33.
La foresta era inghiottita dal gelido candore della neve, in un paesaggio dove gli abeti sparivano talvolta fino alla cima e il silenzio aveva uno spessore da fine del mondo, eppure continuava a raccogliere notizie da tutti i fronti clandestini in cui si continuava aspramente a lottare. Dalla Grecia, dalla Iugoslavia, dalla Norvegia, dalla Francia giungevano mille soffi di vita, i mille battiti di una speranza tenace e segreta. In quei segnali, venuti da paesi che sembravano spesso lontani come gli astri di cui conoscevano soltanto i nomi, i partigiani ritrovavano l’eco della loro stessa determinazione, del loro stesso ostinato rifiuto di disperare: si sarebbe detto che il partigiano Nadejda fosse contemporaneamente ovunque. Era da molto tempo che Janek non si chiedeva più chi potesse essere. Ora sorrideva, quando qualche compagno ne parlava gravemente intorno al fuoco, evocando le imprese del loro comandante.
«Sembra che la notte scorsa abbia di nuovo bombardato Berlino: non resta che pietra su pietra».
E tiravano dalle pipe con soddisfazione.
«In Iugoslavia fa impazzire i tedeschi. Del resto laggiù, con tutte quelle montagne, è più facile che qui da noi, in pianura».
«Sta facendo un buon lavoro anche qui».
«Ormai è certo: è lui a capo degli ebrei a Varsavia. Pare che il ghetto si sia sollevato e che si stiano battendo come leoni».
«L’idea ci è venuta circa due anni fa», spiegò Dobranski, camminando con Janek nella notte. «Era un momento durissimo: quasi tutti i nostri capi erano stati ammazzati in combattimento o arrestati dai tedeschi. Per ridarci coraggio e disorientare il nemico abbiamo inventato il partigiano Nadejda, un comandante immortale, invincibile, che nessuna mano nemica poteva catturare e che nulla poteva fermare. Era un mito che andavamo inventando così, come di notte si canta per farsi coraggio, ma venne rapidamente il giorno in cui assunse un’esistenza reale e fisica e fu realmente presente fra di noi. Sembrava davvero che tutti obbedissero agli ordini di qualcuno che nessuna polizia, nessun esercito d’occupazione, nessuna potenza terrena poteva colpire e distruggere».
E ogni volta che Janek ascoltava la musica, o quando Dobranski, aperto il suo quaderno da scolaro, leggeva una storia in cui vibrava l’eco del coraggio umano, si impadroniva di lui una specie di gaiezza, quasi di spensieratezza, come se il soffio dell’immortalità lo avesse sfiorato. Quando teneva Zosia fra le braccia e premeva la guancia contro la sua, quando montava la guardia nella foresta inghiottita dalla neve in attesa dell’alba, solo, tremante, spaventato, con una granata in mano e la notte sulle spalle, il leggendario partigiano si levava al suo fianco, gli passava il braccio intorno alle spalle, e Janek sentiva allora intorno a sé la certezza assoluta dell’invincibilità umana. Ora sapeva che suo padre non gli aveva mentito, e che nessuna cosa importante può mai morire.
Gli stessi tedeschi avevano finito per capire chi fosse l’invincibile nemico che non riuscivano a catturare. Sapevano dove si nascondeva e quanto fossero vani i loro sforzi per ucciderlo e strapparlo dai milioni di cuori cui dava coraggio. Ordini severi, che furono più tardi citati al processo di Norimberga, giunsero da Berlino, impartiti da Hitler in persona, a tutti gli stati maggiori della Gestapo in Polonia: ogni tentativo di identificare e arrestare il sedicente partigiano Nadejda doveva cessare immediatamente, «poiché non esiste alcun agente nemico con questo nome». Nessun riferimento doveva più essere fatto nella corrispondenza ufficiale a «questo personaggio mitico, inventato dal nemico per esigenze di propaganda e di guerra psicologica». I fratelli Zborowski riuscirono a procurarsi una copia di questi ordini, grazie a un agente che faceva il doppio gioco e che tentava ora di tornare nelle buone grazie dei partigiani. Dobranski ne diede lettura, traducendo il documento pagina per pagina, fra scoppi di risa ed esclamazioni di scherno: trovavano estremamente comico che la burocrazia poliziesca si impegnasse con tanto sforzo a negare l’esistenza di qualcosa che viveva dentro di loro con tale forza da riempire i loro polmoni e cantare in ogni molecola del loro sangue. Eppure, mentre assisteva a questa lettura con gli altri partigiani e li ascoltava farsi beffe di quei comici tentativi dell’oppressore di compiere l’impossibile, Janek si sentì assalire da una tristezza quasi disperata: per la prima volta era certo che suo padre fosse morto. Zosia, che aveva colto sul suo volto l’ombra di questa sofferenza, gli strinse timidamente la mano, e Janek le disse, con una voce la cui amarezza non aveva più età e che portava il segno di un’educazione precoce, di un’esperienza umana e di una maturità dalla quale le illusioni erano escluse:
«Dobranski dovrebbe aggiungere qualche parola alla sua traduzione. Quando diciamo che nessuna cosa importante muore mai, tutto quel che significa è che è morto qualcuno o che ci stanno per uccidere».
