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Le sorelle Cavallotto e la zia Mimma

La Playa, agosto 1977 – Caltanissetta, dicembre 1977

La zia Mimma era grossa come la loro nonna, ma molto più simpatica e accondiscendente. Nutriva per le nipoti un affetto smisurato e andava spesso a trovarle al campeggio della Playa, trascorrendo le giornate a giocare con loro. Nel pomeriggio crollava all’improvviso sulla sdraio, come un orologio che ha esaurito la carica. Adorava il profumo del mare e quello dei pini. Le piaceva inoltre osservare il sole che se ne calava colorando il cielo, prima di un rosso passione e poi di una preziosa tonalità dorata.

Lo zio Libertino le stava accanto, tenendole stretta la mano. Mimma avrebbe voluto baciare il marito sulla bocca, ché a quell’ora le saliva sempre un desiderio dalla pancia. Ma non osava, c’erano le nipotine e non stava bene davanti a loro.

«Le adolescenti hanno diritto alla loro sessualità» ripeteva suo fratello Vito, a cui piaceva fare il moderno e spesso le sparava grosse. Mimma allora arrossiva e si faceva il segno della croce: «Poi però borbotti se le figlie girano per casa con le sole mutandine o se portano le minigonne...».

La roulotte era abbastanza comoda e nel corso delle stagioni aveva acquisito le fattezze di una vera e propria casa.

C’erano una camera matrimoniale e i lettini a castello. Due porte ricoperte di specchi isolavano gli ambienti e li facevano apparire più ampi di quello che erano. Forse avrebbero potuto affittare un appartamento, i Cavallotto, ma erano gli anni Settanta e il campeggio era un dovere sociale.

Le sorelle durante le vacanze pretendevano di dormire con la mamma, che in inverno era inflessibile e le costringeva nella loro stanza. In campeggio però le regole non valevano e se ne stavano vicine, una aggrappata all’altra come una colonia di pipistrelli.

I letti a castello erano per gli ospiti: ce n’erano sempre tanti, i Cavallotto amavano la compagnia. Ma erano brandine strette e Mimma alla sera ce la dovevano spingere a forza.

Con le mani affondate nel grosso sedere della zia e i piedi ben saldi per terra, Cetti, Anna e Luisa la mettevano a dormire tra scherzi e risate sgangherate, trasformando la tragedia in farsa.

Mimma se ne faceva un cruccio della sua stazza e, quando rimaneva sola tra le lenzuola, si pizzicava con cattiveria quei fianchi inutilmente larghi, che non avevano mai accolto una briciola d’eternità.

Nell’angolo più estremo della roulotte, vicino a una finestrella, Vito si era ritagliato un posto tutto suo, dove, immerso nei libri e nelle carte, trascorreva le sue notti insonni senza disturbare nessuno.

Adalgisa soffriva a dormire separata dal marito: forse per quello in campeggio era sempre nervosa e trattava male tutti. Le bambine vivevano invece in uno stato di totale felicità e non facevano caso al malumore della madre, ormai abituate alle sue sfuriate.

Mimma, quando c’era aria di tempesta, era pronta a schierarsi dalla parte della cognata. «Poverina» la mischiniava, «il lavoro, tre figlie una dietro l’altra...»

Un po’ la comprendeva, ma soprattutto da tempo coltivava il progetto di farsi affidare una delle bambine. Aveva puntato Luisa, la più piccola. Era magra e bisognosa d’attenzioni, e poi le aveva letteralmente donato il sangue, perciò la sentiva un po’ come fosse figlia sua. Non aveva però ancora trovato il momento né le parole giuste per parlargliene, e intanto si rodeva perché l’intimità con il marito sarà pure mancata alla cognata, costretta per molti anni alla convivenza con la suocera, ma il suo ventre, poche settimane dopo il matrimonio, già bruciava di un coccio di vita.

Le sorelle al mattino si svegliavano presto. Raggiungevano il padre e si accucciavano vicino a lui, che le accoglieva con un bacio, un sorriso. Adoravano la sua pancia morbida: negli ultimi anni Vito era ingrassato. «Devi mangiare di meno» lo prendevano in giro. Anna andava matta per i suoi rotoli, non faceva altro che accarezzarglieli, infilava le sue piccole dita tra una piega e l’altra. “Ponchiolone” lo chiamava.

