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Come i golpisti del GangBank ci hanno rubato la sovranità

«I centomila giovani italiani all’estero? Alcuni è meglio non averli tra i piedi.»

Così parlò il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, forse scocciato per la verità sullo stato occupazionale italiano al netto della propaganda politica sul Jobs Act. Dopo la vittoria del NO al referendum costituzionale e le conseguenti dimissioni di Renzi da premier, il governo successivo ha confermato l’ex capo della LegaCoop al Lavoro, evidentemente senza considerare che a gonfiare il fronte del NO alle urne erano stati proprio i disoccupati e gli occupati senza garanzie né eque retribuzioni. Non contento della conferma miracolosa, Poletti si è lanciato in questa intemerata senza senso contro i giovani all’estero, questione a cui persino il capo dello Stato aveva dedicato una riflessione nel discorso di fine anno, ponendo a se stesso e al paese l’interrogativo sulle cause di questo esodo. Ci si aspettava un passo indietro da parte del corpulento ministro. Invece niente: un breve comunicato stampa di scuse, una breve relazione in parlamento e tanti saluti. Anzi, per premiarlo, Gentiloni gli ha pure affidato la delega sui giovani. Giuro, non è uno scherzo.

Ma sì, chi se ne importa di questi giovani e di questi lavoratori… Bastano le scuse, no? Le scuse per quella frase. Le scuse per i voucher che intanto scoppiano tra le mani del legislatore. Ciò che doveva essere il rimedio al lavoro in nero è diventato lo strumento per coprirsi le spalle dai controlli ispettivi. Così, ogni volta che qualcuno fa il tagliando alla questione lavoro, ciò che balza all’occhio sono i voucher, l’alta disoccupazione giovanile e la considerazione generale per cui, finiti gli incentivi fiscali, il Jobs Act è mera omeopatia.

Al 14 febbraio 2017 (dati del ministero del Lavoro) abbiamo oltre 143.000 contratti a stage; nel giugno del 2015 erano 114.000, mentre nel 2012 i tirocini si fermavano a 63.000. Ecco un altro risultato della riformite italiana (su spinta neoliberista del sistema GangBank) che avrebbe dovuto aumentare i posti di lavoro: certo, anche un contratto di stage in più “smuove la classifica” ma non si può certo dire che quel contratto faccia bene ai cittadini italiani o sia rispettoso dello spirito costituzionale. È mai possibile che in questa platea sempre crescente di stagisti il 15% sia composto da uomini e donne di oltre quarantacinque anni d’età?

La disoccupazione resta il classico elefante nella stanza: non vederlo è da ipocriti. I dati spalmati nel tempo e al riparo dai dibattiti usa e getta inchiodano la politica alle sue stesse responsabilità. Il lavoro è stato umiliato, svuotato di quel ruolo centrale che, in un’altra epoca storica, i costituenti gli avevano attribuito. Il lavoro è diventato merce di scambio da barattare con i grandi player del sistema GangBank e con i piccoli attori della scena italiana.

Il lavoratore diventa un impiccio, una seccatura. Di cosa pensi l’attuale ministro abbiamo già detto.

Un’altra frase shock la pronunciò Elsa Fornero, ministro tecnico del tecnico governo Monti. «Non bisogna essere troppo choosy, bisogna prendere la prima offerta e poi vedere da dentro e non aspettare il posto ideale.» Oddio, la ministra della riforma del lavoro, la ministra del taglio delle pensioni, la ministra accusata di aver messo in atto ciò che il neoliberismo predica sul lavoro, si permette pure di offendere i giovani lavoratori. Non fu l’unica, a essere sinceri: anni prima il ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa se la prese con i “bamboccioni” che se ne stanno ancora a casa, Renato Brunetta rispose a una contestazione di precari con l’espressione: «Siete l’Italia peggiore» e il sottosegretario della Fornero Michel Martone si preoccupò di dire «ai nostri giovani» che «se non sei ancora laureato a ventotto anni, sei uno sfigato». Insomma, un bel campionario di sentenze.

Siccome questo è un paese di grandi chiacchieroni, accadde che quel choosy (tradotto significa più o meno “schizzinosi”), quel “bamboccioni” e quello “sfigati” produssero il solito dibattito sull’aria fritta: da una parte chi gettava la croce ai giovani, dall’altra chi li assolveva. Un fior di dibattito che solo chi balla ancora sul Titanic al suono dell’orchestra può permettersi. I giovani non sono né choosy né eroi, alcuni saranno pure lavativi (esattamente come alcuni adulti), altri sono realisti e prendono davvero ciò che il mercato offre loro (esattamente come gli adulti). Il problema è proprio il mercato del lavoro. È proprio la catena studio o formazione/lavoro.

«Ho trentadue anni, due lauree (una in Lettere, l’altra in Scienze politiche) e tre master. Il tutto guarnito da qualche altro corso e svariati tirocini, rigorosamente non pagati, s’intende. Manca naturalmente l’ultimo tassello, il lavoro. Di quello neanche l’ombra. Tutto ciò, si dirà, è lo specchio di una condizione diffusa, a tal punto da sfiorare la “normalità”. A ogni modo, se è vero, e lo è, che la mia condizione è il marchio di fabbrica di un’intera generazione, è altrettanto vero che questo non può divenire un alibi per accettare l’inaccettabile spacciandolo per qualcosa di ineluttabile.» Così scriveva alla rubrica delle lettere sul «Corriere della Sera» un ragazzo. Una lettera come tante, da cui emergono diverse tristi ma innegabili questioni. Analizziamole.

Innanzitutto l’università. Non è più un luogo di formazione specifica, ma una tappa quasi obbligata per riempire il curriculum. Purtroppo, l’idea (già di Einaudi) di superare il valore del titolo di studio è sempre andata a infrangersi sullo scoglio retorico del “bella idea ma…”. Fatte le debite eccezioni, penso che l’università serva più ai professori che agli iscritti: la proliferazione di atenei, accademie, corsi di laurea e master sta soltanto complicando l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Se ciò non fosse vero, avremmo già abolito il valore legale del titolo di studio.

C’è poi un altro dato che quella lettera rivelava: la rassegnata accettazione di una situazione drammatica. «Del lavoro neanche l’ombra.» Le nuove generazioni sono state educate all’idea della flessibilità e dell’atipicità contrattuale, al ricatto del “se vuoi, le nostre condizioni sono queste, altrimenti arrangiati”. Il ricatto dello stare a casa combinato con il bisogno di ottenere una retribuzione con cui pagare i propri debiti è la costante di una giovane generazione con il telefonino in tasca e la carta di credito nel portafoglio. Ecco perché la propensione è quella di accettare senza obiettare.

Quegli adulti che processano i giovani in quanto lavativi, svogliati e irresponsabili (rigorosamente i figli degli altri, perché i propri sono sempre i più bravi. A cominciare proprio dai signori ministri di cui sopra: il figlio di Giuliano Poletti, Manuel, è direttore di un giornale che prende i contributi pubblici; la figlia della Fornero, Silvia, insegnava e forse insegna tuttora nello stesso ateneo dove sono docenti sia la madre Elsa sia il padre Mario Deaglio; Michel Martone è figlio di Antonio Martone, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati nonché avvocato generale in Cassazione. Insomma, certe volte sarebbe preferibile usare prudenza) fanno parte della generazione che ha distrutto la formazione professionale e che ha scommesso troppo generosamente su un sistema universitario sempre più sconnesso dal mondo del lavoro.

Le scuole professionali sarebbero un autentico luogo di formazione se non fossero diventate una specie di “Cayenna”, snobbata dalla politica tanto quanto dai genitori a favore di licei privati dove le promozioni si ottengono senza eccessiva fatica. Gli istituti professionali sarebbero da potenziare: il lento declino dei mestieri a favore delle professioni è un errore che sta alla base di tanti equivoci. Ci volevano le trasmissioni televisive dedicate agli chef per fare tornare in auge la scuola alberghiera; il guaio è che adesso tutti vogliono fare gli chef (dire “cuoco” è da sfigati?) e pochi i maître di sala o i camerieri. Ci vuole una trasmissione per nobilitare anche il personale di sala? Lo stesso ragionamento lo dovremmo fare per quelle arti e per quei mestieri che appartengono alla nostra tradizione della bottega e che sono alla radice del made in Italy.

A Palermo in settanta per un posto da lustrascarpe. Il più giovane ha appena ventun anni, il più grande sessantuno; tra loro ci sono undici donne.

Quando ho incrociato questa notizia sui giornali, mi sono aperto in un sorriso: ci sono storie nel nostro paese che smentiscono categoricamente l’idea che certi snob hanno dei giovani e dei lavoratori. Chi è choosy? Chi è bamboccione, sfigato, lavativo? «Quasi tutti diplomati, molti a un passo dall’agognata laurea, pochissimi con la sola licenza media e persino tre dottori: in Scienze politiche, in Pittura e in Economia e finanza», questo l’identikit degli aspiranti sciuscià tracciato dal giornalista di «La Stampa». Che così proseguiva: «Ad accomunarli è la speranza di superare il concorso per la selezione di quindici lustrascarpe che Confartigianato Palermo cerca, per riportare in auge l’antico mestiere nella città e offrire una possibilità di lavoro in una realtà che economicamente resta asfittica. Sono iniziati ieri pomeriggio i colloqui nella sede palermitana dell’associazione di categoria: nei locali in via Laurana si sono presentati settantacinque aspiranti. Con un’età media di circa quarant’anni anni – il più giovane ha appena ventun anni, il più grande sessantuno – tra loro ci sono undici donne, e provengono da tutte le province della Sicilia, ognuno di loro con una storia e un percorso di vita differente, ma tutti uniti dal desiderio di trovare un lavoro in una regione dove le occasioni, non solo a causa della crisi, sono assai scarse».

Tutti in fila per un posto di lavoro che ha radici antiche e che sicuramente non ha minore dignità dell’operatore di call center: lo dico perché se un laureato fa l’operatore in un call center non si stupisce nessuno, mentre se fa il lustrascarpe si apre subito la discussione se sia giusto o no. Si tratta di dibattiti inutili, figli di quella cultura che ha stravolto le scuole professionali, i mestieri, e ha esaltato la laurea come se fosse un titolo nobiliare. La “dottorite” – lo ripeto – è innanzitutto una sopravvalutazione che nasce dalle famiglie, e contestualmente è l’inganno con cui si ritarda l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Non è questo sistema universitario a formare i professionisti; non è il moltiplicarsi di atenei e dei corsi di laurea a far gemmare posti di lavoro. Quando mi capita di parlare con i giovani, dico loro di non farsi ingannare dalle tentazioni dei parolai: il grosso di questo mondo vive per far sopravvivere se stesso, non per scommettere su di loro! Anzi, i baroni hanno paura dei giovani, temono la loro fame, per questo nelle università si premiano le relazioni e si diffida di chi pensa con la propria testa e rompe le regole. Studiare è importante per se stessi, non per un pezzo di carta che, preso in ritardo, fa solo perdere tempo.

«Cercasi lavoratore con esperienza che abbia voglia di imparare.» Annunci così sui vari giornali trovalavoro sono una cartina di tornasole utile per decifrare la fase che stiamo vivendo: li vogliono con esperienza ma con voglia di imparare, che è un modo per dire che più di un contratto di formazione non troveranno. Per fortuna, il riscatto degli anni universitari ai fini previdenziali restituisce un po’ di quel tempo sprecato.

La storia dei lustrascarpe di Palermo si affianca alle storie di quei giovani che hanno avuto il coraggio di puntare sui mestieri anziché sulle professioni. Non voglio fare il solito discorso sugli operai specializzati che mancano, sulle macellerie che chiudono perché non c’è ricambio giovanile, sulla mancanza di tecnici specializzati nel settore audiometrico o in altri settori di servizi agli anziani, sulle falegnamerie costrette a tenere i clienti fuori dalla porta perché mancano gli operai, sull’agricoltura che necessita di contributi pubblici per evitare la fuga dalle stalle e dalle fattorie eccetera eccetera. Però lo scenario è questo.