«Sei in collera. Non devi».
«Non sono in collera, Zosia, ma alla fine ho capito: tutto si spiega. Del resto ci hanno messi a una buona scuola e io sono sempre stato un allievo coscienzioso. Abbiamo ricevuto una straordinaria educazione. Ti ricordi Tadek Chmura? La chiamava la nostra “educazione europea”. Non avevo capito, allora, ero troppo giovane. E sapendo che stava per morire, Tadek metteva l’ironia dappertutto. Ma adesso ho capito. Aveva ragione. L’educazione europea sulla quale era solito scherzare è quando fucilano tuo padre, o quando tu stesso ammazzi qualcuno in nome di qualcosa di importante, o quando crepi di fame, o radi al suolo una città. Ti dico che siamo stati a una buona scuola, tu e io, ci hanno educati davvero».
Zosia ritrasse dolcemente la mano.
«Tu non mi ami più».
«Come puoi dire una cosa simile? Perché?»
«Perché sei infelice. Quando ami qualcuno, niente può renderti infelice. Vedi, anch’io ho imparato qualcosa».
Janek aveva adesso quindici anni. Quando marciava con i partigiani attraverso la foresta inghiottita dalla neve, con una mitraglietta in mano, o quando portava sulla schiena, verso qualche postazione avanzata, dei candelotti di dinamite nascosti fra i rami di una fascina, quando guardava pensosamente la capsula di cianuro che come tutti gli altri partigiani portava con sé, sentiva che gli restava ben poco da imparare e che a dispetto della sua giovane età era un uomo fatto. Attendeva con impazienza l’occasione di provare che aveva imparato la lezione e che era sullo stesso piano di coloro con i quali condivideva l’esistenza e i pericoli, ma che lo trattavano talvolta con superiorità, come se fosse ancora un bambino. E il pulsare della libertà, il battito segreto che saliva, sempre più forte e percettibile, da ogni angolo d’Europa e la cui eco risuonava persino in quella foresta sperduta, gli faceva sognare imprese eroiche, gesta virili che avrebbero reso il partigiano Nadejda fiero della sua più giovane recluta.
Un distaccamento di dieci feldgraus occupava una casupola sulla riva del Wilejka. Era uno dei numerosi posti di controllo e di sorveglianza stabiliti dal nemico intorno alla foresta, nel vano sforzo di impedirne i contatti con il mondo esterno e isolare i partigiani. Una spessa lastra ghiacciata copriva il fiume. I feldgraus l’avevano in parte sgombrata dalla neve e li si vedeva spesso pattinare sul ghiaccio e divertirsi allegramente, fra scoppi di risa.
Janek progettò il suo piano minuziosamente, senza farne parola a nessuno. Cominciò ad attraversare il fiume molte volte alla settimana, portando delle fascine sulla schiena. Usciva di nascosto dalla foresta, un chilometro a valle del posto di controllo, risaliva il fiume, e si presentava ai soldati come se venisse da Wierki, chiedendo il permesso di andare a raccogliere legna da ardere sull’altra riva, dove iniziava la foresta. Un po’ più tardi attraversava di nuovo il fiume, piegato sotto il suo fardello di rami, e talvolta se lo lasciava cadere dalle spalle sul bordo della pista di ghiaccio, come per riprendere fiato, e guardava con aria invidiosa i giochi sportivi dei feldgraus. I soldati finirono per chiedere al ragazzo di andare a divertirsi con loro. Gli prestarono i pattini e lo trattarono con grande gentilezza, invitandolo dentro la casupola e offrendogli caffè e cioccolato.