Talvolta nel letto trovavano la mamma con l’aria soddisfatta e un’espressione stranamente pacificata, perché di solito le sue labbra erano tirate e gli occhi strizzati a fessura.

Le bambine coglievano al volo quel momento di grazia e si mettevano a saltare sul materasso come fosse un trampolino. Più in alto, sempre più in alto, finché una mattina la roulotte s’era piegata su un lato ed erano caduti tutti e cinque a terra. Che risate si erano fatte, sembravano impazzite. Tranne Cetti, che aveva incassato la testa nelle spalle e s’era portata le mani sul viso temendo di essere rimproverata.

Aveva sempre paura quella ragazzina, nonostante a nove anni avesse già l’aspetto di una donna. Sensibile e introversa, sembrava destinata all’infelicità; il padre, che l’aveva intuito, cercava di valorizzare i suoi talenti e la incoraggiava a esprimere quello che sentiva. Cetti, per compiacerlo, si affannava a studiare: avrebbe preferito morire piuttosto che deluderlo. Era stato lui, un giorno, a iniziarla alla magia dei libri. La ragazza sentiva ancora il suo cuoricino battere più forte, ogni volta che ripensava a quel momento.

Aveva quattro anni, la mamma era incinta di Luisa e la sua pancia voluminosa funzionava come un grosso respingente, tanto che la bambina non riusciva ad abbracciarla.

Nella libreria di Caltanissetta, Cetti aveva imparato a parlare, a camminare, e in quei giorni aveva appena cominciato a sfogliare i primi libri, ma con distrazione, perché ancora preferiva i giocattoli. Un pomeriggio, ubbidendo a un diktat interiore, Cetti si era arrampicata su una pedana di legno e s’era intrufolata nella vetrina. Nascosta in un mucchio di bambolotti, che erano la novità di quel Natale, era rimasta lì con lo sguardo perso, sembrava una bambola anche lei.

Sua madre non si era accorta di nulla, altrimenti l’avrebbe tirata via in malo modo. Già in quel periodo era così irritabile, ché lavoro e maternità non vanno d’accordo, e quando si cova non si può pensare ad altro. Il papà, come al solito, era in giro per lavoro.

Tranquilla come una pecorella in un recinto, in quella vetrina la fantasia di Cetti aveva cominciato a lavorare. E così le era comparso Fefè, un elefantino azzurro che l’aveva salutata con un colpo di proboscide e le si era avvinghiato alle caviglie. Farfalle, orsetti e coniglietti si erano materializzati dal nulla, la bambina aveva trovato dei compagni di giochi. Da quella volta, se ne stava sempre rintanata lì e alla sera dovevano tirarla via di peso.

La nonna Concettina, che non si faceva mai i fatti suoi, borbottava: «Questa picciridda non mi convince. Invece di correre e saltare come fanno quelli della sua età, se ne sta ferma a giocare alle belle statuine. E poi ha lo sguardo assente». Ma la donna non poteva sapere che la nipote non era sola: c’erano coccinelle chiassose a ricoprirle le braccia, sciami di lucciole a danzarle tra i capelli e una cucciolata di canuzzi pelosi che guaivano e chiedevano carezze.

Una mattina, un cliente era entrato nel negozio dicendo di voler acquistare un regalo per la moglie.

Si era guardato un po’ intorno e poi aveva domandato, soldi alla mano: «Quanto costa la picciridda?».

«Ma di che parla?» era intervenuta lesta Maria, una delle commesse. Nella libreria lavoravano solo donne, così aveva deciso Vito: «Sono fedeli e ubbidiscono senza che io debba alzare la voce», e quindi aveva tappato la bocca alla moglie che faceva la gelosa.

«Vorrei la picciridda con la vistina rosa. Sa, non ho figli...»

L’uomo aveva puntato un dito secco e giallo contro Cetti. Aveva gli occhi strabici, e questo lo faceva sembrare cattivo.

«Viene mille lire al chilo» lo aveva informato Maria. Scherzavano, ma la bambina non poteva capirlo e cominciò a preoccuparsi.

«Se la prenda» era intervenuta Adalgisa lisciandosi la pancia sporgente, «tanto io a giorni devo accattare di nuovo, e poi a casa ne ho già un’altra.»

