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Don Turiddu Ciuni

Sommatino, giugno 1934

Davanti a lui, una distesa gialla riluceva al sole del tramonto. Don Turiddu accarezzò le spighe, ne saggiò la consistenza: erano colme di chicchi. “Domani si trebbia” pensò. Sprofondando fino alle ginocchia si era addentrato nel campo e ora cercava con cura meticolosa le piante infestanti.

«Talìa, neanche una foglia di gramigna. Certo che quando uno lavora bene...» Parlava da solo, era diventato vecchio e i vecchi lo fanno. Lo sorprese un mucchio di papaveri che si allargava come una chiazza di sangue al centro di quel mare d’oro. Rabbrividì, come fossero di cattivo auspicio. Anche quelle taccole nere che lo chiamavano dai rami dei tigli gli mettevano pensiero.

Si allontanò e con passo malfermo raggiunse la fila di alberi allineati al confine del podere. Una stanchezza sconosciuta si era impossessata delle sue membra. Si appoggiò al tronco largo e solido di un eucalipto cercando riparo sotto la sua chioma verde azzurrato. Un profumo dolciastro si spandeva dalle ciocche fiorite che facevano capolino tra le foglie.

Scivolò lungo l’albero e si sedette a gambe incrociate. Com’era bella la sua terra, così sensuale. “Il paradiso, se mai ne esiste uno” pensò, “ha il colore del grano.” Chiuse gli occhi conservando dietro alle palpebre l’immagine di quell’immensa superficie gialla increspata dal vento.

Quando li riaprì, fu sorpreso di trovarsi nella sua stanza. Dunque aveva dormito e la collina dorata non era stata che un sogno. Le gambe gli formicolavano, le aveva tenute a lungo nella medesima posizione. Provò a scuoterle e con sgomento si rese conto che non rispondevano ai suoi ordini.

Si agitò sul materasso duro e un improvviso bruciore si diffuse lungo tutta la schiena come se l’avesse strofinata sulla carta vetrata. La sua pelle, sfibrata come stoffa logora, si stava sgranando in più punti e, lungo la linea delle vertebre, dove le ossa si susseguono come borchie sui finimenti del cavallo, una sottile scia nera denunciava l’inizio di una piaga da decubito. “Sto morendo” pensò senza alcun turbamento. Le sue condizioni, nonostante le cure affettuose della moglie, negli ultimi tempi si erano aggravate. Respirava a fatica e ormai persino parlare gli era penoso. I dolori non gli davano tregua.

«Prima è, meglio è» biascicò. La morte sarebbe stata l’unico risetto, ma quella non prendeva ordini da nessuno e, come una principessa altezzosa, si faceva attendere. Il fatto è che non si va via lasciando questioni in sospeso, don Turiddu lo sapeva bene: se non avesse risolto il problema del podere per lui non ci sarebbe stata pace.

Si disperava, la separazione dalla sua terra era più dolorosa di qualunque piaga. E lo stridio delle rondini che proveniva dall’esterno gli ricordava che era giugno. «Proprio quando c’è bisogno di me... Maledizione!» urlò muovendosi in modo scomposto.

Il lenzuolo scivolò scoprendo le sue clavicole, le braccia smagrite. La moglie si affrettò a ricoprirlo ma lui l’allontanò brusco. Odiava dover dipendere dagli altri e anche adesso, sulla soglia della fine, rifiutava con caparbietà ogni gesto di premura, che lo faceva sentire un anziano rimbambito.

“Ah, la vecchiaia” considerò addolcendosi, “l’unica malattia per la quale l’uomo non trova rimedio.”

Bei tempi quando impettava con i campieri, negava il pizzo ai briganti di Sommatino, componeva le liti tra i braccianti, strappava con un colpo secco radici contorte. Ora nessuno lo stava più ad ascoltare, i suoi ordini venivano regolarmente disattesi e i suoi campi, chissà, magari erano secchi e improduttivi come quelli attorno alla miniera grande. Si sentiva impotente e i pensieri gli si attorcigliavano gli uni sugli altri, vere e proprie ossessioni.

Cercò di calmarsi e si abbandonò al flusso del respiro, ma la verità è che i momenti prima della fine non passano mai.

