16.
Erano riuniti nel rifugio degli studenti. La pentola cominciava a fischiare allegramente sul fuoco. Pech si era offerto di fare il tè. Lo stava preparando, con gesti da mago, secondo una formula incantata che aveva avuto, diceva, da un vecchio caprone sapiente che viveva nella foresta. Del resto, Pech rivelava volentieri la sua formula: «Prendete una carota», diceva, «fatela seccare, raschiatela, fatela bollire per tre o quattro minuti nell’acqua...» «E viene buono?» gli domandavano. «No», confessava Pech sinceramente. «Ma è caldo e colorato».
Tadek Chmura stava steso su una coperta, con il sacco a pelo arrotolato sotto la testa, e guardava il fuoco. Seduta vicino a lui, la sua amica gli stringeva una mano, tenendo gli occhi chiusi; Janek vedeva il suo bel viso contro lo sfondo dei fucili e delle mitragliette appoggiate alla parete di terra.
Li conosceva bene, adesso. La ragazza, Wanda, e Tadek Chmura si erano conosciuti all’università, dove entrambi seguivano dei corsi di storia. Pech, il giovane partigiano ferito alla testa, studiava diritto. L’università, gli esami, la carriera di insegnanti che un tempo avevano scelto appartenevano ormai a un altro mondo che era scomparso, distrutto, svanito. Eppure, la loro tana era piena di libri e Janek fu sorpreso di sentire che trascorrevano lunghe ore chini sui loro corsi di storia e di diritto, che continuavano a studiare. Janek prese in mano un grosso volume di diritto costituzionale, lo aprì alla pagina che riportava la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo – Rivoluzione francese del 1789”, poi richiuse il volume con un sorrisetto canzonatorio.
«Sì, lo so», disse Tadek con dolcezza, «è davvero difficile prendere quelle cose sul serio, vero? L’Europa ha sempre avuto le migliori e più belle università del mondo. È là che sono nate le idee più alte, quelle che hanno ispirato le nostre opere più grandi: i concetti di libertà, di dignità umana, di fraternità. Le università europee sono state la culla della civiltà. Ma esiste anche un’altra educazione europea, quella che ci viene impartita adesso: i plotoni d’esecuzione, la schiavitù, la tortura, lo stupro, la distruzione di tutto quel che rende la vita bella. È l’ora delle tenebre».
«Passerà», disse Dobranski.
Dobranski aveva promesso di leggere un pezzo del suo libro. Janek attendeva impaziente, con la gavetta che gli scottava le ginocchia. Aveva fatto in modo che gli studenti invitassero anche Czerw, e ora Czerw era seduto in un angolo, timidamente, col mento sulle ginocchia e la schiena appoggiata al muro di terra. Per sentire meglio, si era tolto lo scialle ed era la prima volta che Janek lo vedeva a testa nuda. Aveva i capelli neri, riccioluti e lucenti; davano al suo viso un che di selvaggio. Non parlava, beveva il tè, ammiccava gravemente con l’occhio e pareva contento di trovarsi lì. Tadek Chmura tossiva molto: una tossettina leggera, benigna... Ogni volta che tossiva si portava la mano alla bocca, con l’aria di scusarsi. Dobranski lo guardava spesso, preoccupato.
«Incomincia dunque», disse Tadek.
Dobranski si frugò sotto la giubba e tirò fuori il suo grosso quaderno.
«Se vi annoio, fermatemi».
Tutti protestarono. Ma Pech, sgarbato, disse:
«Il compagno può contare su di me».
«Grazie. Il pezzo che vi leggerò si svolge in Francia. Si intitola: I borghesi di Parigi».
«I borghesi», disse Pech, «sono uguali dappertutto. A Parigi come a Berlino come a Varsavia».
E aggiunse, turandosi ostentatamente il naso:
«Mandano la stessa puzza, in tutti i paesi del mondo».
«Vai a farti fottere, Pech», gli disse gentilmente Tadek. «Sei comunista, benissimo, continua a esserlo, si vedrà un domani! Ma adesso, lasciaci in pace».
«Incomincio», disse Dobranski.
E cominciò a leggere:
Il signor Karl entra nella casa e si pulisce i piedi con cura, mosso da un’idea riguardosa verso la portinaia, madame Laitue. «I piccoli riguardi fanno i grandi amici...» Col viso atteggiato a cordialità bussa ai vetri della portineria ed entra con: «Buongiorno signori e signore» in bel francese.
