3

A prima vista, quando scese dalla corriera sulla place du Marché, a Hyères, era il Petit Louis di sempre, col suo berretto bianco piantato in testa, le sue scarpe eleganti e i piedi che esitavano prima di toccare terra, la sua indifferenza e il suo modo di guardare la gente, come un divo che osserva la folla anonima di ammiratori adoranti.

A un tavolino della brasserie scorse due magnaccia che conosceva di vista, li salutò con la mano, senza fermarsi, e si diresse subito verso rue des Remparts.

Erano le due del pomeriggio. La via lastricata era in discesa, senza un filo d’ombra e Petit Louis, che odiava sudare, si fermava a ogni passo.

A mano a mano che procedeva e i passanti diventavano sempre più rari, il suo viso assumeva un’espressione dura, sospettosa, forse preoccupata.

Intanto, perché Louise ci aveva messo una settimana a rispondere alla sua lettera? E poi, perché sul «Petit Marseillais» non usciva l’annuncio concordato: «Vendesi bella coppia di piccioni. Rivolgersi...»?

Una mattina si era deciso a telefonare a Louise, nell’ora in cui sapeva di trovarla, perché dormiva. Aveva aspettato a lungo. Poi aveva faticato a riconoscere la sua voce.

«Sei tu?... Non bisogna commettere imprudenze... Ti scriverò...».

Tutto qui! Non era riuscita a dirgli altro. Quanto alla lettera, che era poi arrivata, diceva:

«Gène è venuto e non sembra contento... Mi ha pregato di dirti di stare tranquillo fino a nuovo ordine... Non devi venire qui...».

La rue des Remparts, adesso, era completamente deserta. Nell’ombra di un laboratorio dai vetri azzurri un falegname piallava; subito dopo c’era una grande casa dalle persiane accostate che faceva angolo tra due vie.

Non sembrava già più di essere in città. C’erano dei giardinetti con vecchi muri di cinta in pietra e a duecento metri la campagna.

Arrivato sull’angolo, Petit Louis si imbatté in tre donne distese su sedie a sdraio, mentre una quarta era seduta sulla soglia. Era l’ora del riposino pomeridiano. Indossavano vestaglie variopinte, ma avevano le cosce nude e la biancheria del mestiere bene in vista. Un po’ più in là, sullo stesso marciapiede, dei bambini giocavano.

Tutte e quattro guardarono Petit Louis e una di loro, quella seduta sulla soglia, si alzò precipitosamente dicendo:

«Non hai ricevuto la mia lettera?».

Lui alzò le spalle, con le mani in tasca, la sigaretta fra le labbra. Non salutò le altre, che conosceva. Si limitò a ordinare:

«Dentro!».

Entrò in casa e la costrinse a fare altrettanto. Nel salotto, fresco e in penombra, occupato da un’enorme pianola, una bambina di sei anni, la figlia della padrona, stava giocando con la bambola.

«Siediti!».

«Che cos’hai?» domandò Louise meravigliata, chiudendosi la vestaglia sulla biancheria azzurra.

Era bruna, con una carnagione chiarissima, una pelle fine, compatta, leggermente vellutata. Si sedette a un tavolo, mentre Petit Louis si piazzava davanti a lei, dall’altra parte.

«Ti ho scritto di non venire...».

«Lo so!».

Lui non sorrideva, non cercava di esercitare il suo fascino. Al contrario, la guardava negli occhi, con durezza, facendo apposta a non dir nulla in modo che lei finisse col tradirsi.

E andò proprio così. Lei si sforzò di sorridere, mormorò:

«Che cos’hai?».

Erano accanto a una finestra aperta, ma con le persiane accostate, da cui filtravano il fresco e la luce. La bambina, di tanto in tanto, smetteva di giocare per osservarli con attenzione.

«Ho che aspetto delle spiegazioni».

«Te l’ho scritto: è venuto Gène...».

«E allora?».

«È furibondo...».

Si vedeva di nuovo un pezzettino della biancheria azzurra che spiccava sulla pelle smorta, e i capelli di Louise Mazzone profumavano di verbena.

«Perché?».

