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Il lavoratore non serve più? Buttiamolo via

Cosa sta facendo Mario Monti? Il senatore a vita? Ahahah… Sì, certo, il professore con il loden è senatore a vita. Ma…

Riavvolgiamo il nastro, altrimenti i passaggi non si capiscono. Quando Giorgio Napolitano lo nominò, gli italiani non capirono bene il senso di quella scelta: tanto, uno in più uno in meno. Bastò poco tempo – come abbiamo visto – per capire che quella mossa rientrava in una logica più ampia: la logica della lettera Draghi-Trichet; rientrava in un gioco che aveva un baricentro europeo. Chi doveva sapere già sapeva, perché le mosse future erano già state scritte, alla faccia della sovranità che appartiene al popolo. E chi doveva sapere? Chi aveva già scritto? I soliti noti. Gli illuminati. I migliori. Gli eletti. Quelli che si riuniscono a porte chiuse per decidere i percorsi futuri, per riscrivere le Costituzioni attraverso i trattati internazionali. Basta leggere le loro biografie professionali, incrociarle, metterle in rete. Mario Monti è uno di loro. Uno del club.

Al di là degli incarichi politici che ha ricoperto e sta ricoprendo, al di là delle mansioni svolte presso la Commissione europea e del suo ruolo alla Bocconi, vale la pena soffermarsi su alcuni suoi mandati e su certe sue relazioni internazionali. Per capire di quali interessi è portatore il “professor” Monti. Dal 2005 al 2011 è stato international advisor per Goldman Sachs, più precisamente membro del Research Advisory Council del Goldman Sachs Global Market Institute; dal 2005 al 2008 è stato il primo presidente del Bruegel, un comitato di analisi delle politiche economiche (think tank) nato a Bruxelles nel 2005. Tra i contribuenti passati e presenti del gruppo Bruegel, possiamo menzionare: Deutsche Telekom, Électricité de France (EDF), Ernst & Young, Erste Bank Group, General Electric, Goldman Sachs, Google, Microsoft, MasterCard, Novartis, NYSE (la borsa di New York), Euronext (una piattaforma di scambio finanziario paneuropea), Pfizer, Renault, Samsung Electronics, Syngenta, Toyota, UBS, UniCredit, Morgan Stanley, Standard & Poor’s. Dal 2012, il presidente del Bruegel è Trichet, predecessore di Draghi alla BCE. Guarda un po’, queste poltrone girano sempre a favore dei soliti noti, che se le scambiano tra loro…

Apro una lunga parentesi. Chi è questo Bruegel cui è dedicato il think tank? Bruegel il Vecchio fu un pittore olandese morto a Bruxelles nel 1569, autore di una famosa (e anche famigerata) Torre di Babele che spesso ritroviamo come icona europea. A tal proposito riporto per inciso alcune suggestioni – anche di tipo esoterico o addirittura massonico – che rimandano a Bruegel, alla sua Torre di Babele e alla nuova sede dell’Europarlamento. Non sono in pochi, infatti, a sostenere che l’edificio Louise Weiss sia stato davvero ispirato dalla Torre di Babele.

Un vecchio poster dedicato al progetto europeista ricreava con precisione la torre del dipinto di Bruegel, curandosi perfino di riprodurre la parte crollata delle fondamenta. Una siffatta idea si ritrovava nella nuova struttura. Lo slogan «Europa: molte lingue, un’unica voce» si riferisce alla confusione creata da Dio con una moltitudine di lingue. L’Europarlamento ribaltava la punizione di Dio, quasi a voler sancire la sacralità di un nuovo potere, una specie di nuovo santuario per un nuovo ordine mondiale. Questo poster fu ritirato a causa delle proteste di numerosi gruppi, i quali ci vedevano una prova della mentalità esoterica dei costruttori del parlamento europeo. Suggestioni, nulla di più, che tuttavia non smorzano la curiosità per la dedicazione di un think tank europeista a un pittore del Cinquecento. Chiusa la parentesi.

Torniamo agli incarichi di Mario Monti. Nella sua vita professionale ne ha avuti molti altri, dall’Università Bocconi ai cda di FIAT e Coca-Cola. Inoltre è stato membro del comitato direttivo del Gruppo Bilderberg, del Senior European Advisory Council di Moody’s e uno dei presidenti del Business and Economics Advisors Group dell’Atlantic Council. Infine è stato presidente europeo della Commissione Trilaterale. Sia detto per inciso: a capo della Trilateral Italia siede attualmente Monica Maggioni, giornalista, ex direttore del canale all news della Rai, oggi presidente della tv pubblica. Per la Maggioni questa carica non ha alcuna incompatibilità con la presidenza della Rai; a me, personalmente, qualche perplessità invece la suscita.

Ma cosa sono tutti questi gruppi d’interesse dove ha militato il professore?

La Commissione Trilaterale è un gruppo di interesse sovranazionale di matrice neoliberista, fondato nel 1973 dal banchiere statunitense David Rockefeller (che è anche uno dei fondatori del Bilderberg ed è uno degli eredi dei Rockefeller della Standard Oil) e, tra gli altri, dall’ex segretario di Stato USA Henry Kissinger. L’attuale presidente del gruppo europeo è l’ex presidente della BCE Jean-Claude Trichet, succeduto a Monti. Ancora una volta, sempre i soliti…

Il club Bilderberg è una conferenza annuale, extraufficiale e sovranazionale. Si svolge a inviti e a porte chiuse, con divieto di accesso e militarizzazione della zona in cui si tiene. Off limits. Invalicabile. Anche se l’incontro occupa suolo pubblico. Giornalisti? Raus! Fuori! Non tollerati, a meno che non siano embedded e pertanto invitati (un anno un giornalista della mia redazione se la vide brutta con gli agenti di pubblica sicurezza austriaci, paese dove si svolse quella edizione). I luoghi in cui la conferenza si riunisce diventano privé oscuri, in spregio ai cittadini che ne sono sovrani o almeno dovrebbero esserlo.

Moody’s è la società di emissione e revisione dei rating sovrani: in poche parole dà la pagella alle nazioni sulla base di elementi finanziari e politici e ha un grande potere di condizionamento sugli equilibri degli Stati.

L’Atlantic Council è un think tank americano con sede a Washington D.C. il cui scopo è «promuovere la leadership americana e promuovere accordi internazionali basati sul ruolo centrale della comunità atlantica nell’affrontare le sfide del XXI secolo».

Insomma, Mario Monti ha una lunga carriera di relazioni alle spalle. Relazioni con i poteri che contano. Per questo era l’uomo giusto al posto giusto, secondo costoro. L’uomo giusto anche per “guidare” l’Italia come premier tecnico nominato da Napolitano e sorretto dalla più ampia maggioranza che si ricordi. Secondo diversi analisti e commentatori, questi poteri avrebbero persino individuato in Monti l’immediato successore di Giorgio Napolitano alla presidenza della Repubblica, e soltanto la sua (di Monti) convinzione di poter guidare un governo dopo le elezioni modificò quello scenario. L’ex preside della Bocconi, infatti, si presentò alle politiche con un movimento nuovo di zecca: Scelta Civica per Monti premier. Il risultato fu disastroso, il disegno montiano di diventare l’ago della bilancia fallì nell’urna prima ancora che nel suo ego. Con un responso elettorale freddo e preciso come un atto notarile, i cittadini italiani bocciarono le politiche tanto invocate dalla troika e rese possibili dall’interventismo dell’allora capo dello Stato. Tuttavia, quella bocciatura non fermò il cammino del senatore a vita; anzi, il suo profilo tornò buono per continuare il progetto tecnocratico chiamato Unione Europea.

Ornamento di separazione

Il 25 febbraio 2014 gli allora presidenti delle massime istituzioni europee, ossia Martin Schulz (Europarlamento), José Manuel Barroso (Commissione europea) e Antonis Samaras (Consiglio dell’Unione Europea), annunciavano in una conferenza stampa che Mario Monti era stato nominato presidente di un «gruppo di alto livello» incaricato di formulare proposte per le «nuove entrate dell’Unione». In effetti, forse non tutti sanno che a riempire il granaio di Bruxelles pensano in primis gli Stati membri con contributi pari al 75% del totale, e ciò che resta proviene dalle entrate doganali e dalle quote dell’IVA. Questo progetto sta entrando nel vivo dei suoi meccanismi preparatori per una serie di motivi che spiegheremo ma che si possono facilmente intuire. Il primo è di ordine tattico: o si sbrigano a inchiavardare la loro Unione Europea, oppure dalle urne potrebbero uscire strane sorprese, e allora qualche crepa potrebbe aprirsi.

Poiché se testi i cittadini sul loro sentimento europeista, i cittadini – soprattutto in questa fase storica – ti mandano bellamente a quel paese (e vorrei ben vedere!), Monti e soci si sono affrettati a precisare che «non è una maniera per mettere nuove tasse ma per trovare nuovi concetti per finanziare le istituzioni». Una bella frase che, messa in controluce, rivela il solito eurolessico. In altre parole, sa di fregatura. Infatti, proprio quel giorno di febbraio, l’allora premier greco Samaras, a nome del Consiglio e del terzetto di presidenti lì riunito, rivelò che «il sistema attuale di risorse dev’essere riassestato perché è molto complesso e non corrisponde alle necessità fattuali». Molto più esplicito fu Barroso: «Il gruppo studierà fonti di gettito del bilancio UE e vedrà in che modo si può creare un sistema di risorse proprie più trasparente e democratico». Diciamo che “trasparenza” e “democrazia” sono due parole forse svuotate da ciò che abbiamo visto consumarsi sotto il cielo di Bruxelles: del resto, anche di questo progetto si sa ben poco, esattamente come poche informazioni trapelano tutte le volte che su nuove regole e trattati convergono densi interessi di tipo privatistico.

