30.

Padre Burak fu sorpreso mentre pregava nella piccola cappella di San Francesco, a Wierki, e fucilato sul posto. Il distaccamento di Puciata perse cinque uomini nell’assalto ad alcune automitragliatrici sulla strada di Podbrodzie, e Puciata stesso giaceva gravemente ferito in una fattoria. Kublaj venne abbattuto dopo un violento scontro mentre stava sabotando la ferrovia di Molodeczno. I due operatori radio, traditi dalla moglie di un fattore, furono accerchiati in un granaio e tutte le postazioni radio clandestine della foresta ricevettero il loro ultimo messaggio: «Addio e buona fortuna, siete due di meno».

Il partigiano Nadejda, però, restava inafferrabile. Si diceva che ora avesse stabilito il suo quartier generale a Varsavia e che stesse organizzando la rivolta degli ebrei nel ghetto della capitale. I traditori e le spie segnalavano la sua presenza in più luoghi contemporaneamente e, al sorgere di ogni nuova alba, gli uomini affrontavano il plotone d’esecuzione con un sorriso di sfida, come se li animasse la segreta certezza che, in fondo, non poteva accader loro nulla.

Nei villaggi circolavano le voci più ingenue e sensazionali:

«Ha incontrato Roosevelt e Churchill e ha imposto le sue condizioni. Finalmente Stalin ha trovato qualcuno che gli tiene testa».

«Ha un’arma segreta potentissima, un raggio della morte che colpisce fino a dieci chilometri».

«Ieri è venuto a parlare ai bambini della scuola di Sucharki, ai piccoli brillano ancora gli occhi!»

A memoria d’uomo, mai si era avuto un inverno così freddo. In alcune zone della foresta la neve raggiunse i quattro metri e i “verdi” furono costretti ad abbandonare le loro tane. I distaccamenti di Krylenko, Dobranski e Hromada si rifugiarono in un padiglione di caccia in fondo alla palude ghiacciata del Wilejka, su un minuscolo isolotto perso fra i canneti pietrificati dal gelo. Un giorno – era il 3 febbraio 1943 – Pech arrivò di corsa nella loro tana, in un tale stato di eccitazione che tutti imbracciarono le armi, certi che fosse arrivata la loro ultima ora. Ma lui voleva solo vedere Krylenko per parlargli del figlio. Si diceva che il figlio di Krylenko fosse generale dell’Armata Rossa, ma non lo si doveva mai nominare davanti al vecchio ucraino. Quando, per caso o per malizia, qualcuno toccava questo scabroso tema, Krylenko si accigliava e diceva tra i denti: «Svolotch! Porco!»

«Ma», replicava l’interlocutore, meravigliato, «di sicuro vostro figlio, Savieli Lvovic, è un uomo di valore, dal momento che il popolo lo ha ritenuto degno di un così alto grado».

«Svolotch!» ripeteva allora il vecchio, alzando un po’ la voce a mo’ di avvertimento e fissando l’interlocutore, come per invitarlo a condividere l’onore dell’insulto.

«Ma perché dunque, Savieli Lvovic?»

«Che altro nome merita un uomo che abbandona suo padre al nemico?»

«Ma non vorrete dire che vi ha abbandonato al nemico, Savieli Lvovic?»

«Mi ha abbandonato al nemico. Svolotch, ho detto!»

«Non vi arrabbiate, Savieli Lvovic».

«Io non mi arrabbio, cholera emu w bok, che gli venga il colera!»

«Bene, Savieli Lvovic, poiché lo dite...»

«Che altro nome merita un uomo che ha abbandonato al nemico il villaggio del proprio padre?»

«Forse non ha potuto fare altrimenti».

Ma a questo punto il vecchio si infuriava, diventava rosso, cacciava il pugno sotto il naso del suo interlocutore e domandava, torcendo lentamente e pericolosamente i baffoni irti:

«Che cos’è questo?»

«Questo è un pugno, Savieli Lvovic».

«Abbandoneresti tu al nemico, senza farti ammazzare, il villaggio di tuo padre?»

«N... n... no, Savieli Lvovic, no... Soltanto...»

«Soltanto che?»

«N... n... niente, Savieli Lvovic».

«Tu non lo faresti, eh!»

«N... n... no».

«Sicuro?»

«Sicuro».

«Lo giuri sulla tomba di tuo padre?»

«Mio padre è ancora in gamba, grazie a Dio, Savieli Lvovic».

«Giura lo stesso».

«Giuro».

«Bene. E ricordatene, caso mai tu diventassi generale».