Richard Sennett, professore alla London School of Economics e alla New York University, tempo fa scrisse un libro che, nonostante gli anni, trovo ancora di grande fascino e attualità: L’uomo artigiano. Oggetto delle riflessioni di Sennett è l’«intimo nesso tra la mano e la testa», il «dialogo tra le pratiche concrete e il pensiero» che è tipico di ogni bravo artigiano. È l’esaltazione non solo romantica ma anche attuale di una dimensione che proprio in Italia, dove l’artigianato esprime eccellenze straordinarie, stiamo perdendo. Scrive Sennett: «Che cosa ci rivela su noi stessi il processo di produrre cose materiali? Per imparare delle cose occorre prestare attenzione alla qualità di una stoffa o al modo giusto di cucinare un pesce; una stoffa tessuta bene e un pesce ben cucinato ci mettono in grado di immaginare categorie di “bontà” più ampie». E ancora: «Il termine “maestria”, con il suo rimando ai maestri artigiani, evocherà forse un modo di vivere tramontato con l’avvento della società industriale, ma questo è fuorviante. La maestria [termine da noi abusato e svuotato del suo significato più proprio. Chiamiamo tutti “maestri” quasi a sfottere perché il maestro lo abbiamo messo ai margini preferendogli il “professore”, N.d.A.] designa un impulso umano fondamentale sempre vivo, il desiderio di svolgere un lavoro per se stesso. E copre una fascia ben più ampia di quella del lavoro manuale specializzato; giova al programmatore informatico, al medico e all’artista. […] Spesso le condizioni sociali ed economiche ostacolano la disciplina e l’impegno del bravo artigiano; la scuola a volte non riesce a fornire gli strumenti necessari e i luoghi di lavoro non valorizzano come dovrebbero l’aspirazione alla qualità».

Parole di grande saggezza, quella saggezza che abbiamo perso a favore di una evanescenza divenuta centrale nei processi lavorativi, professionali e umani. Le scuole professionali sono state depotenziate dalla classe politica, dalle famiglie e da una cultura mainstream che ha reso fuori moda proprio ciò che in nuce è il made in Italy.

L’appeal di questi mestieri a vocazione artigianale forse non c’è, ma ci sono posti di lavoro disponibili – più che nella comunicazione e più che nell’attività forense, per esempio –, se soltanto lo Stato non fosse troppo attento a quelle dinamiche finanziarie che stanno portando il lavoro fuori dalla dimensione sociale.

Il modello GangBank non vuole i lavoratori, o meglio li vorrebbe standardizzati, silenti e a disposizione; insomma, vorrebbe degli automi. Per questo spinge verso la robotizzazione del mondo e l’intelligenza artificiale. Nello stesso tempo, vuole che essi consumino a prescindere dallo stipendio che percepiscono – ammesso che lo percepiscano – e dalle condizioni a cui lo percepiscono. Lo schema è il seguente: se ti servono soldi, te li presta il sistema. Debito chiama debito. Finché il sistema in qualche modo regge. Quando non reggerà più, pagherà lo Stato. A loro che importa? È la globalizzazione, bellezza. Lo scardinamento dei diritti del lavoratore, il suo indebitamento indotto, la concorrenza sleale verso il basso («Non vuoi lavorare a queste condizioni? Tanto fuori c’è una fila di gente che accetta al tuo posto») sono passaggi di un processo che senza resistenze sta diventando il nuovo modello.

Parlando con alcuni ragazzi mi sono trovato scoraggiato di fronte all’inerme accettazione di condizioni ingiuste. Ho avuto modo di discutere con alcuni di loro nei grandi centri commerciali dove la rotazione del personale è routine: «Siamo senza tutele, ma non possiamo permetterci di alzare la testa» ti raccontano. Non c’è rabbia. E quando c’è, la incanalano in una dimensione social. Non più socialista, ma social.

Le nuove generazioni non si pongono la questione di quali diritti e quali lotte, perché non ne hanno né la conoscenza né la percezione. È passato il concetto per cui il dissenso coincide con la violenza; non c’è commentatore (magari con trascorsi in militanze politiche extraparlamentari…) che non sottolinei «la delicatezza dei tempi» e non avverta che «dobbiamo stare attenti a come si parla ai disagiati». L’uniformità di pensiero con cui essi affrontano le misure adottate dall’establishment e dalle élite annulla tanto i diritti quanto i doveri, nel senso che quando i contratti diventano contratti a punti, quasi come le tessere fedeltà o un biglietto della lotteria, ecco che i doveri si lasciano allo spirito cameratesco del più anziano. Mi spiego meglio: i contratti light previsti dalle nuove regole del lavoro non sanciscono tutti quei doveri che invece nella pratica si richiedono al lavoratore, li si delega all’ambiente di lavoro, a un largo caporalato. È il caporale a fornire le “istruzioni per l’uso”, è l’anziano a ordinare al lavoratore cosa deve fare, «altrimenti c’è fuori la fila di quelli pronti a sostituirti».

L’altro caso ugualmente frequente è quello per cui il lavoratore diventa “imprenditore di se stesso” pur essendo perfettamente dentro l’ingranaggio aziendale. Il fenomeno delle partite IVA non è finito, anzi è in progressiva mutazione. Tutto il mondo dell’economia 2.0 fa leva sull’inganno del protagonismo del lavoratore. Nelle strade delle nostre città stiamo assistendo sempre di più al proliferare di moderni pony express che consegnano cibo, pacchi e ogni genere di bene, o che trasportano persone. Essi sono per l’appunto gli “imprenditori di se stessi”: le consegne o i trasferimenti avvengono con mezzi loro (bici, scooter, auto), con un’assicurazione propria, con i costi del telefonino a proprio carico (il telefonino sempre connesso è la condizione essenziale del lavoro) e con un’alta dose di rischio che vanifica la remunerazione del lavoro svolto. Perciò mi domando: la modernità del nuovo mondo è questa? E chi la decide: manager con guadagni stratosferici, magari tassati all’estero? Politici che passano da un incarico a un altro ma sempre con stipendi alti? Sindacalisti e rappresentanti degli imprenditori che passano dalle associazioni di categorie ai partiti? Non è buffo che per costoro il lavoro sia contrattualizzato alla vecchia maniera, con diritti intoccabili, mentre l’esercito di disoccupati è contrattualizzato con l’inchiostro simpatico?

Dal pacchetto Treu al Jobs Act, il lavoro è stato “riformato” (espressione talmente logora e abusata che ormai ogni intervento normativo viene spacciato per riforma) parecchie volte e sempre verso quella flessibilità che prevedibilmente è diventata precarietà. Questo perché lo chiedeva qualcuno: ora il mercato, ora l’Europa, ora le politiche di crescita. Alla prova dei fatti, l’aver allentato i bulloni dell’impianto giuslavorista non ha prodotto – al contrario di quel che sostenevano in tanti – né posti di lavoro in più né un beneficio per i consumi o più in generale per l’economia. Abbiamo soltanto assistito a una débâcle sotto ogni punto di vista. Specie negli ultimi vent’anni, da quando l’equazione “più sacrifici = soluzione dei problemi” è diventata il programma politico comune e bipartisan. Il vero risultato è stato aver alleggerito i diritti acquisiti dei lavoratori over 35, aver messo alla porta gli over 55 (eccetto in questi ultimi mesi di Jobs Act, perché assumere un lavoratore con esperienza al costo di un giovane da formare è un’occasione da afferrare al volo) e aver illuso la ormai famosa “generazione Erasmus”, ingannata dalla favoletta dell’Europa senza confini e senza dogane. Ma anche senza lavoro, a meno che non lo accetti alle condizioni light delle nuove normative.

La generazione Erasmus è cresciuta vedendo gli adulti galleggiare nel mare dell’emergenzialità (non possiamo più vivere al di sopra delle nostre possibilità, non possiamo più avere un lavoro che duri tutta la vita, non possiamo stare chiusi nei nostri confini quando il mondo è globale…) e sta pagando il conto. In questo scenario di nuove regole, la generazione Erasmus, entrando nel mondo del lavoro, ha cambiato fisionomia ed è diventata la “generazione Foodora”, dal nome della società tedesca che consegna a domicilio cibi e pasti cucinati dai ristoranti. Foodora è una app, una realtà dell’economia 2.0, un’azienda che usa la leva del collaboratore “imprenditore di se stesso”.

I lavoratori di Foodora sono quei ragazzi che sfrecciano per le nostre città in sella a biciclette con box e borsoni in cui tengono i pasti da consegnare. Sul finire dello scorso anno hanno incrociato le braccia portando allo scoperto condizioni di lavoro alquanto discutibili. «L’aspetto più grave da affrontare è quello del cottimo» raccontava uno dei rider, Daniele, trentaseienne di Torino laureato in Storia che con Foodora collabora da un anno. «Quando ho cominciato, l’azienda era appena sbarcata in Italia. Io avevo già lavorato con la bici come postino, e dunque mi sono convinto che quella delle consegne di cibo a domicilio potesse essere una buona soluzione, in attesa di qualcosa di meglio.» Daniele aveva firmato un contratto di collaborazione che prevedeva una paga oraria: 5,70 euro lordi ogni sessanta minuti. «Non molto, lo so» ammetteva Daniele «ma comunque meglio di niente. E poi all’epoca si trattava di una start up: ero fiducioso che le condizioni sarebbero migliorate.» E invece? «E invece è accaduto il contrario. A novembre scadranno gli ultimi contratti con paga oraria, e i dirigenti di Foodora ci hanno fatto capire che i nuovi accordi di collaborazione prevederanno una paga per singola chiamata: 2,70 euro per ogni consegna effettuata. Un contratto del genere spinge tutti a correre di più, a commettere magari qualche infrazione stradale e a prendere dei rischi in mezzo al traffico. Senza contare che poi spesso, andando a rotta di collo, si rischia anche di ridurre in poltiglia le pietanze che trasportiamo.»

«È un’opportunità per la nostra flotta» hanno risposto dall’altra parte. «Perché possono guadagnare di più facendo più consegne all’ora. Come fatto notare dagli stessi rider con cui abbiamo parlato, che ci dicevano di fare anche tre consegne nello stesso tempo. Il tempo medio di un servizio a Torino è ventinove minuti. […] L’occupazione per Foodora deve essere considerata un secondo-terzo lavoro. Non un primo. Per chi vuole guadagnare un piccolo stipendio e ha la passione per andare in bicicletta. Non un lavoro per sbarcare il lunario.»

Peccato che, in un mondo dove il lavoro è una incertezza, anche questo tipo di collaborazione diventi quel “qualcosa meglio di niente”.

Ho citato Foodora non perché sia un unicum, ma perché la protesta dei rider era diventata un caso anche per la politica. «Sono in corso verifiche degli ispettori del lavoro alla Foodora» riportavano i giornali. «Lo ha confermato ieri la ministra per i Rapporti con il parlamento Maria Elena Boschi che, a nome del ministro del Lavoro Giuliano Poletti, ha risposto a un’interrogazione di Giorgio Airaudo (Sinistra italiana). Boschi ha segnalato un’altra iniziativa del governo, provocata dalla protesta dei biker torinesi e milanesi contro le condizioni di lavoro imposte dalla multinazionale tedesca di take away su piattaforma digitale. Poletti avrebbe chiesto ai ministri del Lavoro europei di aprire “un tavolo per individuare soluzioni condivise a livello europeo per tutelare il lavoro nella new economy”.» Verifiche, tavoli… ecco la prontezza della politica.

«È il mercato, bellezza» sento commentare da più parti. «Piuttosto che non avere una retribuzione, questo è un modo per portare a casa dei soldi.» Siamo arrivati al punto: un lavoro purché sia, un guadagno purché sia. Vi ricordate il “pochi, maledetti e subito”? Ecco, siamo lì.

