1
Concetta Russo
Sommatino, agosto 1924
Concetta spazzolò energicamente i suoi capelli fitti, li tirò con forza come se volesse strapparli, constatò che tra le dita non le era rimasto neanche un pelo e sorrise compiaciuta. La sua chioma, con il passare degli anni, non si era diradata né imbiancata, aveva di che vantarsi.
La donna raccolse le ciocche rigogliose in una coda di cavallo, l’attorcigliò fino a farne una corda, poi la acconciò sulla sommità del capo in un grosso tuppo, fermandolo con un’unica forcina d’osso. Si specchiò e controllò che i vestiti fossero in ordine. Poteva essere soddisfatta: a quarant’anni passati il suo corpo piccolo era ancora sodo e compatto, le braccia tornite, le gambe muscolose. I seni appesantiti scendevano con grazia, non pendevano abbandonati, avevano anzi una certa consistenza e davano l’impressione di essere pieni. Se non fosse stato per i due solchi profondi ai lati della bocca e per i capezzoli scuriti e allungati dai numerosi allattamenti, si sarebbe potuto dire che era la stessa di sempre.
Suo marito, nonostante quelle sproporzionate areole color cioccolato, l’amava ancora con l’ardore della giovinezza, ardore che lei assecondava e ricambiava. Mai che si fosse tirata indietro una volta da che erano sposati, al contrario aveva sempre assolto con entusiasmo ai suoi doveri coniugali, traendone un grande beneficio per l’integrità del suo corpo e della sua anima. Dodici figli erano nati, in conseguenza di quella passione che li aveva resi schiavi l’uno dell’altra. Era solo grazie alla menopausa che aveva smesso di figliare come una giumenta. Il suo stato di salute era comunque ottimo e lei aderiva alla vita con la pienezza del suo essere.
L’orologio liberty della torre municipale suonò l’ora. Concetta contò i rintocchi: “Uno, due, tre... dodici”, era tardi! Si rimboccò le maniche della camicetta, annodò dietro la schiena le cocche del grembiule e corse in sala da pranzo.
I suoi figli, tutti bravi per carità, ché il destino con lei era stato davvero generoso, erano ormai grandi e molti se n’erano andati via. Le sarebbe piaciuto averli ancora intorno, a cominciare da Teresa, la primogenita, che ora abitava nel vicino paese di Delia. Sospirò: quella ragazza avrebbe meritato di sposare un uomo più importante di un semplice putiaro. Un gran lavoratore suo genero, e non faceva mancare nulla alla famiglia, ma a Concetta erano sempre piaciuti di più i maestri dei commercianti. E quando aveva cercato di dissuaderla, Teresa le si era rivoltata contro con una rispostaccia: «Vuoi arricchiri? Fai arti vili».
Vita, la seconda, a dispetto del nome che portava, aveva una gran paura dell’esistenza e rifuggiva da ogni tentazione terrena, perciò s’era fatta monaca. “Acqua ha nelle vene, no sangue, quella scema!” I pavidi Concetta li disprezzava, anche quando le venivano parenti.
’Nzula abitava a Caltanissetta con quell’animella che chiamava marito. In compenso i suoi due figli maschi erano bravi e intraprendenti. Quelli sarebbero riusciti di sicuro. “È proprio vero che c’è una Provvidenza per tutti” pensò Concetta.
Filippina ricamava per le Figlie di Maria e da qualche mese non tornava più a casa: aveva deciso di prendere i voti. “Mah, non hanno preso niente da me, ’ste ragazze. Pallide, solitarie e con il deserto nel ventre.”
Marianna e Gaetana figliavano contente con i loro mariti, due pezzi di marcantonio che davano soddisfazione solo a guardarli.
I maschi, invece, tutto il contrario. Dei due Salvatore, il primo, mischino, era stato sfortunato ed era morto subito; l’altro invece aveva fatto carriera come professore. “Ah, lui!” Il viso della donna s’illuminò. “Buon sangue non mente.” Poi sospirò: peccato che stava a Napoli, lontano da lei. “Ma è accussì bravo lu figghiu miu” aggiunse per consolarsi.
Vincenzo e Nicola, come indomiti guerrieri, se n’erano andati in America a cercare fortuna e ogni mese le mandavano i soldi per aiutarla.
