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Adalgisa D’Ambra

Taormina, luglio 1963

L’albergo non era lussuoso, ma la stanza grande, con una meravigliosa vista su Isola Bella.

Vito si sedette sul letto. Adalgisa lo accarezzò, lui le trattenne la mano e cominciò a coprirla di tanti piccoli baci. Stavano per avventurarsi sul terreno accidentato dell’amore, lui con sicurezza – era un uomo, mica un ragazzo –, lei con curiosità, ché da troppo tempo reprimeva le sue fantasie: tessuti trasparenti e pizzi che rivelavano corpi nudi e umidi, membra aggrovigliate, ardite acrobazie l’assalivano improvvise anche mentre era immersa nel lavoro. Di tutto ciò lei capiva poco, ma la guidava una fiducia sconfinata nell’uomo che aveva scelto come compagno di vita.

L’ansia e l’eccitazione avevano riempito lo spazio tra loro. Iniziava una vita nuova per entrambi e le loro teste erano impelagate in riflessioni e interrogativi.

Adalgisa aveva una visione romantica dell’amore, lo immaginava fatto di telefonate, lettere, fiori, sussurri sulla punta delle labbra, qualche bacio al chiaro di luna. Tutte cose che suo marito non le aveva mai fatto mancare, con la sola eccezione di quelle parole affettuose che si vergognava a pronunciare. I discorsi gli facevano difetto, ma sapeva agire con decisione, e questo conta molto di più per una moglie.

Fin dall’inizio del loro fidanzamento, Vito aveva percepito tutta l’innocenza della ragazza dalla faccia larga e la bocca rosso vermiglio. Così, qualche giorno prima del matrimonio, in una di quelle sere trascorse alla villa comunale tra baci e carezze, di cui lei non aveva mai abbastanza, l’uomo si era offerto di fornirle qualche spiegazione.

«Adalgisa» le aveva sussurrato all’orecchio, «sai che c’è un libro per ogni aspetto della vita... Ne vorresti uno sul sesso?»

L’ultima parola era stata un sibilo che si era mischiato con il suo respiro reso affannoso dall’eccitazione.

«Ma va’» era scattata lei accavallando le gambe con fare sensuale. «Ti pare che ce ne sia bisogno?» Faceva la spavalda, non le piaceva passare per una scimunita.

Lui non aveva aggiunto altro, non se l’era sentita di insistere, però le aveva mostrato un volumetto che teneva nascosto nella tasca: «Se te ne venisse curiosità...».

Adalgisa l’aveva rifiutato con un gesto di sdegno. “La mamma dovrà pur darmi qualche consiglio” s’era detta, e inoltre confidava nelle sorelle e in Mimma. Ma nessuna di loro aveva affrontato l’argomento. La cognata in compenso, dopo il ricevimento, mentre lei saliva sulla 1100 rossa fiammante che li avrebbe portati a Taormina, l’aveva tirata in disparte e le aveva suggerito a fil di voce: «Tu pigghiasti u pannu?».

La giovane sposa aveva riso di lei. «Come sei antica» l’aveva canzonata. «Io utilizzo gli assorbenti usa e getta.»

Mimma era arrossita e s’era congedata con un saluto colmo di imbarazzo.

«Vado a prendere un whisky mentre tu ti prepari» disse Vito. Aveva bisogno di allentare l’ansia che gli procurava la prospettiva di avere a che fare con una vergine.

Inoltre erano entrambi stremati dalle emozioni e dal viaggio particolarmente faticoso a causa di un finestrino rotto che impediva all’aria di circolare. Ancora fino a Enna la temperatura era sopportabile e gli sposi avevano imboccato con entusiasmo la provinciale, un tortuoso budello che si dipanava tra colline brulle e giallognole. Si erano fermati al lago Sfondato per infilare i piedi nell’acqua gelida, ridendo come due bambini. Fiduciosi erano poi risaliti in macchina. Sulla strada per Enna s’erano trovati immersi in un banco di nubi cotonose. Adalgisa avrebbe voluto allungare le braccia per toccarle, ma il finestrino era irrimediabilmente chiuso. Al lago di Pergusa, una distesa d’acqua rossa come sangue, una fretta improvvisa aveva spinto Vito a pigiare sull’acceleratore, forse per via del caldo, ché l’aria s’era fatta rovente. Lei, nonostante la velocità le facesse paura, era rimasta zitta. Una irragionevole tensione però aveva riempito l’abitacolo. Solo davanti ai faraglioni di Acitrezza il loro respiro si era normalizzato e avevano ripreso a sorridere davanti a quei guardiani inamovibili. “Sarà quel che sarà” aveva pensato Adalgisa mentre lui la baciava.