La morale, dunque, è facile: questi signori, le eurotasse, le metteranno eccome. Perché il progetto finale prevede un vero e proprio ministero delle Finanze, così da agganciargli un’autonomia fiscale tout court e un ulteriore ingabbiamento dei governi. È sempre stata l’idea di fondo dell’Europa: basta con questi governi indipendenti, basta con queste Costituzioni nazionali scollegate dalla Grande Idea; e soprattutto basta con questi bilanci nazionali che non rispondono alle logiche neoliberiste. Un fisco europeo sarebbe un ulteriore passo in avanti per costringere i governi a fare quello che GangBank ha modellato per l’Europa. Non ci si può permettere una qualsivoglia saldatura del combinato Brexit/Trump con una vittoria di Marine Le Pen (la quale ha impostato tutta la campagna elettorale su proposte shock: fuori dall’euro, fuori dall’Unione Europea e pure fuori dalla NATO), o in Italia con un successo dei 5 Stelle e magari un buon risultato dell’asse Salvini-Meloni; e neppure con un exploit in Germania di Alternative für Deutschland trascinata da Frauke Petry, l’anti-Merkel.

A proposito, in Gran Bretagna le cose non sono andate esattamente come dicevano i soloni: ricordate, no? In caso di uscita dall’euro – dicevano – l’economia di Londra subirà una perdita di posti di lavoro, la nostra economia subirà un disastro e balle di questo tenore. Alla fine, resta solo il mea culpa del capo degli economisti della Banca d’Inghilterra, Andrew Haldane: «Ormai non siamo più credibili. È dal 2008 che sbagliamo previsioni. Siamo come i meteorologi» ha dichiarato pubblicamente all’Institute for Government nel gennaio 2017 prendendo atto di un 2016 chiuso sugli scudi e di un 2017 cominciato meglio delle aspettative. «I modelli su cui ci basiamo sono fragili e irrazionali, i problemi sono emersi quando il mondo è cambiato radicalmente e quei modelli si sono rivelati inadeguati per valutare comportamenti profondamente irrazionali […]. Ritengo sia onesto ammettere che la professione è in crisi, ma non è la prima volta che accade, basta pensare alla Grande depressione del 1930. Quella situazione tuttavia ci portò Keynes e la nascita della moderna macroeconomia.» Haldane così arriva a paragonare gli economisti ai meteorologi ricordando la clamorosa gaffe di una celebrità locale in materia, Michael Fish, che «mancò la previsione di un uragano su Londra nel 1987 prevedendo solo un po’ di vento in Spagna».

Una riflessione di segno analogo è stata condotta anche dell’«Economist» allorquando, all’indomani del voto dilagante per l’uscita dall’Unione Europea, ha messo il liberismo, la globalizzazione e la moneta unica nel mirino dell’analisi delle cause del voto referendario. In un editoriale intitolato La politica della rabbia, la bibbia liberista ha fatto il punto sugli errori di tecnocrati, politici e media che hanno portato ampi settori dell’elettorato – dal Regno Unito alla Francia, passando per gli Stati Uniti – a ribellarsi contro il liberismo internazionale: «Nell’ultimo quarto di secolo la maggioranza ha prosperato, ma moltissimi elettori si sono sentiti lasciati indietro. La loro rabbia è giustificata», per questo – aggiungiamo noi – è diretta all’immigrazione, alla globalizzazione, al liberismo e persino al femminismo: tutto questo si è tradotto in un voto di rigetto all’Unione Europea.

«I sostenitori della globalizzazione, incluso questo giornale,» prosegue l’«Economist» «devono riconoscere che i tecnocrati hanno fatto degli errori e le persone comuni ne hanno pagato il prezzo. L’adozione di una moneta europea imperfetta, uno schema tecnocratico per eccellenza, ha portato stagnazione e disoccupazione, e sta facendo a pezzi l’Europa. Strumenti finanziari complessi hanno disorientato i legislatori e mandato in crisi l’economia mondiale, fino a sfociare in salvataggi di banche pagati dai contribuenti e, successivamente, tagli di budget. Persino quando la globalizzazione ha provocato enormi benefici, i decisori politici non hanno fatto abbastanza per aiutare i perdenti. Il commercio con la Cina ha sollevato dalla povertà centinaia di milioni di persone e portato vantaggi immensi per i consumatori occidentali. Ma molti operai che hanno perso il lavoro non sono riusciti a trovare un altro impiego a un salario decente.»

Da questo ragionamento deriva una conclusione: «Il liberismo dipende dalla fiducia nel progresso ma, per molti elettori, il progresso è ciò che è accaduto ad altri […]. Come mostra la Brexit, quando le persone sentono di non avere il controllo sulle proprie vite e di non condividere i frutti della globalizzazione, si ribellano».

Insomma, le chiacchiere stanno a zero e l’Europa si sta sfaldando sotto l’evidenza dei primi dati reali legati all’opzione exit. I quindici anni all’insegna dell’austerità non hanno portato a nulla di buono, tanto che anche in Germania non è più un tabù mettere in discussione la rigidità di bilancio: «L’insistenza della Germania di Angela Merkel sull’austerity nell’eurozona ha diviso l’Europa come non mai e una spaccatura della UE non è più impensabile» ha affermato il vice cancelliere socialista Sigmar Gabriel in un’intervista a «Der Spiegel», il settimanale tedesco più venduto, attaccando duramente la cancelliera. Gabriel cita tra l’altro i rischi politici in paesi come Francia e Italia: «Una volta ho chiesto a Merkel cosa è peggio per la Germania: concedere a Parigi mezzo punto percentuale in più di deficit o avere Le Pen all’Eliseo? Ancora mi deve una risposta». Certamente è un riposizionamento in vista delle elezioni; ma, se le parole hanno ancora un senso, la presa d’atto degli esiti di certe politiche è evidente.

Il 2017 sarà un anno cruciale dal punto di vista elettorale: votano la Francia, la Germania, l’Olanda, difficilmente l’Italia; in America Trump userà la “luna di miele” per mostrare il proprio passo (finora sembra andare avanti come un caterpillar, come dimostrano gli indici delle Borse) e in Gran Bretagna la Brexit entrerà nel vivo del suo procedimento burocratico per mano del premier Theresa May. Insomma, Bruxelles teme fortemente che anche a livello politico si verifichi lo stesso raffreddamento del consenso già in corso tra i cittadini; ciò rovinerebbe i piani delle lobby e dei tecnocrati che a esse rispondono. Per questo il 2017 sarà un anno cruciale anche per il progetto «Un fisco autonomo per l’Europa» che dovrebbe superare la fase attuale per cui sono i singoli Stati a conferire indirettamente l’obolo a Bruxelles. L’idea di un vero e proprio bilancio europeo costituirebbe un’ulteriore stretta sulla sovranità dei paesi membri: le tasse europee, al di là dei giri di parole di oggi, arriveranno sulla testa dei cittadini europei in aggiunta a quelle già fissate dai governi nazionali e Bruxelles si comporterà con i governi centrali usando le stesse parole con cui oggi questi ultimi giustificano i tagli agli enti locali e al welfare: «Tagliate, gli sprechi sono sotto gli occhi di tutti». I giornali continueranno con le loro demagogiche campagne di denuncia degli sprechi locali e la gente si convincerà che, in fondo, a Bruxelles hanno ragione. Ma la verità è che a dare le carte saranno sempre loro, quelli di GangBank. I cui imbrogli (altro che sprechi) continueranno a perpetuarsi senza suscitare sdegno e ribellione.

Limitare sempre di più la sovranità nazionale non è solo un passaggio istituzionale o politico, ma coincide con una restrizione dell’azione politica tout court, cioè con la neutralizzazione di quanto scritto dalle Costituzioni prima ancora che dei governi che, in un dato momento, esercitano l’azione esecutiva.

Ma chi blinda i bilanci degli Stati nazionali? Per capirci qualcosa, vale la pena di radiografare il nostro debito pubblico.

Il 94% del debito dello Stato italiano è in mano ai fondi e agli speculatori esteri, alle banche italiane ed estere, alle assicurazioni, e infine alla BCE attraverso la Banca d’Italia. Nell’era della finanza, solo il 6% è in mano alle famiglie italiane, che rischiano di rimanere con un pugno di mosche ogniqualvolta si scatena una tempesta finanziaria (dati aggiornati al 30 novembre 2015). La quota di debito in mano alle famiglie italiane è in riduzione inesorabile da due decenni, mentre cresce la quota in mano agli “investitori”.