«Signor Karl!» grida madame Laitue. «Finalmente, eccovi qua... Potete tradurmi quello che dicono questi signori?»
Il signor Karl inforca posatamente gli occhiali e si gira verso i due giovani in impermeabile che se ne stanno in piedi, con aria tetra, in mezzo alla portineria. Confratelli, riconosce immediatamente. Un altro sguardo gli basta per capire che i due visitatori sono molto al di sotto di lui nella gerarchia della Gestapo.
«Meine Herren?»
Scatto di tacchi. Educato scambio di suoni gutturali, brevi. Dio dei francesi, fa’ che riesca, pensa madame Laitue. Fa’ che tutto vada bene. Il cuore si comporta in modo bizzarro nel suo petto, come due anni fa quando le erano giunte le prime parole del marito: «Sono prigioniero. Ti penso. Non disperare». Nuovo scatto di tacchi.
«Aber natürlich!» sorride il signor Karl.
Si rivolge, paterno, a madame Laitue:
«Cara madame, una formalità. Questi signori credono che un paracadutista nemico sia nascosto in questa casa».
Il signor Karl stacca la sua chiave dal quadro.
«Ausgeschlossen!» dice secco. «Io so tutto quello che accade in questo stabile. Aber, natürlich... fate il vostro dovere».
Risponde al loro saluto ed esce. Il signor Karl è stato incaricato dalle autorità tedesche di vegliare sulla “tranquillità” del quartiere. È un compito di fiducia. Il suo metodo è semplice. Dolcezza, tatto, mano leggera. Sapere tutto, ma senza chiedere niente. Mostrarsi amico, alleato fedele. Il signor Karl fa circolare, deliberatamente, piccole leggende sul proprio conto. Di come, una volta, avesse nascosto a casa uno studente colpevole di aver distribuito dei manifestini. Di come, un’altra volta, avesse fatto punire severamente un ufficiale tedesco troppo intraprendente. I borghesi di Parigi sono ingenui. Non hanno alcuna idea circa la lotta sotterranea. E conquistare la loro fiducia è uno scherzo da bambini.
«Signor Karl».
Madame Laitue sale le scale a quattro a quattro, nonostante il suo cuore eccentrico.
«Me n’ero del tutto scordata... quella perdita nel vostro gabinetto da bagno. Ho chiamato un idraulico. Adesso è su che lavora».
«Ve ne sono infinitamente grato», dice il signor Karl, sollevando il cappello.
Ma madame Laitue già corre verso la portineria.
«Basta che tutto vada bene...»
Si scontra con una figura gracile che timidamente le chiede scusa.
«Vengo a dirvi addio», mormora il signor Lévy.
Cosa vuole da me? pensa madame Laitue, con uno sforzo. Ah, sì, parte. Ieri sera il signor Karl gli ha comunicato l’ordine di sfratto entro ventiquattr’ore. Bisogna che gli dica qualcosa di gentile... Poveraccio! Ma non ora, non ora. Spinge la porta e si dirige, con un sorriso sulle labbra, verso i due giovani tetri. Sulla scala il signor Karl incontra Grillet. Grillet è sempre nelle vicinanze del signor Karl, a dondolare le sue braccia da pugile, come una buona bestia fedele, e il signor Karl è molto fiero di questa sua muta devozione. Spesso gli dà una mancia, sigarette. “I piccoli riguardi fanno i grandi amici”. Grillet è l’uomo tuttofare della casa. Aiuta madame Laitue e fa piccoli lavori per gli inquilini. Guarda il signor Karl con i suoi occhi buoni da cane devoto. Il signor Karl gli batte amichevolmente sulla spalla e continua a salire la scala, fischiando Horst Wessel Lied. In tutto il quartiere, questa è la casa che lui preferisce. Mai noie, mai pasticci. I rapporti con gli inquilini sono cordiali e piacevoli. Un reciproco rispetto, una reciproca comprensione. Garbo. Totale franchezza. Reciproco aiuto. Cortesia. In una parola, collaborazione! In altri stabili si è dovuto minacciare, imprigionare, talvolta anche fucilare. Ci sono stati episodi di manifesti, di stampa clandestina, di ospitalità data ad agenti inglesi. Vi sono stati perfino degli attentati. Ma questa è una casa saggia, ubbidiente, una buona ragionevole casa. Con una o due eccezioni, è naturale. C’è il signor Honoré, un vecchio di settantadue anni che non si degna di rispondere al saluto del signor Karl, né gli rivolge mai la parola, e pare non voler nemmeno accorgersi della sua esistenza. C’è anche il signor Brugnon, mercante di formaggi. Ogni volta che incontra il signor Karl, gli dà grossolanamente un colpetto sulla pancia e, ridendo come un matto, urla: «Stalingrado, Stalingrado, desolata pianura, ah ah ah!» Il signor Karl sente un passo e solleva la testa: il signor Honoré sta scendendo la scala, diritto, impalato, con il bastone sotto il braccio. Non guarda il signor Karl, lo trapassa con lo sguardo e vede oltre. Come al solito. E come ogni volta il signor Karl si sente umiliato; essere odiato, va bene, ma essere ignorato... Ha l’impressione di non esistere mentre gli passa accanto questo matto d’un francese. E proprio per sottolineare la sua esistenza, solleva il cappello e saluta frettolosamente. Il signor Honoré non risponde. Il suo sguardo continua a filtrare attraverso la faccia del signor Karl, come se si trattasse d’un vetro un po’ sporco.