Si chiama gig economy, cioè l’economia che “gira” sui lavoretti intercettati sul mercato delle app. Vale per Foodora come per Uber o Deliveroo, tanto per citare i casi più noti. È il mercato? Be’, quando i liberisti erano strutturati in un pensiero, il mercato era una entità seria. Questa, invece, la definirei “giungla”, dove il più forte fa quello che vuole. Una specie di bullismo, mi si passi il termine. Che incontra il consenso di chi, per esempio, vede i tassisti come una lobby che ostacola il mercato, come una corporazione che difetta di educazione e di pulizia. È vero, alcuni tassisti farebbero bene a rivedersi alcune regole di buone maniere; questo però non dà il diritto a Uber e alle sue sorelle di presentarsi al cliente per poi aggirare le regole legate al trasporto dei passeggeri e quelle legate al lavoro. In Italia, infatti, una sentenza ha bloccato UberPop considerandola illegale. In America, a San Francisco, sia Uber sia Lyft non hanno convinto i giudici circa il fatto che i loro autisti fossero “contrattisti indipendenti”, cioè freelance ingaggiati a richiesta o su commissione per guidare i loro taxi. Per i giudici federali del distretto di San Francisco, questi autisti erano dipendenti mascherati.

Insomma, il magnifico mondo delle app non gode di una extraterritorialità legale solo perché vive nel web: il lavoro si paga. E lo si deve inquadrare contrattualmente. Abbiamo già visto che, dagli autisti di Uber ai ciclisti di Foodora, ci sono costi che gravano sulle spalle di questi lavoratori figli di nessuno, “imprenditori di se stessi”: le spese per la macchina, l’assicurazione, le bici, le spese dello smartphone con cui stare in contatto con il committente. Se non lavorano, non hanno un sussidio di disoccupazione. Se cadono, fanno un incidente o si ammalano, non sono coperti. Se non rispondono a una chiamata, il cliente li può punire con una valutazione negativa. Può darsi che io sia eccessivamente critico o pessimista, ma mi sembra che questa modernità rimandi a usi e prassi che anni di battaglie civili avevano cancellato.

Ma si sa, oggi le battaglie civili riguardano diritti politically correct, diritti di modernità, di civiltà, riguardano le nuove frontiere. Finalmente le coppie gay possono avere il loro figlio, e pazienza se poco alla volta il lavoro è diventato un dettaglio da sacrificare sempre in nome della stessa modernità. Come a dire, parafrasando Adriano Celentano, che il lavoro è lento e la procreazione assistita è rock. Magari tra qualche anno, quando vedremo un italiano farsi saltare in aria non al grido di Allah Akbar, ma perché è senza lavoro, o perché si sente un fallito, o ha un mutuo da rispettare e magari pure una sentenza di divorzio con cui regolarsi, forse capiremo che questa modernità era una colossale fregatura. Ora che i suicidi nei capannoni non fanno più notizia, pensate davvero che non ne avvengano più? Per favore… È che non se ne deve più parlare. Quieta non movere, dicevano i latini.

La gig economy, o economia dei lavoretti, non si allontana dalle prestazioni a cottimo: non si paga il tempo dedicato al lavoro (anche qui, poi, è tutto da vedere, visto che nemmeno gli straordinari vengono retribuiti: bene che ti vada si forfettizza) ma il lavoro compiuto, al netto di quelle spese a carico di cui si diceva. Non è la stessa logica del voucher? Ci rendiamo conto che abbiamo smontato i diritti del lavoratore per standardizzare verso il basso? È la logica dei voucher (dei quali parleremo a breve), anzi è addirittura un passo indietro, perché il voucher somma la controprestazione e il dovuto all’INPS; i rider di Foodora hanno bloccato le bici per protestare contro i 2,50 euro a consegna. A Londra, Deliveroo pagava 7 sterline all’ora più una alla consegna. La protesta a Londra è scattata quando l’azienda ha deciso di tagliare il compenso orario, andando contro il salario minimo orario, standard che ha consentito di parametrare il minimo contrattuale.

Vi sembra normale che ci sia uno squilibrio così accentuato tra l’ultimo collaboratore di queste app e le cifre che assegnano ai dirigenti? Uber ha guadagnato più di 4 miliardi di dollari da società di capitali di rischio, come Benchmark o Google Ventures, portando il valore dell’azienda a 41 miliardi di dollari. È la start up più apprezzata negli Stati Uniti. Lyft ha guadagnato “solo” 331 milioni di dollari da Andreessen Horowitz, Founders Fund e altri investitori. La sproporzione tra i redditi dei lavoratori e quelli dei manager, come tra il valore del lavoro e quello delle start up, è tra le cause di ribellione che hanno spinto migliaia di lavoratori della middle class a bocciare Obama e Hillary Clinton a favore di Donald Trump.

Uno stipendio e un lavoro purché sia. Un lavoro è meglio che restare a casa. Ecco il corto circuito della modernità creato dal neoliberismo. Stiamo assistendo, in concomitanza con la crisi economica, a una manipolazione della società, a una riscrittura dei suoi diritti; è quello che i mercati chiedono. Ma i mercati, perlomeno se ancora fa fede la Costituzione, non detengono la sovranità; eppure comandano loro. Danno loro le carte, anzi detengono loro la Carta. La trasformano. Dopo meno di due mesi dalla sonora sberla degli italiani sulla riforma costituzionale, l’agenzia di rating Fitch (che nelle settimane precedenti a quel voto dichiarò di essere a favore della riforma di Renzi) è tornata a predicare il suo verbo: «Il PIL dell’Italia smette di crescere, se in Europa esplode il populismo». Fitch ipotizza uno shock, esteso tra inizio 2017 e fine 2018, di trecento punti base per i tassi sul credito bancario a imprese e famiglie, di duecento punti base per quel che riguarda il mercato dei titoli di Stato e di un –30% per la Borsa. Con queste premesse, le previsioni di crescita sull’economia italiana si azzerano per il 2017, rispetto al +0,9% stimato in novembre dall’agenzia nel suo Global Economic Outlook; per il 2018 la stima risulterebbe ridotta a +0,5% da +1,0%. La crescita del sostegno ai partiti politici populisti ed euroscettici nel continente potrebbero riaccendere alcune delle preoccupazioni circa la frammentazione della zona euro che furono evidenti nel 2012.

Quindi che fare, secondo loro? Riformare. Fare i compiti come ci hanno detto in altre occasioni. Ma questa riformite acuta dove deve arrivare? Ignazio Visco, in una relazione pronunciata in occasione delle Giornate del lavoro della CGIL, non ha avuto remore nel dire che anche quando «i primi segnali di ripresa saranno consolidati, non dovremo leggere questo rimbalzo ciclico come l’indicazione che sono state risolte le difficoltà di crescita dell’economia italiana. Le tendenze che ho delineato impongono una lunga transizione verso una nuova organizzazione dell’economia e della società».

Ora, che una nuova società possa trovare un nuovo equilibrio è assolutamente nella natura delle cose. La questione di fondo è: chi promuove questa nuova organizzazione, chi ne accelera il compimento? E con quali obiettivi? La società così com’è modellata sulla base dei principi costituzionali difende tutti, ripara tutti sotto un cielo di diritti inviolabili a seconda dei diversi interessi: il lavoratore, l’imprenditore, le famiglie ecc. La marea di trattati che il diritto internazionale e il diritto europeo stanno sfornando ha lo stesso spirito della Costituzione? Gli esempi e i racconti che ho riportato nelle pagine precedenti rivelano che questi nuovi portatori di interessi non hanno a cuore l’interesse collettivo, ma l’interesse di una parte. Una parte che oggi chiamiamo establishment, lobby, élite.

Si può dunque dire che la riscrittura del nuovo modello produce un benessere diffuso? Be’, da quando abbiamo orientato la bussola verso il rigore finanziario, verso le politiche di austerità, le performance sono state tutt’altro che brillanti. Per gli imprenditori. Per i lavoratori, Per le famiglie. Ogni tanto, per fortuna, ci pensa la Corte costituzionale (penso ai pronunciamenti sulla legge Fornero, per esempio) a riaffermare quei diritti e a riorientare la bussola sui punti cardinali di una societas fatta di cittadini e non di mercati finanziari. Dal trattato di Maastricht in avanti si è assistito a un progressivo e asfissiante pressing contro i diritti dei lavoratori, ed è stata la sinistra di ispirazione blairiana, democrat, ulivista, ad acconsentire al suo incardinamento nella normativa italiana. Il rigurgito americano che ha portato alla vittoria di Donald Trump (tra l’altro con parole d’ordine che apparterrebbero più alla narrazione socialista) e la decisione dei britannici di uscire dall’Unione Europea sono le spie di un quadro che sfugge agli eurocostruttori prima ancora che ai piloti. Anche quelli automatici. (Era stato Mario Draghi a sostenere che le riforme verso una nuova società andranno avanti «con il pilota automatico».)

È dal cilindro di questa Europa neoliberista che sono usciti sempre più contratti atipici, accolti dagli applausi di industriali miopi, i quali forse soltanto adesso stanno realizzando che tale egoismo ha aiutato solo l’economia di carta e non l’economia reale. Il mercato senza se e senza ma, la deregulation spinta, la finanziarizzazione dell’economia stanno impoverendo i cittadini, hanno drenato quella classe media che costituiva l’ossatura delle nostre società. Ecco perché vale la pena domandarsi se il gioco valesse la candela. La “piena occupazione” non sarà mai un obiettivo del neoliberismo in salsa europea, perché il neoliberismo fa leva sull’indebitamento e sulla destrutturazione dei diritti individuali.

La “piena occupazione” è un obiettivo della nostra Costituzione, quella Costituzione che GangBank vuole superare in nome delle riforme «da fare per tornare a crescere». E non è vero che la prima parte è salva solo perché non si tocca: la prima parte è salva solo se le istituzioni e i poteri (sempre ben bilanciati) restano funzionali al raggiungimento di quegli enunciati. Modificare la Costituzione in nome della modernità e della velocità è una corbelleria senza pari: sarà mica moderno un paese che ha privato i giovani del diritto ad avere un lavoro! Sarà mica moderno un paese dove vince il più forte! Sarà mica moderno un paese dove il potere d’acquisto lentamente scende! Sarà mica moderno un paese dove il welfare passa dalle precarie mani pubbliche a famelici cartelli finanziari! Sarà mica moderno un paese dove le riforme del lavoro fanno notizia per i voucher!

Dal 2014 a oggi è stata una esplosione di voucher. Tanto da diventare una questione politica. Sessantanove milioni venduti nel 2014. Centoquindici milioni nel 2015. Nel solo primo semestre del 2016 siamo a settanta milioni, al 30 settembre sono centonove milioni, che proiettati sull’anno intero sono stimabili in oltre centoquaranta milioni. Prima della crisi sistemica del 2008 (mondiale) e quella deliberatamente provocata dai cartelli finanziari nel 2011 (PIIGS) erano solo poco più di cinquecentomila all’anno. «I voucher hanno il merito di portare allo scoperto rapporti di lavoro che prima si svolgevano in nero» si difendono nel Palazzo, prima di cambiare idea per paura di perdere il referendum promosso dalla CGIL. Ma le storie reali dimostrano che così non è. Il nero viaggia ancora di pari passo. E di sfruttamento per caporalato si muore ancora.

La distribuzione della tipologia di lavoro associato ai voucher va dal commercio (16,8%) al turismo (13,9%), dai lavori domestici ai servizi all’agricoltura ecc. Ma la voce più corposa, udite udite, è “altre attività” con il 36,7%! Questo dato così generico è «il riflesso della storia del lavoro accessorio, all’origine destinato ad ambiti circoscritti», ma negli anni progressivamente ampliati, fino alla «legge n. 92 del 2012 che permette di fatto l’utilizzo di lavoro accessorio per qualsiasi tipologia di attività». Lo spiega l’INPS nel suo rapporto sul lavoro accessorio aggiornato all’ottobre 2016.

