5

Fu verso la metà di agosto, per la precisione il primo venerdì dopo ferragosto, che Petit Louis raggiunse, per così dire, l’apice della sua carriera.

Nonostante il caldo, la gente accorreva a Nizza da ogni parte, e l’affluenza in città non era quella solita della stagione invernale e primaverile, ma piuttosto quella delle grandi occasioni. La Promenade des Anglais faceva pensare a un’esposizione universale e i battesimi dell’aria a prezzi scontati contribuivano a incrementare quell’atmosfera caotica e variopinta da luna park.

Il guardaroba di Petit Louis era stato rinnovato e adattato, nei colori e nei modelli, alla stagione.

A qualsiasi ora del giorno – come aveva sempre sognato – era lindo dalla testa ai piedi come un operaio che, la domenica mattina, appena uscito dalle mani del barbiere, non ha che da mettersi il solino per essere in alta tenuta.

Constance sembrava felice. Di tanto in tanto soffriva di gelosia, questo sì, ma non nei confronti di Louise che, sia pur saltuariamente, continuava a vivere nell’appartamento. Al contrario! Forse Petit Louis, senza pensarci, come per sfida, aveva dato a Constance Ropiquet un vizio di più.

Una mattina che lei era in vena di tenerezze e Louise se ne stava andando per lasciare la coppia sola in camera, Petit Louis aveva buttato là, come per caso:

«Non vedo che disturbo può darci Louise...».

E da allora...

«Gentile da parte tua impormi questa corvée!» sospirava Louise.

Lui si limitava ad alzare le spalle. Non l’aveva fatto apposta. Men che meno quello che stava per capitare con il signor Parpin!

Per quanto riguardava il denaro, Constance era abbastanza generosa, ma non gli affidava mai grosse somme tutte in una volta, preferendo limitarsi a biglietti da cento franchi.

Louise usciva da sola. Che avrebbe fatto tutto il giorno e tutta la sera? Se non era rincasata entro l’una, voleva dire che non sarebbe rientrata. Però doveva essere prudente perché spesso aveva visto gironzolarle attorno l’ispettore che si era presentato a Villa Carnot.

Petit Louis, invece, si prendeva gioco della polizia. Non faceva mica niente di male, lui! Era in regola! E siccome un tizio che conosceva gli aveva passato il listino prezzi di una marca di champagne, lui lo esibiva nei bar, fingendo ironicamente di prendere le ordinazioni.

Eppure – e lui stesso non avrebbe saputo dire perché – avvertiva in fondo all’animo una sensazione di malessere, e talvolta si chiedeva se non fosse un brutto presentimento. Quando, a undici anni, aveva avuto la meningite, aveva previsto che si sarebbe ammalato con un mese di anticipo e tutti si erano burlati di lui.

Gli mancava qualcosa, forse? No! O comunque, ben poco. Era andato a fare un giro nei bar di una via nei pressi del casinò dove si riunivano i boss della malavita locale, sempre indaffarati non solo con le donne, ma con le elezioni, le lottizzazioni e il gioco d’azzardo.

Certo, lui non si era presentato dicendo:

«Sono Petit Louis, di Le Farlet, e vorrei trovare un mio posticino al sole...».

Ma due o tre volte ci era andato, si era appiccicato al bar come una mosca, aveva seguito da lontano le partite a carte, e proposto timidamente una zara o un poker coi dadi.

Poteva scordarselo! Lo guardavano con curiosità, o con indifferenza, se non addirittura con disprezzo, ma nessuno gli aveva mai dato retta.

Aveva ripiegato sugli altri bar dove, almeno, era diventato un personaggio tra i giovani, alcuni dei quali di buona famiglia, che si consideravano spregiudicati perché andavano a letto gratis con una prostituta o perché giocavano a belote rispettando certi rituali.

Lo turbava, certo, l’idea di potersi trovare faccia a faccia con Gène, o con Charlie, o con uno di Marsiglia, anche se i Marsigliesi non scendono volentieri a Nizza, che è territorio di caccia riservato e dove non sono i benvenuti.

La famosa serata con Parpin, quella del venerdì dopo ferragosto, cominciò, come la maggior parte delle storie di Petit Louis, con una frase buttata lì a casaccio, con una battuta.

