Con amore
Frida.
Per favore perdonami per averti telefonato quella sera. Non lo farò mai più.
Perdere l'amore di Nickolas Muray e essere sostituita da un'altra donna le spezzò il cuore, non soltanto perché il loro rapporto non era stato una semplice avventura, ma perché, anche se Muray aveva scritto "di noi tre c'eravate soltanto voi due", lei e Diego si stavano separando. A metà estate si trasferì nella casa blu di Coyoacán, lasciando Diego a San Angel. Il 19 settembre furono avviate le pratiche per il divorzio e a metà ottobre presentarono al tribunale di Coyoacán la richiesta di divorzio consensuale. Prima della fine dell'anno il divorzio era un fatto compiuto.
Gli amici hanno varie spiegazioni per la separazione e il divorzio, ma nessuna è del tutto convincente. E' possibile che Diego avesse saputo della relazione con Muray. Alcuni dicono che il problema dei Rivera era di ordine sessuale: la fragilità fisica o la mancanza di desiderio la rendevano incapace o non disposta a soddisfare i bisogni sessuali di Rivera. Altri dicono che Rivera era impotente. Una volta Frida attribuì a Lupe Marín la responsabilità di averle rovinato il matrimonio. E' vero che Rivera conservò sempre una forte attrazione per la ex moglie e che, come madre dei suoi figli, le rimase legato. "Quando Frida non fu più buona a nulla, Diego venne a cantare sotto le mie finestre"
disse Lupe. L'ammirazione del pittore per la sua bellezza è evidente in "Ritratto di Lupe Marín", 1938, ma Lupe ricorderà anche che lo dipinse su richiesta di Frida e che Frida non era assolutamente gelosa delle attenzioni di Rivera per la seconda moglie. Un'altra teoria è che Rivera divorziasse da Frida per proteggerla dalle rappresaglie che potevano risultare dalle sue attività politiche. Jean van Heijenoort ritiene che Diego potesse avere scoperto la storia d'amore tra Frida e Trockij.
In ottobre la stampa riportò che Frida e Diego avevano detto che il divorzio era il solo mezzo per salvare la loro amicizia. L'"Herald Tribune" di New York notò che Frida e Diego erano rimasti separati per cinque mesi e che Rivera aveva definito il divorzio una semplice questione "di convenienza legale". Sulla rivista "Time" elaborò sul tema: "Non c'è alcun cambiamento nella meravigliosa relazione tra di noi. Lo stiamo facendo per migliorare la posizione legale di Frida... una semplice questione di convenienza legale al passo con lo spirito dei tempi moderni."
La separazione andò in porto "senza guai e senza problemi", Diego comunicò a un cronista a San Angel. "Non ci sono di mezzo questioni sentimentali, artistiche o economiche. Si tratta davvero e soltanto di una precauzione." La sua stima per Frida, continuava, era più alta che mai. "Cionondimeno credo che questa mia decisione aiuterà Frida a dare alla sua vita il migliore degli sviluppi possibili. E' giovane e bella. Ha avuto un enorme successo nei più esigenti centri artistici. Ha tutte le possibilità che la vita possa offrire, mentre io sono vecchio e non ho più molto da offrirle. La considero tra i cinque o sei massimi pittori del modernismo."
Quando lo stesso giornalista la intervistò a Coyoacán, Frida ebbe ben poco da dire: "Siamo stati separati per cinque mesi. Le nostre difficoltà sono cominciate dopo il mio ritorno da Parigi e da New York. Non andavamo d'accordo."
Aggiunse che non aveva intenzione di risposarsi e nominò "ragioni intime, cause personali, difficili da spiegare" come motivo del loro divorzio.
Come la rottura conseguente alla storia tra Diego e Cristina nel 1934 e 1935, la separazione dei Rivera fu del tutto fuori schema. Si vedevano spesso e le loro vite continuarono a essere strettamente intrecciate. Frida continuò a occuparsi del benessere di Diego, a tenergli la corrispondenza e a aiutarlo nei rapporti d'affari.
Insieme continuarono anche a ricevere e a comparire in pubblico. Vari amici ricordano l'emozione che i due provocavano arrivando, sempre in ritardo, al palco di Rivera nella sala dei concerti del Palazzo delle belle arti
accompagnati dalle figlie di Diego, dalla sua amante del momento e da Lupe Marín o Cristina Kahlo. Parker Lesley ricorda una di quelle occasioni: "Nessuno prestò attenzione alla coreografia di Carmen Amaya. Tutti guardavano Frida, che indossava il suo abito da tehuana e tutti i gioielli d'oro regalatile da Diego e sferragliava come un cavaliere ricoperto dall'armatura. Aveva l'opulenza bizantina dell'imperatrice Teodora, una combinazione di barbarismo e di eleganza. Aveva due incisivi d'oro, ma quando si vestiva da sera si toglieva le due capsule d'oro semplice e le sostituiva con altre anch'esse d'oro, ma con due brillanti rosa sul davanti, in modo che il suo sorriso fosse veramente abbagliante."
Frida era apertamente seduttiva, ma anche quando flirtava con altri, il suo interesse reale restava centrato su Diego. In pubblico era vibrante, sfrontata; come per sfida si imbarcava nelle storie sentimentali, in particolare in quella con un rifugiato spagnolo, Ricardo Arias Vinas, incontrato probabilmente durante il lavoro per la causa della Spagna repubblicana. In privato, confidava la sua angoscia a pochi intimi amici e alla sua arte.
"Nick caro" scrisse il 13 ottobre a Nickolas Muray "non sono riuscita a scriverti prima; da quando sei partito [Muray era stato in Messico in settembre]
la mia situazione con Diego è andata peggiorando sempre di più, finché non siamo arrivati alla fine. Due settimane fa abbiamo cominciato le pratiche per il divorzio. Non ho parole per dirti quanto ho sofferto e sapendo quanto io ami Diego devi capire che in vita mia questo tormento non mi lascerà più, ma dopo l'ultimo scontro che ho avuto con lui (al telefono, perché è almeno un mese che non lo vedo), ho capito che per lui è molto meglio lasciarmi... Adesso mi sento così finita e sola che ho la sensazione che nessuno al mondo abbia sofferto come me, ma naturalmente tra qualche mese spero che sarà diverso."