Insomma: il voucher era un strumento per casi specifici e molto limitati, ma il governo Monti prima e quello Renzi poi l’hanno trasformato in un’arma impropria nelle mani di datori senza ritegno, così da generare il combinato nero/voucher. Quindi, anche a voler attribuire tutte le buone intenzioni al legislatore, il risultato è stato decisamente fallimentare. Eppure, il governo non ha fatto alcuna autocritica, se non per paura. Ci hanno pensato i cittadini, difendendo la Costituzione, a bocciare senza appello le nuove politiche. Eppure, nonostante un referendum alle porte, i politici della maggioranza commentano ancora: «Il Jobs Act funziona». Funziona fintanto che, nelle statistiche ufficiali sulla disoccupazione, basta ricevere un voucher alla settimana per essere considerato un occupato permanente. Una vera e propria manipolazione dei dati sulla (dis)occupazione che sfiora, politicamente, il falso in atti pubblici.

«La progressiva estensione degli ambiti […] di utilizzo del lavoro accessorio» continua l’INPS «è andata di pari passo con l’aumento della vendita dei voucher. […] Dalla sperimentazione per le vendemmie del 2008, il sistema dei buoni lavoro è andato progressivamente ampliandosi.» Anche la modalità di distribuzione dei voucher si è ampliata: inizialmente acquistabili tramite l’ente previdenziale, poi presso i tabaccai e infine attraverso le Banche Popolari e gli uffici postali.

Il fenomeno coinvolge, nel 2015, quasi un milione e quattrocentomila lavoratrici e lavoratori. Il sestuplo del 2011. Lavoretti per le vacanze degli universitari e dei ragazzini? Macché! Gente matura di età media tra i trentaquattro e trentasette anni che non può costruirsi una vita. Che non può mantenere i propri figli o che rinuncia ad averne. Italiani, nel 92% dei casi, di fatto schiavizzati e costretti ad accettare qualunque cosa in un mercato contratto e al ribasso, ove i flussi di stranieri vecchi e nuovi inaspriscono la competizione tra poveri sia sul lavoro sia nell’accesso a quel che rimane dei servizi al cittadino.

Conosciamo tutti l’articolo 1 della Costituzione, che sancisce il legame tra la Repubblica democratica e il lavoro. Ma spesso questo articolo lo pensiamo isolato. Invece insiste su un’idea di società che guarda al benessere dei cittadini, che offre a tutti la possibilità di essere cittadini degni. L’articolo 1 apre e chiude il cerchio dei princìpi legati al lavoro, un cerchio che ricomprende l’articolo 4 («La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto»), l’articolo 35 («La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro»), l’articolo 36 («Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi»), l’articolo 37 («La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato»), l’articolo 38 («Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili e i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedano organi e istituti predisposti o integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera»).

Riconoscere il diritto al lavoro è un impegno politico che mette lo Stato e le sue classi dirigenti nella posizione di impegnarsi per proteggere il lavoro, non per farlo diventare una questione sociale con cui fare i conti. I dati sulla disoccupazione giovanile sono l’antitesi rispetto alla tesi costituzionale. L’impegno non è assicurare a tutti un posto di lavoro, ma promuovere le condizioni per rendere effettivo codesto diritto. Del resto, senza una politica sul lavoro seria si svuota la società. E si riempie l’altra società, quella cara al GangBank: quella dove, se non hai un salario, ti offrono soldi a debito. Così cade tutto. I primi a capire la pericolosità dell’inversione di paradigma dovrebbero essere gli imprenditori: la crisi del lavoro colpisce innanzitutto loro. L’economia di carta non ha niente a che vedere con i diritti alla libertà di impresa che incardinano l’economia reale.

L’attualità della Costituzione economica è lontana anni luce da ciò che invece sono i trattati europei, dove la stella polare è la finanza. Mai un padre costituente avrebbe ridicolizzato i lavoratori (giovani e non) con epiteti sprezzanti come choosy, fannulloni, sfigati, bamboccioni o altro ancora. Lo sforzo del costituente costringeva la classe politica e dirigente del paese a considerare centrale il lavoro. Il lavoro, non un lavoro, come dagli anni Novanta a oggi stanno facendo, per omaggiare il dio neoliberista. E lo dico anche a critica delle tesi di chi (in buona fede, visti i tempi di crisi), onde controbilanciare la precarietà sociale, lancia l’idea del reddito di cittadinanza. L’idea in sé ha la sua ragion d’essere, nel senso che resta il rimedio migliore rispetto a uno scenario disperato. Sarebbe tuttavia quasi un risarcimento per il mancato impegno ad ambire verso la piena occupazione. Il reddito di cittadinanza è la miglior difesa contro gli attacchi neoliberisti, ma non è questo l’obiettivo cui la Costituzione chiama la classe dirigente.

GangBank ha trascinato l’Europa nella spirale di una retorica che rimanda ai quattro capponi di Renzo di manzoniana memoria, così mentre noi ci becchiamo a vicenda su chi è più fannullone, chi più furbetto, chi più imbroglione, chi più sfaticato, chi più… più, quelli ci hanno cambiato le condizioni di vita. Senza un lavoro che non sia instabile, senza una retribuzione equa, senza il giusto bilanciamento dei diritti e dei doveri, senza garanzie. Ma con tanti debiti. Perché non importa che tu non abbia soldi tuoi: te li presta il sistema. A debito. O con umilianti bonus. Ma il governo non deve promuovere i bonus, deve promuovere il lavoro. Questo è scritto nella Costituzione. E, poiché non sono in grado di onorarla (per quanto i ministri giurino su di essa!), allora la cambiano. La Costituzione è troppo più grande di loro. Per questo dobbiamo ripartire da lì!

Nelle pagine precedenti abbiamo visto come i trattati internazionali siano di per sé un detonatore dei diritti del lavoratore, di come minino il lavoro stesso legandolo al mercato, alla sua liberalizzazione. Abbiamo visto come le grandi banche d’affari ricattino i governi legando gli investimenti (anche) alle condizioni del lavoro e a riforme che del riformismo non hanno più alcuna traccia, a meno che non si consideri una riforma il ritorno allo schiavismo. Con Giuseppe Guarino ribadiamo che «rinunciando ai poteri di determinare autoritariamente e autonomamente la quantità di moneta da immettere in circolazione, di fissare il cambio, di fissare il tasso di sconto, di elevare autoritariamente la imposizione tenendo conto solo dei fattori interni, e accettando che la sua struttura produttiva si conformi sulla sola base delle leggi di un mercato aperto, lo Stato si priva di attributi essenziali della sovranità, alcuni dei quali considerati a tal punto intrinseci della sovranità, da rendere persino superflua la loro esplicitazione: in altre parole, proprio con riguardo ai poteri di più diretto intervento nella economia, lo Stato diviene non-Stato». Perciò tanti saluti alla piena occupazione, tanti saluti alla libertà di impresa, tanti saluti all’economia reale. Per questo non cresciamo e produciamo disoccupazione e indebitamento. La bussola non è più quella della Costituzione, ma quella del neoliberismo.

Così capita che durante la presentazione del piano nazionale Industria 4.0, presente il premier Matteo Renzi, venga distribuita una brochure Invest in Italy con il logo del ministero dello Sviluppo economico il cui appeal è «Venite in Italia, i nostri ingegneri sono bravissimi e costano molto meno che altrove». Per la precisione, nella brochure si legge che «un ingegnere in Italia guadagna mediamente in un anno 38.500 euro, mentre in altri paesi lo stesso profilo ha una retribuzione media di 48.500 euro l’anno». Più in generale, precisa il ministero, «i costi del lavoro in Italia sono ben al di sotto dei competitor come Francia e Germania. Inoltre, la crescita del costo del lavoro nell’ultimo triennio (2012-2014) è la più bassa rispetto a quelle registrate nell’eurozona (+1,2% contro +1,7)».

Eccola ben rappresentata, la logica del neoliberismo, la logica per cui il Jobs Act è una riforma del lavoro che piace alle agenzie di rating, alle merchant bank, agli investitori, ai Marchionne, ai Davide Serra e a tanti altri: il lavoro è una variabile del mercato. Finché si gioca nel perimetro della deregulation non ci sarà mai una politica rispettosa del dettato costituzionale e diventa motivo di attrazione la propaganda di una retribuzione che attiene alla logica del mercato del pesce. Una logica al ribasso. Poi si interrogano sul perché la gente dice no e la middle class abbraccia soluzioni che magari non avrebbe voluto ma che diventano l’unica possibilità di sopravvivenza al netto delle appartenenze. Vendere i bassi salari come fattore competitivo dell’Italia equivale a entrare in campo con la formazione peggiore. Con le riserve.

Il motivo per cui siamo arrivati a cristallizzare questo processo di destrutturazione del lavoro è facile da comprendere. In nome della riorganizzazione globale del processo produttivo, le multinazionali hanno raggiunto lo scopo di ottenere dalle istituzioni sempre più flessibilità. I governi (più di tutti quelli che convenzionalmente denominiamo “di centrosinistra”) hanno contrabbandato l’illusoria equazione (liberista) “più flessibilità = più posti di lavoro” condendola con un conteggio ipocrita per cui i dati occupazionali salivano a prescindere dalla qualità del contratto di lavoro. Prima che la disoccupazione scoppiasse nelle loro mani, accadeva che, con la complicità degli amici gazzettieri, i progressisti si crogiolassero in questo pseudomiracolo di finta occupazione: accadeva in Italia, nella Gran Bretagna di Tony Blair, nella Francia di Hollande, nella Spagna di Zapatero, nell’America di Clinton prima e di Obama poi. Persino nella Germania della socialdemocrazia e della Grande coalizione, che oggi sbandiera risultati ottenuti perché qualcun altro ha pagato l’intero prezzo del biglietto.

Questa convergenza politica ha favorito poi un altro aspetto legato alla disgregazione del lavoro: non contenti di aver rotto l’equilibrio dei diritti e dei doveri, hanno creato le condizioni per una concorrenza sleale tra disperati. Poiché le normative in tema di lavoro costituivano un ostacolo al disegno neoliberista di abbattere il costo del lavoro e contestualmente approfittare della massima platea possibile di lavoratori a disposizione, ecco che si sono appoggiati alla liquidità della globalizzazione chiudendo gli occhi di fronte alla delocalizzazione delle aziende, cioè all’unica secessione che si è concretizzata (con numeri importantissimi), e di fronte alle conseguenze generate dall’arrivo di immigrati, molti dei quali senza permessi. La saldatura tra logica neoliberista e ipocrisia politica della sinistra di governo ha così creato i presupposti per comprimere progressivamente e costantemente diritti e salari. Un miliardo e mezzo di lavoratori globali sono stati posti in concorrenza tra di loro in una gara al ribasso. Sono due decenni che si assiste a un riformismo fasullo teso sempre e soltanto all’aumento della flessibilità del lavoro; lavoro che è diventato esso stesso merce. Merce disponibile. Non più un diritto. E chi ha pagato di più questa mercificazione del lavoro? I giovani e le donne. «Modena, assunta e licenziata 44 volte: il giudice la mette in regola» o «Non può andare in bagno, così l’operaio si urina addosso» sono fatti che non indignano più. Per indignarsi – e ci mancherebbe – bisogna sbattere contro questa notizia: «In fabbrica dopo il trapianto, viene licenziato in tronco». Capite la disumanità?