«Secondo lui ti sei comportato da stupido... Primo, perché per fare lo sbruffone sei rimasto a Le Lavandou, il giorno del colpo, e poi ti sei messo a giocare a chi era più furbo col commissario Battisti... Dice che sei bravo soltanto a tirartela...».

«E poi?».

«Poi devi aver parlato troppo con qualcuno... Secondo Gène, non può essere altrimenti... L’altro ieri, la polizia ha fatto irruzione al Bar Express e ha perquisito dappertutto...».

Petit Louis trasalì, turbato, ma si sforzò di non mostrarlo.

«Battisti ha ammesso che c’era stata una denuncia... È stato il direttore di sala del Casino de la Jetée a suggerirgli di indagare dalle parti del Bar Express...».

«Hanno trovato?».

«No! Fatto sta comunque che Gène, Charlie e il Lionese ce l’hanno a morte con te... È vero che hai spifferato in giro?».

E lui, con durezza:

«Fammi il piacere, non impicciarti di cose che non ti riguardano!».

Era più umiliato che arrabbiato. Intuiva che cosa era accaduto. Una sera, così, per darsi delle arie, mentre leggeva «L’Éclaireur», aveva detto a Constance:

«E pensare che il gruzzolo si trova in un baretto del Vieux-Port, a Marsiglia!».

Non si ricordava di aver detto il nome del bar, ma doveva averlo fatto. E di certo Constance, che trascorreva quasi tutte le serate al Casinò, aveva voluto a sua volta far colpo sul direttore di sala.

«Se cercassero dalle parti del Vieux-Port, a Marsiglia...».

E così, una parola tira l’altra...

La bambina era andata a piazzarsi a meno di un metro dalla coppia e guardava Petit Louis negli occhi come se fosse stato la cosa più strana del mondo.

«Ehi tu, non potresti andare a giocare più lontano?».

E, rivolto a Louise:

«Quando contano di darmi la mia parte?».

«Per l’appunto!... Ci vorrà ancora un bel po’... Finché la polizia non sarà impegnata altrove, non si tocca nulla...».

«Ma tu...».

«Io cosa?».

«Sei sicura che sono decisi a darmi la mia parte?».

«Cioè...».

Le donne, fuori, continuavano il loro pisolino e rari passanti si voltavano con un sorriso divertito. Poi si udirono dei passi pesanti sulla scala. Un donnone enorme infilò la testa nello spiraglio della porta e chiamò:

«Odette!... Vieni qui!...».

Fece salire la ragazzina, poi ritornò e, con un’espressione tutt’altro che tenera, senza salutare Petit Louis, si rivolse a Louise:

«Che ti avevo detto?».

«Io gli avevo scritto di non venire...».

«Che significa?» bofonchiò Petit Louis alzandosi. «Non ho più il diritto di venire a trovare la mia donna?».

La padrona ebbe la malaugurata idea di mormorare qualcosa tra i denti. Petit Louis, furioso, le afferrò le spalle.

«Ripeti!... Vuoi ripetere sì o no?...».

«E va bene! Io dico che non è affatto sicuro che sia la tua donna...».

«Eh?».

«In ogni caso, è stato Gène a sistemarla qui e io non voglio grane... E lasciami!... Non è così che si tratta una donna come me... Tra poco cominceranno ad arrivare i clienti, perciò fuori dai piedi!...».

«Che cosa ha detto?» replicò lui un secondo dopo avvicinando il viso a quello di Louise.

«Non lo so...».

«Menti!... Ha parlato di Gène... È vero?».

«Io ero la donna di Gène prima che...».

«E adesso?».

Aveva capito. Gène pretendeva di mantenere dei diritti su di lei. Gène, del resto, non lo aveva mai preso sul serio e, per sfotterlo, si ostinava a chiamarlo l’Artista.

«Vestiti!» ordinò lui.

«Prendi le tue cose...».

«Ma...».

«Senti... La mia pazienza ha un limite... Se entro cinque minuti non sei fuori di qui, rientro e faccio un macello... Capito?».

Uscì senza voltarsi a guardare le donne sdraiate sul marciapiede e, fatti un centinaio di metri, rimase là, appoggiato a una casa, ad aspettare.

