17.
Un mattino i due ponti sul Wilejka saltarono in aria sotto il naso dei feldgrau che montavano la guardia. Lo stesso giorno, il trasformatore elettrico di Antokol venne parzialmente distrutto da un’esplosione, e di nuovo corse la voce attraverso la foresta: «Il partigiano Nadejda ha consegnato anche questa!»
I tedeschi fucilarono una dozzina di ostaggi, massacrarono di botte i loro informatori e annunciarono che l’estate seguente avrebbero bruciato la foresta, per farla finita con i “verdi”. Nel suo rapporto mensile del novembre 1942, il Gauleiter Koch rilevava con irritazione che gli sforzi per scoprire chi si celasse sotto lo pseudonimo di partigiano Nadejda, e l’energia e il tempo dispensati invano per metter fine alle imprese di colui che sosteneva il coraggio e la speranza di tutto un popolo, costavano all’esercito tedesco ancora più cari delle azioni partigiane, che si andavano peraltro intensificando.
Ora, nello sguardo che uomini, donne e bambini posavano sugli occupanti c’era una luce di gaiezza leggermente canzonatoria. I servizi di guerra psicologica di Berlino avevano capito che bisognava assolutamente farla finita con un uomo il cui nome avrebbe creato, in un paese vinto, un vero mito di invincibilità.
Si tentò allora una manovra particolarmente abile, su ordine di Kalterbrunner in persona: i giornali tedeschi annunciarono che il generale Nadejda, il cui vero nome era Malewski, comandante in capo delle armate partigiane polacche, era stato arrestato con tutti i suoi collaboratori. La sua foto dopo l’arresto – vi si vedeva un uomo fiero, bello, di statura gigantesca, con le manette ai polsi – fu distribuita a tutte le agenzie di stampa e i paesi neutrali annunciarono che la resistenza polacca era stata decapitata. I partigiani, però, guardavano la foto ridendo e alzando le spalle: sapevano benissimo che si trattava di una messa in scena, di un misero tentativo di spingerli alla disperazione. L’uomo così esibito dai tedeschi era solo una comparsa: non poteva essere il partigiano Nadejda perché il loro eroe era invincibile, inafferrabile, protetto da un intero popolo, e nessuna potenza al mondo, nessuna forza materiale poteva impedirgli di continuare la sua lotta e di trionfare.
Nella foresta della Wilejka Janek, come in quel periodo facevano tutti gli altri partigiani e la Polonia intera, si interrogava senza sosta sulla vera identità del comandante in capo dei “verdi”. Quando una nuova eco delle sue imprese risuonava nella foresta, quando i due studenti apparivano con il radiotrasmettitore e concludevano immancabilmente il loro messaggio con le parole: «Nadejda canterà domani», che lui aveva imparato a riconoscere dal ticchettio in Morse, Janek veniva preso da una tale curiosità che ci perdeva il sonno, e tempestava Czerw di domande.
«Sono sicuro che tu sai chi è».
Czerw guardava Janek con gravità e gli strizzava l’occhio. Non se ne cavava nulla. Inoltre, diventava sempre più difficile distinguere quel che c’era di vero nelle imprese attribuite al loro eroe, e quel che era invece il frutto dell’immaginazione popolare. Quando si sparse la voce che il partigiano Nadejda combatteva a Stalingrado, Janek raddoppiò i suoi sforzi per ottenere da Czerw uno straccio di informazione, ma quello dava sempre l’impressione di prenderti in giro, vale a dire che stava zitto mentre il suo occhio destro ammiccava sempre più rapidamente; e tutto questo con la più grande serietà, cosa che rendeva la sua espressione ancora più beffarda. E un giorno, finalmente, disse a Janek:
«Sì, lo conosco».
Janek fu assalito da una gran paura. Di colpo non voleva saperne più nulla. Forse il partigiano Nadejda non era affatto suo padre, come lui credeva ancora segretamente, e questo avrebbe significato che era veramente morto. Ma non poteva più tirarsi indietro.
«Lo hai visto?»
«Certo che l’ho visto. Ma soprattutto l’ho ascoltato».
«Ma chi è, dunque?»
Czerw lo guardò fisso, con gravità.
«Mi giuri di non parlarne?»
«Te lo giuro».