Per tutto l'autunno del 1939 e l'inverno del 1940 Frida fu depressa e ammalata.
Le venne un'infezione alle dita della mano destra che le impedì di lavorare e, ancora peggio, ebbe terribili dolori alla spina dorsale. Alcuni dei medici che consultò le suggerirono l'intervento chirurgico; altri lo sconsigliarono. Il dottor Juan Farill le disse di stare in riposo assoluto e le ordinò un apparecchio con un peso di venti chili per tenerle in tensione la colonna vertebrale. Una fotografia fattale da Nickolas Muray la mostra prigioniera del marchingegno; l'espressione, se pur rassegnata, lancia il messaggio d'agonia di chi non è in grado di muoversi. Alla fine del 1939 era così disperata da vuotare una bottiglia di brandy al giorno.
Anche se era sola, evitava la compagnia, in particolare quella degli amici che aveva in comune con Diego. In gennaio scrisse a Muray: "Non vedo nessuno. Sto quasi tutto il giorno in casa. Diego l'altro giorno è venuto a cercare di "convincermi" che al mondo non c'è nessuno come "me"! Tutte storie, bambino.
"Non posso" perdonarlo e questo è tutto."
Anni dopo, nell'autobiografia, Rivera ricorderà il loro divorzio con un riveresco misto di autodeprecazione e autocompiacimento. Almeno a posteriori, si era reso conto della sofferenza di Frida:
Non sono mai stato... un marito fedele, nemmeno con Frida. Quanto a Angelina e Lupe, mi concedevo i miei capricci e avevo relazioni. Ora, spinto dalla gravità delle condizioni di Frida [si riferisce alla sua salute], ho cominciato a fare l'inventario delle mie qualità di partner matrimoniale. Ho trovato ben poco da dire in mio favore. Eppure sapevo di non essere in grado di cambiare.
Una volta, scoprendo che avevo una relazione con la sua migliore amica [si riferisce a Cristina], Frida mi lasciò soltanto per ritornare con amore inalterato e orgoglio in qualche modo diminuito. L'amavo troppo per volerle causare sofferenza e, per risparmiarle ulteriori tormenti, decisi di separarmi da lei.
All'inizio mi limitai a accennare all'idea del divorzio, ma quando gli accenni non ottennero risposta, feci la proposta apertamente. Frida, che a quel punto aveva ritrovato la salute, mi rispose con calma che avrebbe sopportato qualsiasi cosa piuttosto che perdermi del tutto.
La situazione tra di noi andò peggiorando sempre più. Una sera, seguendo un impulso cieco, le telefonai per chiederle di acconsentire al divorzio e nell'ansia inventai un pretesto stupido e volgare. Avevo talmente paura di una discussione lunga e strappacuori che decisi impulsivamente per la via che avrebbe condotto più rapidamente alla conclusione.
Funzionò. Frida dichiarò che anche lei voleva il divorzio immediato. La mia "vittoria" si trasformò velocemente in pena. Eravamo stati sposati per 13 [di fatto dieci] anni. Ci amavamo ancora. Volevo semplicemente essere libero di andare con ogni donna che mi colpisse l'immaginazione. Eppure Frida non aveva niente da obiettare alla mia infedeltà in quanto tale. Quello che non riusciva a capire era come facessi a scegliere donne che non erano degne di me o che erano inferiori a lei. Prendeva come un'umiliazione personale il fatto di essere abbandonata per delle donne da quattro soldi. Lasciarle stabilire dei limiti non sarebbe stato comunque come circoscrivere la mia libertà? O ero semplicemente la vittima depravata dei miei stessi appetiti? E non era forse una menzogna consolatoria pensare che un divorzio potesse mettere fine alla sofferenza di Frida? Frida non avrebbe sofferto anche di più?
Durante i due anni in cui vivemmo separati Frida realizzò alcuni dei suoi lavori migliori, sublimando l'angoscia nella pittura.
Il giorno in cui arrivarono i documenti del divorzio, Frida aveva quasi completato quello che è forse il più conosciuto dei suoi dipinti, "Le due Fride".
"Ho cominciato a dipingerlo tre mesi fa e l'ho finito ieri" disse ai giornalisti qualche giorno dopo. "E' tutto quello che posso dirvi." "Le due Fride" siedono l'una accanto all'altra su una panchina, le mani unite in un nodo impacciato, ma intenso. La Frida che Diego non ama più indossa un candido abito vittoriano; l'altra indossa una gonna e una blusa da tehuana e il suo viso è forse soltanto un po' più scuro di quello della sua più ispanica compagna, a suggerire (come nel contemporaneo "Due nudi in una foresta") la doppia eredità di Frida, in parte indiana messicana e in parte europea. Entrambe le Fride hanno il cuore esposto: lo stesso trucco spudoratamente letterale per mostrare la pena d'amore già usato da Frida in "Memoria". Il corpetto di pizzo della Frida privata d'amore è strappato in modo da rivelarne il seno e il cuore spezzato. Il cuore dell'altra Frida è intero.
Ognuna delle due si tiene una mano accanto agli organi sessuali. La non amata impugna una pinza chirurgica, la Frida tehuana un ritratto in miniatura di Diego Rivera bambino, preso da una vecchia fotografia che oggi si trova tra i cimeli del Museo Frida Kahlo. Dalla cornice cremisi della miniatura ovale spunta una lunga vena rossa che somiglia anche a un cordone ombelicale emergente da una placenta. Il ritratto a forma di uovo di Diego sembra dunque stare sia per il bambino che per l'amante perduti. Per Frida, Diego era entrambi.
La vena si arrotola attorno al braccio della Frida tehuana, continua attraverso il suo cuore, quindi salta attraverso lo spazio verso l'altra Frida,
avvolgendole il collo, entrandole nel cuore spezzato e terminandole in grembo, dove lei ne interrompe il flusso con le pinze emostatiche. Una nota a Diego nel diario di Frida dice: "Il mio sangue è il miracolo che viaggia nelle vene dell'aria dal mio cuore al tuo." Nell'angoscia e nella disperazione del divorzio, Frida spezza questo magico flusso con le pinze chirurgiche. Ma il sangue continua a sgocciolare fino a formarle sul grembo una pozza che, straripando, va a formarne un'altra più piccola. Più in basso, macchie di sangue imitano i fiori rossi ricamati sulla sua gonna. L'immagine brutale del sangue sul tessuto bianco fa pensare al martirio, all'aborto, ai lenzuoli imbrattati di sangue di vari dipinti di Frida. Ma persino di fronte alla tragedia, Frida riesce a essere sardonica: alcuni dei piccoli fiori ricamati sono scherzosamente trasformati in chiazze sgocciolanti di sangue.
