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Luisa Saracinelli
Palermo, maggio 1930
«Sssh!» Luisa fece cenno al marito di tacere.
«Va bene» sussurrò Filippo, e un attimo dopo si mise a sghignazzare.
«Sssh!» ripeté lei. «Se Concettina scopre che abbiamo bevuto anche questa sera... sai che figura!»
Ridacchiò e il marito le chiuse la bocca con un bacio. Salirono le scale di casa inciampando nei loro stessi piedi.
Erano ubriachi di vino e felicità.
Si erano sposati a Firenze in gran segreto alla fine dell’inverno. Era successo tutto molto in fretta. Avevano scoperto di amarsi mentre lui era ancora fidanzato con Maria Spagnuolo, almeno formalmente, ché le cose non dette non sono mai avvenute.
Maria gli aveva scritto in ottobre: “Un surciteddu di testa sbintata / Avìa pigghiatu la via di l’acitu, / E faciva ’na vita scialacquata / Cu l’amiciuni di lu so’ partitu” recitava la lettera. Era un modo poetico per sollecitare un incontro. Non si vedevano da mesi. Quelle parole avevano colpito nel segno: Filippo si era deciso finalmente a tornare a casa per chiarire una volta per tutte la sua situazione. Comunicato alla contessa Saracinelli che aveva degli affari da sistemare e sarebbe mancato due giorni appena, era salito su un treno. Appena sceso alla stazione di Palermo, s’era diretto a casa della “fidanzata”.
«Ti lascio, sono innamorato di un’altra» le aveva detto senza neanche varcare la soglia. Lei né aveva pianto né si era disperata: finalmente avrebbe trovato un po’ di pace in famiglia.
«Meglio tardi che mai» aveva risposto gelida. Già nel pomeriggio avrebbe cominciato a guardarsi intorno: di tempo da perdere non ce n’era.
Subito dopo, Filippo aveva affittato una bella casa in piazza Olivella, con un magnifico terrazzo sulla chiesa di Sant’Ignazio. Quindi si era procurato un piccolo anello in argento e piombo ed era risalito sul treno per Firenze.
Luisa aveva detto di sì senza neanche chiedere il permesso al padre. Quel libraio siciliano dal tratto visionario e con la vocazione dell’editore le piaceva molto. Si erano trovati subito, lui con la sua ambizione e lei con la sua mondanità. Quando si dice le affinità elettive. Appena dopo la cerimonia erano partiti per la Sicilia.
Arrivati a Palermo, Luisa per prima cosa aveva preteso che il marito la accompagnasse alla libreria.
«Buongiorno, signora contessa.» Le impiegate s’erano fatte trovare schierate sulla porta come facevano nelle grandi occasioni. Lei, risposto al saluto con un cenno altezzoso, le aveva congedate. Si sentiva già padrona. “Tutte queste signorine con il grembiule nero... sembra di essere dentro un orfanotrofio.” Ci volevano degli impiegati competenti, non dei semplici commessi. Aveva deciso che nei giorni successivi si sarebbe messa in cerca di due giovani apprendisti: tutte quelle femmine le mettevano malinconia e comunque “la varietà è ricchezza”.
La libreria era bella, niente da dire, doveva essere soltanto un po’ svecchiata. Il magazzino le era sembrato ben fornito e il catalogo denso di titoli come nei grandi punti vendita di Milano. La piazza era centrale, di movimento ce n’era.
Concettina, nascosta nell’ammezzato, aveva spiato tutto ed era molto preoccupata. “Vabbe’ che è contessa, vabbe’ che è elegante... ma minchia, Filippo pare uno scimunito dietro a lei!”
Avrebbe preferito prendere due calci nel sedere piuttosto che affrontare faccia a faccia la cognata, ma suo fratello era salito a stanarla.
«Signora contessa...» l’aveva salutata accennando un inchino.
Luisa era scoppiata a ridere tendendo le braccia. «Ma quale contessa, siamo una famiglia! Io mi chiamo Luisella.»