«Che preferisce, maschio o femmina?» aveva domandato l’orbo.

«Che domanda, maschio!» aveva risposto lei. «Ma nella mia famiglia non ne nascono da troppo tempo» aggiunse con rammarico. «Perciò, se proprio ci tiene, se la prenda la picciridda.» Poi si era rivolta alla figlia con un sorriso mellifluo: «Vieni, che ti metto sulla bilancia». Le commesse intanto ridevano sgangheratamente.

«Non voglio che l’orbo mi compri. Dategli un bambolotto» aveva protestato Cetti, però non si sentiva più tranquilla e i suoi amichetti immaginari, spaventati anche loro, si erano dati alla fuga.

«Lo sai che le cose della vetrina le dobbiamo vendere. Perciò, se te ne stai lì, accetti il fatto che qualcuno ti possa comprare» aveva concluso secca la madre.

Maria era salita sulla pedana con passo deciso: «Vieni che ti peso».

La piccola s’era incollata alla parete e aveva preso a scalciare.

«Càlmati» le aveva ordinato la mamma. Temeva che rompesse il vetro e si ferisse. La sua voce era però tagliente, il suo viso duro, l’espressione severa. Cetti si era sentita come se una lama di acciaio le avesse trapassato il cuore e si era messa a urlare con quanto fiato aveva in gola.

Adalgisa, che odiava quelle scenate, aveva messo su due occhiacci e aveva preso a strattonarla, finché la figlia era caduta sulla schiena.

«Forse è meglio se la finiamo» aveva detto Maria, «la picciridda è scantata morta, magari le vengono i vermi.» E aveva pregato l’orbo di spiegare che stavano scherzando.

«Avà, non fare così, babbiamo» aveva balbettato l’uomo con la faccia mortificata, e si era rimesso i soldi in tasca.

La bambina sentiva in bocca il sapore salato delle lacrime e sul palato quello vischioso della paura. Il naso le si era gonfiato e l’aria passava attraverso le narici con un fischio. A un tratto era diventata paonazza e un rivolo tiepido era comparso da sotto la gonna, aveva superato le ginocchia grassocce, s’era infilato nei calzini bianchi. Per la vergogna si era rannicchiata su se stessa, ma i suoi piedi avevano urtato la fila di bambolotti, che erano caduti l’uno sull’altro come le tessere di un domino.

La madre era andata su tutte le furie: «Talìa ’sta scimunita! Ora dobbiamo rimettere in ordine e lavare pure per terra».

Il padre era arrivato proprio in quel momento. Da fuori aveva visto tutto quell’ammuino e si era spaventato. Aveva abbandonato la macchina in strada, non aveva spento neanche il motore e si era precipitato dentro la libreria.

«Che succede?» aveva domandato alle commesse.

«Niente, niente, scherziamo» avevano minimizzato loro.

Lui aveva guardato la pozza al centro della vetrina e aveva capito. Lo avevano visto portarsi la mano al petto, sembrava cercasse di tenere a bada il suo cuore addolorato.

«Con una bambina piccola! Ma come vi spercia?» La sua voce vibrava di indignazione. «Siete delle cretine» aveva urlato alle commesse. «E lei è meglio se non si fa più vedere» aveva detto all’orbo, che aveva infilato la porta di corsa. Quindi Vito aveva allargato le braccia e Cetti ci si era rifugiata. L’aveva tenuta stretta a lungo contro la sua giacca ruvida. Lei si era riempita i polmoni di quel profumo di tabacco e inchiostro, mentre il papà le aveva coperto le guance di bacetti sonori.

«Picciridduzza mia, siddu c’è stidda, stidda siti vui. Siddu c’è suli, siti vui lu suli, siddu c’è luna, luna siti vui. Siddu c’è ciuri, siti vui lu ciuri; nun c’è biddizza ca nun siti vui.»

Era un canto d’amore e la bimba si era calmata.

Il padre l’aveva portata di peso in bagno, le aveva lavato il viso, le aveva fatto indossare dei calzini asciutti. «Ti ho portato un regalo, aprilo» le aveva detto con gli occhi che brillavano. Era un libro grande e pesante. Dal taglio laterale pendevano fili e linguette sottili. Cetti aveva sollevato la copertina e un albero dalla chioma smeraldina aveva fatto la sua comparsa. Avevano sfogliato insieme le prime pagine: dentro c’erano stormi di usignoli variopinti e uno sciame di farfalle. Avevano armeggiato con i fili, gli uccellini avevano preso il volo cinguettando.