A conti fatti in casa gliene erano rimasti tre. Filippo, il cui avvenire le dava qualche preoccupazione. Intelligente e bello, secondo lei, meritava un futuro migliore di quello che il padre gli stava preparando. Portarlo in campagna a lavorare sarebbe stato un sacrilegio. Le sue belle mani bianche non erano fatte per la zappa, ma per la penna. Concettina, dal carattere spigoloso e dalle forme abbondanti, completamente succube dei fratelli. E Angelino, mischinazzo, così malaticcio, quasi un infermo, che se ne stava sempre a letto anche quando doveva mangiare.
Guardò le dita: compreso Turi, suo marito, doveva apparecchiare per quattro.
Sistemò la tovaglia con precisione, il medaglione di sfilato al centro, le cadute laterali simmetriche. Stirò con le mani le pieghe finché la tavola fu liscia come una distesa d’acqua ghiacciata. Avvicinò le posate lucide ai piatti di porcellana bianca. “Mamma mia, quanti posti vuoti in questa tavola” considerò con rammarico. “E che tristezza questo silenzio innaturale!”
Il sole estivo in quel momento irruppe con prepotenza dalle finestre restituendo un po’ di gaiezza a lei e al mobilio severo.
I figli arrivarono una dietro l’altro: Filippo davanti, Concettina scodinzolando al suo seguito. Salutarono la madre baciandole la mano, lei li guardò con soddisfazione.
Rosalia, la criata, entrò con la zuppiera fumante, Concetta le fece cenno di riportarla in cucina. Mancava ancora il marito e lei, in tanti anni di matrimonio, non aveva mai iniziato a mangiare in sua assenza. Nonostante le differenze di ceto e cultura, rispettava molto il suo uomo e lo amava con dedizione, anche se talvolta non si faceva scrupolo di contraddirlo davanti a tutti. Colpa del suo carattere, irruente e impulsivo, che nel corso del tempo non aveva ancora imparato a modulare.
Don Turiddu Ciuni si sedette a tavola all’una in punto e prese a mangiare in silenzio. Era scuro in volto. Il giorno precedente era stato trovato, dopo due mesi di ricerche, il cadavere di Matteotti, e lui ne voleva conto e soddisfazione. Socialista da generazioni, don Turiddu odiava le prepotenze e non si lasciava intimorire da nessuno. Persino i mafiosi lo lasciavano in pace: «Sono l’unico a non pagare il pizzo a quei maledetti campieri» ripeteva con orgoglio, «se tutti facessero come me...».
Concetta lo guardò con tenerezza. I suoi occhi scivolarono lungo il collo di lui annerito dal sole, sulle spalle possenti che guizzavano sotto la giacca di panno, e si fermarono alle mani callose. La pelle del dorso era percorsa da solchi profondi, dentro ai quali la terra sembrava sangue rappreso. Le unghie larghe e arrotondate erano foglie ingiallite dal vento e dalla grandine. I polsi sporgevano solidi dalla camicia. Le dita forti impugnavano allo stesso modo risoluto forchetta, zappa, sega.
Morbido e suadente nell’intimo, don Turiddu trattava con identica passione la sua terra e la moglie. Non per niente le zolle aride di Testasecca producevano frutti in abbondanza come Concetta sfornava figli di anno in anno. Era però tetragono e spigoloso nei rapporti con il mondo, e diffidente verso tutte le novità. Aveva cominciato a lavorare fin da bambino, la sua famiglia era troppo povera per farlo studiare, forse per questo teneva in odio chi aveva frequentato la scuola. Ma non era sincero, semmai si comportava come la volpe che non può arrivare all’uva. Suo figlio Filippo, un vero intellettuale, amava la poesia e la letteratura, e si divertiva a mettere in difficoltà il padre citando a memoria versi di qualunque tipo. Da qui era nata una conflittualità che non aveva fatto che aggravarsi.
A tavola era il momento che attaccavano turilla. «Non sempre il tempo la beltà cancella / o la sfioran le lacrime e gli affanni. / Mia madre ha quarant’anni / e più la guardo e più mi sembra bella» recitò Filippo guardando sua madre negli occhi.
«Grandissime minchiate!» rispondeva don Turiddu diventando paonazzo in volto. Il fatto era che tutte le cose che non comprendeva appieno gli provocavano un’infelicità profonda.
Fin dall’inizio del matrimonio la moglie l’aveva avuta vinta ed era riuscita a far istruire i figli, femmine comprese, dai suoi fratelli. Come faceva a non capirlo “quello zaurdo”, un onore era andare a scuola dai Russo, gli unici allittrati da Sommatino a Delia. «È gratis, Turi, ti pare che rinunci a una cosa che non si paga?»