Filippo allora aveva dato una spinta a quel baccalà della sorella. La Saracinelli, per fugare ogni imbarazzo, «i baci ce li daremo a casa» aveva detto, «quando non ci vedrà nessuno».
La mattina dopo, le due donne si erano trovate sole in cucina, una avvolta in un négligé di seta bianca, l’altra ingoffata dalla solita gonna di tessuto scuro.
«Mia cara» aveva esordito Luisa con il più mellifluo dei toni, «finora sei stata tu la regina, e io non mi sento di spodestarti, perciò io e Filippo, di comune accordo, abbiamo deciso che sarai tu a occuparti delle faccende domestiche.»
Concettina aveva sorriso piena di gratitudine. “Certe volte una si spaventa per nulla. Mi scantavo di dover tornare a Sommatino, e invece...” pensò abbassando la guardia. Non si era accorta della trappola nella quale stava già cadendo.
«Come volete voi» aveva risposto fiduciosa. «Allora mi sbrigo così corro al negozio.»
«No, aspetta. È proprio di questo che volevo parlarti. Ci dispiacerebbe, a me e a Filippo, che ti affaticassi troppo, perciò da oggi alla libreria sarò io a pensarci» e l’aveva stretta in un abbraccio ipocrita.
Concettina era rimasta di sasso. Si era resa conto che la cognata l’aveva appena trasformata in una serva, e stava per dirgliene quattro. Quando però la contessa le aveva chiesto la colazione, era stata lesta ad accontentarla. “’Nzà ma’ quella ci ripensa e mi rimanda al paese dai miei” si era detta, “ché è meglio serva nella capitale che padrona a Sommatino.”
«Ho voglia di darti un bacio» disse Filippo, che aveva smaltito il vino ma non la felicità.
«Aspetta almeno di arrivare in camera da letto» lo fermò la moglie. «Vuoi che ci veda tua sorella?»
«Non sia mai» rispose lui sgranando gli occhi e facendo il verso a Concettina.
Tra sussurri e baci raggiunsero la camera e si chiusero dentro. Appena girata la chiave nella serratura, sospirarono entrambi di sollievo. «Ora possiamo parlare e cantare quanto ci pare!»
Luisa aprì la finestra. «Senti che odore?»
Il loro terrazzo nel mese di maggio si riempiva di fiori e i profumi si mescolavano alla rinfusa, spesso però il gelsomino prendeva il sopravvento, prima di tornare a confondersi con le rose e il plumbago. Era un attimo, sufficiente però a svegliare in lei i desideri più arditi.
Si sfilò i lunghi guanti di raso e li posò sul ripiano del cassettone. Si tolse gli orecchini di perle, che mise in un cofanetto sul comodino.
«Come vanno i nuovi apprendisti?» chiese a Filippo. Era sua abitudine informarsi ogni sera della giornata di lavoro.
Il marito la fissava meravigliato: sua moglie era capace di muoversi tra registri diversi senza mai spezzare il filo di erotismo che li aveva uniti fin dalla prima volta.
«Guarda, non saprei. Mimmo è un ragazzo tranquillo, scarica le casse di libri senza protestare, fa le consegne in un batter d’occhio, pulisce e mette a posto in silenzio. Una parola è poca e due sono assai. Gran lavoratore, non c’è che dire. Quell’altro invece...»
«Ma chi, Fausto?» lo interruppe lei aiutandolo a togliersi la giacca.
Filippo si allentò la cravatta, slacciò i bottoni della camicia, la pancia saltò fuori. Luisa la morse con delicatezza.
«Proprio lui. Quel picciotto non ha né pace né gana di lavorare. Sposta poltrone, cambia ordine ai libri, pensa, pensa, pensa. Di agire però non se ne parla. Oggi s’amminchiò che vuole togliere i banconi. “Via queste barriere con le persone. Dobbiamo accoglierli come amici” ha detto alla ragioniera. Ma ti pare giusto che si mette a dare ordini?»
Filippo si era inginocchiato davanti alla moglie e le aveva sfilato le scarpe. I suoi occhi vagavano tra un dito e l’altro, gli venne voglia di ciucciarli.