«Certo che me ne ricorderò, Savieli Lvovic. Posso andare, ora?...»

«Perché non si sa mai. Qualsiasi coglione può diventare generale con i tempi che corrono. Non hanno forse fatto generale Mitka?»

«M... m... mitka?»

«È mio figlio, che gli venga il colera», gridava Krylenko, i baffi improvvisamente irti. «Te l’ho detto venti volte. La prossima volta che te ne dimenticherai...»

Ma dopo una conversazione di questo genere, era ben difficile che ci fosse una “prossima volta”. Al principio i partigiani prestavano poca fede alla storia di Krylenko. Alle sue spalle, la giudicavano semplicemente come una storia “da far dormire in piedi”. Ma un giorno il vecchio tirò fuori di tasca, con un’aria di profondo disgusto, una fotografia spiegazzata, ritagliata dalla Pravda. Quelli che sapevano il russo – i veterani delle due guerre – lessero il sottotitolo: «Il più giovane generale dell’Armata Rossa, il generale Dimitri Krylenko». Il vecchio ucraino aveva fatto il calzolaio nel piccolo villaggio di Riabinnikovo. Il figlio era scappato di casa all’età di dodici anni, dopo una scena tumultuosa nel corso della quale aveva fatto sapere al padre che «lui desiderava studiare e diventare qualcuno». Per diciassette anni il vecchio non ne aveva sentito più parlare, ma all’inizio dell’invasione gente di Riabinnikovo era andata ad annunciargli che Mitka era stato nominato generale dell’Armata Rossa e che la sua fotografia era sulla prima pagina della Pravda. Il vecchio era stato estremamente sarcastico. «Studiare e diventare qualcuno», borbottò, «ge-ne-ra-le!» E dal disgusto appioppò all’amico cosacco Bogoroditza, che aveva avuto l’infelice idea di sorridere, un paio di pugni che gli fecero prontamente sparire anche l’ombra del sorriso. Non contento di ciò, il vecchio si ricordò del suo grado di caporale, che datava dalla rivoluzione, e si arruolò. Erano poi giunte nel villaggio di Riabinnikovo alcune sue lettere, nelle quali diceva che stava bene; ed era giunta anche la notizia che il generale Krylenko era stato decorato con l’ordine di Lenin per la difesa di Smolensk. Il primo incontro tra padre e figlio, dopo diciassette anni di separazione, fu molto drammatico. Quel giorno il figlio del calzolaio era seduto davanti a un’asse di abete che gli serviva da tavolo da lavoro, intento a studiare una carta. «Qui... la ventesima divisione. Riabinnikovo!» Fino a quel momento Riabinnikovo non era stato per lui altro che un punto qualsiasi del suolo russo, come centinaia di altri punti di cui aveva il compito di assicurare la difesa. Ma ora... «Il vecchio!» Fece un’alzata di spalle. «Buona terra dura, Riabinnikovo. Un bosco di abeti a sud... i carri armati vi potranno passare facilmente. La ventesima divisione non ha abbastanza anticarro. Questo significa: abbandonare Riabinnikovo e ripiegare a est». Prese una matita e tracciò con cura tre frecce nella direzione del fiume e un semicerchio a venti chilometri a est di Riabinnikovo.

Poi prese un foglio di carta, vi scrisse l’ordine di ripiegamento e subito pensò, con vero terrore: il vecchio strillerà. Sospirò, passò nell’ufficio del suo addetto e amico capitano Lukin, gli diede l’ordine e tornò a sedere dietro l’asse di abete. Il piantone entrò nella stanza, unì i tacchi, salutò. Aprì la bocca, e nello stesso momento si udì uno scoppio di voci, una grandinata di bestemmie, e il vecchio Krylenko entrò camminando all’indietro, inseguito, baionetta puntata, da una sentinella irritata.

«Papà», esclamò il generale.

Ma il vecchio ignorò il figlio, tutto occupato com’era con la sentinella.

«Non vedi le mostrine, ah?» gracchiò.

Ficcò la manica sotto il naso della sentinella.

«Ti piacciono, eh? Tu non ce le avrai mai!»

Si soffiò il naso con le dita e si volse al figlio. Il giovane Krylenko si era ripreso. Con un gesto, mandò fuori la sentinella e il piantone. Il vecchio si portò le mani sui fianchi, si chinò in avanti ed esaminò la propria opera dall’alto in basso, con incredulo disgusto.

«Allora è proprio vero, Mitka? Ti hanno fatto generale?»

