14.

A tarda notte Janek riprese la strada del ritorno. Dobranski lo accompagnava. Il vento soffiava nella foresta, i rami cantavano. Janek ascoltava quel mormorio fantasticando; vi si potevano sentire frasi e parole, bastava solo un po’ di immaginazione. Faceva un gran freddo secco, il freddo delle prime notti d’inverno.

«Si sente già la neve», disse Janek.

«Pare. Non ti sei mica annoiato?»

«No».

Dobranski camminò un po’, in silenzio.

«Spero che non mi farò ammazzare prima di aver finito di scrivere il mio libro».

«Non deve essere facile».

«Oh, niente è facile di questi tempi. Ma è più facile che tenersi in vita, e continuare a credere...»

«E il soggetto?»

«Gli uomini che soffrono, lottano e si avvicinano gli uni agli altri...»

«Anche i tedeschi?»

Dobranski non rispose.

«Perché i tedeschi ci fanno questo?»

«Per disperazione. Hai sentito quel che ha detto Pech poco fa? Che gli uomini si raccontano delle favole e che facendosi uccidere per esse credono di trasformare il mito in realtà... è prossimo alla disperazione, anche lui. Non ci sono solo i tedeschi. La disperazione si aggira ovunque, da sempre, intorno all’umanità... E quando si avvicina troppo e gli penetra dentro, un uomo diventa un tedesco, anche se è un patriota polacco. La questione è sapere se l’uomo è tedesco o no, se gli capita di esserlo solo talvolta. È quel che tento di scrivere nel mio libro. Non mi chiedi il titolo?»

«Dimmelo».

«Si intitolerà: Educazione europea. È stato Tadek Chmura a suggerirmi questo titolo. In senso ironico, naturalmente: per educazione europea intende le bombe, i massacri, gli ostaggi fucilati, gli uomini costretti a vivere nelle tane come bestie. Ma io, vedi, raccolgo la sfida. Possono ripetermi finché vogliono che la libertà, la dignità, l’onore di essere uomo non è altro che un racconto per l’infanzia, un racconto di fate per il quale ci si fa ammazzare. La verità è che ci sono momenti nella storia, momenti come quello che stiamo vivendo, in cui tutto quel che impedisce all’uomo di abbandonarsi alla disperazione, tutto ciò che gli permette di avere una fede e continuare a vivere, ha bisogno di un nascondiglio, di un rifugio. Talvolta questo rifugio è solo una canzone, una poesia, una musica, un libro. Vorrei che il mio libro fosse uno di questi rifugi e che aprendolo, alla fine della guerra, gli uomini ritrovassero intatti i loro valori e capissero che, se hanno potuto forzarci a vivere come bestie, non hanno potuto costringerci a disperare. Non esiste un’arte disperata: la disperazione è solo una mancanza di talento».

Improvvisamente, dalle parti delle paludi, ululò un lupo.

«Tadek Chmura ha la tubercolosi», disse Janek. «Morirà qui».

«Lo sa anche lui. Più d’una volta abbiamo cercato di farlo partire. Dovrebbe andare in Svizzera, in un sanatorio. Potrebbe farlo: suo padre se la intende bene con i tedeschi. Ecco perché...»

«Che cosa?»

«Ecco perché lui resta con noi e preferisce lasciarci la pelle: perché il padre se la intende con i tedeschi».

«La battaglia di Stalingrado continua?»

«Sì. Tutto dipende da questa battaglia, tutto. Ma se i tedeschi vincono la guerra, tutto quel che otterranno sarà che un giorno dovranno fare uno sforzo molto più grande e terribile che se l’avessero persa. Non sono diversi da noi, non arriveranno a disperarsi veramente. Ci riusciranno. Raramente gli uomini falliscono, quando si tratta di avvicinarsi gli uni agli altri».

Esitò un attimo, e si fermò.

«Poco fa», disse, «mi hai domandato se anche i tedeschi...»

«Sì».

«Ti racconterò una cosa. Ti dimostrerò fino a che punto ci assomigliamo, noi e loro. Circa un anno fa il terrore tedesco era al colmo. I villaggi venivano bruciati uno dopo l’altro e gli abitanti... Be’, è meglio non insistere su quello che facevano agli abitanti».

«Lo so».

«Allora mi domandavo: come può il popolo tedesco accettare tutto ciò? Perché non si ribella? Perché si sottomette e accetta questo ruolo di boia? Certo, coscienze tedesche ferite, oltraggiate in ciò che hanno di più semplicemente umano, si ribellano e si rifiutano di obbedire. Quando, però, vedremo i segni della loro ribellione? Ebbene, a quel tempo un giovane soldato tedesco venne qui, in questa foresta. Aveva disertato. Veniva a unirsi a noi, a mettersi al nostro fianco, sinceramente, coraggiosamente. Non vi erano dubbi: era un puro. Non si trattava d’un membro del Herrenvolk; si trattava di un uomo. Aveva sentito il richiamo di ciò che in lui vi era di più semplicemente umano, e aveva voluto togliersi di dosso l’etichetta di soldato tedesco. Ma noi avevamo occhi soltanto per questo, per l’etichetta. Tutti sapevamo che era un puro. La purezza la senti, quando ti capita di trovarla. Ti acceca, in mezzo a tutto questo buio. Quel ragazzo era uno dei nostri. Ma aveva l’etichetta».

«E allora?»

«E allora noi lo abbiamo fucilato. Perché aveva addosso l’etichetta: tedesco. Perché noi ne avevamo un’altra: polacchi. E perché l’odio era nei nostri cuori... Qualcuno, a mo’ di spiegazione, o di scusa, non so, gli aveva detto: “È troppo tardi”. Ma sbagliava. Non era affatto troppo tardi. Era troppo presto...»

Dobranski aggiunse:

«Ora ti lascio. Arrivederci».

E si allontanò nella notte.

Educazione Europea
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