19.
In una di quelle ore fredde in cui il cuore degli uomini e delle bestie si ghiaccia a poco a poco e la vita non attende che un segno misterioso per arrestarsi, Tadek morì. Morì di notte, nel sonno, coricato vicino al fuoco, e nemmeno la giovane donna che lo stringeva fra le braccia si accorse che se n’era andato. Il giorno prima si era sentito meglio. Aveva smesso di tossire e la febbre era calata. Aveva chiesto a Dobranski di leggergli un pezzo del suo libro.
«Non ne vale la pena», aveva detto Dobranski. «Cerca di dormire un po’».
«Mi sento bene stasera. Chissà, Adam, forse presto potrò uscire per le strade».
«Forse sì».
«In primavera faremo qualche colpo di mano contro i convogli tedeschi, non è vero?»
«Sì. In primavera».
«Bisognerà aiutare gli uomini di Stalingrado con tutte le nostre forze».
«Con tutte le nostre forze. Non ti agitare, Tadek».
«Sto bene. Adam, leggimi qualche cosa».
«Cosa vuoi che ti legga?»
«Un racconto».
«Bene. Non parlare troppo. Ricomincerai a tossire».
«Un racconto di cui io sia l’eroe. Un racconto meraviglioso, nel quale alla fine io morirò, però non di tubercolosi, ma in combattimento».
«Va bene. Stai tranquillo. Metti qui la testa, così. Ti racconterò una storia».
«Incomincia».
«Pronto. Ecco...»
Il pilota da caccia Tadek Chmura sta per morire. È coricato sulla schiena, nell’erba, al centro di un bosco inglese, piccolo e folto. Il suo aeroplano fracassato giace a qualche passo da lui, con le ali spezzate, l’elica furiosamente piantata nella terra come una spada. Dalla spina dorsale spezzata non gli viene alcuna sofferenza e il corpo gli è diventato estraneo. Era un buon corpo, pensa malinconicamente Tadek, con tutto l’affetto del padrone per un buon cane. La sua vista incomincia a offuscarsi...
«È quello che si chiama», mormorò Tadek, «un minuto patetico».
Ma d’improvviso vede il fogliame muoversi davanti a lui, e il viso stupido di Pech gli appare al di sopra di un gelso. Pech guarda Tadek con disgusto, gracchia sardonico e viene fuori dai cespugli con una bottiglia di whisky in mano...
«Fosse vero!» brontolò Pech.
«Stai zitto tu!»
C’è qualcosa di sorprendente in questa apparizione. Tadek se ne rende conto, ma nel suo stato presente è incapace di concentrarsi e di chiarire che cosa sia. Dopotutto, il campo di aviazione è a poche miglia di distanza, e dal campo devono aver visto il suo apparecchio precipitare sulla foresta. Pech si china su Tadek e gli avvicina la bottiglia alle labbra. Tadek beve e sente che, come in passato, l’effetto è gradevole. A quel punto vede apparire tra gli alberi il suo compagno di squadriglia, Adam Dobranski. Dobranski si comporta in maniera particolarmente odiosa: guarda con profondo disgusto il corpo stretto nelle cinghie del paracadute.
«Lo si direbbe un salsicciotto», dice, e siede sull’erba. «Passami il whisky. Allora, t’hanno fregato?»
Tadek gli risponde con una bestemmia e, a sua volta, chiede la bottiglia. Pensa che non si occupano abbastanza di lui che sta per morire.
«Taci», bisbigliò Pech. «Dorme».
Tadek aprì gli occhi.
«Non dormo. Continua».
Sta per morire, il suo corpo giace lì, patetico e abbandonato, e i suoi migliori amici hanno l’aria di ritenere tutto ciò un ottimo scherzo. Lui non chiede che si strappino i capelli singhiozzando, ma in fin dei conti pare che loro considerino tutto ciò soltanto una buona occasione per prendere una sbornia.
«Almeno potreste togliervi i berretti», suggerisce Tadek con dignità. «Pech, non ti scomodare. Se sei stanco di bere in piedi, puoi sederti sul mio corpo», aggiunge in tono tragico.
Con sua grande sorpresa, Pech gli si siede immediatamente sulla pancia, con la bottiglia in mano. Ma Tadek non sente alcun peso. Al contrario, ha l’impressione di guardare tutto questo dal di fuori, come se questo corpo bardato non fosse suo.
«Oh, va ancora peggio di quanto pensassi», dice, abbattuto. «Non cercate di tirarmi su il morale», ringhia. «So benissimo che sono spacciato».
«Bello mio», dice Pech, «se tu credi che noi ci facciamo qualche illusione... Cheers!»
E beve.
«Se tu puoi vedere distrutta l’opera della tua vita...» declama subito dopo.
«Mia?» geme Pech. «Di Kipling?»
«Sì. Se tu puoi vedere distrutta l’opera della tua vita... Quel buon vecchio Kipling! Ti faremo leggere i suoi poemi su Stalingrado... Lui stesso dice che sono quanto di meglio ha fatto. Che fuoco! Che brio! Spacciato, Gunga Din! Cheers!...»
«Cheers», dice Tadek. «Questo whisky è veramente buono. Vi fa riprendere il gusto di vivere...»
L’immediato effetto di questa dichiarazione è quello di rallegrare i due amici. La bottiglia continua a girare.
«Come va Jablonski?» domanda Tadek.