La situazione debitoria dell’Italia, che non controllando la moneta non può far altro che chiedere soldi ai mercati, ha subìto uno scossone con la crisi dei subprime del 2008, scatenata dal fallimento di Lehman Brothers negli Stati Uniti. Ma è peggiorata drammaticamente a partire dal 2011 con i governi Monti, Letta e Renzi. Tutti nominati pretestuosamente da Napolitano, per compiacere – o almeno così appare a chi legge la politica con occhio esterno e critico – la finanza internazionale nella «necessità di stabilire un nuovo ordine mondiale», espressione testuale e ricorrente in molti discorsi di colui che è stato definito “Re Giorgio”. Un ordine mondiale di stampo post sovietico: nelle conseguenze sui popoli, nel deficit democratico e nella geometria delle oligarchie. Ma un ordine mondiale con mandante ultraliberista: la finanza domina i popoli attraverso il controllo sulle suddette oligarchie. E attraverso la manipolazione di un pensiero unico, omologato e omogeneo: un pensiero unico che impedisce ogni ribellione. Com’è difficile far capire che lo spreco in termini monetari non coincide con lo spreco morale…

Quella del 2011 venne chiamata “crisi del debito sovrano”. In realtà, come abbiamo già visto (ma è sempre bene ripeterlo), fu un’altra cosa: una miscela esplosiva scaricata su Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna (i cosiddetti PIIGS, acronimo usato volutamente con animo offensivo e sprezzante: non potevano siglarlo “SPIIG”?) da organismi sovranazionali non eletti nonché dalla Germania. Elenchiamo qui alcuni eventi focalizzando la narrazione sulle conseguenze per la sola Italia.

1. Le banche tedesche e francesi erano sovraesposte nei confronti della Grecia, cui avevano erogato prestiti per favorire l’export di Germania e Francia. BMW, Audi e Mercedes: la Grecia ne era piena zeppa! Così come di apparecchi Siemens. E di armi da guerra teutoniche e transalpine. «I greci sono corrotti? Bene, e allora tanto vale comprarceli» si saranno detti i manager privati e pubblici tedeschi. Con dei bei soldini rimasti infilati anche nelle loro tasche, oltre che in quelle dei funzionari greci. E con il debito ellenico che schizzava alle stelle per nutrire Audi, Mercedes e perfino la società tedesca Hochtief che avrebbe gestito l’aeroporto di Atene fino al 2013 eludendo alcune tasse1.

2. Eventuali insolvenze del governo greco sul proprio debito avrebbero fatto saltare per aria le banche e le economie di Germania e Francia.

3. L’Italia non era esposta con la Grecia. Pur senza sfarzi, si barcamenava con dignità e stava uscendo dagli effetti della crisi finanziaria mondiale del 2008: il PIL aveva ricominciato a crescere, seppur moderatamente; la velocità di innalzamento del debito stava diminuendo e la curva del debito si stava approssimando al punto d’inversione ovvero all’inizio della discesa; il tessuto economico era tutto sommato intatto, benché affaticato e relativamente ridimensionato; la povertà era una questione marginale o, se vogliamo, una sfortuna che riguardava una fetta relativamente piccola della popolazione (poco più di due milioni di persone). L’Italia fu tirata dentro di forza in una crisi non sua. I sorrisini in conferenza stampa tra Merkel e Sarkozy sono passati alla storia. Deutsche Bank e BNP Paribas svendettero in un amen i titoli di Stato italiani provocandone la svalutazione immediata. Alimentarono così l’aumento incontrollato dei tassi d’interesse, provocando la crisi di quello spread che ci sta ricattando e impoverendo da quasi sei anni.

4. L’Italia fu chiamata a versare oltre 40 miliardi di euro a copertura delle possibili perdite delle banche tedesche: in parte direttamente alla Grecia, in parte all’interno di varie forme di fondi comunitari cosiddetti “salva Stati”. Poiché l’Italia non disponeva di risorse (essendo per di più gravata da 20 miliardi all’anno di contributi all’Europa per averne in cambio solo ceffoni da grigi burocrati di quart’ordine), dovette indebitarsi ulteriormente dagli strozzini dei mercati internazionali. E così, volente o nolente, innalzò la leva di crescita del debito. Per indebitarsi, per stare sui mercati e per attrarre gli investitori, un intero paese fu spremuto di tasse, mentre le sue fasce sociali più deboli furono violentate a colpi di accetta: austerità, tagli agli investimenti per la crescita, smantellamento dei servizi sociali. Monti innescò una spirale perversa in cui più si taglia, meno si cresce; e meno si cresce, meno lo Stato incassa e meno spende. Allora lo Stato aumenta ancora le tasse, taglia di più la spesa, e il paese decresce sempre più. E così via. Sfasciando l’economia e gli equilibri sociali. E ritardando nel tempo il punto d’inversione della curva del debito. Condannandoci a essere debitori per sempre, senza controllo sulla moneta. Secondo i desiderata di chi ci tiene per il collo: quegli stessi che ci fanno la predica sul debito sono i più interessati a che il debito cresca per aumentare la stretta su di noi.

Il nostro debito non è mai salito così tanto come dopo le crisi finanziarie del 2008 e del 2011. I triumviri non eletti, ma “fiduciati” dalle Camere sulla base dello spauracchio spread – Monti, Letta e Renzi –, l’hanno fatto salire di oltre 400 miliardi di euro in quattro-cinque anni, con picchi al 135% del PIL. 800.000 miliardi delle vecchie lire di debito addizionale. Senza cavarne nulla, anzi lasciando un paese a pezzi. Altro che Prima Repubblica. Altro che socialisti. Altro che Craxi. Altro che Cirino Pomicino. Il debito di allora, peraltro, finanziava la nostra crescita ed era in mano prevalentemente a noi stessi, agli italiani; oggi invece schiaccia l’Italia, nutrendo la finanza a suon di interessi e retroalimentandosi sui cittadini come un parassita. Con il biasimo di finanzieri e tecnocrati che ripetono la canzoncina: «Avete vissuto al di sopra delle possibilità, ora ne pagate le conseguenze». Roba da prenderli a schiaffi. Ma il biasimo fa parte della strategia: è la tecnica del blame the victim – “colpevolizzare la vittima” – citata più volte dal premio Nobel Joseph Stiglitz come arma dei sopraffattori contro le vittime della crisi dell’euro: Grecia, Italia, Portogallo ecc. Il tutto sotto l’effetto di campagne mediatiche terroristiche dei media nazionali e internazionali.

5. Il governo Berlusconi rifiutò di firmare la ricetta “lacrime e sangue” imposta dalla troika (Commissione europea, FMI, BCE).

6. Nel 2011 Francia e Regno Unito intrapresero una guerra veterocoloniale in Libia, appoggiati da Obama su vigorosa spinta della Clinton. Con effetti disastrosi per l’Italia e per l’intero Mediterraneo. In pratica, dopo l’aggressione anglofrancese a Gheddafi, l’Italia fu spinta da Napolitano a dichiarare guerra a se stessa.

7. Berlusconi (già indebolito per via del conflitto di interessi e di questioni di tipo personale – guarda caso gli stessi addebiti che hanno caratterizzano le campagne anti Trump) si ritrovò sotto attacco sia da parte dei poteri internazionali sia da parte di quelli italiani. Diciamo che era una preda facile, sebbene quella sua atipicità rispetto all’establishment costituisse un argine. Napolitano ebbe così gioco facile a orchestrare quello che parve chiaro a Zapatero, come abbiamo raccontato precedentemente. E preparò il terreno da lontano flirtando con Monti, nominandolo prima senatore a vita e poi premier.

Detto tutto ciò, ora domandiamoci: quali furono e quali sono tuttora le conseguenze di tanto sfacelo?

  1. Il debito sale e si autoalimenta in un circolo vizioso al rialzo.
  2. Il PIL crolla e non si riprende (hanno poco da arrampicarsi sugli specchi i presidenti del Consiglio di turno riguardo ai presunti aumenti a colpi di zero virgola).
  3. La domanda interna viene distrutta. «We destroyed internal demand» disse testuale Monti in un’intervista rilasciata negli USA quando era presidente del Consiglio.
  4. La produzione industriale crolla, con il settore delle costruzioni che va a picco. E crolla anche perché lo Stato non paga i lavori pubblici: c’è il pareggio di bilancio che perimetra l’azione della politica. Ma ditemi voi come ci si può disincagliare dalle politiche neoliberiste se le euroregole ti impongono di giocare una partita con handicap.
  5. Insieme al mercato delle costruzioni, si sfascia anche il mercato immobiliare (-25% circa). Che però il governo centrale in buona parte regala alle banche e alle assicurazioni.
  6. Lo Stato ha sempre meno soldi e quindi si indebita ancora, taglia i trasferimenti agli enti locali e quindi i servizi, aumenta le tasse, incluse quelle indirette e quelle occulte.
  7. I cittadini hanno sempre meno soldi e si indebitano per tutto: credito al consumo, casa, pensione (anticipo di pensione, cessione del quinto), cure mediche (assicurazioni, prestiti). Chi sta peggio rinuncia a tutto e si mette in coda alla mensa dei poveri.
  8. Con lo Stato e i cittadini alla canna del gas, i finanzieri fanno progressivamente incetta di pezzi d’Italia, come del resto facevano già da prima (la storia del Britannia, di cui parleremo nel capitolo sulle privatizzazioni, andrebbe iscritta nella storia economica italiana a pieno titolo!). Vuoi comprando i nostri asset per un tozzo di pane. Vuoi con concessioni obbligatorie (direttiva Bolkestein) ma che si traducono in fonti di entrate irrisorie per lo Stato. Vuoi con partecipazioni azionarie acquisite a prezzi artificiosamente bassi che non tengono conto del valore intrinseco dei beni (es. gasdotti / Snam; torri di trasmissione / Rai Way; uffici postali / Poste Italiane; cantieristica / Fincantieri; acquedotti / Acea). Vuoi con spezzatini comandati dall’alto (i decreti sulla concorrenza) che obbligano Eni, società integrata quasi unica al mondo, a disintegrarsi e a svendere i suoi pezzi pregiati. Spezzatini che rendono monca anche STMicroelectronics, regalando know-how all’estero e licenziando centinaia di lavoratori. Spezzatini che spolpano Finmeccanica (oggi Leonardo), sempre a beneficio degli stranieri.