I feldgraus si sentivano isolati dal mondo e si annoiavano. Ben presto adottarono il piccolo polacco che non mostrava ostilità nei loro confronti e che si lasciava addomesticare tanto facilmente. Gli mostravano le foto delle loro mogli, dei figli, delle fidanzate e dei cani. Talvolta, stando in mezzo a loro, ascoltandoli ridere e guardando quei giovani volti mentre mangiava le loro razioni alimentari, Janek si sentiva assalire dai rimorsi e gli si stringeva il cuore, e gli ci voleva uno sforzo dell’immaginazione per ricordare che quei giovani erano nemici mortali.
Un giorno sistemò dei candelotti di dinamite fra i rami, si caricò la legna sulle spalle e attraversò il fiume ghiacciato. Il freddo era intenso e i feldgraus stavano tutti dentro la casupola, di sicuro ammassati intorno al fuoco; il comignolo fumava allegramente. Solo un soldato si trovava sul ghiaccio, dove tentava di imparare a pattinare senza successo e cadeva continuamente, ridendo di cuore della sua goffaggine.
I feldgraus accolsero Janek come un vecchio amico: chi beveva del caffè, chi giocava a carte, mentre altri dormivano. Il ragazzo gettò la sua fascina in un angolo, bevve la tazza di caffè bollente che gli offrirono, mangiò una tavoletta di cioccolato, poi prese in prestito un paio di pattini. Non aveva paura e il suo cuore batteva appena un po’ più forte del solito. Lo angustiava solo l’idea che tutte quelle buone cose da mangiare sarebbero andate distrutte con il resto: le tavolette di cioccolato, il caffè, lo zucchero, i barattoli di conserva. Avrebbe tanto voluto poter recuperare quelle cose e offrirle a Zosia, soprattutto il cioccolato.
Fece scattare il detonatore che teneva in tasca, lo fece scivolare nella fascina fra i rami e i candelotti di dinamite, e uscì a pattinare. Cercò di allontanarsi il più possibile, ma il ghiaccio intorno alla pista era irregolare e rugoso, e fu costretto a restare pericolosamente vicino alla casupola, il cui comignolo continuava a fumare allegramente. Il feldgrau faceva di tutto per restare in piedi sui pattini, ma a ogni movimento cadeva, imprecando e ridendo. Non c’erano più di cinquanta metri fra loro e la casa. Il tempo trascorreva lentamente e Janek cominciava già a pensare che il meccanismo del detonatore si fosse inceppato, quando ci fu l’esplosione. Ricevette un urto in pieno petto che lo scagliò all’indietro, ma si rialzò subito.
Anche il feldgrau era stato gettato a terra dallo spostamento d’aria, e adesso se ne stava seduto sul ghiaccio, con la bocca aperta, gli occhi fissi e spalancati, guardando con espressione sbalordita le macerie dalle quali salivano nubi di fumo nero. Era un ragazzo solido, dal corpo atletico, biondissimo, con le guance rosa e gli occhi azzurri. Tentò a fatica di rialzarsi e cadde due volte prima di riuscire a rimettersi in piedi sui pattini. Cercò allora di avanzare, muovendosi sui pattini verso la capanna come se nuotasse: cadde e si rialzò ancora una volta e fu allora che vide la pistola nella mano di Janek. Restò pietrificato e sul suo viso, sconvolto da sentimenti contraddittori, il rifiuto di credere a quel che vedeva lasciava poco a poco il posto all’orrore e a una disperazione da animale in trappola. Alla fine smise di fissare l’arma e tentò di fuggire, ma crollò subito sul ghiaccio. Janek era molto sicuro sui pattini: cominciò a descrivere un cerchio intorno al feldgrau, impugnando la pistola che gli aveva dato suo padre. Era una Browning di piccolo calibro ed era quindi costretto ad avvicinarsi per mirare bene. Per fortuna il soldato non era in grado di difendersi o fuggire. Mentre Janek girava intorno a lui, avvicinandosi a ogni giro, restò seduto, ruotando su se stesso per cercare di fronteggiarlo. Fece poi un nuovo sforzo per rialzarsi e correre, ma ricadde sulla schiena con le braccia incrociate e le gambe aperte, come un insetto rovesciato. Parve allora rassegnarsi, si raddrizzò e restò seduto, guardando tristemente la pistola nella mano di Janek. Quando Janek descrisse il suo ultimo giro, venendo questa volta a trovarsi vicinissimo a lui, a soli due metri, il soldato chinò il capo e attese. Non indossava il giaccone militare, solo un maglione pesante e una sciarpa dai colori allegri, e non aveva proprio l’aria di un soldato mentre se ne stava seduto là, a testa bassa, con i capelli biondissimi nella luce e le mani strette intorno alle ginocchia. Quando finalmente Janek si fermò e sollevò l’arma, ebbe l’impressione di stare per sparare a un semplice sportivo in difficoltà su una pista di pattinaggio. Ma lo fece lo stesso, senza esitare.