«Tu lo sottovaluti, quel ragazzo. E lascialo fare. L’ho scelto proprio per la sua vivacità.»
Le mani di lui intanto erano risalite lungo le gambe tornite della moglie, e arrivate in cima si erano fermate a palpare quella sottile striscia di carne libera e nuda tra calze e culotte. Lo eccitava il contrasto tra la pelle setosa della coscia e la ruvidità del pizzo. Si insinuò sotto il reggicalze, i ganci di metallo si aprirono con un fruscìo malizioso, tutti e quattro quasi contemporaneamente. Le calze ricaddero lasche, Filippo le arrotolò fino ai malleoli e le tirò via facendo attenzione a non romperle. Rimase per un po’ a godersi la vista delle unghie smaltate che spiccavano come fragole mature nel sottobosco. Afferrò poi un piede e finalmente poté succhiarlo. Lei mugolò, la bocca del marito pareva una ventosa, e cominciò a respirare rumorosamente. Quindi ricadde indietro sul letto e si tirò su la gonna, mostrandosi nella sua interezza.
Filippo adorava quella sua impudicizia. Risalì lungo i polpacci e all’altezza delle ginocchia si fermò quasi fulminato da un’idea improvvisa. Staccò a malincuore le labbra, Luisa aprì gli occhi e lo guardò.
Lui riprese il discorso interrotto: «È troppo indipendente per essere un impiegato. Non ne vuole proprio sapere di ubbidire. Gli ho ripetuto mille volte di scattare in piedi davanti ai clienti e di comportarsi come gli altri. Niente, da un orecchio gli entra e dall’altro gli esce. E si rifiuta di dire: “Il signore desidera?”».
Lei fece una risatina. «Ne parliamo dopo?»
Ma Filippo ne voleva conto e soddisfazione: «Lascia i clienti a vagare da soli per la libreria. Quando secondo lui è il momento buono, gli si avvicina alle spalle sussurrando accattivante: “Se ha bisogno di me... intanto dia uno sguardo alle novità”. Certe volte quelli rimangono spaesati ad arrabattarsi tra gli scaffali».
«È proprio quello che ci vuole» rispose la donna conciliante e lo tirò delicatamente per i capelli.
«Non lo so... se lo dici tu. Però devo ammettere che li conosce tutti per nome e cognome, di ognuno sa vita, professione e gusti letterari.»
Luisa sollevò le gambe e circondò il marito.
Filippo l’accarezzava incessantemente. Quelle sue mani erano uniche, morbide e bianche come quelle di una donna, abili a deliziare e tormentare al tempo stesso.
Continuarono a parlare e ad amarsi sotto le lenzuola. Lo facevano ogni sera ed erano capaci di andare avanti così per tutta la notte.
Dopo l’amore Luisa scivolò nel sonno. Si svegliò che era già pomeriggio e il marito era uscito: nel suo nuovo lavoro di editore non poteva concedersi neanche una mattina di riposo.
Chiamò Concettina.
«Siediti» le disse invitandola con un gesto a prendere posto sui cuscini vicino a lei. «Che ora è?» chiese poi, stirando le braccia verso l’alto. I suoi seni grandi spuntavano dal bordo della scollatura.
«Le dodici.»
«Mamma mia com’è tardi! È che Filippo questa notte non mi ha dato tregua.»
La cognata avvampò e lei sorrise divertita. “Basta nulla a metterla in difficoltà, è proprio una paesanotta” pensò. «Puoi stirarlo per favore?»
Quella afferrò l’abito e corse subito via. Sulla porta Luisa la richiamò: «Scusa, noi torneremo questa sera dopo il teatro. Verranno a cena degli amici, mi raccomando».
La ragazza la guardò preoccupata, quel “mi raccomando” le suonò come un avvertimento.
«Apparecchia come ti ho insegnato io. Forchette a sinistra e coltelli a destra.»
“Destra mano gritta, sinistra mano manca” si ripeté Concettina.