Mitka abbassò gli occhi in un silenzio colpevole.

«E allora!» gridò il vecchio. «È così che accogli tuo padre, figlio d’un cane? Col culo sulla sedia e la bocca a culo di gallina? Non te le ho suonate abbastanza, ah? E credi che sia troppo tardi, forse?»

L’enorme pugno peloso avanzò fin sotto il naso del generale Krylenko.

«Ah?»

La porta della stanza contigua si aprì e il capitano Lukin fece capolino, spaventato.

«È mio padre», gli disse svelto il giovane Krylenko, a mo’ di spiegazione.

La porta si richiuse con discrezione. Il giovane Krylenko si rivolse al padre e cominciò a dire, conciliante:

«Su, non sbraitate così. Metterete tutti in subbuglio. Naturalmente, sono felicissimo di vedervi...»

Il calzolaio caporale Krylenko sedette comodamente sulla poltrona, davanti al tavolo del generale.

«Nou, to-to!» brontolò.

E guardò sospettoso il petto del figlio.

«Cos’è quest’affare?» domandò severamente mettendo il dito sulla medaglia di Lenin.

Il giovane Krylenko diventò rosso dalla confusione. Si sentiva disgraziato e abbattuto. Guardò da una parte, con aria colpevole. In fede mia, si direbbe che io l’abbia rubata.

«Non è niente», si schermì. «È per Smolensk, sapete, l’estate scorsa... Una sciocchezza».

«Una sciocchezza!» lo scimmiottò il vecchio Krylenko, sibilando di rabbia. «Perché non appenderti la medaglia di Lenin, già che ci sei, ah? Prokhvost! Mascalzone!»

«Ma...»

«Silenzio!»

Il pugno peloso tornò ad alzarsi sopra l’asse di abete.

«Togliti quella roba!»

Il giovane Krylenko staccò rapidamente la medaglia e se la nascose in tasca.

«Non vi arrabbiate... alla vostra età...»

«Alla mia età io sono ancora un combattente al fronte, mentre tu, a ventinove anni, non sei che un imbrattacarte in più. Ah?»

Sputò, nauseato, e allungò una gamba.

«Toglimi gli stivali».

Il giovane Krylenko si avvicinò al padre, gli volse la schiena, afferrò uno stivale e cominciò a tirare mentre l’altro stivale gli si appoggiava contro il sedere.

«Voglio il tè», decise il vecchio. «Fai portare il samovar».

Il generale chiamò il piantone. Il piantone entrò, picchiò i tacchi, salutò e sbirciò, a bocca aperta, il caporale scalzo, comodamente seduto al tavolo del generale.

«Porta il tè».

Il piantone scattò sui tacchi e uscì barcollando. Il vecchio Krylenko si fregò le mani e guardò la carta.

«Riabinnikovo», scoprì a un certo punto, con gioia infantile, puntando un grosso dito sporco sulla carta. «E questo ferro da cavallo che cos’è?»

«Sono le nostre nuove posizioni. Ho dato l’ordine di evacuare Riabinnikovo e di prendere posizione...»

Il giovane Krylenko tacque, inquieto.

I baffi del vecchio si erano drizzati di colpo e tremavano come una foresta sotto il vento. Gli occhi gli si fecero cattivi e fischi rabbiosi gli uscirono dal naso. Si raddrizzò lentamente, si protese in avanti...

«Come?»

«Non bisogna considerare queste cose da un punto di vista troppo personale, papà».

«Tu non difenderai Riabinnikovo? Il nostro Riabinnikovo?»

«Suvvia, papà, suvvia... Siate ragionevole. Qui il nemico ha una divisione corazzata tutta fresca, e io non ho anticarro...»

«Non hai anticarro? Non hai anticarro? Cosa ne hai fatto di quelli che ti aveva dato il popolo? Propil ich, tchto-li? Ili w karty produl? Li hai venduti per bere? O te li sei giocati?»

«Ascoltate, papà...»

«Svolotch!» urlò d’improvviso il vecchio con voce stridula. «A me, compagni! Schiacciatelo contro il muro! Fucilatelo! Aspetta, aspetta un po’!»

Saltò su con sorprendente agilità, afferrò il figlio per un orecchio e glielo torse...

«Ahi!» fece il generale Krylenko, senza vergognarsene. «Lasciatemi!»