I volti deliberatamente impassibili delle due Fride si stagliano contro un cielo grigio-bianco, che ha la stessa turbolenza di quello dipinto da El Greco sopra la collina di Toledo: le fenditure scure nelle nubi tempestose riflettono il tormento interiore delle figure e allo stesso tempo amplificano la snervante paralisi della loro posa e del loro atteggiamento. Come di sovente negli autoritratti a figura intera, Frida è sola in uno spazio infinito, piatto, vuoto. (Negli autoritratti a mezzo busto le pareti vegetali spesso escludono lo spazio immediatamente dietro la figura.) Fatta eccezione per la panchina messicana sulla quale siede, Frida è completamente staccata da ogni oggetto solido che possa darle il conforto della familiarità. Tutto il suo potere d'osservazione è invece concentrato sulla sua immagine: una focalizzazione che rende ancora più esplosiva un'immagine già priva di sbocchi esterni.
Frida è più sola che mai: come unica compagna ha se stessa. Il raddoppiamento della sua immagine rende ancora più intenso il gelo della solitudine.
Abbandonata da Diego, Frida si tiene la mano da sola e unisce i suoi due sé con una vena di sangue. Il suo mondo è dunque chiuso su se stesso, una strada senza uscita. Una volta Frida disse che "Le due Fride" mostravano la "dualità della sua personalità". Come gli altri autoritratti che la mostrano due volte ("Due nudi nella foresta" e "Albero di speranza"), "Le due Fride" è un'immagine di autonutrimento: Frida conforta, protegge o fortifica se stessa.
Qui però sono in azione anche altri tipi di dualità. Le lunghe ore passate a studiare la propria immagine riflessa nello specchio e a riprodurre tale immagine devono avere accentuato in lei il senso di avere due identità: quella di chi osserva e quella di chi è osservata, il sé come è percepito dall'interno e il sé che appare all'esterno. Dunque Frida non si limitò a rappresentarsi due volte, in questo o in altri autoritratti; il suo approccio al proprio corpo e viso fu di tipo scismatico. Il corpo, nudo o coperto di pizzi o nastri, lo dipingeva come un oggetto esposto allo scrutinio dell'artista; l'essere femminile nel ruolo passivo di oggetto grazioso, vittima del dolore o
partecipante ai cicli naturali della fecondità. Guardandosi il viso nello specchio si percepiva, all'opposto, come chi rappresenta, non come l'oggetto della rappresentazione. Divenne dunque sia artista attiva sia modella passiva, investigatrice spassionata di ciò che si prova a essere donna e contenitore appassionato di emozioni femminili. Rivera riconobbe questa dicotomia maschile-femminile quando definì Frida "la pittrice più pittore," usando sia il termine femminile sia quello maschile.
Quanto, all'epoca del divorzio, Frida si preoccupasse della morte risulta chiaro da "Il sogno", 1940. In questo dipinto Frida giace addormentata nel suo letto a baldacchino, che fluttua nel cielo color lavanda e pieno di nuvole del sogno: un cielo che sembra essere la prosecuzione delle ombre color lavanda sul bianco tessuto gualcito che la racchiude. Ancora una volta, Frida si accomuna a uno scheletro, che in questo caso ha la forma del Giuda che teneva davvero sopra il baldacchino del letto e che ai visitatori spaventati o perplessi spiegava come un divertente memento mori. Mentre Frida dorme, la pianta ricamata sul copriletto giallo brillante (in effetti Frida aveva un copriletto ricamato a fiori) si anima, trasformandosi in un rampicante spinoso che le fa esplodere il fogliame attorno al viso e, staccandosi dal copriletto, continua a crescere nell'aria come se fosse una pianta vera, non soltanto i punti ricamati da un filo. Come se Frida stesse sognando di un'epoca in cui, a anni di distanza dalla sua morte, dal sepolcro sarebbero germogliate le piante.
Come Frida, lo scheletro poggia il capo su due cuscini, ma invece di essere avvolto dai rami del rampicante è circondato di fili e esplosivi e tiene in mano un mazzolino di fiori di lavanda. A differenza di Frida, il cui viso ha la serenità del sonno, lo scheletro guarda a occhi sbarrati e digrigna i denti. Si sente che potrebbe esplodere da un momento all'altro, trasformando in realtà il sogno di morte di Frida. Lo scheletro è l'"amante", di Frida, come Diego le aveva detto una volta scherzando. E' la sua altra metà.
In quasi tutti gli autoritratti realizzati a partire dall'anno del divorzio, Frida si dà dei compagni: scheletri, un Giuda, la nipote o il nipote, i suoi alter ego e i suoi animali. Tra questi i più intriganti restano le scimmie, che spesso la abbracciano come se fossero amici intimi.
Nel primo autoritratto con scimmia, il dipinto del 1937 "Fulang-Chang e io", il compagno di Frida è principalmente un simbolo di promiscuità. Ma è anche la sua creatura e il suo antenato (in "Mosè", 1945, Frida metterà una scimmia maschio e una scimmia femmina accanto ai progenitori della specie umana): Frida stabilisce un parallelo tra i lineamenti scimmieschi dell'animale e i propri e poi procede a sottolineare i propri sentimenti di unione con l'animale avvolgendo un nastro di seta color lavanda al proprio e al suo collo. Il tutto è fatto con spirito affettuoso e senso umoristico. Quando invece nel 1940, in "Autoritratto con scimmie", si avvolge quattro volte intorno al collo un nastro rosso sangue e poi lo usa come una metaforica linea di sangue per legarsi alla scimmia, la sensazione è di disperazione; e sinistro è il modo in cui l'animale le si stringe al collo tanto che una delle sue zampe si fonde con la treccia di Frida o sembra esserne un'estensione.