«È un libro animato» aveva esclamato lui felice come un bambino. «Guarda, ce ne sono altri.»

Ne aveva acquistati di molto belli da un antiquario, e uno assai prezioso di Kubašta, dalle cui pagine saltavano fuori cavalli, circhi, giostre. I singoli elementi, piegati e incastrati ad arte, sembravano dotati di una forza propulsiva intrinseca.

Vito aveva insegnato alla figlia a manovrare le linguette e i protagonisti delle fiabe avevano preso vita.

Rassicurata dal padre che non sarebbe mai stata venduta, Cetti era tornata ad abitare la vetrina.

La roulotte di anno in anno si arricchiva di nuovi ambienti, sembrava un organismo in crescita. Proprio come le bambine, che in autunno tornavano a casa più alte e più esperte.

Vito dal canto suo contribuiva con mille idee a quel continuo divenire. Aveva montato davanti alla porta una grande tenda che voleva essere una veranda. L’aveva riempita di sdraio e alla sera riuniva parenti e amici per tirare tardi chiacchierando. Nella parte posteriore, sotto un tetto in onduline, aveva sistemato un grande tavolo da pranzo e un’infinità di sedie, un forno e una cucina, perché chiunque entrava in quella casa, che era come quella di Gesù, non se ne andava più.

Dopo alcuni anni e molte superfetazioni, la roulotte sembrava una villa progettata da un architetto matto. Le piccole in quello spazio bizzarro erano libere di muoversi e, al confronto, la casa di Catania in cui i Cavallotto si erano trasferiti sembrava una prigione.

«Non ci sono balconi» si lamentava Luisa. «Non lo vedete? L’aria non ce la fa a entrare dalle finestre.» Era piccola, ma una vera rompiscatole. «Come si fa a stare in una casa senza balconi?» insisteva.

Le sorelle non ne potevano più dei suoi capricci, soprattutto Cetti si dispiaceva che Luisa non riuscisse ad apprezzare i sacrifici del padre. Così le aveva affibbiato il soprannome di “stronzisa”. E quando la bambina s’era chetata, ormai tutta la parentela di Caltanissetta la chiamava con quell’irritante nomignolo.

Raramente, a rendere più complicata la vita di tutti, arrivava nonna Concettina, intabarrata anche al mare nelle sue vesti lunghe e scure. L’acqua neanche voleva vederla, se ne stava nel cucinotto con le labbra serrate a preparare il sugo di pomodoro più dolce del mondo.

Le sorelle in quelle occasioni rinunciavano alla spiaggia. Cetti era felice di poter ascoltare nuove storie, che poi si affrettava ad annotare in un quaderno per paura di dimenticarle. Anna no, odiava stare ferma mentre i suoi amici – ne aveva una banda – scorrazzavano in bicicletta o si rincorrevano tra le onde spruzzandosi. Ma non piazzava il muso e si consolava disegnando sotto lo sguardo affettuoso dello zio.

«Com’è tranquilla» si compiaceva la nonna.

«È sempre stata mansa fin dalla nascita» conveniva Libertino, che grazie alle tre nipotine si sentiva padre.

Anna forse quieta non avrebbe voluto esserlo, ma schiacciata tra Cetti, che tutti adoravano perché era la maggiore, e Luisa, la più determinata del gruppo, non le rimaneva scelta: doveva essere tranquilla per forza. Ancora lattante l’avevano relegata ai piedi del lettone, mentre le altre due dormivano beate al fianco dei genitori. Lei, invece di piangere, s’era consolata ciucciandosi furiosamente le dita di una mano.

«Che brava ’sta picciridda! Talìa che begli orologi ha disegnato. E le pendole, che precisione!» continuava a lodarla lo zio mostrando il foglio a Mimma. La moglie però aveva la testa da un’altra parte e fissava con insistenza Luisa, che sembrava indifferente a tutto. L’importante per quello scricciolo era poter camminare sulle punte e avere un minimo di spazio dove provare i passi di danza. Se ne stava un po’ in disparte, allungando le braccia verso il cielo e flettendosi in tutte le direzioni, come le canne del fiume quando tira scirocco. La fastidiosa malattia che aveva messo a rischio la sua salute era solo un ricordo, tuttavia era rimasta magra.