Le recenti politiche del lavoro combinate con quelle previdenziali e l’assoluto abbandono di politiche sociali serie stanno modellando una nuova Italia che gli istituti di statistica fotografano con drammatica tristezza. Il rapporto 2017 di Eurispes mette in fila numeri e scenari che rappresentano il fallimento delle logiche contabili barattate per politica. «Affitto e mutui: più di un italiano su dieci torna a casa dai genitori» vi si legge. «Molti hanno dovuto mettere in atto strategie anticrisi come tornare a casa dai genitori o in quella dei suoceri. Quasi la metà delle famiglie italiane non riesce a far quadrare i conti e il 48,3% non riesce ad arrivare alla fine del mese, con un incremento di circa un punto percentuale rispetto allo scorso anno, dove si registrava un 47,2%. Il 44,9% è costretto ad attingere dai propri risparmi per completare il mese. Solo in una casa su quattro si è in grado di mettere qualcosa da parte, cioè di risparmiare. Le rate del mutuo per la casa sono un problema nel 28,5% dei casi, mentre per il 42,1% di chi è in affitto lo è pagare il canone. Il 25,6% delle famiglie ha inoltre difficoltà a far fronte alle spese mediche.»

Quello che preoccupa gli italiani è anche la propria percezione di povertà. «Circa una persona su quattro» prosegue il rapporto 2017 di Eurispes «afferma di sentirsi “abbastanza” (21,2%) e “molto” (3%) povero […], a causa della perdita del lavoro (76,7%), a seguito di una separazione o un divorzio (50,6%), a causa di una malattia propria o di un familiare (39,4%).»

Il lavoro e la retribuzione sono le cause di questa angoscia, che s’accoppia con la presa d’atto di un costo della vita alto e di una tassazione che per il 62,5% resta invariata (altro che «Siamo il governo che ha abbassato le tasse», detto da Renzi come da qualsiasi altro presidente del Consiglio).

I soldi: questo mi sembra il dato che, dall’inizio del nostro lavoro, torna continuamente centrale. Soldi che dovrebbero arrivare dal lavoro e non dal risparmio acquisito precedentemente o, peggio, dal ricorso a prestiti. I motivi per cui si richiede un prestito sono il mutuo per l’acquisto della casa (46,8%), la necessità di pagare debiti accumulati (27,6%), il bisogno di saldare prestiti contratti con altre banche o finanziarie (17,9%), le cure mediche (10,9%).

Va da sé che, a fronte di uno scenario di impoverimento reale e percepito, si tiri la cinghia, si tagli (sempre meno italiani tengono animali in casa. E – mi sia consentito – non è un bel segnale, visto che un animale rappresenta compagnia e conforto, non un vezzo) o si inventino soluzioni di maniera. In tale direzione va inteso il boom della cosiddetta sharing economy, cioè l’economia della condivisione. Secondo una ricerca compiuta da Dario Di Vico per il «Corriere della Sera», il ceto medio si sta salvando così.

Si calcola che il 17% degli italiani usi una piattaforma digitale di condivisione (Airbnb, BlaBlaCar, Gnammo e il car sharing) e il successo è crescente avendo la sharing economy saputo coniugare l’elemento razionale (l’utilizzo ottimale delle risorse) con quello valoriale (la gratificazione di concorrere a qualcosa di socialmente utile). E abbia di conseguenza coinvolto oltre al popolo del politicamente corretto anche una frazione crescente del ceto medio non riflessivo. Per di più è riuscita a mettere d’accordo culture politiche assai diverse tra loro, si trovano tifosi della sharing tra i liberali ortodossi come tra i sostenitori della teoria dei beni comuni. Spiega però Ivana Pais, sociologa dell’Università Cattolica di Milano: «Attenzione a non fare confusione. Il caso di Foodora non rientra nella sharing, è una prestazione a chiamata e quindi più tradizionale. A fare il prezzo non è chi presta il servizio ma l’azienda madre e può accadere che si parta con compensi alti per i fattorini e prezzi bassi per i clienti e poi una volta conquistato lo spazio di mercato si cambino le regole per aumentare il profitto».

La verità è che la sharing economy favorisce il ceto medio che ha bisogno di integrare il proprio reddito e coltivare la possibilità di diventare piccolo imprenditore, quanto al lavoro dipendente invece crea quelli che ci siamo abituati a chiamare lavoretti – negli USA la chiamano gig econom. – che dovrebbero essere retribuiti con equità e non con meccanismi da economia sommersa.

Per avere un ruolo attivo nell’economia condivisa, si mette a reddito un bene già nelle proprie disponibilità: ciò accade soprattutto per gli immobili (case o garage) o per le vetture private, come nel caso della piattaforma BlaBlaCar. Airbnb è sicuramente la piattaforma più diffusa e nota per chi volesse mettere la propria abitazione (o la seconda casa, specie dopo l’aumento della tassazione) “a disposizione” di turisti, studenti o single alle prese con brevi incarichi professionali. Secondo alcuni dati, si parla di centomila persone “attive”, cioè con una casa da mettere a disposizione.

Come nel caso delle proteste legate a Uber (che però ha già trovato un sostituto nella francese Heetch, molto utilizzata dai ragazzi per il trasporto serale), anche Airbnb è nell’occhio del ciclone: il pressing degli albergatori sta costringendo le amministrazioni a dare una disciplina al fenomeno. Una linea guida non c’è, ma è innegabile che le maglie saranno più o meno larghe a seconda della capacità di persuasione e del potere contrattuale che avranno le associazioni di categoria. Di Vico riporta:

I dati nazionali ci dicono che i centomila host di cui abbiamo parlato hanno percepito in media nel 2015 un bonus di 2.300 euro ciascuno. Ancora poco, ma si tratta di una media perché il grosso delle transazioni si ha in quattro città (Venezia, Firenze, Roma e Milano) che richiamano turisti per l’intero anno e in questi casi l’integrazione di reddito è molto superiore. In riva all’Arno siamo sui 6.300 euro annuali e nella capitale sui 5.500. Si calcola che in media un host dia vita a tre annunci di affitto di spazi diversi, di conseguenza è facile che in futuro si crei una polarizzazione: da una parte chi del noleggio-casa ha fatto un’attività costante e chi invece si è fermato all’integrazione saltuaria di reddito. Per ora i dati sulle fasce di ricchezza degli host sono equilibrati: il 27% gode già di un reddito annuo superiore ai 33.000 euro ma il 24% ha meno di 13.600 euro. «Il reddito generato grazie alla nostra piattaforma aiuta gli host italiani a far quadrare i conti e a rimanere nelle case che amano. Il reddito di molti di loro è inferiore al reddito medio in Italia» dicono ad Airbnb. E il caso più citato è quello di Milano dove c’è la maggiore estensione del numero di host e nella settimana del Salone del Mobile risulta si affittino anche case molto lontane dal centro. […] Teniamo presente che la differenza di guadagno tra affittare l’abitazione a un inquilino fisso come da tradizione e invece puntare sulla rotazione via sharing può essere del 100% a favore di quest’ultima anche con un’occupazione dell’appartamento di venti giorni su trenta al mese.

Sempre sul fronte casa, vale la pena di citare anche un altro caso che va per la maggiore: Gnammo. Si tratta di una piattaforma in cui si organizzano cene a casa propria facendo pagare gli ospiti. Notevoli sono state le proteste legate a una ristorazione in nero vera e propria (nonché le discussioni sulla “certificazione” degli alimenti).

Il nero. Bene, è arrivato anche qui il momento di scrivere alcune cose un po’ fuori dal coro. Mi prendo il rischio di essere strumentalizzato («Così giustifichi l’evasione fiscale!»), però i fenomeni vanno pesati per quel che sono realmente. In Italia si fa un gran parlare dell’evasione fiscale come piaga e come causa della mancata riduzione delle tasse. Il che è opinabile, intanto perché un nesso eziologico tra lotta all’evasione e riduzione (anche minima) del carico fiscale non c’è. In secondo luogo non ha senso criminalizzare, com’è stato fatto, alcune categorie professionali quando poi lo Stato è il primo che, per motivi di cassa, contratta al ribasso con i grandi evasori la chiusura di contestazioni fiscali di importi notevoli. Abbiamo già visto che la Commissione europea è guidata da un presidente che, quando era alla guida del proprio paese (Juncker in Lussemburgo), ha attirato le multinazionali offrendo loro trattamenti fiscali assai vantaggiosi, a tal punto da creare un dumping dannoso per l’erario delle casse dei paesi da cui provenivano le aziende. Così, mentre in Italia si montano dibattiti sulle ore in nero dei professori o si controllano i prelievi di denaro contante per vedere se l’idraulico, l’artigiano, l’imbianchino o l’istruttore di tennis sono pagati senza ricevuta, grandi uffici legali e grandi studi commercialisti inventano scatole cinesi e stratagemmi per permettere alle multinazionali e alla finanza multimiliardaria di eludere il fisco a norma di legge. Tutto questo mentre assistiamo a una contrazione dei salari e a una sofferenza nel commercio. I controlli fuori dagli esercizi commerciali per scontrini non battuti rischiano di far apparire mediatica una lotta all’evasione che, se fosse mirata verso i grandi, darebbe risultati più importanti e soprattutto darebbe quell’esempio che legittimerebbe la giusta severità che predichiamo.

Le ingiustizie legate ai contratti di lavoro, come vedete, generano una molteplicità di questioni irrisolte dalla nostra classe dirigente. Ciò accade perché altri prendono decisioni. Perché altri stanno scrivendo il modello di società ideale, un modello dove non c’è traccia di senso democratico.

La società di GangBank è una società arida, vigliacca, sterile. Una società che tende all’autodistruzione, che considera il lavoro come un prodotto e il lavoratore alla stregua di una seccatura da gestire. E, finché si può, bene: tanto dopo… Tanto dopo arriveranno il web, gli algoritmi e i robot. È un moto accelerato uniforme verso la negazione di tutto ciò che è stato prodotto dal pensiero. Può darsi che siano fandonie (come tanti ritengono), però la cancellazione dei lavoratori in quanti soggetti titolari di diritti e di doveri è un processo che fonde propaganda e lucidità.

La propaganda sui fannulloni: i lavoratori sono sempre fannulloni, sono sempre dei furbi; e per dimostrarlo si esaltano i casi che la cronaca ci offre. Certo che i furbi e i lavativi ci sono, ma pensare – come a un certo punto è stato fatto – che per esempio tutti i lavoratori della FIAT fossero lavativi, parassiti e altro, è stata becera propaganda, utile per dimostrare che Marchionne era un manager capace e dalla schiena dritta, mentre la FIOM (sulle barricate contro le modifiche delle condizioni contrattuali proposte) il solito sindacato retrogrado e ideologico.

I lavoratori, insomma, sono diventati un bersaglio da parte dei manager, degli industriali e anche della stampa. La quale – esattamente come previsto dal politically correct dilagante – ha scaricato i diritti dei lavoratori per abbracciare quelli più moderni dei migranti. Non capendo che l’ingresso incontrollato dei migranti era esattamente funzionale alla sostituzione della massa di lavoratori. Non è stato un caso che a metà degli anni Novanta l’incapacità, da parte della sinistra politica e dei sindacati, di tematizzare le nuove realtà di convivenza tra italiani e stranieri avesse portato gli operai metalmeccanici lombardi e veneti ad avere la tessera della FIOM-CGIL e quella della Lega nello stesso portafoglio. Lo ricordano bene sia Maurizio Zipponi sia Mario Agostinelli, nei racconti di quegli anni. In quelle fabbriche i lavoratori capirono alla svelta che la ribellione, prima diretta contro il padrone per migliorare le proprie condizioni di lavoro, sarebbe stata depotenziata da una lotta per la sopravvivenza finalizzata a non perdere le condizioni acquisite. Capirono subito che la minaccia sarebbe arrivata da quel popolo di disperati (in origine clandestini: poi con il tempo qualcuno si è regolarizzato), bisognoso di lavorare a qualsiasi condizione pur di racimolare uno stipendio. Il gioco del padrone divenne quello di creare uno scontro tutto giocato tra gli ultimi. Ciò che i padroncini non capirono fu che lo stesso meccanismo logico lo stavano mettendo in atto padroni ben più potenti di loro. Dentro uno schema elitario, profumato dalla più bella retorica buonista. Buonista e falsa, perché gli stessi partiti, gli stessi leader che negli ultimi decenni hanno mostrato la faccia generosa sui diritti dei nuovi deboli, sbullonavano l’impianto giuslavoristico. Pezzo per pezzo. Fino a votare l’abolizione dell’articolo 18, cosa che nemmeno a Berlusconi riuscì.