Ora, perché tutto questo si sta consumando sotto i nostri occhi senza che la politica reagisca? Le risposte sono molteplici, ma quella del suo assoggettamento alla finanza le può racchiudere tutte. È ormai innegabile che la qualità delle classi dirigenti è inversamente proporzionale al potere che le politiche GangBank hanno acquisito e stanno esercitando. I parlamenti sono progressivamente svuotati del loro potere, e il rischio che lo siano sempre di più è confermato dalle narrazioni legate alle riforme.

«La politica deve essere più veloce per dare le risposte giuste alle domande della globalizzazione» è il refrain di chi tenta di modellare i tempi sanciti dalle Costituzioni sulla liquidità di una società marchiata dal neoliberismo. A furia di pensare “veloce” e “moderno” ci siamo ritrovati con una spaventosa forbice tra ricchi e poveri e una svendita generale dei diritti. Negli ultimi vent’anni lo squilibrio generato dalla globalizzazione di stampo neoliberista ha provocato un trauma in Occidente (come se non fossero bastati i danni in America latina e nel Sudest asiatico nella seconda metà del XX secolo: un bellissimo libro, Confessioni di un sicario dell’economia, racconta i metodi usati dal sistema GangBank per costringere gli Stati a regalare le proprie risorse e nello stesso tempo aumentare il proprio debito pubblico con esposizioni irrecuperabili). Gli effetti si riverberano sulla vecchia questione salariale (che oggi si estende a ogni reddito), sulla perdita del potere d’acquisto e sul crescente indebitamento privato. La Brexit, la vittoria di Trump e la sconfitta del rottamatore Renzi al referendum costituzionale sono state il perimetro democratico capace di contenere il disagio sociale. La domanda è se questo perimetro democratico terrà di fronte alla rabbia che gli squilibri generano. Forse sì, perché da una parte il forte risparmio privato e dall’altra la forza delle opposizioni antisistema riescono ad attutire i colpi. Ma reggerà quando poi il lavoro ci scoppierà tra le mani?

Dopo una campagna elettorale giocata sulle vicende personali, l’elezione di Trump e l’alba delle sua presidenza hanno impresso al dibattito economico e finanziario un cambio di passo. È ancora presto per definire i punti della Trumpnomics, ma rischia di arrivare tardi chi pensa che le prime mosse siano un ballon d’essai. Il nuovo presidente si muove con la ruvidità della old economy, con l’ateismo di chi rifiuta la divinità finanziaria e la liquidità dell’economia di carta. È vero che l’attuale presidente ha chiamato alcuni personaggi provenienti dalle merchant bank, ma tutti sono pronti a scommettere che farà di testa sua. Trump è un americano degli anni Ottanta e, a costo di apparire uno che ferma il vento con le mani, si è messo in testa di addomesticare la globalizzazione. E lo fa applicando le regole dell’unico mondo che conosce: «America first».

Egli sa che l’americano ha diritto a quella felicità che è sancita anche nella sua Costituzione, e che non si è felici se non si hanno soldi nel portafoglio. È il sogno americano. La piena occupazione obamiana si è rivelata un castello costruito sulla sabbia spazzato via dall’onda della globalizzazione: il reddito medio della middle class ristagna da quindici anni e l’aspettativa di vita mediamente ha cominciato ad abbassarsi. Le ricchezze dei super Paperoni sono figlie di questa economia di carta che ha prodotto vantaggi inutili per quell’economia di mercato in nome della quale si svendono sempre più pezzi di Stato.

La previsione che Trump fa sul futuro dell’Europa non è la sua strategia (anche se realisticamente avrebbe ragione a scommettere su nuovi equilibri geopolitici composti da interessi nazionali e non più “unionisti”), è la presa d’atto di un piano inclinato su cui l’Unione si è messa con regole assurde. Il progressivo distacco con cui i cittadini stanno guardando a Bruxelles è il bollettino medico di un paziente gravemente malato. Se l’Europa avesse portato benessere, la gente non si sarebbe disamorata. Invece è evidente che solo il sistema finanziario ci sta guadagnando. Quando Trump parla di protezionismo e di dazi o quando obbliga le multinazionali a una scelta di campo, sta facendo un torto all’economia reale? Io penso di no. Non è un male se Ford, FCA e forse Toyota non delocalizzeranno più le loro fabbriche: la globalizzazione offre una scorciatoia alle multinazionali? Bene, la politica economica non esclude il protezionismo: a brigante, brigante e mezzo. E se gli altri player storcono il naso in nome del libero mercato, allora forse le regole di questo libero mercato andrebbero riviste. Vale oltreoceano e dovrà valere nel Vecchio Continente. Il mondo di Trump è il mondo che torna a girare sul suo asse terrestre naturale: gli uomini prima del capitale, il salario e i diritti prima dei giochini finanziari.

Slavoj Žižek è un filosofo marxista. Bene, parlando a Roma durante la conferenza Communism 17 (un omaggio storico alla Rivoluzione d’ottobre del 1917), ha dovuto ammettere che il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America «promette negli USA quel che nessuno, a sinistra, si sognerebbe di proporre: 1.000 miliardi di dollari di grandi lavori pubblici per aumentare l’impiego e così via. […] La sinistra liberale ufficiale è la migliore esecutrice delle politiche di austerità, anche se conserva il suo carattere progressista nelle nuove lotte sociali antirazziste e antisessiste; dall’altra parte, la destra conservatrice, religiosa e anti-immigrazione è l’unica forza politica a proporre ingenti trasferimenti sociali e a sostenere seriamente i lavoratori. Negli Stati Uniti si verifica così questa folle configurazione: i poveri votano, in gran parte, per Trump e gli straricchi, e la sinistra liberale ufficiale li umilia facendosi beffe della loro idiozia».

Žižek non è stato il solo a focalizzare da posizioni di estrema sinistra il decadimento ideale dei democrats mondiali (da Clinton a Blair, da Hollande a Renzi, l’elenco è lungo…), cioè il loro passaggio programmatico dalla difesa dei diritti dei lavoratori alla difesa di nuovi diritti. Le sinistre mondiali, in accordo con banchieri, economisti, popstar, giornalisti, scrittori e intellighenzia varia, si sono caratterizzate per l’indebolimento di quel che nel Novecento rappresentarono compiutamente e per la difesa di diritti di una nuova platea elettorale. Le battaglie sui diritti delle coppie omosessuali e dei migranti sono diventate la nuova frontiera della “narrazione politica” (uso questa espressione non a caso) a scapito del welfare, dei diritti del lavoro e del contrasto alla finanza. Queste nuove battaglie sono diventate così “le” battaglie di civiltà, quelle su cui la comunicazione (in gran parte controllata dal sistema finanziario) ha costruito la propria retorica di modernità e di civiltà; quasi a dire che la procreazione assistita vale la rinuncia all’articolo 18 e che l’accoglienza a prescindere dei migranti vale il depauperamento dei pensionati. La migrazione, in particolare, è un fenomeno che la globalizzazione ha piegato a suo vantaggio usando le leve del politicamente corretto. Insomma, il top: un esercito di lavoratori schiavizzati e pure la coscienza a posto (almeno quella di facciata). Ci torneremo.

Caduto il muro di Berlino, i cosiddetti progressisti hanno avuto paura di restare ai margini del nuovo mondo. Nello stesso periodo il neoliberismo aveva bisogno di un cantiere politico che erigesse i nuovi santuari. Da qui il patto: al sistema GangBank il potere di generare ricchezza sulla pelle dei cittadini, ai democrats le leve (quelle consentite, mica altre) del potere politico. Un potere, quest’ultimo, assolutamente residuale, se è vero che – è la tesi di questo libro – le istituzioni sono funzionali al neoliberismo. I democrats hanno lentamente liquidato l’impianto di welfare state consentendo al welfare bank di infilare collare e guinzaglio a famiglie, lavoratori, imprenditori. Lo hanno fatto dettando loro le nuove regole del gioco, dettando le riforme pensate in quei club a porte chiuse e poi portate (talvolta tramite gli stessi uomini “allevati” in quei consessi) dentro i sistemi legislativi nazionali. Se non addirittura dentro le Costituzioni attraverso la ricezione dei trattati internazionali. Al sistema GangBank la concretezza del potere, ai politici la vanità delle presidenze. Per questo sono arrivati Trump, Farage e la Brexit, le resistenze contro l’immigrazione incontrollata, la vittoria del NO in Italia a difesa della Costituzione e una plausibile vittoria di Marine Le Pen, la quale in un eventuale ballottaggio con il liberista Fillon avrebbe il voto della classe operaia, al contrario di quanto accadde nel ballottaggio tra Chirac e Le Pen padre nella primavera del 2002.