Parpin era l’amante di Constance, quello ufficiale. E, allo stesso modo in cui Constance d’Orval era all’anagrafe Constance Ropiquet, così il diplomatico non era un diplomatico, ma un ex direttore delle dogane del Nord. Petit Louis si era informato. Sapeva che aveva una figlia sposata a Nizza e che abitava ad Arles, presso il marito di un’altra figlia.

Quando veniva a trovare la figlia che stava a Nizza, ne approfittava per passare una notte con Constance, che aveva conosciuto sulla Promenade des Anglais.

Aveva settantadue anni. Arrivava sempre con un ombrello di seta che, d’estate, gli serviva da parasole, e Petit Louis faceva fatica a sentir pronunciare il suo nome senza scoppiare a ridere, perché, per due volte, era rimasto in camera sua durante gli incontri, a origliare dietro la porta e a sbirciare dalla serratura.

Quel venerdì, Constance aveva sospirato:

«E pensare che nemmeno stasera staremo tranquilli! Oggi è il giorno di Pépé...».

Lei lo chiamava Pépé. Perché? Eppure non lo faceva con l’intenzione di scadere nel ridicolo!

Poi, dopo un momento di riflessione, aveva aggiunto:

«Sono curiosa di vedere se si ricorda del mio compleanno!».

Perché Pépé era il tipico uomo che ama far regali e regalini, e non si presentava mai da nessuna parte a mani vuote. Essendo nonno, viziava Constance allo stesso modo in cui probabilmente viziava i nipoti.

«È il tuo compleanno?» si era stupito Petit Louis.

«Quanti anni fai?».

«Cattivo!».

«Di’ un po’, perché non lo festeggiamo tutti insieme?».

Questo gli succedeva quando era di buon umore. Lanciava la prima proposta che gli veniva in mente, ridendo del suo fragile avvenire.

«Sei matto?».

«Perché matto? Cosa ci vieta di passare la serata in famiglia, e di cenare al Régence?».

«E come faresti, sentiamo?».

«Semplice. Dopo un po’ che il vecchio è arrivato, io e Louise entriamo e ti abbracciamo chiamandoti zietta... Potremmo essere, chessò, i tuoi nipoti di Nevers... Potremmo portare una saint-honoré alla crema...».

Mentre pronunciava queste parole, guardava, attraverso la finestra aperta, il vecchio dal volto impenetrabile, la cui immobilità, per giornate intere, assumeva aspetti sconcertanti. Era questa, la paralisi?

Nel frattempo, tendeva l’orecchio, perché era l’ora in cui Niuta andava a lezione di canto in città e lui aveva deciso di abbordarla per strada.

«Hai certe idee...» mormorava Constance, tentata.

«Idee semplicissime, perbacco!».

No! Non era mica tanto semplice, e c’era, in questo, un che di perverso. Lui si trovava a suo agio in mezzo a tutte quelle complicazioni, a quelle situazioni fasulle. Gli piaceva sentirsi il burattinaio, colui che può fare degli altri ciò che vuole.

Comprò davvero la saint-honoré, mentre Louise lo seguiva, piuttosto di malumore.

«Sai che spasso!» borbottava lei. «Senza contare che ci sono ottime probabilità che il vecchio mi faccia gli occhi dolci...».

Petit Louis fu sul punto di presentarsi, nel suo ruolo di nipote, proprio nel momento in cui sapeva che avrebbe creato maggior imbarazzo, ma non arrivò a tanto e la scena ebbe il carattere di un incontro di famiglia, con presentazioni, abbracci, e rossori sulle guance di Constance che tremava.

«Il signor Parpin, mio caro amico, che viene ogni tanto a tenermi compagnia e col quale rivanghiamo vecchi ricordi...».

Ma la cosa non andò del tutto liscia. In realtà, non era facile far passare il tempo fino all’ora di cena e Petit Louis propose una belote. Dopodiché si avviarono verso il Régence, Louise davanti, con Parpin, e Petit Louis dietro, a braccetto con Constance.

«Ho una tale paura che sospetti qualcosa!».

Poiché Parpin temeva di incontrare la figlia o il genero, si sistemarono in fondo alla sala, in un angolo appartato.

Quello che ordinarono fu un vero menu di gala: caviale (che Louise detestava), aragosta all’americana, pollo, una bomba gelato e champagne sin dall’inizio, perché Petit Louis aveva dichiarato:

«Un compleanno si festeggia solo con lo champagne!».