Don Turiddu posò lo sguardo su Filippo. I suoi occhi corruschi mandarono bagliori, la sua mascella quadrata cominciò a masticare pane e pensieri velenosi. “Cosa crede di concludere quell’ingrato?” si domandò per l’ennesima volta. Abbandonare la terra e far morire le piante: roba da pazzi! No, non gliel’avrebbe permesso di andarsene.
Concetta si accorse della tempesta che agitava l’animo del marito e cercò di rabbonirlo. Gli toccò il ginocchio, premette il braccio contro il suo, finché la tensione dei muscoli si sciolse e l’uomo sembrò acquietarsi quanto bastava per godersi il pranzo.
Don Turiddu amava stare seduto accanto alla moglie. Gli piaceva guardarne il profilo attraverso il fumo che saliva dal piatto e osservarla mentre mangiava. Le sue labbra si chiudevano attorno al cucchiaio con grazia, la gola bianca si sollevava in piccole onde morbide, i capelli ricci sfuggivano dal tuppo e svolazzavano nell’aria. Il petto prominente, nel cui solco si mischiavano sudore e briciole, si alzava e si abbassava con un ritmo costante. Quella donna era circondata da un’aura sensuale e lui, incapace di trattenersi, le infilò furtivo un dito tra i seni per asciugare una goccia birichina. Lei arrossì imbarazzata, farfugliò, ma i suoi occhi brillarono maliziosi. Sapeva che di lì a poco si sarebbero ritirati per il riposo pomeridiano, e ben altre gioie l’attendevano.
Turi, così lo chiamava lei nell’intimità, possedeva un’energia primitiva e dava il meglio di sé alla controra. Concetta pregustava il piacere dilaniante di quell’amore che la faceva sentire fragile e potente al tempo stesso. Il cucchiaio le sfuggì di mano, le gambe le si ammollarono mentre una violenta onda calda si impossessava del suo ventre.
Finito di mangiare, don Turiddu bevve un bicchiere di vino tutto d’un fiato, si asciugò la bocca con la manica della giacca, quindi diede un colpo di schiena e scattò in piedi. La sedia cadde fragorosamente sul pavimento, la figlia Concettina lesta la tirò su.
«È ora» disse alla moglie.
«Ora è» gli fece eco lei e, ancheggiando, si mosse verso la stanza da letto. Lui la seguì soggiogato dai suoi fianchi larghi.
La notte precedente avevano discusso, colpa sempre di Filippo, e Concetta temeva che il marito gliela volesse far pagare. Infatti, appena chiusa la porta, lui la buttò sul letto, le sollevò la gonna e la penetrò senza né ahi né bai. Lei si dispiacque che non l’avesse accarezzata come al solito. “’Sto bifolco, entra e manco chiede permesso. Ora glielo faccio vedere io...” pensava, e per rappresaglia se ne stava rigida come un pisci stoccu. Ma non aveva fatto i conti con il suo corpo. Un fremito le si era insediato dentro fin dai primi colpi che il marito le aveva assestato, e lei già si scioglieva in ripetuti singulti, finché il cuore esplose nel suo petto.
Dopo, credendo che lo sfogo avesse reso Turiddu più malleabile, fu lei a riprendere il discorso da dove l’avevano lasciato. Odiava perdere.
«Ma perché allora l’hai fatto studiare?» domandò con la voce che ancora vibrava. Talvolta il piacere si prolungava nel suo corpo per qualche minuto dopo aver fatto l’amore. Quel godimento autonomo la rendeva unica agli occhi del marito che, modestamente, ne aveva conosciute di fimmini!
«Perché l’istruzione ci vuole, altrimenti ti fanno fesso» bofonchiò mentre armeggiava per districarsi dai pantaloni che gli si erano arrotolati attorno alle ginocchia. «Ma la terra è un’altra cosa.»
Concetta scivolò sul bordo del letto a pancia sotto con l’intento di aiutarlo. Era un piccolo gesto di premura, uno dei tanti rituali a guardia della loro armonia. I suoi seni penzolarono nel vuoto. Turiddu veloce li afferrò maneggiandoli come pasta di pane lievitata.
«Ma se prendiamo un mezzadro, non è meglio?» si intestardì Concetta. Quando si trattava di Filippo agiva come una virrina.
Lui l’agguantò per un braccio, la tenne ferma e le diede due sonore sculacciate sulle natiche nude. «Ora basta!» urlò esasperato. «Io sono il padre e io decido.»
La colpì di nuovo. La moglie aprì le labbra in un mugolio di piacere.