In quella strana famiglia allargata, ognuna delle Cavallotto pensava di essere speciale per qualcuno.

«Io ho papà e farò la libraia» diceva Cetti con la serietà di cui sono capaci solo i bambini.

«Io la zia Mimma» faceva il controcanto Luisa.

«Io non ve lo dico» rilanciava Anna, facendole morire di curiosità.

Le tre ragazze non litigavano spesso. Solo il padre, che vedevano così poco, se lo contendevano a colpi di baci e moine. Ma erano così diverse l’una dall’altra che non si sentivano veramente in competizione.

Adoravano quell’unico maschio di casa, avrebbero desiderato tanto anche un fratello, magari un cane, purché fosse maschio pure quello.

“Papà Bricole” lo chiamava Cetti, perché le aveva costruito una piccola libreria tutta per lei. Insieme si erano divertiti molto a montare gli scaffali, che in realtà erano cassette della frutta. Lei gli aveva fatto da assistente passandogli i chiodi e tenendo il martello quando non serviva. Ogni volta che le loro mani si sfioravano, sentiva un’onda di tenerezza prenderle la gola, tanto che le veniva da piangere.

Accudite da una tata, sulla riva della Playa, le tre sorelle avevano imparato a nuotare e fatto nuove amicizie. S’erano spellate mani e piedi sulla sabbia cocente.

Come tre brave donnine, attendevano alle faccende domestiche, mostrando le diversità dei loro caratteri persino mentre spolveravano.

Cetti era la più lenta delle tre, ma anche la più precisa.

«Sbrigati, vogliamo andare a fare il bagno» la sollecitava Luisa.

«Ancora non hai finito? Sei proprio un bradipo» si lagnava Anna.

«Ma se voi continuate a ripassare con le scarpe non finirò mai. Guardate il pavimento, è pieno di impronte!» si disperava lei.

«E dài, lascia stare, finirai dopo.»

«Se non è perfetto, io non vengo» protestava.

«E allora ciao» le due sorelle le rispondevano in coro e infilavano di corsa il vialetto alberato.

Non volevano sprecare neanche un minuto di quelle vacanze estive e cercavano di godere appieno del mare scuro che le aveva cullate sempre con molta dolcezza.

Cetti si sedeva sconsolata in cucina, contemplava le orme disordinate sul linoleum, e con infinita pazienza ricominciava daccapo. Alla sera, stanca e nervosa, crollava addormentata mentre le altre continuavano a giocare.

Quell’estate del ’77, le ragazzine erano però molto preoccupate: incombeva su di loro un trasferimento.

Il papà aveva aperto una terza libreria, a Palermo, e affittato per la famiglia una casa in un bel palazzo dei primi del Novecento alle spalle di via della Libertà. S’era amminchiato che voleva fare l’editore.

«A Catania non ci sono buoni stampatori né bravi legatori. Bisogna andare a Milano o, caso mai, accontentarsi di Palermo» spiegava alla moglie, che non mancava di far presente le sue perplessità. «E poi in Germania, fino in America vi voglio portare.»

Le bambine sentivano tutto il peso di quella separazione dagli zii, dalle nonne, da quel mare nero di lava e dal vulcano che ogni tanto infiammava il cielo.

«Che paura fottuta» ammetteva Luisa, che aveva cominciato a dire qualche parolaccia, ma in gran segreto e facendo bene attenzione che nessuno la ascoltasse.

“Chissà se torneremo l’anno prossimo” si chiedeva Cetti.

«Ma giusto giusto questa mania cretina di aprire librerie doveva venire a papà?» imprecava Anna.

«Saremo sole» concordavano tutte, e se la prendevano con Palermo: «È così lontana, maledizione!».

La zia Mimma cercava di consolarle: «Tornerete a Natale» ripeteva come un mantra magico, «e vi farò trovare un sacco di regali».

Avevano chiuso la roulotte e salutato i parenti il primo di ottobre. C’erano stati abbracci strazianti e baci umidi di lacrime. Poi era calato il sipario e, per i primi mesi, ognuno dei Cavallotto s’era trovato a fronteggiare le proprie difficoltà.