Dopo il divorzio le scimmie di Frida, e in particolare la scimmia ragno chiamata Caimito de Guayabal (frutto della guava) che Diego le aveva portato da un viaggio nel sud del Messico, servirono a riempire parte dello spazio lasciato vuoto da Diego, il suo grosso, inaffidabile, geloso bambino; esse presero anche il posto dei bambini che a questo punto Frida era sicura di non poter più avere.
Eppure nella sua pittura le scimmie hanno una funzione più complessa e sottile.
A partire dal 1939, quando Frida prese a dipingersi in autoritratti a mezzo busto con nastri, vene, rampicanti, rami contorti, zampe di scimmia o trecce dei suoi stessi capelli avvolti intorno al collo, si ha la sensazione che questi "connettori" minaccino di strangolarla e sono proprio questi dettagli a aumentare il senso di claustrofobia creato dalle pareti di piante tropicali aggrovigliate che le sbarrano lo spazio alle spalle. E sebbene la confortino e le offrano compagnia, le scimmie sottolineano drammaticamente il suo terrore della solitudine. La loro vicinanza fisica è disturbante. Nonostante la loro apparenza di bambini innocenti, le scimmie ragno non sono affatto simili a bambini: sono selvatici animali della giungla. Nei dipinti di Frida la loro irrequietezza di animali amplifica la tensione della sua calma regale e allude a una selvatichezza bestiale che le sta celata sotto la pelle.
In un altro "Autoritratto" del 1940, venduto a Nickolas Muray, Frida è in compagnia di Caimito de Guayabal e di un gatto nero e dalla collana di spine le pende un colibrì morto. La scimmia combina ciò che sembra una capacità quasi umana di empatia per la sua abbandonata padrona con l'imprevedibilità propria degli animali della sua specie. Mentre maneggia con circospezione la collana di spine di Frida, chi guarda ha la sensazione che basterebbe un solo colpetto disattento per scavarne ancora di più le ferite. Anche il gatto rappresenta una minaccia. Pronto a lanciarsi sulla preda, le orecchie in avanti, fissa gli occhi sul colibrì, che pende contro la pelle nuda e già sanguinante di Frida. Dal momento che il colibrì non rappresenta soltanto una specie con cui Frida si sentiva strettamente associata (in un disegno del 1946 si dette alle
sopracciglia forma di uccello e la gente diceva che si muoveva con la leggerezza celere di un colibrì), il suo corpo senza vita si riferisce probabilmente al fatto che ancora una volta Frida si è sentita "assassinata dalla vita". C'è anche un altro significato: in Messico, i colibrì sono utilizzati come talismani per portare fortuna in amore.
Frida ha amplificato la sua personale miseria attribuendole una significatività cristiana. Si rappresenta come una martire; le spine fanno scorrere il sangue.
Sebbene avesse rifiutato ogni pratica religiosa, le immagini cristiane, in particolare i martiri teatralmente sanguinari caratteristici dell'arte messicana, pervadono il lavoro di Frida. La sanguinarietà e l'automortificazione risalgono naturalmente alla tradizione azteca, visto che gli aztechi non soltanto praticavano i sacrifici umani, ma avevano anche l'usanza di perforarsi la pelle e di pungersi le orecchie per far scorrere il sangue in modo che le sementi dessero frutti. Ma era stato il cattolicesimo a introdurre nel Messico coloniale modalità realistiche e naturali di rappresentazione del dolore, con il risultato che praticamente ogni chiesa messicana possiede una scultura di terrificante verismo del Cristo, flagellato al palo, che trascina la croce oppure morto, il corpo sempre coperto di sangue, le ferite suppuranti. Frida, che possedeva un dipinto particolarmente rivoltante di Cristo sulla strada del Calvario, fece uso della stessa estremizzazione del dolore e dello stesso realismo per trasmettere il suo messaggio personale; se prese a prestito la retorica del cattolicesimo fu perché, a modo loro, i suoi dipinti parlavano di salvazione.
Anche se a questo punto il tentativo era di accelerare la produzione in modo da mantenersi con il suo lavoro e sebbene tra i vari autoritratti a mezzo busto ci siano delle somiglianze, Frida non ricorse a una formula. E' vero che
l'angolazione del viso è spesso la stessa; ma è evidente che si tratta dell'angolo che riduceva al minimo il movimento richiesto dal continuo spostare lo sguardo dalla tela allo specchio. Ma ciascun dipinto è trattato come un distinto confronto con se stessa. L'acuta attenzione per i deittagli, ad esempio il modo in cui il colibrì è legato alla collana di spine, la scelta e la sistemazione delle piante (ad esempio, bianchi germogli accanto a prosciugati ramoscelli marroni nell'autoritratto con il dottor Eloesser), o il ritmo preciso e la fermezza di un nastro arrotolato, dà a ogni ritratto una perfetta unicità.
In ciascuno di essi Frida ha l'aria grave, il capo eretto con il caratteristico piglio altero. Il suo viso è più vecchio, più teso, più guardingo di quanto non fosse negli autoritratti realizzati prima del divorzio da Diego. Dietro la maschera di controllo di Frida si sente una straordinaria carica emotiva, come se l'artista chiamasse a raccolta le forze contro la sua stessa vulnerabilità e nel medesimo tempo volesse assicurarsi che lo spettatore riconosca la sua sofferenza. L'elaborata performance mirata a trasformarla in mito fornisce una distanza psicologica da ciò che altrimenti rischierebbe di essere un lutto insopportabile. Forse rifacendosi alle devozioni dell'infanzia cattolica, si trasforma in un'immagine sacra che lei stessa - e gli altri - possono adorare, trascendendo in questo modo il dolore.