Constance, a cui piaceva bere, ma che reggeva male l’alcol, aveva gli occhi lucidi e commossi, mentre Parpin sembrava preoccupato per il conto da pagare.

«Così, lei abita a Nevers? Bella città... Il servizio militare l’ho fatto in parte lì, ai tempi...».

Soltanto Louise era preoccupata e, verso la metà del pasto, cominciò a rivolgere dei cenni d’intesa a Petit Louis. Lui ci mise un bel po’ a capire – o a voler capire. Si scusò e si diresse verso il bagno, dove lei lo raggiunse subito dopo.

«Che ti succede?».

«Non so... Non sono tranquilla... Dal mio posto, nello specchio, vedo quasi tutto il caffè... L’ispettore di polizia è seduto in un angolo fin dall’inizio... Deve averci seguiti...».

«E allora?».

«Ti dico che non ne sono certa, ma giurerei di aver visto Gène sul marciapiede...».

Lui non reagì. Non voleva far vedere di aver paura, soprattutto di fronte a lei, ma accusò il colpo e finse di sistemarsi i capelli davanti allo specchio.

«Sei sicura?».

«Era in piedi fra i tavolini all’aperto, e parlava con delle persone sedute...».

«Pensi che sia ancora lì?».

«Non so... Sii prudente...».

Con un gesto familiare, aveva appoggiato la mano sulla tasca posteriore dei pantaloni e si era sistemato la cintura.

«Torna al tavolo... Fra un po’ di’ che devi fare una commissione... Inventati una scusa qualsiasi... Vai a fare un giro fuori e controlla se Gène è nei paraggi...».

«E se mi trattiene?».

Lui si limitò a scrollare le spalle e ad aggiungere:

«Fai come ti dico e non preoccuparti del resto!».

Una volta solo, si asciugò il sudore e tornò a guardarsi allo specchio. Sapeva da un pezzo che prima o poi sarebbe successo, ma preferiva non pensarci.

Sapeva di aver fatto uno sgarro portando via Louise dalla casa di Hyères quando in realtà lei apparteneva ancora a Gène; e pure a Le Lavandou si era comportato da cialtrone, non resistendo alla tentazione di mettersi in mostra. E per finire, aveva parlato troppo con Constance, la quale a sua volta aveva parlato con il direttore del casinò...

A essere sinceri, era costretto ad ammettere che Gène aveva ragione quando affermava che lui era soltanto un dilettante, un artista, come lo definiva lui.

Ma, da Marsiglia a Nizza, ce n’è di strada...

«Col suo permesso, zia, andrei a prendere una boccata d’aria» disse Louise quando Petit Louis tornò al suo posto. «Mi sento soffocare... Sarà l’aragosta...».

Da quel momento il destino di Petit Louis iniziò a cambiare. Sarebbe stata l’ultima volta – anche la prima, per altro! – che si sarebbe ritrovato coi gomiti appoggiati sulla tovaglia bianca di un grande ristorante, davanti a un pasto sontuoso, a giocherellare con uno stuzzicadenti e a far girare un frullino di legno nella coppa di champagne.

Aveva spostato indietro la sedia per vedere anche lui nello specchio ciò che accadeva alle sue spalle e aveva riconosciuto l’ispettore seduto al tavolo davanti a un caffè americano.

Louise stava uscendo. Passò fra i tavolini all’aperto e a Petit Louis parve che gli rivolgesse un piccolo cenno come a dire:

«È proprio lui!».

Ma Louise era lontana. Tra lei e lo specchio c’erano lo scintillio delle luci, nuvole di fumo, l’andirivieni della folla.

«... era distratto,» disse Parpin con un sorriso indulgente. «Stavo dicendo che sua moglie sembra molto dolce... Avete dei figli?».

Per un momento, Petit Louis si estraniò a tal punto da quella piccola commedia che guardò il vecchio senza capire, ed ebbe l’impulso di affermare:

«Che cosa le prende? Sarà mica matto?».

Ma si trattenne.

«Non ancora...» abbozzò in tono assente.

Non riusciva più a godersi il lato comico della situazione. Constance e Parpin gli apparivano sotto un’altra luce, una luce terribilmente cruda, come delle fotografie oscene: ne vedeva fin le minime verruche, gli occhi torbidi da cacciatori di sensazioni, la timidezza da persone che sanno di essere colpevoli e sorridono in anticipo, quasi per farsi perdonare.