«Bene, te lo dirò. È un usignolo. È il nostro vecchio usignolo polacco, che da sempre sentiamo cantare nella foresta. Ha una voce bellissima, fa bene ascoltarlo. E poi, capisci, finché quell’usignolo continuerà a cantare, non può accaderci nulla di male. Tutta la Polonia è nella sua voce».
Janek lo guardò indignato, ma Czerw era serissimo e gli strizzava l’occhio con tanto affetto che era difficile volergliene e, dopotutto, la vera identità di Nadejda era un segreto militare della più alta importanza, che non aveva il diritto di svelare.
Una mattina Dobranski venne a trovare Janek e gli parlò a lungo.
«Soprattutto vorrei che lui venisse qui nella foresta. Che lo vedesse, che gli parlasse».
«Sarà inutile...»
«Forse. Ma dobbiamo provare».
«Benissimo. Ci vado subito».
Quando Janek giunse a Vilna era mezzogiorno. La villa privata dei Chmura si trovava accanto al Grande Teatro. Le colonne del teatro erano costellate di cartelloni in tedesco: annunciavano la rappresentazione del Lohengrin per le truppe d’occupazione. Janek attraversò il parco di cipressi, si pulì le scarpe, suonò. Un vecchio domestico aprì la porta. Guardò severamente quel visitatore vestito di cenci.
«Vattene. Noi non diamo niente ai mendicanti».
«Io vengo per vedere pan Chmura da parte del figlio».
Il viso del vecchio si rischiarò.
«Entra, ragazzo, entra».
Il vecchio chiuse la porta, mise la catena, si avvicinò a corti passi a Janek.
«E come sta pan Tadeusz?»
«È molto malato».
«Gesummaria, Gesummaria...»
Si asciugò gli occhi. La testa, sotto i lunghi capelli bianchi, tremava.
«Io l’ho visto nascere, l’ho visto farsi grande... Li ho allevati io tutt’e due, il padre e il figlio... Gesù».
Sollevò un po’ le spalle curve.
«Non potrei andare a vederlo?»
«Si vedrà».
«Domandaglielo, ragazzo, digli che sono io, il vecchio Walenty che lo vuol vedere...»
«Glielo dirò».
«Grazie, grazie, ragazzo mio. Tu sei un buon ragazzo. L’ho capito subito. Appena ho aperto la porta, mi son detto: ecco un piccolo angelo dal cuore d’oro... Sì, sì... Vuoi venire in cucina a mangiare qualche cosa?»
«No. Voglio parlare con pan Chmura».
«Bene, bene, come vuoi... Vado, vado a vedere...»
Il vecchio se ne andò trascinando i piedi, la schiena curva. Janek si guardò attorno. Era una ricca dimora. I mobili erano intagliati e dorati, come le cornici dei quadri e le maniglie delle porte e delle finestre; un magnifico lampadario pendeva dal soffitto. I tappeti erano spessi e soffici, animati da bei disegni. Janek pensò alla buca scavata nella terra fredda, allo studente che tremava sopra un mucchio di stracci. La porta si aprì con forza e pan Chmura entrò nell’anticamera. Era un uomo corpulento, dalla faccia congestionata e collerica.
«È mio figlio che ti manda? Mi meraviglia... Parla».
«Per piacere, non gridate», disse Janek. «Non ho bisogno di voi, io...»
«E invece io ho bisogno di te, non è vero? Ebbene, parla! Vuoi denaro? La banda chiede un riscatto?»
«Padrone», supplicò Walenty, «padrone, state attento».
Chmura si morse le labbra.
«E allora», disse con voce un po’ rauca, «come va, è sempre così testardo?»
«La tubercolosi è una malattia testarda», disse Janek.
«Rany boskie, che cosa dice costui?» si lamentò Walenty. «Ma è mai possibile?»
«Se l’è voluta», disse Chmura. «Ha fatto di tutto per venire là. Poteva essere curato come un principe, poteva guarire. Non ha voluto. E perché, a quale scopo?»
«Gesummaria...» piagnucolò Walenty. «Co to bedzie? Co to bedzie? Cosa mai ci capita, ora?»
«Voglio vederlo», disse Chmura.
«Sono venuto a prendervi».
Chmura si rivolse a Walenty:
«Dammi la pelliccia».