Il lavoratore, nel neoliberismo, non serve. È un di più che tuttavia si accetta nel processo transitorio. Lo abbiamo ripetuto tante volte: merchant bank, agenzie di rating, club elitari alla Davos, alla Aspen, alla Commissione Trilaterale o al Bilderberg non hanno mai nascosto la loro allergia per le Costituzioni nazionali, tanto più quelle con un’impronta socialista. L’impianto costituzionale a difesa del lavoro, come abbiamo visto, è culturalmente troppo lontano dall’agenda di questi nuovi, moderni pensatori. Nei loro paper chiedono riforme, riforme e ancora riforme. Pensioni e lavoro sono da smantellare.

I trattati internazionali da loro partoriti offrono gli strumenti per espiantare la piena occupazione, con la pienezza dei diritti: è tutto nero su bianco. Hanno partorito loro i contratti light, le retribuzioni light, il lavoro smart come un passatempo. È figlio della loro cultura il mondo virtuale che essi stessi propinano come unico mondo alle giovani generazioni. Tutto passa dalle app, dalla rete. Ed è un tutto che i cittadini stanno pagando a caro prezzo senza nemmeno accorgersene. Ci stiamo facendo complici di una rivoluzione che subiamo e che capiremo troppo tardi perché abbiamo la testa rivolta verso il basso, perché siamo costantemente connessi a una idea di modernità fasulla.

Il nostro egoismo (che per autoassoluzione chiamiamo “comodità”) non si accorge che Amazon, che le casse automatiche nei supermercati, nelle stazioni e negli aeroporti, che le app tipo Uber, Foodora e compagnia cantante, sono una falce mortale per molti posti di lavoro che non torneranno più. Il restare sempre connessi a testa bassa non ci rende più consapevoli della rivoluzione in corso. A noi va bene comprare i biglietti online, farci portare la spesa o la cena da runner sottopagati: a noi va bene perché la velocità delle nostre vite ci assolve. E se non è la velocità, allora è la comodità o il risparmio a guidare le nostre scelte di consumatori 2.0. Ma quando poi quello stesso meccanismo falcerà il nostro posto di lavoro? Già, perché la robotizzazione non guarderà più in faccia nessuno. Se una cassa automatica o una macchinetta di biglietteria self service può provocare il prepensionamento del personale di biglietteria, perché un software non dovrebbe mandare a casa una segretaria o addirittura un avvocato o ancora un bancario e un trader? La logica non è la stessa? Si risparmia, costa meno e produce di più. Che senso ha sbattersi sindacalmente per salvare i posti di lavoro nei call center quando una voce educata e standard ci darà tutte le risposte che vogliamo? Che senso ha portare la macchina dal meccanico quando basta un computer per resettare il guasto e ripararlo in un nanosecondo? Che senso ha dividerci tra taxi o Uber quando il prossimo passo sarà l’auto che si guida da sola? Il trasporto pubblico ha già avviato la robotizzazione: le metropolitane moderne non hanno conducente. Presto sarà così con tutti i treni. E poi con i bus di linea. Finché non avremo i taxi volanti per consentirci di essere sempre più veloci nei nostri spostamenti: «Airbus supera Google e Uber, primi taxi volanti entro il 2017». Il primario che deve riposarsi e su cui grava il rischio dell’errore umano con conseguente pericolo per il paziente sarà sostituito da un robot la cui mano non avrà mai il minimo tentennamento. La pubblicità delle Poste Italiane ce l’ha già presentato, il robot che vuole diventare umano. Per farci stare sereni, una commissione giuridica del parlamento europeo ha approvato una relazione che definisce i robot “persone elettroniche”.

Il nostro egoismo ci nasconde la verità drammatica della modernità: fintanto che i licenziamenti riguardano gli altri, c’è sempre una giustificazione. Nella società moderna mica possono esistere il bigliettaio, l’autista, la segretaria, il negoziante di dischi o di libri. Poi, un giorno, arriva il capo della banca e dice che in nome della ristrutturazione aziendale si deve procedere a prepensionamenti: tanto il nuovo modello di banca è l’home banking. Pure nella telefonia i lavoratori sono troppi… E che dire dei giornalisti? Le recensioni ormai le fanno i consumatori e i loro forum influenzano più degli articoli che scriviamo; i blogger sono i nuovi editorialisti e in questo mare magnum della rete le notizie si compongono a nostro piacimento. Persino gli operatori finanziari, i broker e i trader – quelli che oggi festeggiano come avvoltoi tutte le volte che riescono a far firmare un contratto a gente comune – saranno fregati da questo processo, perché una app gestirà e promuoverà gli investimenti.

Amazon sembra essere diventata il luogo imprescindibile del nostro shopping. Come negarlo? È perfetto: conveniente, non devi uscire di casa, hai una vasta scelta, se il prodotto non va bene perché il capo è rovinato o non è della taglia giusta, oppure l’apparecchio elettronico è difettoso, te lo cambiano e nessuno batte ciglio. Insomma, una meraviglia. Tanto meraviglioso che tra poco non avrà bisogno di lavoratori, non avrà bisogno delle cooperative che fanno lavorare a condizioni di dumping persone che hanno una famiglia da mantenere, un mutuo da pagare e una vita da condurre. Le cooperative in subappalto saranno sostituite da robot che non rompono le scatole con diritti, lamentele e magari scherzetti tipo la malattia per fare un dispetto al capoturno. La logistica è stata la prima frontiera dove Amazon ha cercato la robotizzazione: gira che è un piacere. Non ci metteranno molto a sostituire tutto il personale umano con questi sistemi automatizzati. Poi sarà la volta dell’estrazione del prodotto (che però ha pesi, materiali e ingombri sempre diversi): anche su quello, Amazon è all’avanguardia.

Mister Amazon Jeff Bezos e mister Uber Travis Kalanick hanno tutto chiaro nelle loro teste: non sarà lontano il giorno in cui toglieranno i lavoratori dal processo produttivo. Sarà tutto più redditizio e soprattutto più snello. Lasciate che i robot, i droni, gli algoritmi e i software vadano dai nuovi padroni, e poi lo vedrete il mondo che verrà.

Un’ultima chicca su Amazon. Il suo numero due è un italiano, si chiama Diego Piacentini. Si è messo in aspettativa per collaborare con il governo italiano sull’agenda digitale. Ora, io ai generosi e agli altruisti voglio un gran bene e non penso mai che i loro slanci nascondano qualcosa. Tuttavia, qualcuno che solleva dei dubbi c’è. Il presidente della Commissione Bilancio, Francesco Boccia (stesso partito dell’ex premier Renzi, cioè di colui che ha portato a Palazzo Chigi il Piacentini), si è domandato in un’intervista: «Piacentini è un uomo della Repubblica italiana o un uomo di Amazon?». Poi ha continuato: «Chiarisca, in modo netto, se detiene ancora azioni nel colosso statunitense, perché se così fosse è evidente che si profila un chiaro conflitto d’interessi. […]Il problema non è il contratto. In alcune di queste grandi aziende, che hanno cambiato il funzionamento del capitalismo, dando vita alla quarta rivoluzione industriale, rendendo il capitalismo ancora più tecnologico, lo stipendio è l’ultimo dei problemi. Noi auspichiamo che Piacentini abbia lasciato definitivamente Amazon [no, perché è in aspettativa, N.d.A.]. Se detiene stock options è evidente che il problema non è il lavoro dipendente, ma se è ancora azionista o meno. Come è noto in Amazon e in molte di queste multinazionali lo stipendio base è relativo e spesso basso, ma poi ci sono compensi dati attraverso milioni di dollari in azioni. Il tema è semplice: è ancora azionista o no? Detiene stock options o no? Basta rispondere sì o no». Ultimo affondo: «Piacentini conoscerà tutti i retroscena della Pa digitale italiana e le scelte del governo in materia. Conoscerà i dettagli del mercato e dei concorrenti nazionali di Amazon in Italia e le stesse strategie fiscali che stiamo concordando in Europa, solo per fare alcuni esempi». L’Italia aveva bisogno dello stretto collaboratore di quel Bezos la cui visione del lavoro è sotto gli occhi di tutti? Non vorrei che, dopo il Jobs Act tanto gradito a Marchionne, ci fossero una digitalizzazione e una fiscalità care a Bezos, Tim Cook e compagnia bella.

Se Amazon fa breccia perché comoda, immediata e sicura, il futuro è pronto a regalarci l’esperienza “zero errori” con le auto senza conducente. La propaganda che sta accompagnando gli esperimenti di Google, Apple e Uber si impernia proprio sull’annullamento del margine d’errore e di rischio. Insomma, zero incidenti. All’inizio dell’anno, il «Financial Times» ha compilato un elenco di mestieri destinato a sparire entro vent’anni al massimo. O forse addirittura entro dieci. Le prime a sparire del tutto saranno le agenzie di viaggio (ormai è cosa fatta), ma anche – e questa è la parte che qui ci riguarda – i produttori di componenti industriali per effetto delle stampanti 3D, le officine auto e i venditori di polizze RC.

All’Università di Oxford hanno analizzato il mercato americano del lavoro suddividendolo in settecentodue categorie: il 47% dei mestieri che avevano preso in esame ricadeva nella categoria di quelli ad alto rischio, che diventano il 57% come media nell’intero Occidente. La previsione è stata convalidata anche dalla Banca mondiale nel rapporto 2016. C’è da preoccuparsi? Direi di sì.

Un paper McKensey ha azzardato l’ipotesi che tra il 2020 e il 2037 assisteremo al passaggio uomo/software: cioè ci toglieranno la gioia di tenere un volante in mano. Morgan Stanley anticipa la previsione fissandola al 2022. Stando così le cose, entro il 2040 le auto come le conosciamo oggi saranno completamente estinte. Il gran capo di Uber ci spera e, evidentemente scocciato per le decisioni dei tribunali contro il suo business, ha scommesso quasi tutto su Triton, la sua self-driving car, «così il costo del trasporto sarà ancora meno caro per il cliente».

Cancellano i diritti in nome della convenienza del consumatore. Ma fateci caso, questi sono tutti progetti altamente costosi: chi li finanzia? Chi ci mette il grano? Il sistema GangBank.

Dietro la notizia di Google che fa causa a Uber per «averci rubato i progetti dell’auto autonoma: hanno sottratto la nostra tecnologia tramite la startup Otto, fondata da nostri ex dipendenti», c’è non solo una guerra di brevetti ma una guerra di capitali. Dovete sapere che Google fu tra i finanziatori iniziali di Travis Kalanick. Uber infatti partì nel 2009 e raccolse nel giro di pochi anni un primo finanziamento da Benchmark Capital, Menlo Ventures, da Goldman Sachs e dal fondatore di Amazon Jeff Bezos. Nel 2013, Uber ha bisogno di altro ossigeno finanziario: è qui che arrivano 258 milioni di dollari da Google. Cui s’aggiungeranno altri soldi dal fondo di private equity TPG Capital. Non sarà l’ultima iniezione di capitale: dopo costoro arriveranno anche i cinesi di Baidu, il motore rivale di Google (da qui i primi screzi), e soprattutto il fondo sovrano dell’Arabia Saudita (1,2 miliardi di dollari, arrivando così al 5% del capitale). Il «Financial Times» spiega il pesante interessamento a che Uber entri in Arabia Saudita col fatto che «le donne non possono guidare, ma hanno bisogno di spostarsi».