Corse poi fino alla capanna, si tolse i pattini e si mise a frugare fra le rovine. Il cielo fu generoso: trovò tutto il cioccolato intatto, c’erano un centinaio di tavolette e un sacco di zucchero. Recuperò anche del caffè e quasi tutti i barattoli delle conserve, soprattutto quelli di pesce affumicato. Attraversò più volte il fiume, seppellendo nella neve, sotto i primi alberi, tutto quel che non poteva portare con sé. Si caricò poi un sacco pieno sulle spalle e si inoltrò nelle profondità della foresta bianca e silenziosa, in cui si udivano solo, di quando in quando, i versi dei corvi. Sentì che aveva finalmente smesso di essere un bambino: era davvero diventato un uomo, un partigiano abile e risoluto, che sapeva portare a termine un’impresa patriottica e uccidere come i migliori combattenti per la libertà. Ma questo sentimento di esaltazione e di gioia virile non durò a lungo.
Dovette marciare cinque ore per raggiungere il punto nelle paludi dove si nascondevano i gruppi di Krylenko, Dobranski e Hromada. Forse per lo sforzo, o per semplice reazione alla tensione nervosa, di colpo si ruppe qualcosa dentro di lui e, dopo aver fatto un dettagliato resoconto della sua impresa e gettato il sacco di provviste ai piedi dei compagni, invece di rispondere alle loro domande eccitate, invece di rallegrarsi degli affettuosi colpetti sulle spalle e dei cenni di ammirazione, si mise a piangere, per la prima volta da quando si era unito ai partigiani: il cuore gli si riempì di uno strano rancore e li fissò attraverso le lacrime con uno sguardo che era quasi cattivo. Alle loro domande stupite rispose solo scuotendo la testa e quando infine si fecero silenziosi e lo lasciarono solo, afferrò Zosia per un braccio e la trascinò fuori.
Camminarono lentamente sulla passerella di legno che appoggiava sulla palude gelata, si fermarono vicino alla barca imprigionata dal ghiaccio fra i canneti pietrificati e di tutte le cose che avrebbe voluto esprimere e gridare, di tutta l’indignazione che gli serrava il cuore, non disse che queste parole, con voce tremante di bambino:
«Voglio essere un musicista, un grande compositore. Vorrei suonare e ascoltare musica tutta la vita, tutta la vita...»
Guardò il mondo immobilizzato nel ghiaccio intorno a lui, in cui tutto sembrava condannato a restare pietrificato senza cambiare più, senza nascere, senza rivivere né germogliare fino alla notte dei tempi; in cui tutto era destinato a restare come nel giorno del primo crimine, in un’eterna condanna a uccidere e a morire; in cui l’orizzonte era un passato che si ripeteva sempre, e l’avvenire solo una nuova arma; in cui le vittorie significavano soltanto nuovi combattimenti, l’amore era polvere negli occhi e l’odio serrava i cuori proprio come il ghiaccio attanagliava quella barca, dai remi aperti come braccia impotenti; e la piccola mano di Zosia nella sua era solo il frammento minuscolo e ghiacciato di un gelo universale. Lei gli passò il braccio intorno al collo, si appoggiò a lui e si mise a piangere anche lei, non perché l’irrimediabile infelicità del mondo le avesse toccato il cuore, ma perché lui le appariva tanto triste e sperduto, e non sapeva come aiutarlo.