Fece bene a non contare i minuti, perché trascorse quasi un quarto d’ora prima che una porticina si aprisse e apparisse Louise, ansiosa e furtiva, con indosso un tailleur di lana marrone e in mano una valigetta di fibra.

Lo raggiunse a passettini veloci, voltandosi di tanto in tanto, si aggrappò con la mano al suo braccio e, dopo avergli camminato accanto in silenzio per qualche istante, constatò in tono risentito:

«Per me stai facendo una sciocchezza...».

Sulla corriera non dissero una parola. Arrivati a Nizza, scesero alla Californie e Petit Louis, sempre in silenzio, scelse un alberghetto a due piani e chiese una camera per una settimana.

Non c’era acqua corrente. La coperta era di cotone spesso e grigio, e il catino era posato su un treppiede di bambù.

«So quello che faccio, capisci, e non sarà certo Gène, per quanto furbo, a darmi delle lezioni...».

La finestra era aperta, la serata calma e umida. Si sentivano passare le macchine.

«Tanto per cominciare, il fatto che stavi in quella casa non mi è mai piaciuto...».

Forse erano state le lunghe ore di corriera ad averlo frastornato. Comunque, era commosso, quasi affettuoso.

«Che cosa aspetti a metterti a tuo agio?... Non sei contenta che ti ho tirato fuori di là?...».

«Mi chiedo che cosa succederà...».

A quel punto, lui parlò. Di rado aveva parlato tanto in vita sua. Ogni minuto si affacciava alla finestra perché la vista delle ghirlande di luce quasi lo galvanizzava.

«Vedrai che il mio affare è più redditizio del loro... To’! Intanto, prendi questo...».

E da una tasca estrasse un anello, uno di quegli anelli di famiglia che non valgono granché, costellato di minuscole perle opache e con al centro un piccolo granato.

«Me l’ha dato lei ieri... Mi dà tutto quello che voglio... Tra le sue carte ho trovato la ricevuta di una pelliccia di visone che ha messo in custodia per l’estate...».

«Chi è esattamente?».

«Per cominciare, non si chiama d’Orval, come vuole far credere, ma, stando ai suoi documenti, è una certa signora Ropiquet, vedova Ropiquet, nata Salmon... Quel che è certo, è che vive di rendita e che scrive lettere a un notaio di Orléans...».

«Per quale motivo?».

«Non ne so nulla... Domani o dopo, fai in modo di trovarti al casinò quando ci siamo anche noi e ti presenterò come una parente...».

Louise era rassegnata, apatica. Per passare il tempo, sistemava quel po’ di biancheria e vestiti che aveva portato con sé e rifaceva il letto a modo suo.

«Ieri, per la prima volta, gliele ho suonate di santa ragione. Ero sul pianerottolo, a chiacchierare con una vicina, una romena che socchiude la porta ogni volta che mi sente salire, quando la vecchia è sbucata fuori all’improvviso e si è messa a strillare...».

«Che cosa ha detto?».

«Quando?».

«Quando l’hai picchiata...».

«Mi ha chiesto scusa... Mi ha supplicato di non lasciarla... Mi ha giurato che piuttosto preferirebbe ammazzarsi... Vieni a fare un giro, dài! Non è ancora mezzanotte...».

Fecero una passeggiata sul molo, Louise sempre attaccata al braccio di Petit Louis in atteggiamento familiare, mentre lui, con le mani in tasca, faceva apposta ad allungare il passo, per sottolineare la distanza.

Stavano a lungo senza parlare, incrociavano persone di cui intravedevano appena il viso nella penombra, oppure guardavano un palazzo illuminato, un’automobile di lusso che si fermava. Poi, senza motivo, Petit Louis pronunciava una o due frasi.

«Gène e gli altri sono degli idioti...».

Era indispettito. E lo si capiva da piccoli sussulti, da frasi vaghe.

«Faranno sempre la stessa cosa, allo stesso modo, perché non sono intelligenti... Il Lionese ha esperienza, forse, ma è convinto che al mondo esiste solo lui...».