«Ha abbandonato Riabinnikovo», si lamentò il vecchio. «Ci ho vissuto cinquant’anni, ci ho lavorato, e sudato... Nemmeno un piede che non sia stato calzato da me! Il nostro villaggio abbandonato al nemico, senza nemmeno sparare un colpo! Che cosa ne dirà Stiopka Bogoroditza? E Vatruchkin? E Anna Ivanovna? Mitka Krylenko ha abbandonato il suo villaggio natale al nemico! Mio figlio!»

Allarmata dalle grida, la sentinella si era precipitata nella stanza con la baionetta puntata, convinta che stessero per assassinare il generale. E vide un vecchio caporale scamiciato, scalzo, che tirava, piangendo, l’orecchio al generale, il quale – orrore! – nemmeno cercava di difendersi. Era troppo per la sentinella. Si stropicciò gli occhi e scappò fuori, come se avesse alle calcagna tutti i diavoli dell’inferno... Il giovane Krylenko riuscì alla fine a liberare l’orecchio dolorante, e si riparò dietro al tavolo.

«Io ho avuto degli ordini», tentò di spiegare. «Non si fa mica come si vuole la guerra... E vi ripeto che non ho anticarro».

«Anticarro, anticarro! E le baionette, sono fatte per i cani?»

«Papà!»

«Che ti venga il colera!» gli rispose semplicemente il vecchio Krylenko. «Riabinnikovo, abbandonato senza nemmeno sparare un colpo, senza un soldato disposto a morire nelle sue strade!»

Tacque bruscamente e si raddrizzò.

«Ebbene! Te lo farò vedere io, io, Savieli Krylenko, come si deve battere un cittadino! Io ci vado, a Riabinnikovo, da solo! Col mio petto! Con le mie mani! Non ho bisogno di te... Skotina! Animale!»

Si rimboccò le maniche e si diresse con aria trionfante verso la porta.

«Papà, e il tè?» fece Mitka timidamente.

Il vecchio Krylenko si voltò e sputò tranquillamente per terra.

«Ecco quello che faccio con il tuo tè! Questo e altro! Non ci tengo a essere avvelenato! Un uomo capace di abbandonare il proprio paese al nemico può anche essere capace di avvelenare il proprio padre».

Uscì, e si udì ancora la sua voce gridare ingiurie mentre si allontanava. Il giovane Krylenko rimase solo nella stanza. Tirò fuori il fazzoletto e si asciugò la fronte. Ho sognato, o che? Girò intorno a sé uno sguardo incerto, e sobbalzò. Al centro della stanza troneggiavano con dignità un paio di stivali quasi nuovi, tenuti con molta cura... Se ne è andato a piedi scalzi. Il generale afferrò gli stivali, corse fuori. Percorse un centinaio di metri di corsa, sulla neve, con gli stivali in mano, e interrogò un soldato:

«Avete visto un caporale infuriato, con grandi baffoni e scalzo?» domandò severamente, tutto d’un fiato.

Il disgraziato soldato guardò il generale Krylenko, il famoso generale Krylenko, che ansava davanti a lui, con un paio di stivali in mano, e spalancò la bocca mentre un debole grido gli usciva dalla gola... Ma Mitka non c’era già più. Con gli stivali in mano correva veloce verso una figura gesticolante che si allontanava laggiù, sulla neve, lungo la riva del fiume gelato... Il vecchio era arrivato a Riabinnikovo proprio in tempo per incontrarsi, nella piazza del mercato, con i tedeschi che erano entrati nel villaggio dalla parte opposta. Krylenko impallidì, guardò per un attimo il grosso maggiore tedesco in piedi sul carro armato, poi gli si avvicinò:

«In nome dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche...»

«Was? Was?» si inquietò il maggiore.

«Vi dà il benvenuto», gli spiegò il luogotenente.

«Ach! Il benvenuto, gutt, gutt!» si rallegrò il maggiore.

Il vecchio calzolaio raccolse tutto il suo fiato e sputò ai piedi del tedesco.

«In nome dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche!» ripeté.

«Abführen! Portatelo via!» abbaiò il maggiore, livido dalla rabbia.

Il vecchio fu mandato in Polonia con un convoglio, con tutti gli onori dovuti al suo grado, e cioè in un carro bestiame. A Molodeczno gli riuscì di tagliare la corda, camminò per quarantott’ore, poi cadde svenuto e una mattina fu risvegliato dal minore dei fratelli Zborowski che lo aveva raccolto e curato.

Quando Pech entrò nella buca, Krylenko si stava spidocchiando.

«Buona caccia», gli augurò.

«Grazie».

«Savieli Lvovic», cominciò timidamente Pech. E tacque.

«Ah?»

«Niente», sospirò Pech.