«Se hai bisogno di me, sono al bar» le ripeté Vito, e si chiuse la porta alle spalle.

Lei ringraziò Iddio per quel momento di insperata solitudine: avrebbe potuto fare un bagno e spogliarsi senza che lui la vedesse.

Fece scattare le serrature della valigia, sollevò il coperchio e tirò fuori una lunga camicia da notte di nylon e pizzo.

Alle sue sorelle non era piaciuta. «Sei nuda» le avevano detto scandalizzate vedendogliela addosso. Il suo corpo piccolo e muscoloso occhieggiava provocante dal tessuto leggero. Il seno sgusciava fuori dall’ampia scollatura, il pube era una macchia scura che irrompeva da un medaglione traforato. Sembrava un cioccolatino senza la stagnola intorno. Allora s’era fatta cucire una fodera di taffetà. Il pesante paludamento però rischiava di diventare una barriera anziché un invito. «Tanto non la terrai addosso a lungo» l’aveva presa in giro la sartina.

Adalgisa si tolse i vestiti e s’infilò nella vasca. Piano piano, l’acqua tiepida si portò via la stanchezza. Girò il collo da una parte e dall’altra per allentare la rigidità della nuca, appoggiò la testa sul bordo di ceramica e chiuse gli occhi.

Quella giornata era stata un costante susseguirsi di emozioni. Si era messa a piangere dalla felicità quando aveva indossato l’abito bianco, anche se non aveva potuto comprarne uno nuovo e si era dovuta accontentare di quello già usato dalle sue sorelle.

«Guarda com’è venuto bene!» le aveva detto orgogliosa Marietta scartando i chilometri di carta velina che lo avvolgevano.

«Ohhh...» Anche il padre s’era meravigliato di tanta eleganza.

Il corpetto, tempestato di mughetti in rilievo e incollato al torace, faceva risaltare il suo seno armonioso. Almeno per quel giorno, aveva potuto dimenticare l’aggettivo “scarsulidda”, bruttina, che la perseguitava da che era picciridda. Era stata la zia Angela a dire che Adalgisa era “la cchiù scarsulidda, anche se la cchiù aguriusa”. E, a furia di sentirselo ripetere, s’era in effetti convinta di essere, rispetto alle sue bellissime sorelle, un brutto anatroccolo.

In realtà la zia voleva un figlio tutto per sé e, disperando di poterne avere, mirava a ottenere l’affidamento della nipote. Perciò ne sminuiva il valore: per convincere la cognata a disfarsene. Ma, nonostante lo sdegnato rifiuto della mamma, la bambina s’era amminchiata su quella parola. Perciò, alla sera, prima di andare a letto, preoccupata domandava a sua madre: «Mammì, e si t’arrestu ’ncapo a panza?».

«Megghiu» la tranquillizzava la donna, «accussì ridiamo di più.»

Diventata donna, Adalgisa la certezza della sua avvenenza l’aveva cercata negli sguardi degli uomini, a cominciare da quell’orrendo salumiere che l’aspettava ogni mattina sulla soglia del suo negozio, con il fiato grosso e la bava alla bocca.

La ragazza, bella non lo era mai stata, ma carina e affascinante sì. Il suo corpo era piccolo e pieno di muscoli ben disegnati: merito della ginnastica che lei praticava con impegno, tanto che era persino diventata campionessa di salto in lungo. Il seno si ergeva sotto le camicette semplici ed era in armonia con i fianchi stretti e le spalle larghe. Ma era soprattutto il contrasto tra la sensualità del suo corpo e l’ingenuità del viso a renderla, in fin dei conti, attraente. Un po’ bambina, un po’ puttana, Adalgisa riscuoteva sempre più consensi.

Dopo la scuola, s’era impiegata come ragioniera in un ente pubblico. Ogni mattina, traballando sui tacchi alti, scendeva per il corso e, sorridendo tutto intorno, raggiungeva l’ufficio. Gli uomini le sbavavano dietro, compreso il suo direttore, un tipo brutto, rosso di capelli e con l’espressione lasciva. E il suo collega Pietrino, che biascicava frasi oscene ogni volta che la incontrava.