A partire dal 1940 gli autoritratti mostrano con chiarezza anche il grado di sensibilità sviluppato da Frida rispetto ai colori e al loro potere di trasmettere emozioni. A occhi abituati alla tradizione francese nel campo delle arti visive, le scelte di colore operate da Frida risultano stridenti: oliva, arancione, viola, molte sfumature di terra e un giallo allucinatorio. Sebbene la sua bizzarra tavolozza rifletta l'amore per le indisciplinate combinazioni di colore tipiche dell'arte popolare messicana, con intelligenza Frida riesce a utilizzare i colori in funzione del dramma psicologico. Il rosa viene spesso usato in ironico contrasto con la violenza e la morte; in molti autoritratti il giallo olivastro accentua il senso di claustrofobica oppressione; il grigio blu dei cieli di Frida e il lavanda o il siena bruciato della sua terra danno un limite all'espressione dell'alienazione e della disperazione. Dal momento che di rado le forme sono modellate dal nero, i suoi dipinti hanno spesso una brillantezza visionaria.
Nel diario, in una specie di poema in prosa, Frida spiegherà verso la metà degli anni quaranta il significato da lei attribuito ai colori:
VERDE: luce calda e buona.
PORPORA ROSSASTRO: azteco. Tlapali [termine azteco per "colore" usato per dipingere e disegnare]. Vecchio sangue di fico d'India. Il più vivo e il più vecchio.
MARRONE: colore del "mole" [salsa al cioccolato tipica della cucina messicana], della foglia che cade. Terra.
GIALLO: follia, malattia, paura. Parte del sole e dell'allegria.
BLU COBALTO: elettricità e purezza. Amore.
NERO: nulla è nero, veramente "nulla".
VERDE FOGLIA: foglie, tristezza, scienza. L'intera Germania è di questo colore.
GIALLO VERDASTRO: ancora follia e mistero. Tutti i fantasmi portano abiti di questo colore... o almeno biancheria intima.
VERDE SCURO: colore delle brutte notizie e dei buoni affari.
BLU MARIN: "distanza". Anche la tenerezza può essere di questo blu.
MAGENTA: Sangue? Chissà!
L'"Autoritratto" con il dottor Eloesser ha colori sfacciati: rosa, ocra verdastro, giallo, il rosso brillante delle labbra e del sangue di Frida. La sua opulenza barocca e la predominanza di un rosa opalescente contrasta nel più violento dei modi con l'immagine dolorosa del collo sanguinante di Frida. Viene da pensare alle figure lacerate dei Cristi messicani, le cui ferite sono circondate da fiori graziosi, lussuosi merletti, velluti e oro. Al contrario, "Autoritratto con scimmia" è scuro e austero; il nero negli interstizi tra le foglie della parete vegetale suggerisce l'ora notturna; l'oscurità notturna è resa più intensa dal nastro rosso sangue che avvolge e riavvolge il collo di Frida. Nell'"Autoritratto" commissionato da Sigmund Firestone, d'altro lato, la combinazione di uno sgargiante fondale giallo-verde con i nastri viola nei capelli neri, più le perle color giada e il ricamo lavanda sul bianco "huipil"
(camicia o blusa), fa accapponare la pelle allo spettatore, come di sicuro Frida sapeva. Se il giallo e il giallo verdastro significavano follia, Frida si doveva sentire pazza, perché nei dipinti realizzati durante il divorzio da Rivera fece un uso massiccio di questi colori.
Nel 1940 Frida dipinse un altro autoritratto in cui il morso irritante del colore parla del malessere provocatole dalla separazione da Diego. "Autoritratto con capelli tagliati" mostra l'artista seduta su una seggiola messicana giallo brillante al centro di una vasta spianata di terra marrone rossiccio coperta dalie ciocche di capelli neri che le sono state tagliate. Il cielo è pieno di iridescenti nuvole rosate, che dovrebbero essere soffici e incantevoli e sono invece asfittiche e oppressive. La seggiola è gaia e folkloristica, ma Frida ne ha fatto l'unico oggetto vivace del quadro, il che accentua il senso di desolazione.
A un mese dal divorzio, Frida aveva fatto ciò che già aveva fatto nel 1934 in risposta alla relazione tra Diego e Cristina: si era tagliata i capelli. Il 6 di febbraio scrisse a Nickolas Muray: "Ti devo dare cattive notizie: mi sono tagliata i capelli e adesso somiglio proprio a un furetto. Be', ricresceranno, spero!" Una delle versioni è che Frida avesse avvertito Diego che si sarebbe tagliata i lunghi capelli, che lui adorava, se non avesse interrotto la sua relazione del momento (forse con Paulette Goddard). Lui non la interruppe e lei diede corso alla minaccia. Che la storia sia vera o no, si tratta senza dubbio di un comportamento tipico di Frida. In "Autoritratto con capelli tagliati" si esprime un umore di rappresaglia furibonda. Nel dipinto Frida si è anche spogliata del costume da tehuana che a Diego piaceva che indossasse. Al suo posto c'è un abito maschile di taglia così grande da poter essere di Diego.
Frida siede a gambe larghe come un uomo e indossa scarpe maschili allacciate e una camicia da uomo. Gli orecchini sono l'unica traccia di femminilità.
Distruggendo gli attributi della sessualità femminile, Frida ha commesso un atto di vendetta che serve a intensificare la sua solitudine. Una ciocca di capelli le pende tra le gambe, simile a un animale massacrato. Si tiene le forbici che hanno eseguito il taglio appoggiate vicino ai genitali, nella stessa esatta posizione delle pinze chirurgiche che hanno reciso la vena che la collegava al ritratto in miniatura di Diego in "Le due Fride". In entrambi i dipinti si ha la sensazione che si sia compiuto un qualche macabro atto: un violento rifiuto della femminilità o il desiderio di eliminare quella parte di sé che possiede la capacità di amare. La rimozione simbolica della vulnerabilità e
dell'attaccamento naturalmente non dà tregua al dolore. In "Le due Fride" il sangue continua a sgocciolare dalla vena recisa. In "Autoritratto con capelli tagliati" Frida è circondata dalle ciocche sinistramente animate dei suoi capelli, sparse tutt'intorno e aggrovigliate come rampicanti o come serpenti ai pioli della seggiola gialla. Poiché pur allontanandosi nello spazio non si riducono di misura, le ciocche nere sembrano fluttuare nell'aria, rimandando così alle vene, ai rampicanti, alle radici e ai nastri che in altri autoritratti simboleggiano la sensazione (o il desiderio) di Frida di essere collegata a realtà che vanno al di là di lei. Qui, come in "Le due Fride", la rabbia e il dolore uniscono le forze per troncare i contatti di Frida con il mondo esterno e, più in particolare, con Diego. Frida è completamente sola in una pianura vasta e vuota sotto un cielo senza sole. Alla sommità del dipinto stanno le parole di una canzone: "Guarda che se ti amavo era per i tuoi capelli. Adesso che sei pelata, non ti amo più."