«È come noi», dice Pech. «Ha lasciato la squadriglia».
Vuota il bicchiere.
«Ora», aggiunge, «siamo nel volo a vela».
«E Czerw? L’ho visto scontrarsi con un tedesco, sul Mare del Nord... Ero duecento metri dietro di lui, e ho visto i due apparecchi precipitare in acqua».
«Sì», conferma Pech, «e Czerw si è trovato bel bello nell’acqua ghiacciata, a galleggiare come un sughero. “Brr...” balbettava in buon polacco. “Brr... Brr...” sente d’improvviso, dietro un’onda. Czerw volta la testa e scorge il tedesco che gli galleggia vicino e lo guarda con i suoi occhi stupidi. Si scambiano ingiurie per riscaldarsi: “S... s... sei spacciato, b... b... bello mio”, sbuffa trionfalmente Czerw in tedesco. “L... l... la cintura di salvataggio non resisterà eternamente. S... s... sei fottuto”. “Brr...” risponde tristemente il tedesco. “T... t... tu batti i d... d... denti, eh?” se la gode Czerw. “I... i... io?” balbetta il tedesco. “M... m... mi piace batterli”. “P... piace anche a me”, riconosce Czerw. “P... p... per nulla al m... m... mondo vorrei n... n... non essere qui”. “Brr...” balbettano tutti e due insieme, ciascuno sorvegliando l’altro. “I... i... io ho bombardato V... Varsavia v... venti volte”, ghigna contento il tedesco. “Co... co... co...” gli risponde Czerw tranquillamente. “Ch... ch... che cosa?” domanda l’altro, sospettoso. “Co... Colonia!... Ah ah ah!...” finisce Czerw. “Brr...” rabbrividisce cupamente il tedesco. Dopo un’ora incomincia a non farcela più. “Vai”, sbuffa, “vai sotto... finiamola...” “D... d... dopo di te”, risponde Czerw. “Senza complimenti”, protesta il tedesco, e incomincia a bere. Czerw segna un punto a proprio vantaggio. “T... t... tu bevi”, fa, giubilante. “In quanto a me, g... guarda... I... io vado sotto perché mi piace”. Sparisce un minuto sott’acqua e riesce a riaffiorare. “Eh?” rantola, più morto che vivo. “Ch... ch... che ne dici, eh?” Il tedesco lo guarda disperato, stringe i denti e sprofonda... “Aveva proprio una testa di maiale”, mi diceva più tardi Czerw, pieno di ammirazione. “Contai fino a dieci e lo dichiarai battuto. Dopo di che svenni”. Quando lo ripescammo era imbevuto d’acqua come una spugna. Passami la bottiglia».
Tadek butta fuori un sospiro di benessere. È felice. Ha bevuto parecchio e la testa gli gira leggermente, ma ha ritrovato i compagni e, come un tempo, torneranno insieme a combattere.
«Gliele suoneremo!» dichiara.
E si mette a cantare a squarciagola:
Jak to na wojence ladnie
Kiedy pilot z’nieba spadnie...
«Ma guardate quest’ubriacone!» fa Pech con disgusto. «In fede mia, dovremo portarlo fin lassù...» Lo prendono ciascuno per un braccio, lo sollevano...
Tadek canta.
Koledzy go me zaluja
Jeszcze butem potraktuja...
A un tratto urta contro un ostacolo... Si china. Il corpo inerte di un pilota è disteso sull’erba, tutto bardato, con il casco in testa. Lì vicino, i rottami d’un apparecchio.
«Che cos’è?» si meraviglia Tadek.
«Niente», dice Pech, «non ci badare. Non c’è che da scavalcarlo...»
E se lo portano via.
Dobranski tacque. I partigiani erano immobili, a testa bassa. Solo Pech bestemmiò fra i denti e più tardi, uscendo dalla tana, disse a Janek:
«Ci vengono a raccontare delle storielle per bambini all’inizio della nostra vita, e delle storielle per bambini anche quando stiamo per morire. Siamo fermi ancora nello stesso punto e dopo migliaia di anni questo è tutto quel che sanno fare per noi...»
Tadek Chmura sorrideva e l’amica, che gli accarezzava dolcemente il capo, con gli occhi chiusi e la massa dei capelli scuri che le ricadeva sulle spalle, serena in volto malgrado le tracce delle lacrime, rimase per sempre nella memoria di Janek come una polena che nessuna notte, nessuna tempesta poteva offuscare o colare a picco.
Più tardi, molto più tardi, quando le buche dei partigiani nella foresta polacca divennero meta di pellegrinaggio per un popolo che celebrava la gloria dei suoi eroi, e quando di Wanda Zalewska, torturata e giustiziata dai tedeschi, non rimase che un nome inciso su una piastra di bronzo accanto a quello di Tadek Chmura, all’ingresso del luogo sacro, quel viso rimase per Janek altrettanto vivo delle parole di suo padre, “nessuna cosa importante muore”; e ogni volta che lo rivedeva, era un po’ come se suo padre gli avesse mentito.
Tadek Chmura fu sepolto nella foresta, sotto la neve. Non segnarono il luogo della sepoltura. Lo studente aveva spesso ripetuto:
«Ricordate, nessun segno, nessun nome».
«Perché?»
«Per mio padre».
Lo guardavano in silenzio.
«Non voglio che mi trovi».