«Sentite», dice d’improvviso il signor Karl in tono vivace. «Spieghiamoci una buona volta. Io sono venuto qui da amico, da alleato, non da vincitore».
Il signor Honoré si ferma. Si volta verso il signor Karl. Lo guarda. Sì, lo guarda. Il signor Karl ha l’impressione di essere non soltanto guardato, ma anche visto.
«Evviva la Russia, signore!» grida il signor Honoré. «Evviva la Russia!»
Attende un momento, gli occhi fissi sul signor Karl, stringe il bastone sotto il braccio e riprende a scendere... Al piano di sotto madame Laitue, in mezzo ai due tetri giovani, viene ricevuta dalla signora de Melville, una vecchia signora con i capelli bianchi. Lei li riceve in anticamera e subito incomincia a parlare:
«Se ho qualcuno in casa mia? No, sono sola. Mio marito è stato ucciso nell’altra guerra – quella buona! – e mio figlio è in Inghilterra. Sì, signori, non è qui, è in Inghilterra. Conoscete l’Inghilterra, vero? Dall’Inghilterra sono partiti gli aeroplani che hanno distrutto Berlino. Mio figlio è nell’aviazione. Combatte contro di voi. Ogni notte getta bombe sulle vostre città. Non capite il francese? Peccato. Mio figlio... aeroplano... bombe... Berlino... Capite?»
La signora de Melville parla lentamente, sorridendo. Non si innervosisce. Cerca soltanto di guadagnare tempo. Basta che Grillet faccia presto! Speriamo che riesca a portar via in tempo il cesto! I due giovani tetri fissano la signora de Melville.
«Io stessa l’ho aiutato a partire. Non mi importa di essere rimasta sola. Sono felice. Sono felice di sapere che mio figlio combatte contro di voi. Vi fa conoscere le sofferenze. E le sofferenze vi insegneranno a essere umani...
I due giovani tetri si scambiano dei suoni rauchi e cominciano a perquisire l’appartamento. Si sente bussare alla porta, e madame Laitue va ad aprire. È il signor Lévy, col cappello in mano.
«Vengo a salutare la signora de Melville», dice timidamente.
La signora segue i due giovani da una camera all’altra. Bisogna trattenerli. Bisogna guadagnare un po’ di tempo. Bisogna dare a Grillet il tempo per portare il cesto fuori di casa.
«Frugate. Guardate. Calpestate. Potete anche bruciare e saccheggiare, e ammazzare, se vi salta il ticchio. Per me fa lo stesso. Non potrete impedire agli inglesi di bombardare le vostre città, strada per strada. Colonia, Amburgo, Berlino... voi mi capite. Gli inglesi vi apriranno gli occhi. E voi, in mezzo alle macerie delle vostre città, davanti alle tombe dei vostri bambini, riuscirete a capirci. Incominciate già a capire... Si avvicina il giorno in cui direte: “Mai più”. Ma allora sarà troppo tardi».
«Die alte Schickse ist verruckt. La vecchia è pazza», dice infine il più nervoso dei due giovani, con un’alzata di spalle.
Dobranski si interruppe e si rivolse a Tadek:
«Che te ne pare?»
«Può darsi che tutto ciò sia reale. Senz’altro lo è. Ma io non ne concludo niente e non ammiro affatto i borghesi di Parigi. Hanno imparato a scuola le favole di La Fontaine, hanno meditato su Montaigne, hanno costruito Notre-Dame e hanno dato al mondo ciò che ora il mondo sta cercando di render loro: la libertà. Vogliono restare francesi. Non c’è nessun motivo per ammirarli né per ringraziarli».