Nella lettera a Muray del 13 ottobre 1939 aveva scritto: "Da quando sono tornata da New York non ho più voluto un dannato centesimo da Diego, le ragioni le devi capire. Non accetterò mai più denaro da nessun uomo finché vivo."
Cercò di vivere dei suoi quadri, facendo sforzi mai fatti prima per venderli, mandandoli alla spicciolata a Julien Levy.
Nel 1940 alcuni amici la incoraggiarono a partecipare al concorso interamericano della Guggenheim Foundation, nella speranza che ottenesse un finanziamento. Tra i suoi sostenitori ci furono il fratello di Mary Sklar, il critico e storico dell'arte Meyer Schapiro e Carlos Chávez. Altri scrissero lettere di
presentazione: tra loro William Valentiner, Walter Pach, Conger Goodyear, André Breton, Marcel Duchamp e Diego Rivera. Schapiro disse: "E' una pittrice eccellente, dotata di vera originalità, uno degli artisti messicani più interessanti che conosco. Il suo lavoro ben figura accanto ai migliori dipinti di Orozco e Rivera; in certo modo è più autenticamente messicano del loro. Se non ha il loro sentimento eroico e tragico, Frida Kahlo è però più vicina alla tradizione messicana comune e alla sensibilità per le forme decorative."
Le dichiarazioni (in spagnolo) di Frida nella domanda di ammissione al concorso sono un modello di modestia (e cattiva ortografia); forse avrebbe fatto meglio a apparire più complessa e a darsi più importanza, perché il finanziamento non le venne concesso.
Precedenti professionali.
Ho cominciato a dipingere dodici anni fa, mentre ero convalescente da un incidente automobilistico che mi ha costretta a letto per quasi un anno. Durante tutti questi anni ho lavorato con l'impulso spontaneo dei miei sentimenti. Non ho mai seguito alcuna scuola o alcuna influenza, né mi sono mai aspettata di ricavare dal mio lavoro più della soddisfazione del puro e semplice dipingere e di dire ciò che non avrei potuto dire in altro modo.
Lavoro.
Ho fatto ritratti, composizioni con figure, anche soggetti in cui il paesaggio e la natura morta hanno grande importanza. Sono stata capace di trovare, senza essere forzata da alcun pregiudizio, un modo personale di espressione attraverso la pittura. Per dieci anni il mio lavoro è consistito nell'eliminare tutto ciò che non veniva dalle motivazioni liriche interne che mi spingevano a dipingere.
Dal momento che i miei soggetti sono sempre stati le mie sensazioni, i miei stati mentali e le reazioni profonde che la vita è andata producendo in me, ho di frequente oggettivato tutto questo in figure di me stessa, che erano la cosa più sincera e reale che io potessi fare per esprimere ciò che sentivo dentro e fuori di me.
Mostre e vendite di quadri.
Non ho presentato al pubblico nessuno dei miei lavori fino all'anno scorso (1938) alla galleria Julien Levy di New York. Ho esposto venticinque quadri.
Dodici sono stati venduti alle seguenti persone
Conger Goodyear, New York;
Mistress Sam Lewison, New York;
Mistress Claire Luce, New York;
Mistress Salomon Sklar, New York;
Edward G. Robinson, Los Angeles (Hollywood);
Walter Pach, New York;
Edward Kauffman, Pittsburgh;
Nicholas Murray, New York;
Doctor Roose, New York.
e a altre due persone di cui non ricordo il nome, ma che Julien Levy può identificare. La mostra si è svolta dall'1 al 15 novembre, 1938. Più tardi ho avuto una mostra a Parigi, organizzata da André Breton alla galleria Renou et Colle, dall'1 al 15 marzo, 1939. Il mio lavoro ha interessato i critici e gli artisti di Parigi. Il Museo del Louvre (Jeux de Paume) ha acquistato uno dei miei dipinti.
Sebbene volesse mantenersi con il suo lavoro di pittrice, Frida non piegò la sua arte a nessun compromesso per renderla vendibile. Soltanto un amico poteva comprare lavori dolorosi e pieni di sangue come l'"Autoritratto" venduto a Muray. E in quelle rare occasioni in cui lavorava su commissione, Frida non necessariamente dipingeva ciò che il cliente si aspettava, ma trasformava piuttosto la commissione in un'altra occasione di comunicare la sua privata disperazione. Persino quando la commissione riguardava il ritratto di terzi, Frida non poteva trattenersi dal farne una dichiarazione personale, intimamente connessa agli eventi della sua vita.
E' certamente il caso di uno dei dipinti che Frida completò durante la separazione da Diego, "Suicidio di Dorothy Hale", un lavoro così macabro da richiamare l'orrore di "Qualche piccola punzecchiatura". Il suicidio è mostrato in tre stadi successivi. Si comincia con una minuscola figura dritta vicina all'alta finestra della Hampshire House, da cui Dorothy Hale si era lanciata il 21 ottobre 1938. Vediamo poi una figura molto più grande che precipita a testa in giù, a occhi spalancati e fissi su di noi. Nuvole fioccose le fanno parzialmente ombra, rendendo il suo tuffo nello spazio ancora più palpabile.
Infine c'è una grande figura che giace al suolo in una pozza di sangue, rigida come
una bambola di porcellana. Il sangue le cola dall'orecchio, dalla bocca, dal naso, accentuando curiosamente la bellezza del suo volto. Gli occhi sono ancora aperti e ci guardano con la calma mesta di un animale ferito.
Clare Boothe Luce, che aveva commissionato il ritratto al vernissage della mostra newyorkese di Frida, dice che Frida aveva conosciuto Dorothy in Messico e a New York. La Hale faceva parte di un piccolo gruppo di amici collegati a "Vanity Fair" (di cui la signora Luce era il direttore esecutivo), gruppo che comprendeva Miguel e Rose Covarrubias, Muray e Noguchi.