«Si fa presto a dire: dammi la pelliccia», balbettò il vecchio. «Ma forse pan Tadeusz ha fame, forse ha freddo».
«Basta», disse Chmura. «Se l’è voluta lui. Non possiamo farci niente, né tu né io».
«Dipende, dipende!» strillò il vecchio. «Vostro padre, che Dio abbia la sua anima, non si sarebbe mica messo con i prussiani».
«Dammi la pelliccia».
Il vecchio se ne andò brontolando. Quando tornò con la pelliccia sul braccio, anche lui era vestito per uscire.
«Vengo con voi», grugnì. «Vi conosco, voi due. Avrete bisogno di me».
Quando giunsero nella foresta era notte. Janek li condusse fino allo stagno del Vecchio Mulino.
«Aspettate qui».
Li lasciò lì. Nella buca degli studenti trovò Tadek e Dobranski chini sugli scacchi. Il fuoco si stava spegnendo. Pech russava, nascosto da qualche parte sotto un monte di stracci sporchi.
«Il padre del compagno», disse Janek, «è qui. Vuole vederlo. L’ho lasciato presso lo stagno».
«Non c’è che da spingerlo dentro», disse Tadek. «Se arrocco, perdo il mio cavallo. Ma se non arrocco... Perciò, naturalmente, arrocco».
«Il tuo cavallo non ci rimetterà niente ad aspettare un po’. Del resto, a me non interessa. Scacco al re e alla regina».
«Psia noga!» bestemmiò malinconicamente Tadek. «Non ho fortuna al gioco».
Volse lo sguardo febbricitante a Janek.
«Il compagno è stato imprudente. La prossima volta mio padre verrà qui con i tedeschi... Credo, Adam, che ci converrà cercare un’altra foresta».
«Vai a vederlo», disse Dobranski, mettendo a posto gli scacchi. «Dopo tutto, è il marito di tua madre... Pech, ehi Pech?»
«Che? Andatevene al diavolo!»
«Ci andremo. Occupati del fuoco».
La luna brillava. Era una notte blu, pura.
Videro da lontano le due sagome sulla riva dello stagno. Chmura si avvicinò al figlio e lo guardò. Poi si tolse bruscamente la pelliccia.
«Mettitela».
«Tenetevela, con tutto il resto. Non voglio niente da voi. Voi avete le mani sporche».
«Panie Tadku», cercò di intromettersi Walenty, «come si può, così...»
«Ascolta, ragazzo», tagliò corto Chmura, «io non sono venuto qui per difendermi. Comunque, ti dirò questo: il contadino polacco sta dalla mia parte, non dalla tua. Che cosa avete fatto voi, per lui? Niente. Le vostre prodezze sono servite a farlo fucilare, a fargli confiscare il raccolto e a far radere al suolo il suo villaggio. Se ha potuto conservare una parte del grano o delle patate, non lo deve a voi, ma a me. Perché io non faccio saltare i ponti, bado, semplicemente, che i miei contadini non crepino di fame. Io mi sono messo tra loro e i tedeschi, risparmio loro di venire affamati o di venir cacciati verso ovest come branchi di bestie pidocchiose. Non ci sarà uno stato polacco? E con ciò? Sarà sempre meglio di uno stato polacco popolato da cadaveri dove ogni cittadino avrà l’aria d’un sopravvissuto. È molto bella la lotta disperata, ma il destino di una razza è sopravvivere e non morire in bellezza...»
Pestò il piede.
«Se mi mostrassero dieci bambini polacchi e mi dicessero che per salvarli dovrei leccare gli stivali a dieci soldati tedeschi, io direi: “Eccomi pronto, servo vostro!”»
«Sarebbe press’a poco come se io volessi diventare complice della tubercolosi», disse Tadek. «Come se mi diceste: “Non lottare contro la tubercolosi, Tadek. Sii astuto. Mettiti d’accordo con lei. Cerca di fartela amica. Cara, volete i miei polmoni? Ma come no? Prendeteli, dunque, sono vostri, mia cara amica! Entrate, accomodatevi, fate come a casa vostra”. Dopo di che, certo potrei dormire tranquillo: la tubercolosi avrà la delicatezza di risparmiarmi».
«Rany boskie!» sbigottiva Walenty. «Simili spropositi...»