«Non pensi che rischiamo di incontrarla?».

«Chi?».

«La tua vecchia...».

«A quest’ora lei è al casinò, a puntare ogni tanto una moneta da cento soldi alla roulette. Mi sa che è un po’ tirchia...».

Ma non pensava a lei, pensava a Gène, a Charlie, al Lionese e ad altri ancora, a Titin, a tutti quelli che erano soprannominati i Marsigliesi e che, in fondo, non lo avevano mai preso sul serio.

«Era meglio se continuavi a fare l’ebanista...» gli avevano ripetuto spesso.

Perché lui un lavoro ce l’aveva, un lavoro vero. Quando sua madre, all’inizio della guerra, era arrivata da Lille per sfuggire all’occupazione tedesca, si era fermata, Dio solo sa perché, nel paesino di Le Farlet, tra Tolone e Carqueiranne.

Con due bambini piccoli e senza più il marito, si era messa a lavorare a ore in alcune case finché il vecchio Dutto, il proprietario della grande vigna della pineta, l’aveva presa al suo servizio, per così dire, con le funzioni di domestica e non solo, almeno stando alle voci che correvano.

Agli inizi Petit Louis aveva lavorato come apprendista presso il falegname di Le Farlet, poi un bel giorno era partito per Tolone, e di lì, a poco a poco, era salito fino a Lione.

Insomma, fino al servizio militare aveva lavorato, e anche dopo gli era capitato di farsi assumere un po’ qui e un po’ là, a Marsiglia, a Saint-Tropez, sei mesi a Sète, poi di nuovo a Tolone.

«Era meglio se continuavi...» lo sfottevano i Marsigliesi.

E anche adesso che aveva una donna in una casa chiusa e dava loro una mano quando ce n’era bisogno, lo facevano apposta a chiamarlo l’Artista.

«Lo vedremo se mi verseranno la mia parte o no...» minacciò tutt’a un tratto, quando avevano appena superato il casinò.

Poi, all’improvviso, gli venne in mente un’altra cosa:

«Vuoi vederla?... Senti... Io entro per primo... Andrò a mettermi vicino a lei...».

«Non sono vestita...».

«Non importa... Hai dei soldi per la carta d’ingresso?».

Passò davanti alla sorveglianza con un’aria da cliente abituale e con lo sguardo fece il giro dei tavoli dove si giocava; individuò Constance Ropiquet da lontano: era seduta in prima fila a un tavolo di roulette, accanto al croupier, com’era sua abitudine.

Di solito, aspettava che si liberasse un posto, sempre a sinistra del croupier, si sedeva e tirava fuori dalla borsetta una piccola matita d’argento, una banconota da cento franchi e dei cartoncini su cui annotava tutte le puntate.

Poco dopo entrò anche Louise, e Petit Louis le rivolse un sorriso impercettibile, poi avanzò verso Constance che, avvertendo la sua presenza dietro di sé, trasalì.

«Zitto!...» balbettò subito portandosi un dito alle labbra e indicando una pila abbastanza consistente di gettoni davanti a sé. «Va’ ad aspettarmi al bar...».

Poi, con un gesto materno, gli mise una manciata di gettoni in mano, si volse verso il croupier e domandò:

«Sono ancora in tempo?».

«Faccia in fretta!... Rien ne va plus... Sette...».

Constance cercò Petit Louis con lo sguardo, mostrò il sette, poi i suoi gettoni, mentre gli occhi le si riempivano di gioia e di orgoglio.

«Vince spesso?».

Si erano spostati al bar e Louise, che verso mezzanotte aveva sempre fame, perché cenava a orari irregolari, aveva ordinato un panino. Dall’alto dei loro sgabelli, dominavano la sala da gioco: c’erano pochi vestiti da sera, in compenso le donne di una certa età, come Constance Ropiquet, erano parecchie.

«Fate il vostro gioco... Rien ne va plus».

«Vince spesso?» ripeté Louise.

«Qualche volta... Ma, siccome gioca soltanto cento soldi per volta...».

«E dove prende la grana lo sai?».