La signora Luce racconta a modo suo la storia del ritratto:
Dorothy Donovan Hale era una delle donne più belle che avessi mai conosciuto.
Neppure Elizabeth Taylor giovane, a cui somigliava, era più bella. Ex attricetta di Ziegfield, era la moglie di Gardiner Hale, un pittore di ritratti di moda a New York. I giovani Hale avevano molti amici, non soltanto in società, dove Hale raccoglieva le commissioni per i ritratti, ma anche tra gli artisti dell'epoca, Diego Rivera e Frida Kahlo inclusi.
Verso la metà degli anni trenta Hale morì in un incidente automobilistico, lasciando Dorothy con pochissimo denaro. Falliti i tentativi di trovare lavoro a Hollywood, Dorothy ritornò a New York dove gli amici - io tra gli altri - le davano di tanto in tanto abbastanza denaro per continuare a mantenere lo stile di vita a cui Gardiner l'aveva abituata.
Credevamo tutti che una ragazza di bellezza così straordinaria e di tale fascino non ci avrebbe messo molto a fare carriera o a trovarsi un altro marito.
Sfortunatamente Dorothy aveva poco talento e nessuna fortuna.
Se ricordo bene, era la primavera del 1938 quando mi confidò con gioia che aveva incontrato "il grande amore della sua vita" Harry Hopkins, consigliere politico di fiducia del presidente Franklin D. Roosevelt e il suo confidente privato più stretto. Il fidanzamento mi disse, sarebbe stato presto annunciato. Lei e Hopkins sarebbero stati uniti in matrimonio "dalla Casa Bianca". Ma nel frattempo, be' le servivano i soldi per pagare l'affitto della sua suite alla Hampshire House.
Notizie del suo fidanzamento con Hopkins apparvero in qualche cronaca mondana.
Ma altri cronisti mondani citarono "fonti della Casa Bianca" per negare che la relazione sentimentale tra la Hale e Hopkins si sarebbe conclusa davanti all'altare. Il matrimonio non si realizzò mai. Chi aveva conoscenze a Washington disse che il presidente Roosevelt aveva ordinato a Harry Hopkins di concludere la relazione con Dorothy e di sposare invece Lou Macy, intima amica dei Roosevelt, cosa che Hopkins fece. La maggior parte dei cronisti mondani mise brutalmente in chiaro che Dorothy era stata scaricata.
Ecco che di nuovo la povera Dorothy aveva bisogno di soldi per pagare l'affitto.
E di nuovo io dissi o.k. Ma questa volta dissi anche: "Quello di cui hai disperatamente bisogno, Dorothy, è un lavoro." Decidemmo che avrebbe potuto svolgere con facilità un lavoro da hostess al Padiglione dell'arte americana della Fiera mondiale. Bernard Baruch, mio buon amico, era un buon amico di Bob Moses, direttore generale della fiera. Fissai dunque un appuntamento perché Dorothy incontrasse Baruch e ne ottenesse una lettera di presentazione per Moses.
Qualche giorno più tardi mi stavo provando un vestito da Bergdorf Goodman. Una modella entrò piroettando con indosso un abito da sera veramente splendido.
Chiesi il prezzo. Costava all'incirca dai cinquecento ai seicento dollari, una cifra enorme per un solo abito quarant'anni fa. Dissi che per me era troppo caro. La commessa disse: "La signorina Hale lo ha appena ordinato." Arrabbiata pensai Ecco come spende il denaro che, a sentire lei, le serve così disperatamente per l'affitto!
Quando pochi giorni dopo mi telefonò, ero così irritata con lei che a mala pena stetti a sentire quello che diceva. Aveva deciso di partire per un viaggio molto lungo. Per il momento, voleva tenere segreta la sua destinazione, ma visto che sarebbe stata via per molto tempo aveva deciso di dare una festa d'addio e stava invitando solo gli amici più cari. Ci sarei andata, e "Cara, cosa pensi che dovrei indossare alla mia festa d'addio?"
Avevo sulla punta della lingua la risposta "Cosa ne dici di quello splendido abito di Berpdorf che hai comprato con i soldi che ti ho dato per l'affitto?" Ma non fiatai. Se veramente stava per partire per un lungo viaggio, la fastidiosa storia di chiedere denaro a prestito era finita comunque. Ciò che dissi, con una certa freddezza, fu: "Sono spiacente, ma non posso venire alla tua festa. La cosa che ti sta meglio è il tuo vecchio Madame X di velluto nero. Spero che il viaggio vada secondo le tue aspettative." E attaccai.
All'alba del giorno successivo alla festa, la polizia chiamò. Alle sei del mattino circa Dorothy Hale si era buttata dalla finestra della sua suite all'ultimo piano della Hampshire House. Visto che la festa era finita un po'
prima di mezzanotte, aveva avuto molto tempo per pensare.
Indossava il mio capo preferito, l'abito di velluto nero da "femme fatale", e un mazzolino di piccole rose gialle che, come si seppe poi, le era stato mandato da Isamu Noguchi.
L'unico messaggio che aveva lasciato nell'appartamento era una nota per me. Mi ringraziava dell'amicizia e mi chiedeva di vedere che la madre, residente a nord di New York, fosse informata e potesse quindi disporre la sua sepoltura nella tomba di famiglia.
Fu un tale spreco. Dorothy era così bella. E così vulnerabile. Bernie Baruch mi telefonò nell'istante in cui lesse la notizia sui giornali. Mi disse che quando Dorothy gli aveva chiesto di usare la sua influenza con Bob Moses per farle avere il lavoro, lui le aveva risposto che per lei era troppo tardi per riuscire a procurarsi un lavoro che le permettesse il genere di vita a cui era abituata.
Ciò che aveva bisogno di procurarsi non era un lavoro, ma un marito. Il modo migliore per procurarselo, le aveva detto, era frequentare le feste sembrando più bella che poteva. Così mi disse che le aveva dato un migliaio di dollari, ma solo a una condizione, che li usasse per comprare l'abito più bello che si potesse trovare a New York.