Lei odiava quei sospiri bramosi e gli sguardi arrapati. Solo Vito aveva saputo conquistarla, fissandola con desiderio ma anche con rispetto. Nei suoi occhi profondi aveva trovato un abisso e lì dentro s’era persa.

Adalgisa cominciò a insaponarsi meticolosamente. Le sue mani scivolavano sulla pelle bagnata anticipando di poco il piacere che aspettava da mesi. Era così felice e si sentiva libera, finalmente! Adesso era la moglie di Vito Cavallotto e non doveva più rendere conto a suo padre, un uomo mite che talvolta però diventava aggressivo per affermare la sua autorità. Figuriamoci: con tutte quelle femmine in famiglia, il signor D’Ambra aveva rinunciato da tempo a farsi ubbidire dalle quattro figlie, ma sua moglie aveva fatto le spese di quella finta arrendevolezza.

“Povera mamma” pensò Adalgisa, “quante ne ha dovute sopportare...”

Ancora le rimbombavano nelle orecchie le sfuriate che il padre faceva quando lei e le sue sorelle andavano a ballare.

Pure quella volta che Vito le aveva telefonato nel cuore della notte – e allora non erano neppure fidanzati –, il signor D’Ambra aveva urlato contro la moglie.

Il telefono aveva squillato a mezzanotte esatta. Le luci si erano accese nelle camere da letto, tutte nello stesso momento.

«Ma chi è a quest’ora?» aveva urlato il capofamiglia. Poi era corso a rispondere, mentre la moglie in sottofondo ripeteva come una giaculatoria: «Bedda matri, sapi chi successe!».

Solo Adalgisa sembrava non aver sentito e continuava a dormire, immobile nel letto, la mano sotto la guancia, i bigodini che sporgevano dal cuscino.

«Pronto? Pronto? Ma chi è?» aveva gridato l’uomo nella cornetta. «Ma chi cerca?»

Poi c’era stata una pausa di silenzio, durante la quale qualcuno aveva parlato all’altro capo del filo. «Un attimo» si era sentito, e subito dopo il rumore della cornetta che sbatteva sulla mensola di vetro, dei passi strascicati nel corridoio e un tuppulìo delicato alla porta.

«Adalgisa, è per te» aveva detto lui trattenendo la sua rabbia.

«Per me?» si era stupita la ragazza. Lentamente si era alzata dal letto sbattendo le palpebre per la sorpresa, e, aggiustandosi il pigiama arrotolato attorno alle ginocchia, si era avviata per il corridoio, seguita in processione dal padre e dalle sorelle.

Aveva preso il telefono tra le mani e se l’era accostato al petto per tappare il microfono. «Grazie» aveva congedato con un sorriso i genitori e le sorelle, come se fosse normale ricevere una telefonata a quell’ora. S’era comportata con una tale naturalezza che i suoi familiari non avevano osato contraddirla, tornando nelle loro stanze. Solo il padre, in preda a un tardivo rigurgito di rabbia, prima di chiudere la porta l’aveva minacciata: «Io non so cu è chistu. Ma o è pazzo o è cretinu. È meglio che lo lasci perdere». Un ammonimento, il suo, che sarebbe caduto nel vuoto.

Adalgisa s’era seduta per terra. Poggiate le spalle al muro, aveva finalmente risposto: «Pronto, Vito? Come ti viene di chiamarmi a quest’ora?».

«Scusa. Ho prenotato la telefonata per le nove, ma c’è stato lo sciopero dei centralinisti, così ho dovuto aspettare per sentirti.»

Lei aveva sollevato i piedi e disegnato piccoli cerchi nell’aria.

«Mi hai scritto?» gli aveva chiesto, con quel tono querulo che assumeva quando era determinata a ottenere qualcosa.

«E tu mi hai pensato?»

«Sì» aveva risposto lei, decisa, attorcigliando il filo della cornetta tra le dita.

«E allora domani ti spedisco la lettera. Ma tu lo sai che non sono bravo con le parole.»

«Ma la desidero tanto» aveva detto Adalgisa, aggiungendo poi premurosa: «Sei stanco?».

«No, mi piace andare alla fiera, incontrare gli editori, imparare cose nuove. Mi sento carico di energia e progetti.»

«Sono orgogliosa di te.»

«Grazie.»

Erano scoppiati a ridere: con tutti quei convenevoli si erano sentiti ridicoli.