Nel club dei super ricchi compaiono figure che hanno contenziosi aperti circa l’elusione delle tasse, lo sfruttamento del lavoro delocalizzato, la finanziarizzazione dell’economia eccetera eccetera. Apple, Google, Amazon, Facebook e Walmart (ma potrei continuare a lungo con l’elenco di queste corporation) hanno approfittato di giurisdizioni a fiscalità agevolate, eludendo quella giusta quota di tasse che è condizione imprescindibile di chi fa impresa. Non ha senso presentarsi come eroi della modernità o come filantropi quando poi si distorcono le regole base di un mercato che si sta avvitando su se stesso. La rivolta della Silicon Valley in nome dei bei princìpi è semplicemente ipocrita: filantropi di giorno e furbetti di notte. Alla vigilia dell’ultimo Forum di Davos, Joseph Stiglitz ha così scritto: «Rinunciare a giurisdizioni segrete e paradisi fiscali offshore, a Panama o alle Cayman nell’emisfero occidentale oppure in Irlanda e in Lussemburgo in Europa. Non incoraggiare i paesi in cui si opera a partecipare da protagonisti alla dannosa corsa al ribasso sulla tassazione degli utili d’impresa, in cui gli unici a perdere sono i poveri in tutto il mondo. […] Le multinazionali sanno che il loro successo non dipende solo dalle leggi del mercato e dell’economia ma dalle scelte di politica economica che ciascun paese compie. È per questo che spendono così tanto denaro per fare lobby. Negli Stati Uniti il settore bancario ha esercitato il suo potere d’influenza per ottenere la deregulation, raggiungendo così il proprio obiettivo. Negli ultimi venticinque anni, in molti paesi, le regole dell’economia liberista sono state riscritte con il risultato di rafforzare la crisi della disuguaglianza». Più chiaro di così… A quello che scrive Stiglitz aggiungerei che alcune di queste grandi aziende dall’anima candida farebbero bene a mostrare le condizioni in cui lavorano le subfiliere o le condizioni di pagamento che girano nelle aziende di subfornitura o nelle filiere sottostanti. Amazon è nell’occhio del ciclone per l’indebolimento dei negozi che fanno parte della sua rete. Bezos – uno di quelli in prima linea a difendere i profughi dagli attacchi di Trump – è sicuro di rispettare il capitale umano che gravita attorno alla sua rete? È sicuro di poter parlare dal pulpito che occupa? Io ho dei fortissimi dubbi.

LuxLeaks è un filone che portò alla ribalta un sistema di elusione fiscale in Lussemburgo. A capo del governo lussemburghese, in quel lungo periodo, c’era Jean-Claude Juncker. Lui, l’attuale presidente della Commissione europea, quello dal ditino alzato, quello che impartisce lezioni di contabilità, rigore e serietà. Evidentemente, sulla via di Bruxelles ci si ravvede; fintanto che era alla guida del Granducato, invece, si opponeva alla lotta all’evasione fiscale. A scoperchiare il pentolone LuxLeaks ci hanno pensato Antoine Deltour e Raphaël Halet, due ex dipendenti della PricewaterhouseCoopers, una delle regine globali della consulenza finanziaria: con Ernst & Young, KPMG e Deloitte si spartisce un mercato che nel 2014 valeva 120 miliardi di dollari. In Italia, nel 2014, è «l’Espresso» a pubblicare il tutto: «Prima di licenziarsi, nel 2010, i due analisti della PwC scaricano sul loro computer migliaia di documenti riservati. Contratti sui “taxrulings”, gli accordi fiscali stretti tra il governo del Lussemburgo, al tempo guidato dall’attuale numero uno della Commissione europea Jean-Claude Juncker, e trecentoquaranta multinazionali. Da Pepsi a Ikea, da Apple ad Amazon, da FIAT a Starbucks. I documenti hanno dimostrato come il Lussemburgo sia riuscito nel tempo a diventare il paradiso fiscale preferito dalle più famose aziende. Un successo ottenuto attirando le grandi imprese attraverso contratti segreti e imposte bassissime. Che hanno fatto perdere, al contempo, miliardi di entrate fiscali ai governi delle nazioni in cui queste multinazionali operavano prevalentemente. Insomma, centinaia di miliardi sottratti ai contribuenti di tutto il mondo». Contribuenti prima cornuti e poi mazziati, in quanto chiamati a colmare i buchi fiscali lasciati dalla pirateria internazionale. Vittime di un accanimento da chemiotassazione che, in Italia, mette in ginocchio migliaia di piccole imprese.

Poiché l’elusione e l’evasione fiscali sono globali, allunghiamo lo sguardo fino all’Africa e continuiamo il nostro esercizio. L’Africa da sola perde 14 miliardi di dollari in entrate a causa dei paradisi fiscali usati dai suoi super ricchi: a questo proposito, Oxfam ha calcolato che «la cifra sarebbe sufficiente a pagare la spesa sanitaria per salvare la vita di quattro milioni di bambini e impiegare un numero di insegnanti sufficiente per mandare a scuola tutti i ragazzi di quel continente». Non sarebbero più necessarie quelle operazioni angeliche (di facciata e senza sostanza) condotte con tanto di fotografi, telecamere e cantanti famosissimi al seguito: più che la solidarietà, qui torna alla mente il traffico delle indulgenze per guadagnarsi il paradiso. Ecco, qui le indulgenze servono per le glorie del marketing.

Tornando al Granducato e a Bruxelles, le cose cambiano soltanto nelle forme: attorno ai palazzi che contano pullulano le lobby, alcune regolarmente registrate, altre no. Del resto, il lobbismo è tutto e niente: il peso dei lobbisti si vede poi dai risultati. Il tormentato accordo TTIP – Transatlantic Trade and Investment Partnership – è l’esempio di come operano le lobby. Il TTIP (fratello del TPP, Trans Pacific Partnership, l’accordo tra gli USA e i paesi dell’area pacifica dell’Asia esclusa la Cina) è la punta avanzata della globalizzazione, è il suo ultimo aggiornamento in ordine temporale. È la spallata alle Costituzioni frutto di un pensiero politico a favore del trattatismo, un “-ismo” prodotto dal gene neoliberista per superare diritti ed equilibri in nome delle liberalizzazioni più hard. Era il fiore all’occhiello della Obamanomics e di chi a parole dice di minare protezionismi, confini, barriere non tariffarie e gli ultimi dazi, ma che nei fatti vuole frantumare tutto ciò che non appartiene alle multinazionali. Se finora abbiamo visto questi cartelli agire usando le leve del lobbismo al fine di cambiare le normative interne e arrivare persino a spingere riforme costituzionali (di Costituzioni definite «troppo socialiste, troppo impregnate di diritti inutili»), ora è tempo di saltare la cavallina e piazzarsi direttamente dentro le pance degli Stati. Come? Scrivendo trattati internazionali che, fatti propri dall’Unione Europea, diventano i nuovi oracoli da adorare. Con tanti saluti alle economie locali.

Non volevano raccontarcelo, il TTIP; lo volevano tenere nascosto fino all’ultimo. Per poi rifilarcelo come l’ennesimo balsamo per calmare la crisi e allargare il mercato. Perché proprio questo stavano andando a vendere i nostri ministri agli italiani: «Il TTIP? È un grande affare», «È l’occasione per entrare nel mercato statunitense», «Farà aumentare i posti di lavoro». Loro in teoria ci cedevano briciole del loro mercato e noi in cambio gli regalavamo il nostro. A furia di prodotti low cost.

A mettere in fila gli accadimenti e a voler essere retroscenista (o complottista, vedete voi che etichetta stupida appiccicare), in controluce si vedono: riduzione del potere d’acquisto delle famiglie, indebitamento delle stesse, creazione di un mercato larghissimo dove la guerra è sul prezzo e accaparramento delle nostre realtà di alta qualità per fare business in quella fascia di mercato. “Pacco, doppio pacco e contropaccotto”, verrebbe da dire.

Ma procediamo con ordine. USA, Canada ed Europa: insieme fanno ottocentocinquanta milioni di abitanti e il 45% del PIL mondiale. Insomma, lo spazio naturale del mercato, la prima scelta del sistema GangBank, i cui denti aguzzi sono pronti per azzannare il consumatore in settori chiave che vanno dall’agroalimentare alle opere pubbliche passando per i servizi. 500 miliardi di euro all’anno. America ed Europa però, per quanto il mondo a taglia unica sgomiti per resettare le differenze, ancora conservano delle visioni differenti. Nel Vecchio Continente il diritto alla salute, la tutela del consumatore, la qualità dei prodotti e dei servizi pubblici sono ancora dei valori, per quanto in via di superamento dopo le martellanti campagne di comunicazione all’insegna del sillogismo (falso) “mercato aperto = convenienza per il consumatore”. Nonostante sul TTIP fosse stata messa volutamente la sordina e nonostante la segretezza della sua compilazione (questione che torneremo ad approfondire), succede che le poche indiscrezioni su questo accordo commerciale cominciano a trapelare.