«Per conto mio...» cominciò Pech.
«Zitto tu! Zitto...»
«Immagine d’Épinal», volle dire comunque, tra i denti, Pech. «Acquasanta! Fumo negli occhi!»
Dobranski proseguì:
Il signor Karl è giunto davanti alla porta del proprio appartamento. Introduce la chiave nella toppa... In quel momento la porta di fronte si apre e i coniugi Chevalier escono sul pianerottolo.
«Signor Karl!... Che bella sorpresa!»
Il signor Chevalier si precipita sul signor Karl e gli stringe calorosamente la mano, come se finalmente avesse ritrovato in lui un vecchio amico. Il signor Karl lascia fare, gradevolmente divertito. I Chevalier sono i suoi più devoti amici, le sue docili pecorelle. Il signor Chevalier non dice mai: “La Germania”, ma “la nostra nobile e generosa alleata di oltre Reno”; non dice mai “il Führer”, ma “il geniale condottiero della Nuova Europa”; in bocca sua l’esercito tedesco è sempre “l’esercito dell’ordine”, e quando parla di “collaborazione”, il suo viso assume un’espressione di profonda emozione, gli occhi gli si inumidiscono. La signora Chevalier non parla mai, si contenta di unire le mani come davanti a un’immagine sacra e guarda il signor Karl con un’aria di muta e talvolta un po’ stupida adorazione. Qualche volta, poiché anche lui, come tutti, ha i suoi momenti di dubbio, al signor Karl tutto questo sembra troppo bello per poter essere vero. Qualche volta sospetta di essere vittima di una odiosa commedia, di una accurata “presa in giro”. Ma lui mette tutto ciò sul conto della sua naturale diffidenza e dei suoi nervi affaticati da dieci anni di servizio poliziesco. Gli basta udire quel tremolio commosso nella voce del signor Chevalier quando parla di “coppia Francia-Germania”. Gli basta guardarlo in faccia per sentirsi del tutto rassicurato. Il signor Chevalier ha dei baffettini a spazzola e sulla fronte ostenta un ciuffo ribelle del quale va orgoglioso. “Non vi ricordo qualcuno?” sembra dire il suo viso, con squisita timidezza.
«Signor Karl», dice il signor Chevalier, «noi siamo sempre felicissimi di potervi stringere la mano...»
Si interrompe. Grillet è giunto sul pianerottolo, con le braccia penzoloni e un mozzicone incollato al labbro inferiore. Gli occhi spenti, proteso in avanti, con quel suo viso da pugile malmenato.
«Vengo a prendere la biancheria», borbotta.
«La biancheria?» fa il signor Chevalier. «La biancheria? Ah sì... naturalmente, la biancheria sporca... Nel gabinetto da bagno, vecchio mio».
Afferra la mano del signor Karl e gliela scuote con forza, il viso che cola sudore. “La biancheria” è l’ultimo numero di Libération che i coniugi Chevalier stampano con un minuscolo torchio nel gabinetto e che Grillet e i suoi amici distribuiscono, di notte, nel quartiere. Purché la signora de Melville riesca a trattenere i poliziotti ancora per qualche minuto...
Purché Grillet ce la faccia a passare. L’appartamento della signora de Melville è al piano di sotto. Fra poco i due giovani tetri saliranno, e allora... Il torchio è ben nascosto, ma è impossibile far sparire la grande cesta. Gli basterà sollevare la tela e Libération avrà cessato di esistere... e anche i coniugi Chevalier.
«Vi ringrazio», dice solennemente il signor Karl.
La signora Chevalier, la testa leggermente china, la bocca schiusa, le mani giunte, lo guarda rapita... Grillet esce dall’appartamento. Porta tra le braccia la cesta, ricoperta da uno straccio sporco. Il mozzicone incollato al labbro inferiore, la faccia da tonto, Grillet comincia a scendere lentamente la scala... Il signor Chevalier continua a scuotere la mano del signor Karl, come un automa. Un piano... due... è passato!
«Vi ringrazio», dice il signor Karl, «e vi prego di scusarmi. Devo scrivere un rapporto...»
Il signor Chevalier si mette un dito sulle labbra.
«Non una parola», dice a bassa voce. «Abbiamo capito».