«E allora stai zitto».

Continuò a frugare dentro il suo tulup di montone, con molta attenzione, seduto su un mucchio di legna.

«Savieli Lvovic», ricominciò Pech.

«Ah?»

«Non vi arrabbiate...»

Krylenko posò lentamente il tulup accanto a sé e guardò Pech:

«Stammi a sentire, ragazzo mio, se hai qualche cosa da dire, parla. E non dimenticare di andartene, dopo che l’avrai detta».

Pech mandò su e giù il suo gran pomo di Adamo e cominciò:

«Vostro figlio, Savieli Lvovic...»

«Svolotch!» tagliò corto il vecchio ucraino.

Ma a Pech parve tuttavia di distinguere una scintilla di interesse negli occhi dell’altro. Si affrettò a continuare:

«Bolek Zborowski ha sentito, ieri, le notizie da Mosca. Vostro figlio Dimitri Krylenko è stato insignito col titolo di “Eroe dell’Unione Sovietica” per la parte che ha avuto nella liberazione di Stalingrado».

La faccia del vecchio diventò ancora più grigia dei suoi baffoni.

«Non vi arrabbiate», disse in fretta Pech.

«Ne sei sicuro?» chiese Krylenko.

«Sicuro, Savieli Lvovic, Borek Zborowski lo ha sentito con le proprie orecchie, a Vilna».

«Dov’è?»

«È qui fuori... Non osava venire a dirvelo di persona, ma se volete...»

«Vai a chiamarlo».

Pech filò come una lepre e tornò all’istante con il più giovane dei fratelli Zborowski. Che non pareva del tutto rassicurato.

«Parla!» gridò Krylenko. «Che cosa aspetti?»

«...eroe dell’Unione Sovietica», si affrettò a dire Bolek. «Per la sua opera nella liberazione di Stalingrado».

«Ne sei sicuro?»

«Sicuro, Savieli Lvovic. Hanno detto ben chiaro il nome: generale Dimitri Krylenko».

«Non è questo che ti domando, asino! Hanno proprio detto: liberazione di Stalingrado? Hanno proprio detto: liberazione?»

«Liberazione, Savieli Lvovic. E hanno aggiunto: il generale Dim...»

«Svolotch!» tagliò corto il vecchio Krylenko. «Questo non mi interessa».

«Ma come, ma come può non interessarvi?» Pech alla fine si indignò. «Permettetemi di meravigliarmene, compagno. Permettetemi di meravigliarmene vivamente!»

«Ebbene», disse Krylenko incoraggiante, «fai pure, amico, meravigliatene vivamente».

Indietreggiò di un passo e piegò il capo da una parte, come per meglio ammirare Pech che si meravigliava vivamente.

«Insomma, Savieli Lvovic», gridò Pech. «Vostro figlio ha liberato Stalingrado».

«N-no. Non è stato mio figlio. È stato il popolo a liberare Stalingrado. Il popolo, capisci? Il popolo bisogna ringraziare. Mio figlio ha indietreggiato per mesi e mesi. Lui disegnava frecce e circoli sulla carta: ecco tutto quello che faceva. Poi, un giorno, si è detto: “Questo cerchio sarà l’ultimo. Capito?” domandò al popolo. E il popolo gli rispose: “Capito”. Chi bisogna ringraziare? Colui che disegnava un segno sulla carta o coloro che hanno versato il proprio sangue sulla terra? Ah?»

Vi fu silenzio. Poi Pech emise un rumoroso sospiro.

«Insomma, io non sono venuto per discutere, ma per congratularmi con voi. E il compagno Dobranski vi invita a venire da noi stasera. Celebreremo la liberazione di Stalingrado. Ci saranno delle patate».

«Verrò a mangiarle», promise seccamente il vecchio.

Uscendo, il più giovane dei fratelli Zborowski disse a Pech, in tono cupo:

«Una vergogna... Non vale proprio la pena di avere un padre. Ecco come vi ricompensano».

E sputò disgustato.

Educazione Europea
titlepage.xhtml
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_000.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_001.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_002.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_003.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_004.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_005.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_006.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_007.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_008.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_009.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_010.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_011.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_012.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_013.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_014.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_015.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_016.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_017.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_018.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_019.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_020.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_021.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_022.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_023.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_024.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_025.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_026.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_027.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_028.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_029.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_030.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_031.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_032.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_033.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_034.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_035.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_036.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_037.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_038.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_039.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_040.html
CR!HZTWS9YTPS0DH2NPTZ4K8CH0Q2G6_split_041.html