E qui la partita si complica. Al centro delle perplessità c’è la diversità profonda tra gli standard americani e quelli europei sull’agroalimentare. Tuttavia la questione non è chiara, perché il testo del TTIP non si può consultare. È segreto e tale deve rimanere. Nessuno ne fa mistero, dal Fondo Monetario all’Unione Europea: perché i negoziati commerciali funzionino e abbiano un esito positivo, è necessario un certo grado di riservatezza; in caso contrario, sarebbe come mostrare all’altro giocatore le proprie carte. «La Commissione europea comunicherà gli sviluppi agli Stati membri, in sede di Consiglio, e al parlamento europeo. A conclusione dei negoziati, sono proprio queste due istituzioni – il Consiglio costituito dai rappresentanti dei governi degli Stati membri e il parlamento europeo, eletto direttamente – ad approvare o respingere l’accordo» fanno sapere da Bruxelles. Intanto, tutta la documentazione sui negoziati USA-UE risulta ancora oggi riservata per volontà della Commissione europea, che motiva la sua scelta dichiarando di voler tutelare gli interessi europei nel negoziato.

Il metodo è sempre lo stesso: la gente non deve sapere, non deve conoscere. E nemmeno le associazioni di categoria. Nemmeno quel sistema economico che dovrebbe beneficiare delle virtù taumaturgiche del TTIP. Che Renzi ha definito «vitale» e che Confindustria (sempre in prima fila quando si tratta di scambiare lucciole per lanterne) ha catalogato come «grande occasione». Il ministro allo Sviluppo Carlo Calenda (ex Confindustria…) smentisce i rischi messi a fuoco dagli oppositori del TTIP, difende la necessità della segretezza durante le trattative e si dice sicurissimo: «Il TTIP farà benissimo, darà benefici alle nostre aziende e non metterà in pericolo la salute dei consumatori».

E già qui uno dovrebbe domandarsi: ma se serve per produrre ricchezza, PIL, posti di lavoro e altri miracoli, perché me lo tengono segreto? Perché nemmeno i parlamentari possono studiare quegli accordi? «Abbiamo ricevuto una lettera nella quale il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, ci informa della possibilità di avvalerci di una “sala di lettura per consultare la documentazione riservata con l’obiettivo della massima trasparenza e la massima diffusione”» dirà al Senato l’ex ministro Giulio Tremonti. «Salvo poi far notare che la lettura avviene per “massimo un’ora, sotto la vigilanza dei carabinieri” e con una serie di limitazioni che nulla hanno a che vedere con gli obiettivi di trasparenza e diffusione.»

Giulio Marcon di Sinistra Italiana racconterà a «l’Espresso» la sua esperienza. È interessante riprenderla per dare densità al termine “segretezza”. Ecco dunque la sua testimonianza.

Al portone del ministero in via Veneto mi ferma un carabiniere. «Lei è nella lista?» Sì, sono un deputato. «L’accompagno al quarto piano. Sa le regole?» Le regole sono quelle stabilite dai negoziatori europei e dal governo italiano. «Gliele anticipo» dice il maresciallo: non si possono fare fotocopie, non si possono fare foto, non si possono trascrivere le pagine. Solo appunti a penna, da controllare alla fine. […]

«Qui c’è l’armadietto dove può sistemare il suo cellulare. Ha tablet, computer?» No, solo un quadernino. Sulla porta della stanza c’è una targhetta SALA LETTURA TTIP e due bandiere: quella degli Stati Uniti e quella dell’Unione Europea. Nella stanza ci sono quattro scrivanie, su ciascuna qualche foglio bianco e un paio di penne. Un dizionario inglese/italiano per tutti (la bozza dell’accordo è solo in inglese).

Mi consegnano il faldone con otto voluminosi plichi. I funzionari rimangono nella stanza e mi scrutano con attenzione: sembrano i commissari di un concorso. Dopo un po’ arriva anche il mio collega di Sinistra italiana, Florian Kronbichler. Si è alzato alle cinque del mattino per prendere il treno da Bolzano. Segue da sempre la vicenda TTIP, ha presentato interrogazioni parlamentari e question time. È anche grazie alla sua ostinazione altoatesina che la Sala di lettura è stata aperta.

Arriva il capo di gabinetto del ministro Carlo Calenda. Fa un giro dei tavoli con le braccia dietro la schiena, come fosse il capo dei commissari d’esame. Ci dà la mano, è laconico: «Tutto a posto? Buona lettura». Difficile fare una buona lettura visto che gli otto plichi (settecento-ottocento pagine) si possono leggere solo per un’ora. Dobbiamo fare un po’ di compassione, così i nostri controllori ci concedono un po’ di tempo in più: «Vi diamo il permesso di rimanere fino alle 12.15».

I plichi sono numerati con un pennarello, ma ogni volume non ha un indice e non c’è la numerazione delle pagine. Sembra fatto apposta per far perdere tempo a chi legge. Ci vuole una mezz’ora per orientarsi in fascicoli di fotocopie allestiti alla buona.

Saltando di pagina in pagina trovo conferma dei rischi che questo accordo ci presenta: diminuzione degli standard sociali e ambientali dei prodotti e subalternità degli Stati alle imprese, che potranno chiamarli a rispondere davanti a una sede arbitrale privata, qualora i governi vogliano introdurre norme a tutela dei consumatori. Noi riduciamo gli standard ambientali e sociali: in cambio avremo l’abbassamento dei dazi americani sulle merci europee.

In una pagina trovo la frase dei negoziatori: «Ci impegniamo a mantenere la segretezza del trattato». Per l’arbitrato gli europei propongono un «periodo sperimentale di applicazione» e organismi di mediazione volontaria sulle controversie. «Ci penseremo» rispondono gli americani. Che dicono agli europei: «Bisogna eliminare le misure di controllo ridondanti». Si intende quelle sociali e ambientali. I negoziatori europei non fanno una piega.

Tutto viene previsto nei dettagli. Per i liquori superalcolici va tolta dalle etichette la data di fabbricazione, di imbottigliamento e di scadenza. «Ridondante», evidentemente. Per le nuove autovetture gli europei vogliono che ci sia l’ultima versione del test Crashworthiness, cioè la capacità di un’autovettura di proteggere da un impatto i suoi occupanti. Gli americani vogliono la seconda versione, la terza costa troppo e gli americani sono uncommitted (“non disponibili”) a introdurlo.

«Ridondanti» sono evidentemente anche le spiegazioni sulle etichette dei cosmetici, magari per dire se ci sono sostanze pericolose o se si fanno test sugli animali. «Gli Stati Uniti» si dice nel primo fascicolo che sfogliamo «non vogliono spingere le imprese in questa direzione.» Per l’uso dei coloranti, gli europei chiedono di rispettare le regole sanitarie. Gli americani rispondono: «Mandateci una relazione, la studieremo».

Continuiamo a sfogliare le carte. Il tempo passa. Il funzionario guarda l’orologio e alza il sopracciglio, mancano trenta minuti. Ci affrettiamo. Gli Stati Uniti vogliono procedure non vincolanti per tanti aspetti dell’accordo. Talvolta i negoziatori europei balbettano qualche obiezione, spesso accettano. Così per la questione dei diritti sulla proprietà intellettuale. «Slow down» dicono gli americani e gli europei rallentano.

In realtà a leggere il TTIP sembra che a guadagnarci non siano nemmeno gli americani (intesi come cittadini), ma le medie e grandi imprese e – soprattutto – le multinazionali. A rimetterci i consumatori (americani ed europei) e le piccole imprese (americane ed europee). Ancora non c’è niente di deciso, i negoziati sono in corso.

Quasi duecento pagine delle bozze degli accordi che leggiamo sono occupate dalla stime degli effetti presunti del TTIP sull’economia europea. Secondo le stime europee, il PIL UE avrebbe un aumento extra dello 0,5% l’anno, le esportazioni aumenterebbero dell’8,2 (e le importazioni del 7,4) e i salari dello 0,55%. Tra le righe ci dicono anche che la produzione europea di auto calerà del 3%, quella di acciaio del 2,5 e anche i produttori agricoli se la vedranno male.

Tutte stime per le quali non è fornito nelle carte del trattato alcun modello econometrico e di simulazione statistica credibile. Gli europei però sembrano ingoiare tutto: primato delle multinazionali sugli Stati, riduzione degli standard ambientali, meno tutele per i cittadini e meno sicurezza sui prodotti alimentari. Sono le 12.15. Il funzionario ci guarda accigliato. Le nostre due ore di trasparenza e di informazione le abbiamo avute. Mi accompagnano alla porta.

Ho voluto riportare questo racconto perché ritenevo fosse necessario sottolineare il modus operandi del sistema GangBank. Quando costoro decidono l’obiettivo da perseguire, non accettano nessuna interferenza. Amen per la democrazia, amen per le tutele costituzionali, amen per il confronto e la trasparenza. Qualcosa, però, a questo giro è andato storto: la segretezza si è trasformata in boomerang e il TTIP è diventato lo scalpo di una nuova coscienza. Qualcuno finalmente si è accorto che l’europeismo è l’“-ismo” dell’establishment, che non c’entra nulla con la retorica che ne ha accompagnato la costruzione. L’Unione Europea è lontana anni luce dal disegno dei suoi padri fondatori, è indorata di “generazione Erasmus”, di “opportunità per crescere”, di pacifismo a prescindere, di tante belle chiacchiere che sono state l’inganno parolaio per materializzare un altro progetto, nient’affatto politico ma di matrice massonica e affaristica: un progetto contro le democrazie, tanto che il vero strike neoliberista è appunto sulle Costituzioni.