Avevano continuato a mormorare frasi smozzicate e raccomandazioni, ché Adalgisa era molto gelosa, e rassicurazioni anche, ché Vito voleva tenerla tranquilla. Quanti sospiri prima di chiudere: gli innamorati, si sa, odiano stare lontani.

Le sue sorelle l’avevano aspettata in piedi per bersagliarla di domande.

«Chi era?»

«Vito Cavallotto.»

«Ma chi, quello della libreria?»

«Sì, ma non sono fatti vostri.»

«Ma sei proprio una bastarda. E come ti metti con l’impiegata della libreria?»

«Ma chi, Sisina?»

«Lei. Non è tua amica?»

Lo era stata finché Adalgisa non s’era messa in testa di sedurre il libraio. Allora era scoppiata una guerra silenziosa, che l’una combatteva a colpi di rossetto, l’altra lavorando senza sosta.

«Ma cosa hai architettato per farla fuori?» aveva insistito Emma. «Quella ha pure il consenso della madre, donna Concettina.»

«Se promettete di lasciarmi in pace ve lo dico.»

«Promesso» avevano risposto in coro le sorelle.

«Le ho trovato un posto di lavoro migliore, con un salario più alto e un orario ridotto.»

«E lei si è lasciata convincere?»

«Lei ancora no, ma ho persuaso il padre. “È un’occasione magnifica!” gli ho spiegato, e lui ha già detto a Sisina che si deve licenziare e accettare il nuovo impiego.»

«Ma sei un diavolo!» aveva commentato Olga, un po’ compiaciuta, un po’ preoccupata.

«In amore tutto è permesso» aveva tagliato corto Adalgisa. «E adesso dormiamo.»

«No, prima facciamo la magia.»

Allora s’erano strette in cerchio, avevano unito le braccia e occhi negli occhi avevano pronunciato: «Arrinesci, arrinesci». Era un rito che si erano inventate da bambine, serviva a realizzare i desideri, propiziare la sorte, rafforzare la fortuna.

“E ora eccomi qui ad aspettare mio marito” si disse Adalgisa. Riaprì il rubinetto, stavolta l’acqua fredda la colpì al centro del petto, ebbe un tuffo al cuore e rabbrividì. Subito provò un senso di profondo benessere. Il caldo accumulato s’era sciolto, una tiepida lieve eccitazione cominciava a farle fremere la pelle. Uscì dalla vasca e la sciacquò scrupolosamente, voleva lasciare tutto pulito e in ordine. Cosa avrebbero pensato altrimenti i proprietari dell’albergo?

Si asciugò con cura e rovistò nella valigia alla ricerca del pettine e del profumo. Si trovò tra le mani anche la famosa lettera espresso, l’unica che Vito le avesse spedito durante il fidanzamento. L’annusò: profumava ancora di dopobarba. Quanto l’aveva aspettata, sembrava non dovesse mai arrivare! Il postino gliel’aveva consegnata ammiccando e lei s’era sentita avvampare per l’emozione.

L’aveva conservata sotto i vestiti a contatto con il seno e, una volta in ufficio, si era chiusa nel bagno per leggerla in santa pace. Aveva esitato prima di tirar fuori il cartoncino color avorio dai bordi tagliati a mano.

Mentre le sembrava di annegare nella commozione, Pietrino, il suo collega sporcaccione, le aveva biascicato nella serratura: «La liccassi tutta».

Lei era trasalita, le attenzioni di quell’uomo la facevano sentire sporca, colpevole. Quel giorno – sarà stato merito della lettera – aveva trovato la forza di reagire e sferrato un calcio alla porta. «Vattene!» s’era messa a urlare. Poi, ritrovata la giusta serenità, aveva letto; “Pensieri vivissimi” c’era scritto soltanto. Tutto qui? E dov’erano le parole d’amore che lei si aspettava? “Devo ridere? Arrabbiarmi? Commuovermi?” si era chiesta, e intanto rifletteva su quelle sette sillabe. “Vito è signore, gentiluomo, pieno di pensieri delicati, timido; di certo non mi prende in giro.” «Non come certi bastardi!» aveva urlato verso la porta. Poi s’era sciolta in lacrime.

Adalgisa cotonò i capelli, si diede il rossetto e indossò la camicia. “Com’è che ancora non torna?” si chiese. Mise a posto anche gli abiti di lui. Le piaceva giocare alla mogliettina e voleva godersi ogni momento di quella luna di miele, ché al ritorno, già lo sapeva, il marito l’avrebbe dovuto dividere con la suocera. “Addio intimità” si disse pensando a quella forzata coabitazione.

