3.
La divisione delle SS Das Reich si trovava già da cinque giorni a Sucharki e si riprendeva a fatica dopo le settimane trascorse sul fronte di Stalingrado, da dove la paterna sollecitudine del Führer l’aveva finalmente richiamata.
Era la prima volta che la divisione affrontava il fuoco. L’alto comando non aveva esposto volentieri al massacro di una battaglia quella unità scelta, che di solito operava nelle retrovie, nei territori occupati, dove veniva impiegata per assolvere compiti speciali e delicati che ripugnavano talvolta alle unità regolari dell’esercito tedesco.
Ventiquattr’ore dopo l’ingresso della divisione a Sucharki, due camion di SS percorsero a forte andatura le strade del villaggio, in un crepuscolo grigio e velato nel quale i rami spogli degli alberi, i campanili e i tetti sembravano condividere con il cielo una immobilità spenta e senza suoni.
Vi fu poca resistenza: quasi tutti gli uomini validi erano partigiani e si trovavano alla macchia.
Qualche urlo lacerante, qualche sparo, il rumore di vetri infranti e di porte sfondate, e già i camion correvano di nuovo a tutta velocità, trasportando una ventina di giovani donne terrorizzate verso la residenza estiva dei conti Pulacki, a tre chilometri a sud di Sucharki, sulla strada per Grodno.
La divisione Das Reich era già ricorsa altre volte a questa astuzia tattica nei territori occupati, e quasi sempre con successo. Secondo lo storico motto del Gauleiter Koch, che l’aveva ideata, era una mossa ingegnosa che univa «l’utile al dilettevole» e che confermava una «concezione alta, idealistica» della natura umana1.
In effetti, non appena i partigiani venivano a sapere che le loro figlie, sorelle, spose e fidanzate erano in balia delle voglie dei soldati tedeschi, malgrado gli sforzi disperati dei loro capi per trattenerli, uscivano dal riparo della foresta, e questo era esattamente lo scopo cui mirava il nemico. Non c’era che da fumarsi una sigaretta dietro alla mitragliatrice, aspettando che uomini quasi impazziti dalla disperazione si gettassero all’assalto e si venissero a trovare proprio lungo la linea di tiro predisposta per accoglierli. Questo piano aveva dato buoni risultati ovunque, ma con i polacchi, che avevano un senso dell’onore maschile particolarmente suscettibile, era per così dire infallibile.
La villa dei conti Pulacki era stata progettata alla fine del XIX secolo da un architetto francese che si era visibilmente ispirato al Trianon. Era un palazzo d’estate, una “follia”, come si diceva ancora a quell’epoca, con saloni da ricevimento, un teatro, affreschi e preziosi rivestimenti lignei alle pareti. I combattimenti del 1939 l’avevano appena toccato, ma in seguito l’abbandono e il saccheggio avevano fatto la loro parte. Quasi tutte le vetrate erano state infrante, e qualcuna delle “ospiti” aveva tentato di tagliarsi le vene con le schegge di vetro; si erano dovute piazzare delle guardie all’interno. Vi regnavano un freddo e un’umidità tali che finivano con l’intorpidire le prigioniere, rendendole meno sensibili alle sofferenze. Solo due giorni dopo l’inizio dell’operazione “lupo-del-bosco” – così veniva chiamata nel codice operativo della divisione – i familiari riuscirono a pagare le guardie perché consegnassero indumenti caldi e coperte alle giovani donne.
Intorno alla villa un parco alla francese si estendeva sino al limitare della foresta. Rami e foglie morte imputridivano sul cemento degli stagni artificiali, da dove sporgevano le tubature arrugginite; Cupidi, Veneri e tutta una congerie di statue di marmo in stile Novecento costellavano i viali. I soldati montavano la guardia giorno e notte sotto le deliziose pergole, dove un tempo gli invitati dei conti Pulacki venivano ad amoreggiare, a sognare al chiaro di luna, ad ammirare i fuochi d’artificio o ad assistere distrattamente agli spettacoli del teatro di verzura, dove adesso era piazzato il nido di una mitragliatrice.
Le SS avevano installato una stufa nel palazzo, ma il carbone non bastava mai a riscaldare le stanze immense; c’era un po’ di tepore solo nel salone da ballo, dalle pareti riccamente decorate con rivestimenti blu e oro e il cui soffitto era popolato di angeli e dee affrescati alla maniera del Tiepolo. In questa sala stavano le prigioniere e i soldati se le venivano a scegliere. Quasi trecento soldati erano passati di qui nelle prime quarantotto ore.
All’alba del secondo giorno un gruppo di dodici partigiani uscì dalla foresta e avanzò in fila attraverso il parco, sparando: non fecero alcun danno e vennero falciati dalle mitragliatrici, lasciando sei uomini sul terreno prima di ritirarsi.
Dopo questo incidente le SS, soddisfatte nel veder confermata una volta di più l’efficacia dell’operazione “lupo-del-bosco”, avevano messo un’altra stufa nella sala da ballo e impiantato una cucina da campo per servire pasti caldi alle loro “ospiti”.