Le cronache ci dicono che le trattative sul TTIP si sono fermate, arenate. Ma il suo demone resta vivo: ce lo riproporranno in una versione 2.0 o con un altro nome – come vedremo tra poco –, perché ci sono interessi troppo grandi e non saranno certo le proteste del popolo a fermarle.

E se riavvolgiamo il nastro, ci viene facile capirne il motivo. Più che la segretezza, sono stati i tempi a fregare il TTIP. I tempi si sono dilatati perché gli stessi portatori degli interessi rappresentati sono entrati in conflitto tra loro: in ogni giro di incontri qualcuno voleva alzare sempre più l’asticella, quasi a dire: «Visto che ci siamo, diamoci dentro una volta per tutte e tanti saluti ai consumatori». Questa bulimia ha inceppato il sistema, qualcuno ha cominciato a parlare e una volta fuori dal suo recinto la pallina è impazzita. Tanto che le opposizioni hanno preso corpo, hanno spinto per avere sempre più notizie e… e anche stavolta è bastata una corposa fuga di notizie (avvenuta per mano di Greenpeace, che ha ottenuto e pubblicato parti del TTIP) a bruciare un accordo che ormai le stesse multinazionali stavano abbandonando.

Attenzione al tempo del verbo: «stavano abbandonando». Già, perché a un altro tavolo era pronta una nuova bozza di accordo. Si chiama CETA ed è un accordo economico e commerciale globale tra Canada e Unione Europea. Il CETA è il cavallo di Troia del futuro TTIP. «The Guardian», in Gran Bretagna, lo scrive apertamente: «Le lobby non mollano mai. […] Questo accordo permette a qualsiasi multinazionale attiva in Canada di fare causa a uno Stato davanti a un tribunale arbitrale. Il rischio è quello di smantellare le leggi che ci tutelano contro lo sfruttamento e di impedire ai parlamenti di legiferare». Questo nodo scorsoio era presente anche nel TTIP, che però non è passato. Poiché questo passaggio era e resta fondamentale per svuotare i tribunali nazionali a vantaggio delle multinazionali americane, il principio è stato fatto passare all’interno del CETA. E a nulla varranno le opposizioni dei parlamenti nazionali, quando anche a costoro sarà chiaro il meccanismo diabolico. Perciò è inutile fare le battaglie contro le élite, contro l’establishment, quando l’Europa ci frega e i nostri parlamentari fanno da palo, con in più un Europarlamento che non conta nulla essendo solo un passacarte, ovvero la foglia di fico di una democrazia denudata.

«Come il TTIP» prosegue il «Guardian» «anche il CETA usa una definizione molto ampia sia di investimenti sia di esportazione, per permettere alle multinazionali di fare causa a uno Stato quando ritengono che i loro “profitti futuri attesi” siano minacciati da nuove leggi.»

Il metodo del trattato internazionale ha questa potenza: supera le istituzioni, impone loro la ratifica e restringe il perimetro delle Costituzioni. Aggira le democrazie, ma poiché i cittadini ormai sono livorosi (per molti versi giustamente) verso istituzioni inefficienti, ecco che sono pronti a consegnarsi al peggiore dei lupi.

Le regole marchiate Unione Europea cui noi attribuiamo sempre e acriticamente una sacralità ottusa sono esse stesse il frutto malsano di questo sopruso. Giuseppe Guarino, insigne giurista, europeista convinto, ha parlato apertamente di disegno fraudolento riferendosi sia all’adozione dell’euro, sia al pareggio di bilancio, sia al fiscal compact. Ne ha criticato le basi giuridiche, si è limitato a quello, sottolineando come l’interesse di una tecnocrazia abbia umiliato quelle stesse regole che ora Bruxelles chiede di rispettare. In poche parole – è la tesi di Guarino – ci chiedono di rispettare delle regole che sono esse stesse contra legem. L’insigne giurista non si capacita di come la classe politica italiana non apra bocca e non reagisca, ma subisca lettere, richiami e minacce sanzionatorie. Né di come la pubblica opinione non si formi un’idea critica vera sebbene la crisi in atto in buona parte risenta dell’euroinganno.

Dopo aver letto il Saggio di verità sull’Unione e sull’euro di Guarino, l’economista statunitense James Kenneth Galbraith ha commentato così: «La tesi di Guarino, sintetizzata in una frase, è che l’Europa viola la legislazione comunitaria. Nella forma attuale, essa esiste al di fuori dell’inquadramento costituzionale dei trattati europei. Una situazione frutto di una sostanziale frode. L’euro, nato sotto false premesse, è di per sé una falsa entità». Avete capito? Stiamo subendo un vero e proprio colpo di Stato, ma non vogliamo aprire gli occhi né reagire.

«Ma allora perché il TTIP è saltato?» potreste domandarmi. Forse perché stavolta una reazione pubblica e politica ha dato i suoi risultati? Be’, diciamo che la reazione pubblica in Italia è stata minima e solo l’attivismo del Movimento 5 Stelle, della Lega, di Fratelli d’Italia e di una parte della sinistra cosiddetta “antagonista” (penso a Paolo Ferrero) ha consentito di allargare un dibattito fino a quel punto appannaggio solo di movimenti “No TTIP” (a questo proposito cito il lavoro egregiamente svolto da Monica Di Sisto). Non c’era interesse a discuterne, a generare un movimento di idee e di opinioni. Quindi, fosse dipeso dalle critiche italiane, saremmo stati freschi.

In secondo luogo, è saltato perché i player interessati al TTIP (le multinazionali, in poche parole) avevano capito che non avrebbero più cavato dalla miniera l’oro stimato. Infine, perché l’opinione pubblica poco alla volta ha avvertito un rischio reale e forte.

Come vi dicevo, è stata Greenpeace Olanda a sferrare l’ultimo colpo pubblicando duecentoquaranta pagine di documenti relativi alla trattativa e rinnovando così l’allarme sui pericoli per i consumatori delle due sponde dell’Atlantico. «Avevamo ragione: confermati rischi per clima, ambiente e sicurezza dei consumatori» ha accusato l’organizzazione ambientalista. «In quelle carte segrete c’erano per l’appunto minacce serissime alla salute dei consumatori, dei cittadini.» Un allarme analogo era partito anche dalla Coldiretti: «Il regolamento statunitense impone di mettere in etichetta i valori nutritivi ma non la provenienza. Né ci sarà scritto che quel pollo è stato lavato con il cloro utilizzato come antimicrobico. Una pratica abolita in Europa dal 1996 perché ritenuta dannosa per la salute ma consentita invece dalla legge americana». In poche parole, la paura è che in Europa cadano le tutele contro OGM e carne trattata con ormoni, e passi in secondo piano anche la protezione dell’ambiente. Dalle carte, inoltre, emerge uno scontro frontale tra Stati Uniti e Unione Europea sulla difesa della denominazione originale dei vini europei. In particolare, da parte della UE, si ribadisce che il Trattato Transatlantico dovrà includere le regole complessive vigenti sui vini, in modo da escludere che un produttore americano possa usare a piacimento le diciassette denominazioni di vini UE. Gli Stati Uniti, invece, hanno ribadito il loro fermo dissenso, rifiutando la richiesta UE concernente il divieto di utilizzo delle denominazioni “semigeneriche” dei vini europei, ad esempio quelle degli italiani Chianti e Marsala, del greco Retzina, del portoghese Madeira e dei francesi Chablis e Champagne.

Capite che razza di accordo stavano scrivendo? Be’, la gente stavolta ha attribuito una dimensione pratica alla parola “trattati”, gli ha preso finalmente le misure. Finché si è trattato di rapporti deficit/PIL, fiscal compact, pareggio di bilancio, trattato di Lisbona, trattato di Basilea, meccanismo di stabilità ecc., ha accettato passivamente quel “ce lo chiede l’Europa” e ha lasciato fare. Però, non appena gli stessi soggetti che stanno svuotando la democrazia, che stanno aggredendo le Costituzioni nazionali, che ci stanno impoverendo, sono entrati nelle nostre cucine, allora a tutti è stato chiaro cosa fosse il TTIP. Tutti hanno capito che le multinazionali del food e quelle dell’industria chimica avrebbero portato sulle nostre tavole prodotti tossici, nocivi, con la scusa del low price, cioè del basso costo e dell’“apertura dei mercati” (secondo la solita formula magica). Stavolta il meccanismo della globalizzazione è impazzito e ha fatto saltare tutto ciò che stava nascosto in esso (e che al sistema GangBank però interessava maggiormente): vale a dire il superamento dei parlamenti nazionali e del loro sistema della giustizia a favore degli arbitrati, e la grande liberalizzazione dei servizi. Privatizzazione dell’acqua compresa.