Il Natale era puntualmente arrivato, come promesso dalla zia Mimma.

«Le faccio un pacchetto?» chiese Mimma indicando il piccolo girocollo d’oro e brillanti.

«Non lo so, mi sembra un po’ caro.» Fingeva di non avere abbastanza soldi, la signora Lovoi, ma lo sapevano tutti a Caltanissetta che era ricchissima.

«Sono tutte rosette di brillanti» puntualizzò Mimma.

«Sì, lo capisco, ma non pensavo di spendere tanto.»

La gioielliera le poggiò il monile sul collo, quindi puntò la lampada come fosse un riflettore: «Ma si guardi, le illumina tutto il viso».

Qualunque donna adora i gioielli. C’è chi ama possederli, chi accumularli, chi mostrarli per suscitare invidia, chi indossarli per il piacere di sentirli sulla pelle. Alla Lovoi bastava sfiorarli per avvertire un brivido lungo la schiena; perciò non accennava né a comprare il gioiello né ad andarsene: era felice così come stava.

Mimma, che conosceva i trucchi del mestiere, lasciò che la cliente si pavoneggiasse un po’.

«Le pietre sono purissime e si intonano perfettamente al suo incarnato bianco. Allora, che ne dice?» chiese.

Di solito non aveva fretta, stavolta però era diverso, di lì a poco sarebbero arrivate le nipotine, non le vedeva da quasi tre mesi.

«Va bene, magari ci vuole pensare e torna dopo le vacanze?» domandò con una nota di impazienza nella voce. «Peccato però, una cosa nuova a Capodanno ci vuole. Pensi che figura farebbe al cenone. Anche un abitino da niente, con un girocollo così...» E lasciò volutamente la frase in sospeso aspettando che la donna la completasse. Ma quella tentennava ancora.

«Le faccio un prezzo speciale, giusto perché siamo a Natale. L’importante è che non lo dica a nessuno, altrimenti mi rovina.»

La signora a quel punto calò la testa. L’avrebbe comprata, pur di sentire ancora quei piccoli ganci ritorti e le pietre lisce accarezzarle la pelle.

«Guardi, le faccio il dieci per cento, proprio perché è lei, ma mi raccomando: silenzio!»

La Lovoi annuì con serietà.

Mimma confezionò un elegante pacchetto pieno di fiocchi e campanellini, intascò veloce i soldi, poi salutò con mille auguri.

«Buon Natale, signora, vedrà che figurone! Mi faccia sapere che ne pensano le sue amiche.»

Le aprì la porta e quella finalmente sparì.

L’anno lo chiudeva con un grosso guadagno, più di quanto avrebbe potuto immaginare. Il segreto del suo successo stava nell’aumentare del venti per cento il prezzo della merce, per far finta poi di praticare forti sconti.

“Il commercio è psicologia pura” si compiaceva mentre rimetteva in cassaforte i gioielli. “Bisogna conoscere le persone e prevenire le loro reazioni.”

Infilò i regalini per le nipoti nella borsa, indossò il cappotto e si avviò verso casa. Non vedeva l’ora di riabbracciarle.

«Mamma, hai preparato i letti?» domandò appena aperta la porta.

«Ma certo. Se aspettavo a tia, Vituzzo il letto se lo poteva conzare da solo» la rimproverò Concettina.

Sua madre non perdeva occasione per sottolineare quelle che, nella sua rigidità, considerava delle vere e proprie inadempienze. E pensare che, fin da bambina, Mimma non aveva fatto altro che rinunciare alle cose migliori per favorire il fratello. E lavorava così tanto per poter comprare la casa alle nipoti. Persino Libertino s’era sacrificato per Vito. Avevano lasciato Sommatino per Caltanissetta, accogliendo la suocera in casa. Quando suo fratello s’era sposato, gli avevano aperto la porta con molta generosità.

«Ma che disturbo» aveva ribadito Mimma, «capi la casa quantu voli u patruni», e aveva tirato su due pareti di stoffa per delimitare una camera. Certo il letto era in discesa, le reti unite con uno spago avevano altezze diverse, ma quanto avevano riso ogni volta che Vito imprecava perché scivolava sulla moglie a causa della pendenza. «Ogni impedimento è giovamento» commentava felice Adalgisa, che non le pareva vero di trovarsi abbracciata al marito.