I fondi di investimento e le banche d’affari hanno chiaro il senso di una siffatta rivoluzione. Se il lavoro è un prodotto, i lavoratori o si standardizzano al ribasso oppure si possono (per non dire “si debbono”…) sostituire con i robot. Un robot non ha problemi di salario, ma solo di primo investimento e di manutenzione. Non ha rivendicazioni e non conosce crisi. Non ha un sistema pensionistico da onorare. Non si ammala e quindi non ha quella serie di patologie legate al lavoro. Il robot è l’incastro perfetto nella società neoliberista così come l’abbiamo fin qui inquadrata e come l’abbiamo vista realizzarsi attraverso il mosaico di trattati internazionali.

Se oggi Foodora et similia possono ancora muovere un dibattito politico, sindacale e sociale, la sostituzione dei rider coi droni non muoverà alcun dibattito sulle condizioni di lavoro dei droni ma – al limite – sul modello di società cui stiamo andando incontro. Ho scritto “al limite” intendendo “inizialmente”: quando anche la consegna per mezzo dei droni sarà un fatto consuetudinario e ben promosso da una brillante campagna mediatica, anche coloro che dibatteranno sul “dove andremo a finire” diventeranno dei dinosauri.

Vi avevo raccontato di una pubblicità in cui mi proponevano l’acquisto (rigorosamente a rate) di un drone. Questo oggetto è diventato negli ultimi due anni assai popolare. Non è letteratura fantascientifica la casistica di consegne a domicilio di prodotti (persino la pizza!) eseguite attraverso i droni. Lo Stato del Nevada si è attrezzato per diventare il più grande distretto industriale di droni: quello che Detroit è per l’auto, Reno lo vuole diventare per i droni di ogni tipo, dalle consegne alle mappature, dalla security al giornalismo di inchiesta, passando per il comparto strettamente militare. Insomma, la robotizzazione è più avanti di quel che pensiamo e il parallelismo che spesso sentiamo fare in casa nostra – «Gli stranieri fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare» – diventerà presto: «I robot fanno i lavori che le persone non vogliono fare».

L’artigianato e l’agricoltura li abbiamo lasciati andare perché per i nostri figli abbiamo sempre sperato un futuro pregiato: perché mio figlio deve fare il carrozziere, l’idraulico, il pizzaiolo o il mungitore? Perché mia figlia deve fare i mestieri domestici, la parrucchiera o l’assistente per anziani, volgarmente detta “badante”? Bene, alla fine scopriremo che, oltre ai lavori pesanti o a quelli che non vogliamo fare, anche i lavori che saremmo disposti a fare saranno presto appannaggio della robotica. Nelle aziende agricole i macchinari provvedono già al grosso delle operazioni, lasciando la mera pulizia delle stanze ai pachistani. Nelle pizzerie, gli egiziani hanno soppiantato gli italiani ma faranno presto i conti con il robot pizzaiolo, quello che già oggi è operativo nella produzione industriale. All’università di Napoli il robot Rodiman è già in fase avanzata e gli stanno “insegnando” pure come maneggiare l’impasto per la pizza.

L’elenco dei mestieri in pericolo è lungo. E comprenderà prestissimo anche i lavori di segreteria: dalle traduzioni all’elaborazione dei dati. Non c’è partita tra l’essere umano e il robot, l’algoritmo, il software. Tranne una: quella dell’autodistruzione, perché il lavoro è centrale nelle vite di ciascuno di noi. Il lavoro è parte della formazione personale, sotto ogni aspetto. Non ultimo quello economico, retributivo.

«Se i robot ci porteranno via il lavoro, con quali soldi ci compreremo da mangiare? Con quali soldi gireranno i consumi?» La risposta è già nelle opzioni oggi in discussione e analizzate in questo libro. GangBank non ha paura di questo aspetto. Perché dovrebbe? Il lavoratore non ha un reddito dal suo lavoro? Ci penserà lo Stato con politiche di sussidio e ci penserà la vita a rate. In America la crisi dei subprime lo ha dimostrato perfettamente: disoccupati, immigrati senza né documenti né redditi e precari avevano finanche due o tre mutui su case. Poi la bolla è scoppiata, lo Stato – cioè il tanto vituperato pubblico – ha pagato il conto e GangBank ha ricominciato esattamente come prima, chiamando i prodotti finanziari con altro nome.

E poi c’è l’altro inganno della web economy: la condivisione, lo sharing o la gratuità di certi prodotti. Il web è pieno di accessi free. Peccato che, come dicono nella Silicon Valley, quando non c’è un prodotto da vendere, il prodotto è l’utente stesso. Google, Facebook, Instagram e le varie comunità virtuali non hanno prodotti da vendere, non si acquista nulla da loro. Sono servizi gratis. Quasi come fosse uno scambio alla pari. Eppure, per non vendere nulla, valgono una valanga di dollari. I conti in banca di mister Page, mister Bezos, mister Zuckerberg sono da capogiro: non vendono nulla ma sono in cima alla classifica di «Forbes». Strano, no? Per niente, perché hanno una merce che vale oro: i nostri dati sensibili. Che vendono o potrebbero vendere o che si tengono per profilarci.

Sono pronto a scommettere che non passeranno molti mesi prima che Facebook o Google comincino a raccogliere il risparmio degli utenti, una specie di BlackRock. Facebook in piccolo ha già cominciato. Amico, ti pago via Facebook era il titolo di un articolo sul «Corriere della Sera» del gennaio 2017. «Arriva anche in Europa l’icona che permette i bonifici sulle chat. Così il social fa concorrenza alle banche.» È lo schema di società già in corso. Perché dunque la robotizzazione dovrebbe preoccuparli? Loro la stanno promuovendo, finanziandola. Domani con gli automi realizzeranno quello che già oggi stanno idealmente sostenendo con l’immigrazione.

L’immigrazione è il frutto avvelenato di un nuovo colonialismo: ieri ne erano responsabili gli Stati, oggi le multinazionali. I primi responsabili sono i fondi, le big company. Che poi finanziano campagne all’insegna del politicamente corretto, con le foto dei disperati in primo piano. È vero, c’è anche disperazione nelle fughe dai propri paesi, ma c’è soprattutto la diffusione, grazie ai telefonini e ai tablet, di un’idea di società in cui – superata la terribile e mostruosa traversata sui barconi gestiti da terroristi, criminali e briganti senza scrupoli – c’è posto per tutti. Quando il presidente della Camera dei deputati, Laura Boldrini, afferma che «lo stile dei migranti presto sarà il nostro» (per chi non ci crede c’è un video su YouTube) o quando in Germania la cancelliera Angela Merkel apre le frontiere e accoglie tutti i rifugiati per opporsi al muro di Orbán (una mossa che le è costata parecchio nei sondaggi interni e che ha fatto decollare la Le Pen tedesca, Frauke Petry), quale idea si possono fare i migranti se non quella – errata – di trovare il Bengodi?

Il Viminale ha previsto per il 2017 un numero record di arrivi: 250.000. 70.000 in più dello scorso anno. Come li accoglieremo? Quella schiera di migranti è l’esercito di nuovi lavoratori-schiavi, pronto per il neoliberismo. Un esercito di persone che accetta per mano dei nuovi padroni di sballare il mercato del lavoro: dalle condizioni di lavoro a quelle salariali. Costoro lavorano nella filiera dei lavori in appalto, così che i veri referenti e beneficiari del lavoro nulla sanno, nulla vedono e nulla sentono. I grandi brand hanno sempre le mani pulite, immacolate; è la filiera sottostante che fa il lavoro sporco.

La robotizzazione leverà anche questo imbarazzo. Lavoratori robot e politiche di elusione fiscale: GangBank sarà sempre più forte. Secondo una stima della International Federation of Robotics, solo nel 2014 sono stati venduti duecentoventicinquemila robot industriali: il 27% in più rispetto all’anno precedente. Negli anni successivi c’è stato un ulteriore incremento e i programmi di piena occupazione robotica sono previsioni messe nero su bianco nelle relazioni compilate da quelle congregazioni che si riuniscono in segreto. Perché a Davos il presidente cinese Xi Jinping ha difeso la globalizzazione? Semplice, perché è l’alleato ideale di un sistema corsaro. Anche in Cina gli operai non sono più convenienti come un tempo; i salari sono progressivamente aumentati e anche sul piano dei diritti il governo ha dovuto concedere parecchio. Tanto da cominciare a strutturare dei programmi di robotizzazione sempre più intensi, dal distretto dell’elettronica a quello tessile.

In Giappone la Toshiba ha un prototipo – Aiko Chihira – programmato per l’assistenza agli anziani e ai disabili. È il passo successivo a quello che si sta già compiendo in campo medico-sanitario, dove avanzatissimi computer (il progetto Watson è quello che fece più scalpore) elaborano dati già acquisiti, dati che nessuna mente umana è in grado di ricordare, incrociandoli con le risposte che il paziente dà al momento dell’anamnesi, riuscendo così a fornire un quadro terapeutico preciso.

Guai dunque a pensare che la sostituzione dei lavoratori con i robot sia una cosa da letteratura o da invasati, e – aggiungo – guai a pensare che i telefonini delle nuove generazioni siano entertainment, cioè puro intrattenimento. No, dentro apparecchi sempre più aggiornati e desiderabili (laddove non arrivano le tecniche del supercapitalismo ci pensa l’obsolescenza programmata, cioè la durata di un bene elettronico prestabilita dai costruttori per incentivare l’acquisto del prodotto successivo. Alla faccia delle chiacchiere sulla libertà del consumatore o sui benefici del mercato!) c’è la programmazione della nuova Costituzione. Lo svuotamento dei diritti passa anche dalle rappresentazioni narrate da Google o da Facebook, dalla saldatura con i nuovi poteri 2.0.

La parola “libertà” maneggiata da costoro rischia di invertire il proprio significato. Per questo non credo alle rivoluzioni a colpi di telefonini. Il sistema GangBank, come abbiamo visto, è alleato di questa pseudomodernità. Fate caso alle pubblicità di investimento promosse come fossero dei giochi, fate caso ai claim: «Non aveva lavoro, ha fatto i soldi con…» e parte il solito schemino della catena di sant’Antonio. La modernità raccontata ai giovani non può essere la gig economy, la partita IVA, il contratto atipico, il voucher, la condivisione, i robot, le app. La Costituzione italiana parla di lavoro come diritto garantito, non come una possibilità della vita.

Ornamento di separazione

La lunga stagione delle politiche di austerità e della privazione dei diritti del lavoro ha prodotto solo un impoverimento. Impoverimento per tanti ma non per tutti. Già, perché i privilegiati e gli immuni dalla crisi ci sono eccome. E ci si potrebbe legittimamente porre qualche domanda sul reale merito di queste cifre. In un articolo de «Il Sole 24 Ore», Gianni Dragoni ha preso in esame gli stipendi dei banchieri nel 2015. Quell’inchiesta, secondo me, rende bene l’idea dello squilibrio retributivo in atto:

Molte banche sono ancora nella bufera, ma gli stipendi dei banchieri italiani sono aumentati nel 2015. L’inchiesta del “Sole 24 Ore” mostra un pressoché generale incremento dei compensi complessivi. A far scattare gli aumenti sono i bonus per i risultati ricevuti da molti manager, la quota di stipendio variabile che si aggiunge al fisso in busta paga, molti hanno potuto aggiungere le azioni gratuite date in premio, in qualche caso le stock option.

Certo, i compensi sono al lordo delle tasse, ma i conti con il fisco li facciamo tutti.