Ai piedi del letto, le sue due figlie monache pregavano: «Ave Maria, gratia plena...». Il loro brusio risuonava nelle sue orecchie come il fischio del vento tra le spighe di grano.

Di nuovo riaffiorò l’angoscia per il suo podere, al quale rimaneva tenacemente attaccato persino in punto di morte. Possibile che nessuno dei suoi figli volesse occuparsene? Passino le femmine che, si sa, sono destinate ad annacare i mariti, ma quei maschi erano proprio dei depravati...

“Se i miei figli non mi ascoltano, la colpa è tutta sua” pensò rancoroso, e i suoi occhi andarono verso la moglie. Concetta Russo sedeva sulla sponda del letto, il capo abbandonato sul cuscino accanto a quello del marito. Lui ne percepì il tepore del fiato, l’odore acre del pianto, il disordinato battere del suo cuore impazzito per l’addio che sembrava imminente.

Non si muore con il rancore nell’animo e don Turiddu avrebbe voluto conciliarsi con lei, accarezzarle il capo. “Se anche Filippo è venuto a salutarmi, allora la perdono.”

Lo cercò tra i presenti, il suo amatissimo figlio. Trovò invece Salvatore, il primogenito. Lui avrebbe dovuto succedergli, in forza di quel diritto al maggiorascato che in Sicilia continuava a essere la norma. Fin da piccolo aveva cercato di avviarlo ai segreti del buon raccolto: “Tempo sprecato”. I suoi insegnamenti erano caduti nel nulla come semi sulla strada che gli uccelli beccano, o sulla roccia dove non riescono ad attecchire, o fra i rovi che li inghiottono soffocandoli. Salvatore aveva studiato, a Napoli era anche riuscito a raggiungere una posizione. Ma un giorno... puff!, si era preso un esaurimento nervoso che lo aveva portato dritto al manicomio.

Don Turiddu trovò gli occhi del figlio: erano vuoti, l’espressione spenta. “Ma lo capiscono anche i cretini che i libri infragiliscono la mente. La terra invece, si sa, rende sani e forti...”

All’improvviso si rese conto che attorno a lui si contavano più assenti che presenti. Vincenzo, per esempio, il secondo figlio, quello se ne stava ancora alla Merica, dove aveva fatto fortuna. “Era sperto Vincenzo, e intelligente, ma una testa dura!” C’aveva provato anche con lui a tenerlo al podere, ma quello neanche aveva finto di ascoltarlo. Anzi, appena il padre girava le spalle, il picciotto se ne scappava al mare a guardare le navi. Tornava a casa quando aveva fatto il pieno d’aria e di sole. Poi un giorno, si vede che aria e sole di Sommatino non erano abbastanza, non era più tornato. La madre e le sorelle gli avevano scritto molte volte: “Vienitene a casa, c’è bisogno di te”. E lui, per tutta risposta, s’era chiamato il fratello Nicola.

“Me lo fanno apposta. Tutti contro di me” si disse colmo di rammarico. Da anni, né Vincenzo né Nicola si facevano vivi, neppure una lettera. In compenso mandavano i soldi a Filippo, che con i dollari dei miricani se n’era scappato a Palermo e s’era messo a fare l’editore. “Cretino e sucanchiostro!”

La colpa, tornò a ripetersi, era tutta di sua moglie. “Se gli antichi dicono che le donne devono essere un poco meno del marito, un motivo ci sarà di sicuro.” Ma questo lui da giovane non lo sapeva.

Quando aveva conosciuto Concetta era vedovo da un anno, e il suo corpo reclamava a gran voce le attenzioni di una femmina. La ragazza era di una bellezza nera, a cominciare dai capelli scuri e fitti in cui lui aveva desiderato fin dal primo momento affondare il viso. Gli occhi come pece e guizzanti, le labbra carnose serrate in una smorfia volitiva. Era un pezzo di carbonio, che talvolta lasciava intravedere il diamante: una fila di denti bianchi e distanziati. A don Turiddu era venuta voglia di metterle un dito in bocca appena l’aveva sentita parlare. Emanava inoltre un afrore pungente, come di zolfo che prende fuoco, lo stesso che veniva fuori dalle zolle gialle di Testasecca.

Senza pensarci troppo don Turiddu si era rivolto al sensale, che aveva però rifiutato l’incarico. «Lassala perdiri, donna Concetta Russo appartiene a una famiglia allittrata, ti darà filo da torcere.»

