadro a partire da una canzone veniva dagli affreschi dipinti da Rivera al terzo piano del Ministero dell'educazione pubblica, ma anche dai pannelli/ballata di Posada.

L'albero della speranza di Frida cresce però dal suo dolore nel dipinto le rosse nappine della bandiera equivalgono al sangue che cola dalla ferita della paziente e l'acuminata rossa cuspide dell'asta che regge la bandiera fa pensare alla punta insanguinata e aguzza di uno strumento chirurgico. Le due Fride sono chiuse su un lato da un precipizio (dove un ciuffo d'erba "carico di speranza"

spunta in mezzo alla roccia vulcanica) e sull'altro da una fossa rettangolare o da una trincea, versione ancora più malaugurante degli scuri burroni che attraversano la landa desolata e che servono come metafora della carne ferita di Frida. Ma, a dispetto di tutto l'orrore e di tutto il pericolo, questo quadro è un atto di fede, come un "retablo". La fede di Frida è dentro di lei, non è trasferita a un'immagine sacra; la Frida guardiana risplendente nell'abito tehuano è l'agente del miracolo che la riguarda.

"Il paesaggio è diurno e notturno" Frida scrisse di "Albero della speranza"

nella lettera a Morillo Safa "e c'è uno scheletro (o la morte) che scappa via atterrito davanti alla "mia volontà di vivere". Puoi immaginartelo, più o meno, perché la mia descrizione è goffa. Come puoi notare, non possiedo la lingua di Cervantes né ho talento per la poesia e l'arte del descrivere ma tu sei veloce e intelligente quanto basta per capire il mio modo di parlare che è un pochino "rilassato"." Nel dipinto così come è oggi, se la volontà di vincere è perfettamente evidente, lo scheletro in fuga è stato cancellato. La morte è presente solo per via di metafora, nella trincea-fossa e nella dialettica luce/ombra (sole e luna) che accompagna la Frida viva e la Frida semi-morta.

Curiosamente, la Frida che tiene salda la speranza siede al riparo della luna, mentre il sole diurno rivela il corpo devastato della malata. Riflettendoci sopra, l'anomalo collegamento potrebbe dipendere dal fatto che il sole, nel quadro un enorme globo rossastro, si nutre, secondo le credenze azteche, di sangue umano.

Un altro dipinto del 1946 che parla della fusione spinale è "Il piccolo cervo", un autoritratto in cui Frida si dà il corpo di un cerbiatto (Granizo, il suo modello, era un maschio) e si incorona il capo delle corna ramificate di un cervo. Originariamente il quadro apparteneva a Arcady Boyler, l'uomo che le aveva raccomandato il dottor Wilson e che, come Frida scrisse in una lettera a Ella Wolfe, aveva come lei problemi alla colonna vertebrale. Come "La colonna spezzata", "Il piccolo cervo" usa metafore semplici per mostrare che Frida è in preda alla sofferenza. Mentre attraversa una radura, il cervo viene trafitto da nove frecce che lentamente lo uccideranno; il riferimento al viaggio attraverso la vita di Frida e alla persecuzione delle ferite che gradualmente la

distruggeranno è chiaro. Le trafitture del piccolo cervo sanguinano, ma il volto di Frida è calmo.

Il dipinto parla anche di pene psicologiche. Di fatto, nella vita come nell'arte, la sofferenza fisica di Frida è strettamente connessa alla sofferenza psichica. A partire dal divorzio, ma probabilmente anche da prima, le sue malattie erano coincise così spesso con i periodi in cui era sottoposta a un qualche trauma spirituale che è ragionevole ipotizzare che le "usasse" per trattenere o richiamare a sé Diego. Ella Wolfe dice che "Il piccolo cervo" si riferisce all'"agonia di vivere con Diego". Un'altra intima amica dice che le frecce rappresentano la sofferenza dovuta all'oppressione maschile, il che le renderebbe analoghe ai colpi di pugnale di "Qualche piccola punzecchiatura".

Ne "Il piccolo cervo" Frida ha, ancora una volta, usato oggetti appuntiti per fare riferimento alle sue ferite, sia fisiche che psicologiche. I massicci tronchi d'albero dal legno secco e crepato e dai rami spezzati significano rovina e morte e i nodi e tagli nella corteccia fanno eco alle ferite che il cervo ha sul fianco. Sotto i suoi zoccoli c'è un esile ramoscello verde di foglie strappato a un giovane albero, simbolo della giovinezza spezzata di Frida (e del cervo). Il ramo parla anche della simpatia che Frida provava in generale per gli oggetti danneggiati, ma può avere anche un altro significato: Antonio Rodríguez dice che "nel mondo preispanico, per entrare in paradiso, si metteva un ramo secco [sulla fossa del morto] e la resurrezione era la resurrezione del ramo secco in un ramo coperto di foglie".

Dipingendosi in forma di cervo, Frida esprimeva una volta di più il suo sentimento di unità con tutti gli esseri viventi, un sentimento che ha la sua origine nella cultura azteca.

"Il piccolo cervo" deriva però anche dal folklore e dalla poesia messicani. C'è una canzone popolare che dice:

Sono un piccolo cervo che vive sulle montagne.

Poiché sono selvatico, non scendo a dissetarmi durante il giorno.

Di notte, a poco a poco, vengo tra le tue braccia, amore mio.

 

E nei suoi "Versi d'amore e disamore", suor Juana Inés de la Cruz scrisse: (Il collegamento tra "Il piccolo cervo" e la poesia di suor Juana Inés de la Cruz è stato segnalato da Laura Mulvey e Peter Wollen nel saggio "Frida Kahlo e Tina Modotti", catalogo della mostra omonima organizzata dalla Whitechapel Art Gallery di Londra, p. 25).