Solo Dobranski capiva quel che stava accadendo nel cuore di Janek. L’indomani mattina, mentre camminavano insieme attraverso i canneti per dare il cambio ai partigiani di guardia ai limiti della palude, gli disse:
«Presto finirà. Forse la prossima primavera. E allora, te lo giuro, basta con l’odio, basta ammazzare. Vedrai. La pace, la costruzione di un nuovo mondo... vedrai».
«Era seduto sul ghiaccio», disse Janek, «con i pattini ai piedi e quella sciarpa allegra intorno al collo, che di sicuro gli aveva fatto sua madre, o la fidanzata, e non era più vecchio di te. Non mi ha neanche guardato. Era rassegnato, aveva semplicemente abbassato la testa e aspettava il colpo. Ho preso la mira con calma e ho sparato».
«Non potevi fare altro, Janek. È colpa loro. Sono stati loro a scatenare questi orrori».
«C’è sempre qualcuno che li scatena», esclamò Janek con collera. «Tadek Chmura aveva ragione. In Europa abbiamo le cattedrali più antiche, le più vecchie e celebri università, le più grandi biblioteche, ed è qui che si riceve l’educazione migliore, sembra che vengano in Europa da tutti gli angoli del mondo per istruirsi. Ma alla fine, quel che ti insegna tutta questa famosa educazione europea è come trovare il coraggio e delle buone ragioni, valide e convenienti, per ammazzare un uomo che non ti ha fatto nulla e che se ne sta seduto sul ghiaccio con i pattini e a testa china, aspettando la fine».
«Hai imparato molto», disse tristemente Dobranski.
Si fermò nella neve alta fino alle ginocchia e alzando la testa si mise a parlare. Parlò di libertà e amicizia, del progresso, di pace e fraternità e dell’amore universale; parlava di uomini uniti nella fatica del lavoro, ma anche in uno sforzo comune per comprendere infine il senso e il mistero del mondo; parlava di cultura, arte, musica e scuole, di università, di cattedrali, di libri e di bellezza... In realtà parve a Janek che Dobranski non stesse parlando, ma cantando. Stava fermo nella neve, con il mantello di cuoio nero semiaperto sulla giubba militare, l’arma a tracolla, le spalle strette e gli occhi che brillavano di una tale, gioiosa speranza che tutto il suo bel viso ne era illuminato. Agitava le braccia senza sosta, con un’animazione in totale contrasto con la fredda immobilità degli alberi ghiacciati che li circondavano e che apparivano a Janek quasi ostili. Non parlava, cantava: e tutta la forza e la bellezza dei canti immortali dell’umanità vibravano nella sua voce ispirata. Non ci sarebbero più state guerre, gli americani e i russi avrebbero unito i loro sforzi fraterni per costruire un mondo nuovo e felice dal quale il timore e la paura sarebbero stati banditi per sempre. Tutta l’Europa sarebbe stata libera e unita; ci sarebbe stata una rinascita spirituale più feconda e costruttiva di quanto l’uomo, nei suoi momenti più ispirati, avesse mai potuto sognare...
Quanti usignoli, pensò Janek, avevano cantato così nella notte attraverso i secoli? Quanti usignoli umani, fiduciosi e ispirati, sono morti cantando questa eterna e meravigliosa canzone? Quanti altri ne moriranno ancora, nel freddo e nei patimenti, circondati da disprezzo, odio e solitudine, prima che la promessa del loro canto inebriante venga mantenuta? Quanti secoli ci vorranno ancora? Quante nascite, quante morti? Quante preghiere e sogni? Quante lacrime e canzoni, quanti canti nella notte? Quanti usignoli?
Janek aveva solo quindici anni, dieci meno del suo amico, ma uno slancio caldo e protettivo, quasi paterno, lo avvicinò in quell’istante allo studente. Si guardò bene dal mostrarsi ironico, evitò di prendere un’aria di superiorità. Cercò di non sorridere e di non alzare le spalle, si sforzò di non chiedere amaramente: quanti usignoli?
Posò la mano sulla spalla dello studente e disse dolcemente:
«Vieni, ci aspettano, e forse hanno cominciato a spazientirsi».