Ma lui ormai la teneva nel sangue e se non avesse soddisfatto il suo desiderio, era sicuro, si sarebbe ammalato.

«Lo so io come si trattano le femmine» aveva risposto di malagrazia, «e dillo pure a tutti i nostri paesani che don Turiddu Ciuni non si fa parlare dietro.»

Si erano sposati senza troppi festeggiamenti, perché lui in teoria era ancora a lutto. Solo una passata di ciciri e fave e poi via, ognuno a casa sua.

In principio le cose erano filate lisce. La moglie ogni tanto accennava una piccola ribellione – ché il sensale non aveva mentito – ma lui si affrettava a metterla incinta: le gravidanze, si sa, fiaccano la volontà della donna. E comunque non si trattava di un gran sacrificio: gli piacevano i suoi seni appesantiti dal latte, che assecondavano la curva della sua pancia gonfia come una spiga carica di chicchi. Più la moglie si arrotondava, più a lui cresceva la voglia di farci l’amore. Possederla significava anche marcare il territorio e contendere la proprietà di quel corpo al bambino che le stava dentro.

L’unica battaglia che don Turiddu non era riuscito a vincere riguardava l’istruzione: a Concetta piaceva leggere e questo era già un difetto che lui aveva guardato con sospetto. Nel comodino, la donna, al posto del cantaro ci teneva i libri. Una vera fissazione, anzi una malattia, che aveva passato ai figli con il latte. E appena cresciuti, senza chiedergli il permesso, li aveva mandati tutti, ma proprio tutti, senza distinzione di sesso, a studiare dai suoi fratelli maestri a Delia, dove quei ragazzi si erano riempiti la testa di idee assurde.

“Diventeranno grandi” si era illuso lì per lì don Turiddu, “e quando avranno fame, tra il frumento e le parole sapranno cosa scegliere. E poi Concetta non si azzarderà a mettermi i figli contro.” Invece le cose erano andate diversamente. Quelli si erano ribellati e lei non aveva mai pronunciato una parola di biasimo.

Quei ricordi provocarono a don Turiddu un attacco di rabbia. Trovò le forze per sollevare il busto dal cuscino e solo allora scorse Filippo.

«Tocca a te» disse, «sei l’unico maschio rimasto!»

Quello rimase in silenzio ma scosse la testa in segno di diniego.

«Concettina...» Il vecchio cercò la complicità della figlia. L’aveva voluta chiamare come sua moglie, tanto l’amava. Ma lei, anziché dargli conforto, gli lanciò uno sguardo di sfida. Da Palermo era tornata carica di odio. Né il matrimonio con il pastaio l’aveva addolcita, né le due maternità.

Don Turiddu strinse i pugni, alzò la voce e atteggiandosi a padrone si rivolse di nuovo a Filippo: «La devi finire con ’sta minchiata dei lib...».

La frase fu interrotta da una salva di colpi di tosse, l’ultima sillaba rimase prigioniera per metà al fondo della gola. Il vecchio ricadde all’indietro, sconfitto.

«Filippo» sussurrò con voce vetrosa. «La terra... Tu...»

Le erre gli graffiarono il palato come cocci di vetro appuntiti, la ti inciampò nei denti e lì si fermò.

Il figlio gli prese la mano, lui si sottrasse alla stretta che voleva essere pietosa ma risultò solo molliccia. “Non hanno visto mai un travagghiu vero” pensò il moribondo scansando quelle dita lisce e morbide che mai avevano sollevato una zappa. “Com’è che non si vergogna?” Gli stenti e la fatica di un’intera esistenza non gli pesavano quanto il tradimento della sua famiglia.

“Che può fare un uomo per garantirsi l’eternità se non passare il testimone al figlio maschio?” pensò don Turiddu mentre la vita gli scappava via. “Di quello che ho fatto non resterà niente e nessuno si ricorderà di me. Sono vissuto a matula.”

Di colpo non gli importò più nulla del podere, del suo nome, di se stesso. Si abbandonò sul cuscino, un rivolo di saliva scivolò dall’angolo della bocca.

Il feudo di Testasecca in quel momento era un mare d’oro, i papaveri una pozza scura di sangue.