«Libertino è a casa?» domandò alla madre.

Gli aveva chiesto di tornare in tempo per aiutarla a preparare la cena. Nulla di sofisticato, figuriamoci, le solite patate e il solito riso, «ché a Vituzzo ci dole la panza» s’era preoccupata Concettina, e intanto aveva tagliato un’altra maglia di lana per fare una pancera: «Aiuta la digestione».

«Promesso» le aveva assicurato Libertino. Ma quello aveva una percezione del tempo tutta sua, viveva con un ritmo autonomo rispetto al resto dell’umanità. Tardi, presto: erano concetti che non gli appartenevano. Seguiva un suo metronomo interno che a Mimma appariva lento, abituata al fratello che conduceva una vita convulsa tra Caltanissetta, Catania e Palermo, roso da una sorta di insoddisfazione che lo faceva assomigliare a un cronometro impazzito.

«Che vita è la sua?» chiedeva talvolta Libertino.

«La stessa vita che faceva mio fratello Filippo» rispondeva sgarbata Concettina, che attraverso il figlio aveva potuto finalmente realizzare il suo antico sogno. E pazienza se “Vituzzo è sempre stanco e si consuma l’esistenza”.

Le due donne si misero alla finestra. A tratti fioccava e loro erano in ansia, ché la strada per salire fin là era brutta e piena di curve.

«Ho preparato la camera grande per Adalgisa e le figlie e quella piccola in fondo per Vituzzo. Lavora tanto, figghiuzzu miu, che senza la moglie si riposa meglio» disse Concettina tanto per ingannare l’attesa.

Improvvisa, la sagoma del furgone comparve in fondo alla salita, facendo svanire ogni preoccupazione.

«Dio ti ringrazio» mormorò Mimma, e anche sua madre si concesse un sorriso.

Le bambine fecero le scale con uno scalpiccio gioioso, seguite da Libertino che aveva aspettato gli ospiti al portone. I tacchi di Adalgisa rimbombarono nel lunghissimo corridoio, mentre Vito entrò con il passo pesante dei Cavallotto: lui, quando c’era, c’era veramente.

E furono baci e abbracci, esclamazioni di sorpresa e di felicità. Le picciridde erano cresciute e Adalgisa s’era tagliata i capelli, le stavano bene. Che bella cravatta aveva Vito, sempre così elegante.

«Hai mal di pancia, a mamma? Ti faccio una bella camomilla?»

Fuori era freddo, ma d’un tratto nessuno lo sentì più, gli affetti ritrovati bastarono a scaldarli tutti.

«Vado a cambiarmi» disse Adalgisa.

La suocera la trattenne per un braccio. «Vedi che la tua stanza è quella. Tu dormi là con le bambine.»

«Ma... e Vito dove dorme?» Era la prima volta che la nuora protestava.

«Lassalu stari a Vitu, ca è stanco.»

Adalgisa si avvilì. Aveva sperato di poter recuperare almeno in quei giorni di vacanza un po’ di intimità con il marito che non vedeva mai. Si era illusa che le ragazzine potessero stare con la nonna, così lei avrebbe potuto godere di un po’ di libertà.

All’inizio del matrimonio, quando abitavano tutti insieme, Concettina aveva riconosciuto platealmente alla nuora lo status di padrona, ritagliando per sé il ruolo della serva. E infatti faceva la spesa, le pulizie, le consegnava persino i soldi. Quella, anziché insospettirsi, s’era sentita sollevata: in fondo avrebbe avuto più tempo per la libreria – lei si occupava dei giocattoli e delle valigie. Ed erano vissuti tutti insieme fino alla nascita di Cetti in questo ambiguo equilibrio.

Quando s’era liberata una casa nello stesso palazzo, Vito aveva trasferito la famiglia al piano di sopra. Concettina non aveva accettato quella separazione, pretendendo di andare a vivere con loro.

Mimma s’era opposta: «Mamma, ogni santo vuole il suo altare, stattene da noi e lasciali in pace».

«Non solo faccio la serva, ma pure mi devo sentire rimproverare. Io a Vito lo devo proteggere da tutte le Saracinelli del mondo.»

Bruciava ancora, dopo tanto tempo, il ricordo del fratello.