Constance aveva il sangue alla testa e le si notava di più la couperose. Parpin, capelli a spazzola e mascella squadrata, doveva essere stato il più intransigente dei funzionari, con un filo di perfidia verso i subordinati, di quella perfidia saccente che si trincera dietro il regolamento.

Louise non tornava. Di sicuro, se davvero Gène era là, l’aveva raggiunta sul marciapiede di avenue de la Victoire e le aveva chiesto spiegazioni. Forse Gène non era venuto da solo. Di solito non lo faceva, si portava quasi sempre dietro Charlie il ciccione.

Che cosa avrebbe detto Louise? Avrebbe ceduto? Lei era stata innamorata di Petit Louis, lo era ancora, lui ne era certo, e il fatto che aveva lasciato la casa di Hyères senza discutere, pur sapendo a cosa andava incontro, ne era la prova.

Ma Louise non era una donna di carattere, né era in grado di cavarsela da sola. Amava le sue abitudini. Aveva bisogno di un tranquillo tran tran quotidiano, e da quando era a Nizza era evidente che rimpiangeva la vita quieta della casa di tolleranza, con le sieste sul marciapiede e i romanzetti popolari che leggeva nelle pause fra un cliente e l’altro.

Petit Louis, che faceva sempre di testa sua e non era ben visto da nessuno, doveva spaventarla.

Chissà, magari sarebbe tornata con Gène, al quale Petit Louis non aveva mai pagato i cinquemila franchi che pretendeva in cambio di Louise...

Al tavolo, Parpin e Constance, ora che nessuno si preoccupava più di intrattenerli, si annoiavano. E Petit Louis stava sempre all’erta, rassicurato in parte dalla presenza dell’ispettore.

«Se lo conoscono, o se Louise li informa che lui si trova qui, non oseranno fare nulla, perché sarebbe come confessare che hanno partecipato al colpo di Le Lavandou...».

Pazienza se era da vigliacchi! Nessuno lo avrebbe saputo. In ogni caso, non aveva alcuna voglia di ritrovarsi sul marciapiede con Gène e gli altri, che lo avrebbero portato a fare un giro in qualche posticino deserto in riva al mare.

«Sua moglie non torna...» mormorava Parpin.

«Non ci badi... Fa sempre così...».

«Il fatto è che il signor Parpin è stanco...» spiegò Constance. «Non siamo più tanto giovani, lui e io... Che ne direste se ce ne andassimo?...».

«Va bene!... Non fate complimenti...».

Parpin pagò, e dopo qualche frase di circostanza, diede a Petit Louis il suo indirizzo di Arles, nel caso fosse passato da quelle parti.

Petit Louis si asciugò per l’ennesima volta il sudore dalla fronte. Pur di non rimanere in fondo alla sala, andò a sedersi al bar, non lontano dall’ispettore, e lanciò un’occhiata fra i tavolini all’aperto, dove non riconobbe nessuno.

Il colmo era che non aveva digerito l’aragosta, e in un momento simile proprio non ci voleva.

Tutto sommato, non era solo inquieto, ma anche arrabbiato, e si sentiva vittima di un’ingiustizia.

Perché venivano ancora a mettergli i bastoni tra le ruote? Aveva scoperto la bella vita. Non dava fastidio a nessuno. Cominciava persino a innamorarsi.

Proprio quella mattina, infatti, aveva raggiunto Niuta per strada, l’aveva salutata togliendosi il cappello e tutto serio aveva mormorato:

«Permette che l’accompagni per un tratto di strada?».

«Se le va...».

Lo aveva detto con gentilezza, con un sorriso che aveva scoperto i bei denti da sedicenne e che faceva brillare i grandi occhi scuri. Teneva in mano la cartella degli spartiti e lui si era offerto di portargliela.

«Non ha paura di vivere da sola a Nizza?».

«Paura di cosa?».

«Non ha genitori, amici?».

«Mia madre canta a New York, al Metropolitan... Una volta è venuta a trascorrere tre mesi in Francia...».

«Perché si è chiusa a chiave, l’altro giorno, quando volevo venire a salutarla?».

«Non so...».

Un quarto d’ora prima combinava con Constance quella storia equivoca della cena di compleanno, e adesso camminava come un giovanotto a sinistra della sua compagna, che si era fermata di colpo, davvero troppo presto, annunciando:

«Sono arrivata... È qui...».