Scuote il ciuffo, ripete: «Non una parola!» e se ne va in punta di piedi, seguito dalla moglie. Chiude la porta giusto in tempo per accogliere tra le braccia la moglie che sviene silenziosamente... Sul pianerottolo, il signor Karl attende con rassegnazione, a occhi chiusi. Il signor Brugnon gli arriva addosso, a grandi passi, con il suo viso allegro. Chissà se oggi avrà altre maniere? pensa il signor Karl, con la faccia storta come se gli facessero male i denti. Ma già sente il riso idiota del signor Brugnon. Se soltanto facesse a meno di colpirmi la pancia... Ma il primo colpo è già arrivato.
«Stalingrado, Stalingrado... desolata pianura!» urla il signor Brugnon. «Ah ah ah!»
Il signor Karl gira rabbiosamente la chiave nella serratura e infine si trova a casa sua. Ha perso il buonumore, è nervoso e a disagio. Su! Andiamo! Un po’ di tatto, un po’ di dolcezza. Sente un rumore d’acqua. Ah sì... l’idraulico. Entra nel bagno. Un giovanotto in tuta blu è chino sulla vasca, e i suoi ferri sono sparpagliati sul pavimento.
«Ne avrà per molto?»
«Per una mezz’oretta, signore».
Hanno suonato. Questa volta è la fine, pensa il giovanotto. Non ha paura. Ma importanti informazioni non potranno giungere a Londra, e la Resistenza perderà un altro dei suoi preziosi agenti di collegamento... Il signor Karl va ad aprire e si trova naso a naso con madame Laitue e i due giovani tetri. Madame Laitue è pallida e disfatta. Ma il signor Karl se ne infischia di madame Laitue.
«Che diavolo volete?» urla in tedesco. «Das ist aber unehört, unehört! Glauben Sie vielleicht dass ich einen englischen Spion unter mein Bett verstecke? È incredibile! Credete che io abbia una spia inglese nascosta sotto il letto?»
Scatto di tacchi. Scuse.
«L’ho ben detto loro che questo era il vostro appartamento», spiega madame Laitue. «Ma non capiscono un’acca di francese...»
Madame Laitue chiude gli occhi. Dio dei francesi, fa’ che ci sbatta la porta sul muso! Sente un colpo e riapre gli occhi: la porta è chiusa.
Dobranski bevve un sorso di tè. Pech ne approfittò per passare all’attacco:
«Il compagno lavora per niente?» domandò. «Oppure trae qualche profitto da questo suo prostituirsi?»
«Lavora per niente», confessò tristemente Dobranski.
E tornò al quaderno:
È sera. Tutto è calmo nello stabile. Il giovanotto in tuta blu se n’è andato, con la borsa dei ferri sotto braccio. Anche i due giovani tetri se ne sono andati, in un’altra direzione. Grillet, nel suo abbaino, pensa alla giornata di domani. Domani bisogna trovare un posto più sicuro per la radio clandestina... Domani bisogna procurare le carte per il pilota inglese che è nascosto a Issy... Nuovi pericoli, nuove fatiche. Grillet accende una sigaretta e sorride. Come sono lontani da lui, ora, Spinoza e Bergson, il corso di filosofia da preparare e i compiti da correggere! I suoi allievi sono dispersi. Alcuni sono in Inghilterra... Altri sono morti o sono stati fatti prigionieri. Altri ancora sono nascosti, come lui, e lavorano... come lui, con lui. Domani, pensa, bisogna far qualche cosa per le famiglie dei due operai fucilati alla Renault.
Nel suo appartamento, il signor Karl, in pantofole, con i piedi ben caldi, comodamente seduto, lavora al rapporto settimanale per i suoi superiori. «Senza vantarmi», scrive, «posso affermare che la calma più completa regna nel mio settore. I borghesi di Parigi sono gente facile da guidare. Un po’ di tatto, un po’ di savoir faire, un po’ di dolcezza... Bisogna prenderli alla francese, ecco come bisogna fare. Bisogna diventare loro amici, procurarsi la loro stima, la loro fiducia. Una parola gentile, un piccolo favore... creare un’atmosfera d’intesa, di cordialità. Parigi è una città che non sa resistere a un pizzico di corte...»