Poi ci sono le buonuscite. Come quella che ha fatto balzare al primo posto Roberto Nicastro, direttore generale di UniCredit fino al 30 settembre 2015. In totale ha ricevuto 6,964 milioni lordi: circa 1,6 milioni di stipendio, di cui 350.000 di bonus, più 5,39 milioni di buonuscita. Nel 2014 Nicastro aveva guadagnato 1,5 milioni. Adesso percepisce 400.000 euro l’anno come presidente delle good bank, le quattro nuove banche create il 22 novembre 2015 nel dissesto di Banca Marche, Popolare Etruria, CariFerrara e CariChieti. Il secondo più pagato è Federico Ghizzoni, che fino al 30 giugno scorso è stato amministratore delegato di UniCredit. Ghizzoni ha percepito complessivamente 4,67 milioni lordi, sommando allo stipendio di 2,883 milioni (di cui 770.000 di bonus) il controvalore delle azioni gratuite ricevute in premio, 284.090 titoli che al momento dell’assegnazione valevano 1,78 milioni. Oggi lo stesso pacchetto vale circa un terzo di quella cifra, 607.000 euro, a causa del forte ribasso delle azioni di UniCredit. Ghizzoni era stato il banchiere più pagato d’Italia nel 2014, con 3,17 milioni, comprese le azioni gratuite. Dunque nel 2015 la sua remunerazione è aumentata del 47%. Terzo Samuele Sorato, l’ex direttore generale e, per tre mesi, anche a.d. della Popolare di Vicenza, una delle banche in dissesto al centro dello scandalo per le azioni “baciate”, cioè i finanziamenti dati a clienti indotti a diventare soci o a comprare azioni della Popolare, titoli però non quotati e vendibili solo con il consenso della banca. Con la crisi della banca il valore delle azioni si è azzerato e centoventimila risparmiatori-clienti sono rimasti in trappola. Il dissesto non ha impedito a Sorato di andarsene il 12 maggio 2015 con un accordo su una buonuscita di 4 milioni lordi, di cui metà pagati l’anno scorso, l’altra metà da versare negli anni successivi (la relazione sulla remunerazione della banca non è pienamente trasparente sulle date dei pagamenti). Considerando anche lo stipendio di 600.000 euro, in totale i compensi di competenza di Sorato l’anno scorso hanno totalizzato 4,6 milioni lordi. Quanto a Gianni Zonin, l’ex padre-padrone della Popolare di Vicenza dimessosi il 23 novembre, ha ricevuto 1,012 milioni lordi, è trentesimo tra i banchieri. Il dissesto della banca vicentina ha fatto la fortuna anche dei manager chiamati per il nuovo corso.

È un articolo del settembre 2016 e sicuramente da allora qualcosa sarà cambiato, ma nella sostanza la fotografia resta la stessa. In Italia e nel mondo. Nel 2015 il banchiere più pagato è stato Jamie Dimon di J.P.Morgan Chase con 27 milioni di dollari lordi; Dimon era il banchiere con cui Matteo Renzi, allora presidente del Consiglio italiano, ha pranzato per una chiacchierata su MPS.

Il già citato Stiglitz fa notare che «un dipendente che lavora a tempo pieno non dovrebbe essere povero. Ma è quel che accade: nel Regno Unito, per esempio, vive in povertà il 31% delle famiglie in cui c’è un adulto che lavora. I top manager delle grandi corporation americane portano a casa circa trecento volte lo stipendio di un dipendente medio. È molto di più che in altri paesi o in qualunque altro periodo della storia, e questa forbice ampissima non può essere spiegata semplicemente con i differenziali di produttività. In molti casi gli a.d. intascano ingenti somme solo perché niente impedisce loro di farlo, anche se questo significa danneggiare gli altri dipendenti e alla lunga compromettere il futuro stesso dell’azienda. Henry Ford aveva capito l’importanza di un buono stipendio, ma i dirigenti di oggi ne hanno perso la cognizione».

E in Italia? La situazione è tutt’altro che positiva. La prima indagine Istat sulla variabilità delle retribuzioni – per quanto fissi il suo campo d’indagine a due anni fa – ha il merito di evidenziare che tra gli stipendi più alti e quelli più “leggeri” il gap è di 12,7 euro l’ora. E la media retributiva dei lavoratori dipendenti è di 14,1 euro all’ora. Ciò che però rende concreto il dislivello retributivo è la qualifica: i dirigenti (poco più del 10% dei dipendenti) hanno una retribuzione oraria 3,4 volte superiore rispetto alla media dei lavoratori e che vale cinque volte quella delle professioni non qualificate, ovvero tre volte e mezza quella degli impiegati d’ufficio; se poi sono maschi, hanno una volta e mezza la paga delle colleghe.

Dove troviamo gli stipendi migliori? Nel campo delle attività finanziarie, manco a dirlo… La retribuzione media (25,4 euro) è più alta dell’80% rispetto alla media di tutte le professioni. Le peggiori retribuzioni, invece, sono in alcuni settori dei servizi. Proseguendo con l’elenco, veniamo a sapere che i contratti a tempo determinato sono pagati in media 11,7 euro l’ora e hanno un differenziale del 21,5% rispetto a quelli a tempo indeterminato (14,9 euro). Eppure la flessibilità dovrebbe portare all’opposto, o almeno così ci era stata venduta: ti pago di più proprio perché l’azienda non ha l’impegno dell’indeterminatezza… Invece accade l’opposto. Va male, come dicevamo, quando l’analisi passa dalle tipologie di contratto al sesso dei lavoratori: le donne sono mediamente meno pagate degli uomini in ogni settore lavorativo.

Se le condizioni di lavoro sono queste e la tendenza è quella che si prospetta con l’arrivo dei robot, è normale che nei confronti della Casta cresca un sentimento di sfiducia se non talvolta di avversione. Ora che ho messo compiutamente a fuoco le ben più gravi malefatte del sistema GangBank, posso anch’io unirmi al coro di chi se la prende con i politici. La loro colpa – come ho scritto più volte – è quella di non aver fatto valere il senso dello Stato, il senso della Costituzione, ma di essersi prestati come palo o prestanome del neoliberismo. Che lo abbiano fatto perché ignoranti o perché parte del sistema poco importa.

Sono i loro “sì” in parlamento che concretizzano i piani lobbistici. Quindi sono loro a doverne rispondere. L’avversione che si registra nel paese è figlia di una consapevolezza binaria “giusto/sbagliato”, “leale/corrotto” e via dicendo. La sofferenza che il popolo sta vivendo in questa lunga crisi rimbalza contro l’arroganza di un sistema che tutela se stesso, che si mette in tasca “retribuzioni” immeritate rispetto al suo lavoro e alla sua preparazione. La crisi ha minato i risparmi, i diritti, le energie: solo i politici restano in piedi. Nonostante una evidente inutilità: perché mai, infatti, si deve tenere in piedi un parlamento così numeroso se è ridotto a passacarte di interessi lobbistici? Perché mai vanno pagate persone di profonda ignoranza?

I programmi televisivi si divertono un sacco a interrogare i parlamentari sulle leggi che votano: scena muta di fronte a domande come: «Cos’è il fiscal compact?», «Quanti articoli ha la Costituzione?», «Quali sono le differenze tra FMI e BCE?», «Cos’è il bail in?» e via di questo passo. Loro votano ma non sanno. Anzi, se ne fregano proprio. Ma passano all’incasso, cioè sono pagati da quella comunità cui stanno togliendo libertà, diritti e soldi. Fa specie dover commentare la disoccupazione, gli stipendi e i salari bassi, l’emarginazione sociale e la truffa sui risparmi con chi guadagna soldi immeritatamente. E quando viene silurato si ricicla aggiudicandosi qualche poltrona nel sottobosco politico.

Potreste chiedermi: «Allora perché non hai votato alla riforma costituzionale che modificava il Senato e riduceva i costi della politica?». Per un motivo su tutti: io credo nella politica. Ci credo al punto che ne difendo la professionalità. La politica si può controllare. Sicuramente più del potere GangBank, che è invisibile e trasversale. Controllare la politica significa partecipare e poi giudicare. Attraverso quel voto che non vogliamo ci venga né sottratto né depotenziato.

È giusto che il nostro dito sia puntato come una freccia contro i banchieri che guadagnano redditi o si prendono buonuscite d’oro al netto di una valutazione di merito reale. Così com’è giusto che lo sia contro i sindacalisti (celebre fu la polemica contro l’ex segretario della CISL, Raffaele Bonanni, per il suo guadagno da 336.000 euro l’anno, una cifra persino superiore al tetto per i grandi manager di Stato – 240.000 – e vicina a quelle dei grandi manager contro cui il cislino polemizzava). Quindi è giusto prendersela per il totale che si mettono in tasca i politici. È giusto incazzarsi quando polemizzano per tenersi le loro indennità, i loro privilegi, i loro vitalizi. «Basta con questa antipolitica» dicono. Quando l’antipolitica è tutta loro, visto che ormai si sentono talmente superiori al popolo da non prestargli ascolto e non concedergli attenzione. Si rinchiudono nei loro palazzi, nelle loro fondazioni. Di fronte allo scempio autorizzato da questa classe politica, a sentir loro non dovremmo permetterci di contestare la busta paga che ora andremo a valutare.

Prendiamo la Camera dei deputati. I nostri deputati sono tra i più pagati in Europa, con una spesa media per le casse dello Stato di 19.170 euro al mese che, tra indennità varie e diaria, diventano circa 14.000 euro netti al mese. Si tratta di numeri presi dal progetto di bilancio 2016 della Camera approvato il 3 agosto 2016, dove oltre al mero stipendio ci sono le indennità, le quali pesano sul bilancio per un valore pari a 81,285 milioni di euro divisi tra indennità parlamentari (78,95 milioni), indennità d’ufficio (2,2 milioni) e altre indennità varie (135.000). Poi ci sono i rimborsi delle spese sostenute per l’esercizio del mandato: 63,64 milioni di euro divisi tra la diaria (26,5 milioni), il rimborso spese del mandato (27,9 milioni), il rimborso delle spese di viaggio (8,45 milioni) e il rimborso delle spese telefoniche (790.000).

Andiamo quindi alla busta paga del singolo deputato. L’indennità mensile è di 10.435 euro lordi (5.246,54 netti) su cui l’onorevole pagherà soltanto le addizionali regionali e comunali, così da arrivare mediamente a 5.000 tondi. Tra i 5.000 euro di ritenute, il parlamentare oltre all’Irpef si paga la pensione, l’assegno di fine mandato e l’assistenza sanitaria integrativa. All’indennità si aggiunge la diaria (3.503,11 euro) decurtata di 206,58 euro per ogni assenza nel giorno di votazione, a meno che non partecipi al 30% delle votazioni previste in quella giornata: in tal caso si segna presente. Nella singola busta paga calcoliamo ora il rimborso delle spese per l’esercizio del mandato (3.690 euro), metà dei quali viene dato a forfait e metà con rendicontazione. Capitolo viaggi: non pagano l’autostrada, il treno, l’aereo, la nave. Non solo: se l’onorevole deve raggiungere l’aeroporto, gli viene corrisposto un bonus a seconda della distanza: 3.323,70 al trimestre se il deputato risiede fino a cento chilometri da un aeroporto; 3.995,10 se oltre i cento chilometri. 1.200 sono gli euro di rimborso forfettario delle spese telefoniche; 526,66 per l’assistenza sanitaria integrativa; 784,14 per l’assegno di fine mandato.

Il quadro mi sembra chiaro, voce per voce. La domanda è: dobbiamo pagare tutto questo perché in parlamento vincano gli interessi del neoliberismo? I parlamentari avrebbero una guida di valori nella Costituzione, ma l’hanno tradita per inseguire l’illusione europeista. Se un deputato percepisce in media 19.000 euro lordi, il cittadino deve pretendere di essere preso in considerazione. Il Movimento 5 Stelle conquistò la scena politica ricordando che il parlamentare è un dipendente del cittadino. È vero, il parlamentare non ha vincolo di mandato, ma quel mandato lo esercita nell’interesse dei cittadini come sancito dalla Costituzione. E nella Costituzione non c’è scritto che il lavoro è una botta di fortuna o che il risparmio dipende dalle disponibilità truffaldine degli operatori di borsa. Nella Costituzione non c’è scritto che la sanità, la previdenza e la casa sono un’offerta di banche e assicurazioni.

I cittadini non pagano i politici per essere traditi. Da qui l’avversità dilagante.