«Tutto quello che so è che ha un vecchio che viene a trovarla due volte al mese... Lei dice che si tratta di un pezzo grosso, un diplomatico... Non l’ho ancora visto...».

«Pensi che si ingelosirà quando mi vede?».

«Le dirò che sei mia sorella...».

«Bello il tuo fermacravatte!» si limitò a osservare Louise.

Petit Louis, dal canto suo, si sentì sollevato al pensiero di trovarsi lì, vicino a lei, e di aver segnato un punto a suo favore contro Gène.

«Non voglio starle addosso, capisci?... Innanzitutto devo informarmi meglio sui suoi affari... Dato che è pigra, mi ha già chiesto due volte di scriverle delle lettere, ma non erano lettere importanti...».

«Attenzione...» balbettò Louise, con la bocca nascosta dal panino.

Constance si stava avvicinando, timida e sconcertata, e Petit Louis, come se non notasse il suo turbamento, si voltò verso di lei e disse:

«Mia sorella Louise... La mia amica, Constance d’Orval...».

«Molto piacere, signora...».

«Mia sorella è arrivata a Nizza questa sera e si fermerà alcuni giorni...».

«Alloggia in albergo?» domandò, da donna di mondo, Constance Ropiquet.

«No!» interloquì Petit Louis. «È ospite di amici... Mia sorella ha molti amici nel Midi... Suo marito era di Nizza...».

«È sposata?».

Petit Louis non poté trattenersi dal ridere con gli occhi e, per cavarsi d’impaccio, propose:

«Andiamo a bere qualcosa?».

Diede allora un’occhiata alle mani della sua compagna, e lei capì, confessando mestamente:

«Ho perso tutto di nuovo... Il sette è uscito tre volte e io ho voluto insistere...».

Il direttore di sala, da lontano, li osservava con fredda indifferenza professionale. In un angolo, su una panca imbottita, un ispettore di polizia aspettava pazientemente la fine del suo turno.

Louise Mazzone cercava di essere gentile, ma talvolta nei suoi occhi c’era un lampo di panico, perché pensava che di sicuro avevano già avvertito Gène, e si chiedeva quali erano le sue intenzioni. Arrivò al punto di calcolare mentalmente quanto tempo ci avrebbe messo per arrivare in treno da Marsiglia.

«Quella donna... c’è anche lei...» mormorò a bassa voce Constance a Petit Louis.

«Quale donna?».

«La nostra vicina... Se non la smette, faccio una scenata... Non si può mica correre dietro a un uomo in questo modo... Tanto più che non ha nemmeno l’età...».

Niuta era lì, in effetti, ma in compagnia di un giovane, e non sembrava curarsi di Petit Louis.

L’ingresso era deserto, il palcoscenico vuoto, le vetrine spente. Alcuni taxi stazionavano davanti al casinò e il mare emanava il suo respiro regolare, rotto talvolta dal grido di un gabbiano.

«Dove andiamo?» domandò Constance Ropiquet.

«Alla Californie...» propose Petit Louis che non aveva sonno.

Si stiparono in un taxi. Le ginocchia di Petit Louis toccavano quelle di Louise e Constance gli teneva la mano. In tre piccoli locali notturni che parevano delle bettole, le donne bevvero champagne e Petit Louis bicchierini di menta, mentre Constance intratteneva lunghe conversazioni con la sua compagna.

«Abita a Parigi?».

«Per una parte dell’anno...».

«Io, dall’epoca di mio marito...».

Alle quattro del mattino erano tutti e tre in place Masséna, e Constance insisteva:

«Ma se le dico che non è affatto un disturbo!... Vero, Louis?... Non è il caso di svegliare i suoi amici... Le presterò una camicia da notte e dormirà con me...».

Riuscirono a non scoppiare a ridere né l’uno né l’altra.

Constance era piena di premure. Volle a tutti i costi preparare una tazza di caffè, che corresse con acquavite di annata.

«Vai di là un istante, mentre tua sorella si mette in libertà...».

Chiacchierarono ancora a lungo, in tenuta da notte, nella stanza dai tendaggi scoloriti, dai cuscini morbidi, mentre gli ultimi taxi vagavano solitari per la città.