Chmura si rivolse a Dobranski:
«Voi avete rovinato la vita di mio figlio», disse. «Voi vivete rintanati nella foresta, in attesa che la tempesta sia passata: voi non sapete nemmeno che cosa sia lo sguardo d’un tedesco. Vi è facile giocare a fare i Robin Hood. Ma mio figlio è tubercolotico. Ci lascerà semplicemente, stupidamente la pelle. Ciò che gli occorre è la montagna, il sole. Voi rimproverate ai tedeschi di fare degli ostaggi, ma che cos’altro avete fatto voi se non prendere in ostaggio mio figlio? Rinunciate ad aiutare i tedeschi, dite, e vi si renderà vostro figlio. Io voglio salvare mio figlio. Io voglio salvarlo. Forse è già tardi...»
«Padrone!» urlò Walenty, atterrito. «Simili parole... Pfu, pfu, pfu!» sputò. «Sila nieczysta! Potenza diabolica!»
Chmura guardò per un momento il figlio.
«Torna», disse.
«Quanto avete guadagnato con le forniture di grano per le truppe tedesche?»
«Panie Tadku!» gemette Walenty.
«Se non avessi venduto il grano ai tedeschi, me lo avrebbero preso, e i miei contadini non avrebbero visto nemmeno il becco d’un quattrino...»
«Potevate bruciare il raccolto».
«Allora», disse freddamente Chmura, «i miei contadini sarebbero stati fucilati e i loro villaggi sarebbero stati incendiati... Viva la rivolta, signor figlio!»
Abbassò un po’ la voce.
«Non voglio più, nelle mie terre, villaggi rasi al suolo, miserie senza nome. Tu, fai pure come vuoi».
E aggiunse con amarezza:
«Tale padre, tale figlio... Nie daleko pada jablko ed jabloni. La mela non cade mai lontano dal melo... Se hai il coraggio di lasciarti morire per le tue idee, io posso bene accettare di perdere un figlio per le mie».
«Padrone!» urlò Walenty. «E il cuore, il cuore che cosa vi dice?»
«Fai come senti, Tadek. Ricordati che oggi, in ogni paese europeo, gli uomini maturi la pensano come me, mentre i loro figli si fanno fucilare per il piacere di scrivere «Viva la Libertà» sui muri delle latrine. In ognuno di quei paesi, le persone vecchie difendono la loro razza. La sanno lunga. Ciò che conta è la carne, è il sangue, il sudore e il seno materno, e non una bandiera, una frontiera, un governo. Ricordati: i cadaveri non cantano Jeszcze Polska nie zginela!1»
Buttò là:
«Ora me ne vado. Vuoi venire con me? Ti manderò in Svizzera domani stesso».
«Janek, mostragli la strada!»
Chmura gli volse le spalle e prese a camminare rapidamente, senza girarsi una sola volta. Il vecchio Walenty gli correva dietro a piccoli passi e ogni tanto si fermava, si voltava verso Tadek, faceva grandi gesti disperati.
«Padrone, non potete lasciarlo qui!... Gesù, il piccolo è malato! Mi si spezza il cuore!»
Chmura si fermò.
«Basta!» ordinò. «Non c’è niente da fare. Tu credi che io sia un cane, che non senta nulla? Io ti dico soltanto: non c’è niente da fare. Lui sa quello che vuole. È testardo. È della mia stessa carne e del mio stesso sangue. Andrà fino in fondo. E, dopotutto, ti dico, meglio avere un figlio morto, ma della tua carne e del tuo sangue, che una nidiata di bastardi viventi...»
La pazienza del vecchio domestico parve esaurirsi tutta d’un colpo.
«Assassino!» si mise a gridare all’improvviso, in falsetto. «Non ti vergogni? Tuo padre, se fosse vivo, ti sputerebbe in faccia. Tua madre ti ha certo concepito da un palafreniere ubriaco!»
«Tu puoi rimanere con lui», disse Chmura a denti stretti.
«Zeby ci sie krew zalalà! Che il sangue ti affoghi! Credi che non sarei restato con lui, se avessi cinquant’anni di meno? Da molto tempo ti avrei sputato sui piedi... Osi parlare così a me! È troppo tempo che non ti batto, paskudo, sacco d’immondizia!»
I giovani sentirono a lungo la sua voce che gridava ingiurie allontanandosi nella notte.
1 Inno polacco.