Concettina anche quella volta s’era impadronita di tutti gli spazi. La sua invadenza non conosceva limiti. Alla sera, prima di andare a letto, chiamava la nuora in disparte e guardandola dritta negli occhi le intimava: «Lassalu stari a Vituzzu, ca è stanco».

Il trasferimento a Catania perciò era stato provvidenziale. E nei primi mesi, all’ora di pranzo, quando la gente normale mangiava, i coniugi Cavallotto se ne tornavano nella casa deserta e sperimentavano, in tutta tranquillità, quello che fino a quel momento non s’erano potuti concedere.

Fuori, la neve si era infittita e un manto bianco ingentiliva il paesaggio.

Mimma prese Adalgisa per un braccio e la tirò in un angolo. «Non preoccuparti» le disse, «ho pensato che le bambine possono dormire con me e Libertino; così magari tu e Vito...»

Le fu grata dell’offerta e la guardò con occhi riconoscenti.

Mimma pensò che forse quello era il momento giusto: «Se invece ve le volete tenere voi, magari possiamo averne una sola. Chessò, Luisa?». Aspettò qualche secondo e aggiunse: «Intendo dire, non solo per queste vacanze, ma finché non cresce e si sposa».

Intanto guardava Luisa e se la mangiava con gli occhi. Adorava quella nipotina magra come una filinia, e così elegante quando se ne stava con la schiena dritta e i piedi a papera in prima posizione. Se l’era portata in negozio molte volte. Le sembrava di giocare alle bambole con quello scriccioletto. La metteva seduta sul bancone e le faceva indossare i gioielli più preziosi. Ah, com’era bella quella bambina, così aggraziata e dai movimenti leggeri! «A parera devi fare» le diceva orgogliosa, «l’indossatrice.» Luisa quella parola non sapeva proprio cosa significasse, ma per compiacere la zia scendeva lesta per terra, facendo tintinnare bracciali e collane, volteggiava sulle punte, accennava tre piroette di filato e terminava con una spaccata. E la zia, stringendola forte al petto, le prometteva che l’avrebbe portata a Milano per farle vedere uno spettacolo alla Scala. Magari in braccio, ma era sicura che ce l’avrebbe portata.

«È Natale, Argisa, lasciamela, fammi questo regalo. Voi ve ne tornate a casa... Chessò, quando eravate a Catania non mi sentivo così sola. Ma ora sapervi a Palermo è come se foste in capo al mondo.»

«Fosse per me» rispose Adalgisa «ti direi subito di sì, ma Vito...» Lei la capiva quella donna senza figli che se ne moriva dietro alle nipoti.

«La mia proposta è questa: ho visto che sei stanca, tre bambine una dietro l’altra non è una passeggiata. Lavori molto, Vito è sempre in giro e a Palermo non hai nessuno. Tu ti tieni le due più grandi, e la piccola resta con me. Le ho pure donato il sangue, me la sento un po’ figlia mia.»

Povera Mimma, da quando s’era sposata ogni notte aveva fatto l’amore con la convinzione prima, con il desiderio poi, con la speranza infine di rimanere incinta. Nel corso degli anni s’era rassegnata a quella punizione del padreterno. Colpa di Libertino e di quelle signorine con cui si era accompagnato prima del matrimonio. Ma lei che cosa doveva espiare?

Adalgisa l’abbracciò con tenerezza. Lei gliel’avrebbe data volentieri la figlia, dopo tutti i sacrifici che la cognata aveva fatto per loro meritava un gesto di gratitudine. E poi le donne queste cose le capiscono, e la solidarietà sanno cos’è.

Vito, al solito, era arrivato alle loro spalle e aveva ascoltato. I suoi occhi, di solito dolci e quieti come un mare familiare, erano agitati da un gorgo furioso. Prese la sorella per un braccio. «Ne avessi anche mille di figli, non mi priverei di nessuno» esclamò furibondo, e si chiuse nella camera senza voler cenare.

Adalgisa s’arrabbiò. Mai avrebbe potuto immaginare nel marito tanta ingratitudine e sperò che quel Natale passasse presto. “Fortuna che viene una volta l’anno” si disse.

Nella stanza accanto, le sorelle Cavallotto saltavano sul letto e cantavano a squarciagola: «Peccato che il Natale venga solo una volta l’anno!».