Qualche tempo dopo andai a una mostra dei lavori di Frida Kahlo. La mostra era affollata. Frida mi raggiunse attraverso la folla e subito ci mettemmo a parlare del suicidio di Dorothy. Io non ne volevo parlare, perché la mia coscienza mi stava ancora tormentando dato che - nei miei pensieri - avevo ingiustamente accusato Dorothy di approfittare di me. Frida Kahlo non perse tempo e mi suggerì che avrebbe realizzato un "recuerdo" di Dorothy. Non parlavo a sufficienza lo spagnolo per capire cosa la parola "recuerdo" significasse. Pensai che volesse dire un ritratto fatto a memoria. Pensai che Frida Kahlo avrebbe dipinto un ritratto di Dorothy simile a quell'Autoritratto [dedicato a Trockij] che avevo comprato in Messico (e che possiedo ancora).
All'improvviso mi venne in mente che un ritratto di Dorothy dipinto da una famosa pittrice amica potesse essere qualcosa che la sua povera madre avrebbe avuto piacere di possedere. Glielo dissi e Frida fu d'accordo. Chiesi il prezzo, me lo disse e io le risposi: "Procedi pure. Mandamelo quando è finito. Lo farò avere alla madre di Dorothy."
Non dimenticherò mai lo choc che ebbi quando estrassi il dipinto dal suo imballaggio. Mi sentii "male" fisicamente. Cosa potevo farmene di quello spaventoso dipinto del cadavere frantumato della mia amica con tutto quel sangue che sgocciolava dalla cornice? Non potevo restituirlo: nella parte alta del quadro un angelo faceva ondeggiare un'insegna spiegata che proclamava in spagnolo che si trattava del "suicidio di Dorothy Hale, dipinto su richiesta di Clare Boothe Luce per la madre di Dorothy". Un ritratto così sanguinario non lo avrei voluto per il mio peggiore nemico, figuriamoci per la mia sfortunata amica.
Tra i molti ferventi ammiratori di Dorothy c'erano Constantin Alajalov artista famoso per le copertine del "New Yorker", e Isamu Noguchi, lo scultore. Adesso non ricordo a quale dei due telefonai, chiedendogli di venire di corsa per parlare di una questione urgente riguardante Dorothy. In ogni caso a quello che dei due arrivò dissi che stavo per distruggere il dipinto con un paio di forbici da biblioteca e che mi serviva un testimone. Alla fine, comunque, accettai di non distruggere il dipinto se l'insegna che proclamava che lo avevo
commissionato io fosse stata grattata via e coperta dalla vernice. Così l'ammiratore di Dorothy portò via il quadro e ne tolse quella frase offensiva.
Il ritratto commemorativo di Dorothy Hale realizzato da Frida si rivelò dunque più un "retablo" che un "recuerdo", poiché l'incidente era presentato nel suo accadere (e la morte della protagonista era in scena) e nel cielo, secondo le parole della signora Luce, c'era un angelo. Una striscia grigia che corre attraverso la parte bassa del ritratto porta un'iscrizione tracciata in vernice rosso sangue: "Nella città di New York il 21 del mese di ottobre, 1938, alle sei del mattino, la SIGNORINA DOROTHY HALE ha commesso suicidio buttandosi da una finestra molto alta del palazzo della Hampshire House. In sua memoria [segue uno spazio bianco lasciato dalla cancellatura delle parole] questo "retablo", eseguito da FRIDA KAHLO." A destra dell'iscrizione, sotto le parole "ha commesso suicidio" e sopra la parola "KAHLO" c'è una chiazza di rosso da cui cola il sangue. E, come in "Qualche piccola punzeccbiatura", il sangue, dipinto illusionisticamente e nella stessa scala dello spettatore, sbava la cornice del quadro. Come se, nelle due immagini di morte violenta femminile più terrificanti che avesse mai realizzato - entrambe, non a caso, dipinte nei periodi in cui Diego la stava sottoponendo a un grande dolore -, Frida si fosse sentita incalzata a dilatare lo spazio pittorico nello spazio reale dell'osservatore, portandogliene in casa l'orrendo contenuto. Frida ha potenziato questa sensazione di immediatezza dipingendo uno dei piedi di Dorothy Hale, privo di scarpa ma stretto nella calza, in modo che sembri sporgere nello spazio. Il piede trompe l'oeil getta un'ombra sulla parola "Hale" dell'iscrizione del dipinto.
La squallida irrealtà dello spazio in cui si compie il suicidio è caratteristica dei lavori di Frida, che hanno come vero tema la solitudine o la disperazione.
La morta Dorothy Hale giace sul terreno vuoto e scuro. Non strada cittadina, non il marciapiedi davanti alla Hampshire House, questo spazio anonimo è
semplicemente un palcoscenico non collegato, ne in termini di scala né in termini di prospettiva, al grattacielo che gli giganteggia alle spalle. In tale spazio mancano totalmente quegli oggetti concreti che nel normale mondo "reale"
ci danno il senso della proporzione. Non c'è nulla che si possa toccare, per rassicurarsi sulla propria salute mentale.
Nonostante tutto il suo orrore, "Suicidio di Dorothy Hale" ha anche un aspetto curiosamente gentile, lirico. La fresca, delicata bellezza della morta è intatta pur dopo la caduta. E inalterati sono i segnali del fascino femminile di Dorothy: l'abito da "femme fatale", il mazzolino di rose gialle tributo dell'ammirazione di un uomo. Forse Dorothy Hale fu la vittima di un insieme di valori che Frida non condivideva, ma la compassione della pittrice per la sua -
letterale e figurata - caduta e l'identificazione con la situazione dell'amica morta danno a "Suicidio di Dorothy Hale" un'intensità particolare. Abbandonata da Diego, Frida non aveva difficoltà a capire perché la donna che era stata rifiutata avesse deciso di dare una festa d'addio e poi, vestita del suo abito più bello, si fosse lanciata nel vuoto in cerca della morte. Nei mesi in cui rimase separata da Diego, come in quelli successivi all'incidente, Frida pensò spesso che sarebbe stato meglio se la pelona l'avesse portata via. Ma Frida era una sopravvissuta; ""No hay remedio", bisogna mettersi il cuore in pace." A Nickolas Muray scrisse: "Lascia che ti dica, bambino, che questo è stato il periodo peggiore di tutta la mia vita e sono stupita che a tutto questo si riesca a sopravvivere.
Ma naturalmente lei ce la fece.
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