Adesso, al Régence, non lontano dall’ispettore, lui pensava che era la sola vera ragazzina che avesse mai conosciuto, a parte la figlia del lattoniere di Le Farlet che aveva posseduto maldestramente in una vigna, quando non era molto più esperto di lei nelle faccende amorose.

Ma perché pensava ancora a Niuta? Gli pareva che, se fosse uscito dal ristorante, e soprattutto dall’area protetta che gravitava attorno all’ispettore di polizia, la sua sicurezza sarebbe andata a farsi benedire; quella sensazione era così acuta che alla fine si alzò e andò a sedersi di fronte al poliziotto.

«Permette?».

«Prego... Qualcosa non va?».

Rimasero in silenzio per un po’. Il cameriere si avvicinò.

«Per me niente... Sto a posto così...».

Dopo un altro istante di silenzio, l’ispettore mormorò:

«Allora?...».

Petit Louis sostenne il falso per scoprire la verità.

«Li ha visti?».

«Dieci minuti fa c’erano ancora...» disse l’agente di Pubblica Sicurezza indicando i tavolini all’aperto.

Erano dunque in parecchi, visto che il poliziotto aveva usato il plurale!

«Crede che cerchino me?».

«In ogni caso, non me...» ironizzò l’altro.

«Io non gli ho fatto niente!» si ribellò Petit Louis.

La sua ansia degenerava in panico. Louise non tornava ancora, il che era un brutto segno. Era quasi certo che gli altri lo stessero aspettando all’angolo della strada.

«Perché mi guarda così?» disse stizzito.

«Perché sento che non mi sono sbagliato, e che stai per fare delle sciocchezze!».

«Che sciocchezze?».

«E che ne so...».

«Allora stia zitto!» tagliò corto mentre si alzava, infuriato, e andava a prendere il suo cappello di paglia al guardaroba.

Pensava che l’altro lo avrebbe sicuramente seguito e così non rischiava niente. Il cameriere gli corse dietro, perché aveva dimenticato di pagare la consumazione. Fuori, guardò a sinistra e a destra, individuò delle sagome, che non riconobbe, e si mise in cammino verso place Masséna.

«La cosa migliore sarebbe andare in campagna per qualche giorno» gli suggeriva il suo istinto.

Se esitava ancora, era perché non sapeva che località scegliere. Gène e gli altri non si assentavano mai a lungo da Marsiglia, dove avevano troppo da fare. Petit Louis aveva con sé trecento franchi perché, la sera prima, aveva per l’appunto preso duecento franchi dalla borsa di Louise.

Quando agì, nulla era ancora deciso. Stava passando una corriera in direzione della Promenade des Anglais. Non ebbe il tempo di vederne la destinazione. Saltò su mentre la vettura era in corsa, raggiunse rapidamente il fondo, aprì il portafoglio, e quando constatò che il denaro effettivamente c’era, si sentì più tranquillo.

Il bigliettaio, in piedi davanti a lui, aspettava. Petit Louis alzò la testa.

«Dove va questa corriera?» chiese.

E, siccome l’impiegato lo guardava con stupore:

«Ti chiedo dove va questa corriera...».

Riprendeva d’istinto il suo tono ruvido, dandogli del tu.

«A Grasse».

«Allora che aspetti a darmi un biglietto per Grasse?».

Non aveva ancora un piano. La corriera era in marcia quando pensò che potevano averlo visto salire e sapere quindi dov’era diretto. Senza esitare, si diresse verso la portiera.

«Non è qui» protestò il bigliettaio.

E lui, vedendo che ci si avvicinava a un gruppo di luci, replicò abbandonando il predellino:

«Chiudi il becco!».

Dopo appena un centinaio di metri, un cartello lo informò che si trovava a Cagnes-sur-Mer. Era mezzanotte e mezzo. Vide una specie di bar, sulla strada principale, con due grosse auto parcheggiate davanti; spinse la porta e si ritrovò in un locale stretto, immerso in una nube di fumo. Al centro vi era un alto bancone con tre sgabelli. A un lato del bancone erano seduti degli inglesi alticci e all’altro due donne, una delle quali molto grassa; le due donne conversavano con gli inglesi a voce alta, rispondendo loro in un miscuglio improvvisato di inglese e francese e, quando non capivano che cosa avevano detto i due uomini, si limitavano a ridere stupidamente.

Petit Louis si appartò in un angolo e ordinò un’acqua e menta.