«Non dimenticare le posate del pesce e della frutta. I cucchiaini poi: quelli piccolissimi sono per il caffè; più grandi e larghe le palettine del gelato. I tovaglioli piegati a triangolo sul piatto. La bottiglia storta per far decantare il vino, rosso naturalmente.»
Com’era mondana sua cognata! E Filippo, quello scimunito, le dava conto in tutto.
«E adesso corri! Anzi no, aspetta un attimo, voglio farti sentire una cosa.» Tolse il tappo a una piccola bottiglia di cristallo. «Odora, ti piace?»
L’altra ubbidì e si riempì il petto di quell’aroma sofisticato.
«Be’?»
«Boh...»
«Ambra, muschio, spezie...» suggerì la contessa.
Ma che ne sapeva, povera Concettina, che nella sua vita aveva usato solo sapone e borotalco?
«Buonissimo» disse per tagliare corto e, senza che la contessa potesse aggiungere altro, corse in cucina a scaldare il ferro da stiro.
La bella moglie di Filippo Ciuni si lavò con cura e indossò la biancheria di seta con gesti calmi e studiati. Arrotolò le calze con delicatezza, infilò prima una e poi l’altra. Le sue mani si mossero dal basso verso l’alto afferrando le caviglie e risalendo lungo i polpacci e le ginocchia tonde, finché ogni piega che turbava l’armonia di quel tessuto impalpabile sparì. Agganciò il bordo al reggicalze, quindi infilò la testa dentro a una sottoveste di raso. La sentì scivolare lungo le spalle, i fianchi, le cosce. Afferrò una manciata di gelsomini, che sua cognata le lasciava sempre in una vaschetta sulla toletta, e distribuì i petali delicati nelle coppe del reggiseno. A contatto con la sua pelle calda, dopo pochi secondi, si sprigionò un profumo così intenso che lei per prima ne fu inebriata. Finì di vestirsi davanti allo specchio. «A posto» e si avviò.
Sulle scale incontrò il postino, che con un gesto cerimonioso le consegnò alcune lettere. Lei ringraziò e le chiuse nella borsetta, era troppo tardi per rientrare a casa.
In libreria trovò Fausto all’ingresso. Il giovane apprendista aprì la porta con un inchino e le baciò la mano. «Signora contessa...»
La donna sorrise. «Fausto, che galanteria.»
Il ragazzo sfoderò i suoi denti bianchi. Era giovane ma con le donne ci sapeva fare.
«Mio marito?»
«L’aspetta nel mezzanino.»
La contessa salì le scale con passo da attrice. Il suo busto dritto e affusolato era inchiodato ai fianchi, che invece oscillavano sui tacchi sottili.
Filippo sembrava preoccupato.
«Che hai?» gli domandò abbracciandolo come se non lo vedesse da mesi.
«Ecco, ho appena parlato con Croce per quei due saggi che vorrei pubblicare.»
«Questa sì che è una notizia.»
Lui però sembrava contrariato.
«Non sei contento? Quello è un filosofo importante.»
«Sì, ma sono un po’ indeciso. La sua posizione nei confronti del fascismo...»
«E che te ne importa?»
«Be’, ma io sono fascista.»
«E allora?»
«Non so, non mi sembra opportuno.»
«Senti, Filippo, se vuoi fare l’editore non devi stare a pensare a nulla. Ti piace quello che scrive Croce? E allora pubblicalo. Gli editori se ne fottono di queste cose.»
Lui la guardò con un’espressione dubbiosa.
«Tu pubblicalo, al resto ci penso io» gli disse con un tono tranquillizzante.
Aveva fatto bene a sposarla, quella donna sapeva sempre cosa fare. Era veloce a prendere delle decisioni, irremovibile nel mantenerle, capace di aspettare con la certezza che prima o poi avrebbe raggiunto i suoi obiettivi. Filippo le posò un leggero bacio sulle labbra. Ora potevano cominciare a lavorare.
Luisa si sfilò i guanti, aprì la borsa per riporli e si accorse della posta che non aveva ancora aperto. Lesse l’indirizzo sulle buste.
«Guarda guarda, c’è una lettera per Concettina. Chissà chi le scrive...»