La faccia torva di Concettina, Adalgisa se l’era trovata davanti fin dal primo momento, ogni volta che passava dalla libreria. Succedeva al mattino e alla sera, ché il suo ufficio si trovava al primo piano dello stesso palazzo. Per sfuggire alle molestie dell’implacabile Pietrino, la ragazza, finito l’orario di lavoro, scappava via di corsa. Infilava il cappotto lungo le scale, si fermava davanti alla vetrina per annodarsi il foulard, talvolta entrava con la scusa di salutare Sisina.

Concettina Ciuni la accoglieva con un grugnito. Non che non le piacesse quella ragazza che faceva gli occhi dolci a Vito, ma ne era gelosa. Se il figlio avesse ceduto alle sue grazie, lei di sicuro sarebbe stata cacciata via un’altra volta.

«Chista è come la Saracinelli» aveva confidato alla figlia Mimma. «Chidda si pigghiò a Filippo e chista si voli pigghiari a Vituzzo mio. E poi avi i cianchi stritti stritti, ’na fimmina accussì nun po’ resistiri al travagghiu.» La forma ad anfora di Sisina la convinceva di più, sia per le gravidanze, ché lei i nipoti li voleva, sia per il lavoro, ché la tesi degli ormoni “che fanno crescere minne e cianchi per resistere megghiu al travagghiu” l’aveva fatta sua.

Adalgisa dal canto suo era determinata a sposarselo, quel libraio silenzioso, impipandosene dell’ostilità della madre. Così s’inventava mille scuse per parlare direttamente con lui: i libri per la sorella, la ricerca di un manuale per ragionieri. Vito sempre lì tra le sue carte, buongiorno e buonasera: sembrava inarrivabile.

Un giorno Adalgisa aveva chiesto a Sisina di accompagnarla alla posta, odiava girare da sola.

«Non posso venire» aveva risposto l’amica e, indicando il principale, aveva aggiunto: «Devi chiederlo a lui il permesso».

Adalgisa allora s’era avvicinata al bancone.

«Signor Cavallotto» aveva sussurrato con voce flautata e il più smagliante dei suoi sorrisi.

«Sì?»

Vito aveva sollevato appena gli occhi e l’aveva guardata in un modo che lei si era sentita subito bella. La sua immaginazione si era accesa e, ubbidendo a un impulso sconosciuto, gli aveva strappato il libro dalle mani.

«Ma che sta leggendo con tanto interesse?» aveva chiesto. Era rimasta con il busto appoggiato sul ripiano di legno che la divideva da Vito, e con i piedi penzoloni nell’aria. Il suo corpo era proteso verso di lui come se gli si volesse offrire.

Il libraio l’aveva guardata esterrefatto, poi s’era ripreso il volume con un gesto gentile. Le loro mani si erano sfiorate. La scossa l’avevano percepita entrambi, forte e per tutto il corpo.

«Nulla di interessante.»

Lei aveva riso spalancando la bocca e, inclinato il collo all’indietro, gli aveva mostrato la gola bianca. Era una risata sfacciata e innocente al tempo stesso.

«E allura picchì lu legge?» l’aveva provocato. Quanto le piaceva sedurre.

Concettina seguiva la scena: l’interesse del figlio per quella ragazza era evidente. Così, ondeggiando sui suoi piedi deformati da due grosse cipolle, era stata lesta a intervenire: «Può venire, può venire. Sisina, accompagna la tua amica alla posta» le aveva congedate sgarbata.

Adalgisa, ignorata la donna, s’era di nuovo rivolta a Vito, che era sembrato uniformarsi ai doveri della madre: «Per me...».

Dopo quella prima volta, Adalgisa e Vito si erano rincontrati casualmente per strada. Lei stava attraversando sulle strisce pedonali, lui aveva bloccato la macchina. Le era sembrato un gesto galante. In un’altra occasione, avevano fatto insieme un pezzo di tragitto a piedi. Poi avevano preso l’abitudine di bere un caffè al bar prima del lavoro. Lei desiderava in modo spasmodico di essere baciata, ma lui sembrava non averne alcuna voglia. Finché, un giorno di giugno, era successo davvero: stavano gustando un gelato alla villa comunale quando Vito l’aveva baciata con le labbra sporche di pistacchio.