Greenpeace ha messo in evidenza i punti più sensibili: «Il principio di precauzione, inglobato nel Trattato UE, non è menzionato nei capitoli sulla “Cooperazione Regolatoria”, né in nessuno degli altri dodici capitoli ottenuti. Invece la richiesta USA di un approccio “basato sui rischi” che si propone di gestire le sostanze pericolose piuttosto che evitarle è evidente in vari capitoli». Il principio di precauzione vigente in Europa prevede che, prima di vendere un prodotto, l’azienda debba provare l’assenza di rischi. Negli USA, invece, vale il principio dell’evidenza scientifica: il prodotto può essere venduto senza problemi fino a quando qualcuno, a proprie spese, non fornisca la dimostrazione scientifica della sua nocività.

Ora, provate a pensare alle tutele previste dalla nostra Costituzione. E poi provate a immaginare il danno economico che le aziende del comparto agroalimentare avrebbero subìto. E poi ancora provate a riflettere sulla filiera di qualità che ci sta premiando sui mercati mondiali. Bene, l’Europa e la nostra classe dirigente ci stavano svendendo agli interessi delle multinazionali. Segretamente. In silenzio. Esattamente come sta avvenendo nel mondo GangBank, dove il tecnicismo finanziario ha creato una nuova casta di potenti dei. Il TTIP è stato fermato dalle massaie, che per nessun motivo al mondo metterebbero in tavola un pollo lavato con il cloro o una carne gonfiata di ormoni. Perché invece, domando, i nostri imprenditori si sono fatti fregare in questi decenni dalle bugie e dagli inganni delle sirene europeiste? Perché non hanno capito la bugia del debito pubblico, dei derivati, del pareggio di bilancio, dell’austerity? La massaia, il cibo drogato, lo ha respinto; Confindustria e compagnia varia, invece, si inginocchiano davanti a Monti, a Napolitano, a Draghi, a Renzi. E lo fanno per banchettare con le briciole, perché costoro non hanno capito che nel mercato globale sono destinati a essere schiacciati. Non sarà certo con Calenda che si salveranno.

Il TTIP è stato fermato, ma il suo veleno non si fermerà. Le logiche che lo hanno ispirato andranno avanti come un bulldozer. C’è troppo da fare e l’esercito di consulenti, dirigenti, politici, giornalisti e banchieri è pronto a ubbidire a suon di “Signorsì, ce lo chiede l’Europa”.

Completare l’Unione economica e monetaria dell’Europa è la road map tuttora valida. Ed è anche il titolo di un documento stilato da Juncker in collaborazione con i falchi europeisti e pubblicato il 22 giugno 2015. Leggerlo è importante per capire quanto la retorica si scontri con la realtà. Ne riporterò alcuni stralci e mi permetterò qualche breve commento a margine. Mentre leggete, per favore, ricordatevi delle critiche mosse dagli economisti all’impianto dell’eurozona, allineate quelle parole alle vostre storie aziendali, tenete a mente le promesse miracolistiche dei vari Prodi, Amato, Ciampi, Napolitano… Infine ricordatevi che il relatore è lo stesso che, a capo del governo lussemburghese, attirava multinazionali con profonde agevolazioni fiscali, ovvero con pratiche smaccatamente sleali nei confronti dei suoi stessi alleati UE, privando questi ultimi di fiumi di risorse.

Bene, se tutto questo vi è chiaro, maestro Juncker, attacchi pure con la sua musica.

«L’euro è una moneta stabile e di successo. […] Ha garantito ai suoi membri la stabilità dei prezzi e li ha protetti contro l’instabilità esterna.» Sostenere che una moneta è di successo significa sostenere tutto e niente: una moneta di per sé non vale nulla, se non si innesta sulle fondamenta di politiche comuni e condivise di una comunità culturalmente armoniosa. Parliamo di un insieme di politiche fiscali, economiche, industriali, sociali, del lavoro e dei diritti a cui una politica monetaria – che deve essere anch’essa comune, condivisa e necessariamente sovrana, ovvero guidata da uno Stato sovrano riconosciuto dai propri cittadini – deve essere funzionale anziché sovrastante. Il fatto che l’eurozona faccia coincidere la sua moneta con la politica, o che addirittura la stessa moneta sovrasti la politica, è già di per sé il peccato originale.

Ora, vi chiederete: dove sta scritto che l’euro coincida con l’Europa? Sentiamo ancora Juncker: «L’euro è più di una semplice valuta. È un progetto politico ed economico. Tutti i membri della nostra Unione monetaria hanno rinunciato definitivamente alle loro precedenti valute nazionali per condividere permanentemente la sovranità monetaria con gli altri paesi della zona euro. In cambio, essi ottengono i benefici derivanti dall’utilizzo di una moneta stabile e credibile in un mercato unico, vasto, competitivo e potente». Lo dicono loro. Ne sono convinti. Pertanto, quando vi dicono che ci vuole più Europa politica, stanno parlando al vento: per costoro la politica non è nient’altro che un autobus dove far salire i lobbisti del neoliberismo; e, sempre per costoro, l’europeismo coincide con un artificio monetario chiamato euro. E i lobbisti sono sempre gli stessi del TTIP, sono gli stessi che ci propinano il pareggio di bilancio, le politiche di restrizione e di austerità passando per quella che è la vera “Kasta” da smascherare, lautamente retribuita e che protegge se stessa: l’eurotecnocrazia di gente come Dijsselbloem, giusto per citarne uno fra i tanti, che nessuno conosce e che pure ha contribuito a massacrare la Grecia. Sono gli stessi discepoli delle merchant bank. Ecco perché Guarino non è mai stato smentito nella sua tesi di fondo, cioè che l’Europa sta galleggiando su un meschino equivoco, su un meccanismo proprio della pirateria e non della democrazia. Siamo arrivati alle monarchie assolute 2.0, dove le dinastie sono le élite che ogni anno presenziano al World Economic Forum di Davos. Sono le stesse élite che hanno provocato le crisi per riempire ancora di più i loro forzieri. Il paradosso – e qui i cittadini sono responsabili della sua reiterazione, nel senso che non fanno nulla per fermarlo – è che la classe politica si accredita presso costoro per farsi dare le ricette risolutive della crisi. Cercano dai responsabili della crisi la via d’uscita dalla crisi! Assurdo.

Juncker, nella sua relazione, scrive ancora che «a breve termine la condivisione dei rischi [della crisi, N.d.A.] può essere realizzata mediante l’integrazione dei mercati finanziari e dei capitali […]. Occorrono progressi su quattro fronti: in primo luogo, verso un’Unione economica autentica che assicuri che ciascuna economia abbia le caratteristiche strutturali per prosperare nell’Unione monetaria. In secondo luogo, verso un’Unione finanziaria che garantisca l’integrità della nostra moneta in tutta l’Unione monetaria e accresca la condivisione dei rischi con il settore privato. Ciò significa completare l’Unione bancaria e accelerare l’Unione dei mercati dei capitali. In terzo luogo, verso un’Unione di bilancio che garantisca sia la sostenibilità che la stabilizzazione del bilancio. E, infine, verso un’Unione politica che ponga le basi di tutto ciò che precede attraverso un autentico controllo democratico, la legittimità e il rafforzamento istituzionale».

Insomma, le cause della crisi andrebbero rafforzate. Poi si fanno dibattiti sul perché vince Trump, la Gran Bretagna se n’è andata e il cosiddetto populismo (che invece è il realismo della ragione) trionfa. Forse che il tema del lavoro torna a essere la questione politica numero uno?

Allora la domanda è: quando i tecnocrati europei parlano di obiettivo «piena occupazione», cosa intendono? Intendono un parametro, non un obiettivo politico. Mi spiego: nei trattati il lavoro diventa un valore subordinato e compatibile con la stabilità dei prezzi. Il lavoro è dunque una variabile di mercato, non una questione sociale. Per questo le riforme invocate da GangBank e fatte proprie da Bruxelles non producono veri posti di lavoro con salari adeguati, ma contratti light e retribuzioni “purché sia”. Il Trattato sull’Unione Europea stabilisce infatti che la piena occupazione può realizzarsi secondo gli scopi fondamentali e irrinunciabili del mercato unico.

Chiudo con il loro ultimo auspicio: «Affinché la zona euro possa evolvere progressivamente verso un’autentica Unione economica e monetaria, occorrerà passare da un sistema basato su norme e orientamenti per l’elaborazione delle politiche economiche nazionali a un sistema di condivisione ulteriore della sovranità nell’ambito di istituzioni comuni, la maggior parte delle quali già esistono e possono progressivamente svolgere questo compito. In pratica, ciò implicherebbe che gli Stati membri siano disposti ad accettare in misura crescente decisioni congiunte su elementi delle politiche economiche e di bilancio nazionali».

Tradotto: il mondo deve andare verso una one size, una taglia unica che peraltro si basa su premesse meramente economico-finanziarie. È il peggio della globalizzazione: è la standardizzazione. Secondo loro, quegli Stati nazionali cui i popoli stanno rimettendo le chiavi della democrazia dovrebbero, per osmosi, scomparire. Per entrare nell’euro. Nel paese dei balocchi.

1. Secondo quanto riportato da Joseph Stiglitz in The Euro and its Threat to the Future of Europe (“L’euro e la sua minaccia al futuro dell’Europa”), Allen Lane, Londra 2016.