Una ragazzetta biondissima, che non doveva avere più di sedici anni, andava di continuo da una donna all’altra, una sigaretta fra le labbra, sforzandosi di consolare quelle che non riuscivano a rassegnarsi al loro destino e non sapevano adattarsi alle circostanze. La ragazzina aveva un visetto pallido, coperto di lentiggini e molto grazioso, nonostante il rossetto vistoso e troppa cipria sulle guance. Nessuno l’aveva mai vista a Sucharki. Spiegò che i soldati l’avevano raccattata a Wilno quando i suoi genitori erano stati uccisi e lei, disse, «andava con i soldati» già da un anno. Portava un berretto e un mantello militare davvero troppo grande per lei. Le calze di lana nera, sostenute da elastici, le scivolavano continuamente ammucchiandosi alle caviglie e lei le tirava su piegando una gamba, senza chinarsi, con un gesto infantile.
Quando una delle donne perdeva il controllo e cominciava a urlare, si precipitava verso di lei, le prendeva una mano e supplicava: «Vi prego, non è così grave, sapete. È una cosa senza importanza, non può farvi nulla se non ci pensate. È cattiva solo se vi ci fissate». Si occupava con un affetto e una gentilezza particolari di una bella giovane donna di circa trent’anni, dai capelli che iniziavano a ingrigire, i cui grandi occhi neri avevano una fissità prossima alla follia. Era la moglie di un medico di Sucharki, il dottor Twardowski. La ragazzina andava a inginocchiarsi spesso vicino a lei, le dava dei colpetti sulla mano, le accarezzava i capelli e diceva: «Su, non bisogna pensarci. Non possono tenerci per sempre, presto ci lasceranno andare. Andrà tutto bene, vedrete».
Nella villa non c’erano mobili e le donne dormivano su pagliericci stesi sul pavimento. Alcuni ritratti di famiglia dei conti Pulacki erano rimasti appesi alle pareti, strappati o bucati da pallottole: cortigiani vestiti di seta blu, il petto costellato di decorazioni, molto dignitosi sotto le loro parrucche bianche, e dame coperte di gioielli o con un cagnolino ricciuto sulle ginocchia.
Quando un soldato sceglieva la ragazzina bionda, che si chiamava Zosia, lei spegneva con cura la sigaretta, la posava sul davanzale di una finestra e saliva con lui al piano superiore. Al suo ritorno riprendeva la sigaretta e la riaccendeva. Dava l’impressione di pensare più alla sua sigaretta che a quel che le accadeva. Dava anche l’impressione che non le accadesse nulla e che tutto avesse veramente poca importanza.
Quando scorgeva un ufficiale fra i visitatori si precipitava verso di lui, lo tirava da parte, e con voce piagnucolosa e stridula chiedeva del carbone, più cibo, acqua bollente, sigarette, sapone. Gli si appiccicava come un cucciolo e finiva quasi sempre con l’ottenere quel che voleva. Allora si calmava di colpo, sorrideva soddisfatta e andava a dare la buona notizia alle compagne.
«Con i tedeschi è facilissimo. Se volete ottenere qualcosa da loro, se volete impressionarli, basta che diciate: “Schmutzig, schmutzig”, che vuol dire sporco. La sporcizia è una cosa che non possono sopportare. Con questa parola otterrete da loro quel che vorrete».
Le SS avevano piazzato tre mitragliatrici automatiche nel parco, di fronte alla foresta, e aspettavano pazientemente nelle loro postazioni, scendendo talvolta a riscaldarsi intorno ai bracieri. A più riprese, gruppi di partigiani uscirono dalla foresta e ingaggiarono battaglia. Quasi tutti furono uccisi dopo una breve sparatoria. Ma continuarono a venire, e spesso erano solo tre o quattro, quasi sempre mariti, padri o fidanzati.
Il quarto giorno un uomo alto di statura, che indossava un soprabito di buon taglio e un cappello di feltro, con una sciarpa calda intorno al collo, pince-nez e in mano una borsa da medico, si presentò all’ingresso principale della villa, mostrò al posto di guardia dei documenti che parvero in regola e fu autorizzato a entrare nel parco. Percorse il viale, salì lentamente la scalinata della villa, aprì la borsa, ne estrasse bruscamente una mitraglietta e sparò quasi a bruciapelo sui soldati che scherzavano fra di loro sulla terrazza, aspettando il loro turno. La ragazzina bionda, che aveva osservato con soddisfazione tutta la scena dalla finestra bevendo tè caldo da una gavetta, raccontò poi alle altre che l’uomo aveva fatto davvero un buon lavoro, prima di cadere. Era un medico di Sucharki molto conosciuto e stimato, il dottor Twardowski.
1 Ho saputo che in realtà queste parole sono state dette da un altro. Le lascio tuttavia nella bocca del Gauleiter Koch per fedeltà alla sua memoria.