“Ah, quanto ho dovuto penare prima di fidanzarmi” sospirò Adalgisa, riponendo le cravatte nella gruccia. “Tra mia suocera che non voleva mollare e mio padre che attendeva di sposare prima le mie sorelle... Ma dov’è finito mio marito?” Quanto le piaceva quella nuova parola.

La stava facendo aspettare giusto la prima notte di nozze. Ma com’è che quell’uomo si faceva sempre atteniri? A dirla tutta, Adalgisa aveva nutrito in passato alcuni dubbi sulla virilità di Vito, c’erano delle cose di lui che non la facevano stare tranquilla.

«Non sa nuotare» aveva raccontato a sua sorella Emma, che le aveva risposto: «Cosa c’entra? È un uomo, non un pesce». E lei s’era chetata.

Quando l’aveva visto in costume al mare, era rimasta turbata dalla sua pelle liscia come quella di una donna e con pochi peli. Ma quella sera stessa le carezze di lui l’avevano fatta avvampare, e lei non c’aveva più pensato.

«Non sa ballare» aveva poi detto alla madre.

«Si vede che è uno serio.»

«E non urla mai...»

«Vuoi fare la fine mia? Sai quante volte ho pregato Dio perché facesse diventare muto tuo padre?»

Ma tutto questo tempo al bar, la prima notte di nozze... I dubbi stavano riaffiorando e rischiavano di guastarle il piacere che quella camicia da notte le procurava.

Le gocce di sudore scendevano lungo le curve del suo corpo e si arrestavano nelle pieghe. Gli strati di nylon e taffetà le si erano appiccicati alla pelle come un velo di plastica. Avrebbe voluto strapparsela di dosso, ma ci teneva a essere elegante. Sollevò i capelli per liberare il collo, non c’era un alito di vento. Fuori una spiaggia scura e il mare immoto, come un campo impietrito dalla siccità. C’era una luce d’argento su Isola Bella, che si stagliava nera e misteriosa al centro della baia.

Sperò che dall’acqua si levasse un po’ di frescura. Guardò l’orologio. Il suo desiderio cresceva.

«Hai qualche preoccupazione?» le chiese Vito. Era rientrato e lei non se n’era accorta. Da un po’ la stava osservando come incantato.

Adalgisa sorrise, finalmente libera di farlo. La suocera, durante il ricevimento, l’aveva rimproverata più volte: «Un s’ha mai vistu una sposina ca’ ride!» le aveva sibilato durante il taglio della torta, e lei, ubbidiente, s’era affrettata a serrare le labbra. Ma poi Vito le aveva mormorato una sciocchezza all’orecchio ed era scoppiata in una risata fragorosa. Cosa poteva farci se si sentiva felice?

Il marito la baciò, aveva un sapore forte, di alcol e sigarette. Lei socchiuse le labbra e si fermò in attesa. Non sapeva cos’altro fare.

Vito la prese in braccio, la sollevò come fosse una bambina e la poggiò delicatamente sul letto.

«Sei tutta sudata» constatò passandole una mano sul seno.

«Fa molto caldo.»

Continuò a baciarla e ad accarezzarla. Anche a lui, come a Libertino, le signorine della pensione Nives avevano svelato le regole dell’amore, e la lentezza era la prima. La tenne stretta per un tempo infinito, finché non la sentì calda e liquida come cera. Fu allora che le tolse la camicia e il corpo di Adalgisa si allargò nel letto come acqua fuori dal suo contenitore. La osservò alla luce della luna: aveva gli occhi e i pugni serrati. Le allentò le dita, una per una. Sapeva di dover essere paziente, ché di solito non è la prima notte la più bella e soddisfacente, ma la centesima. Le baciò le palpebre, le guance, il collo, il seno. Scese fino alla pancia, poi più giù ancora, e man mano Adalgisa riprendeva forma. Lei si abbandonò, sentì il suo corpo contrarsi, aprirsi e di nuovo stringersi. Erano due e sembravano uno, era uno che a tratti si divideva in due.

Il respiro di lui si fece corto, quello di lei profondo.

La mattina dopo si alzarono presto, sul lenzuolo le tracce evidenti della loro fusione. Adalgisa comprese d’un tratto il significato di quella sibillina raccomandazione di Mimma: “Tu pigghiasti u pannu?”. Prima di partire volle lavare le lenzuola. Che cosa avrebbero potuto pensare di lei i proprietari dell’albergo?