Soddisfatto di sé, solleva la stilografica in aria e sogna. Certo i suoi rapporti saranno apprezzati e mandati in alto. Più in alto, molto in alto... sempre più in alto vanno i suoi rapporti. «Herr Lokalgauleiter Ober è un uomo di valore», ben presto si incomincerà a mormorare. Gli si affideranno nuovi incarichi... Più in alto, sempre più in alto! La penna in aria, i piedi dentro le pantofole, il signor Karl sogna...
In camera sua, il signor Chevalier scrive l’articolo per il prossimo numero di Libération. Sua moglie, nel bagno, si china sul minuscolo torchio. «Abbiate pazienza», scrive il signor Chevalier. «Tenete nascosto il vostro gioco. Agite soltanto di notte e a colpo sicuro. Non esponete le vostre famiglie, i vostri bambini. Fate bene il vostro gioco. Non perdete la testa. Non alzate i pugni. Le vostre braccia siano distese, i vostri visi siano calmi. Sorridete. E non disperate. Sappiate che loro verranno, che si preparano. Verranno così sicuramente come il giorno di domani. Allora getterete la maschera. Prenderete le armi. Sfogherete la vostra collera... Allora verrà la Liberazione!»
Una nuova e tragica prova si abbatte su madame Laitue. Un po’ più calma, sale dal signor Lévy per dirgli addio come si conviene. Suona. Il signor Lévy non risponde. È partito, pensa madame Laitue. Prende la sua chiave e apre la porta. Entra. Sì, il signor Lévy è partito. Il suo misero corpo pende da una corda, in mezzo al salotto. È partito. Senza permesso, ha varcato la frontiera. È passato nella zona libera. Ha lasciato la sua carta d’identità sulla tavola, molto in evidenza, come per precisare chi è lui e perché è partito. Certo ha un po’ esitato, prima di partire. Certo temeva di trovare anche le porte dell’aldilà chiuse davanti a lui, e con un cartellino: «Ingresso vietato agli ebrei».
I piedi dentro le pantofole, un sorriso soddisfatto sulle labbra, il signor Karl prosegue il suo importante rapporto. «Farsi voler bene», scrive, «ecco il segreto del mio modesto successo, e tale deve essere il nostro motto in questo paese... Giocare con i marmocchi. Cedere il posto alle signore nella metropolitana... I piccoli riguardi fanno grandi amici. Garbo, benevolenza... I borghesi di Parigi non sono abituati alle lotte sotterranee. Ancora non ci amano, ma incominciano ad ammirarci. Fra cinquant’anni i figli avranno dimenticato che i loro padri parlavano francese».
Dobranski chiuse il quaderno, se lo cacciò sotto la giubba.
«Dunque?»
Pech ostentò una completa indifferenza. Aveva versato dell’acqua bollente in un secchio e ora, con delizia, teneva a bagno i piedi nell’acqua calda. Aveva socchiuso gli occhi, piegato la testa da un lato. Se la godeva.
«Io ho qualche dubbio», disse Czerw. «Io credo...»
Esitò e arrossì violentemente.
«Parla francamente, Czerw».
«Io credo che tu ti sia sbagliato. Tu fai dell’idealismo. Non ho nessuna fiducia, io, nei borghesi... siano parigini o no. Scommetto che il signor Honoré ha ripreso servizio a Vichy, e temo che il tuo signor Brugnon stia vendendo i suoi formaggi ai tedeschi, tranquillamente e a buon prezzo. In quanto al tuo signor Lévy...»
«Ebbene?»
«È un asino. In questi tempi, se uno è ebreo non si suicida. Ammazza e si fa ammazzare. A meno che non si tratti di un maledetto piccolo borghese di un ebreo...»
Vi fu un chiocciare di approvazione: era Pech. Si asciugò i piedi con un gesto biblico, li mostrò in giro e disse, puntando su Dobranski uno smisurato ditone:
«Vedete... Perché io non mi ritengo mica responsabile della morte di quel giusto».
Più tardi, tornato nella propria buca, Janek trovò Zosia addormentata. Non lo aveva sentito entrare. Nella notte, Janek ascoltò per un po’ il respiro di lei, regolare, calmo. Si spogliò, si distese accanto a lei, le posò la testa sul petto. La ragazza non si svegliò. Janek sentiva il suo cuore battere tranquillo. Si addormentò anche lui, al calmo battito del cuore di lei. Al risveglio le disse:
«Sai, Dobranski sta scrivendo un libro».
«Te lo ha fatto vedere?»
«Sì».
«Che dice, in questo libro?»
Janek esitò. Poi l’abbracciò stretta e con apprensione.
«Dice che non siamo soli», rispose.