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Chi sono i padroni del mondo?
Complottista. Dietrologo. Populista.
Se attacchi il sistema finanziario ritenendolo responsabile della grande crisi e dell’impoverimento dei cittadini, passi per complottista, che poi è un modo per dire che sei o bugiardo o falso o addirittura complice della classe politica. «Se siamo con le pezze al culo è per colpa dei politici.» Se si entra in un bar e si parla così, è scontato fare il pieno di consenso. Lo abbiamo detto anche nelle pagine precedenti. È facile. La colpa è dei politici che rubano, che si arricchiscono sulla nostra pelle. Che sprecano soldi pubblici. Che con gli appalti ci fanno la cresta. «Altro che dare la colpa all’Europa o alla grande finanza.» È vero, la politica nasconde tentazioni. Ed è altrettanto vero che ci sono politici ladri. Non ci stancheremo mai di affermare che la colpa più grave di cui si stanno macchiando i politici è di prestarsi da palo alle più subdole ruberie del sistema GangBank; stanno assolvendo al compito di servi sciocchi delle élite finanziarie.
Con i loro voti in parlamento onorevoli e senatori stanno stravolgendo di fatto i princìpi della Costituzione, stanno neutralizzando quell’impianto di diritti che i cittadini hanno conquistato con decenni di lotte vere. Si tratta di “sì” intrisi di ignoranza, perché il parlamento è pieno di gente che non sa quello che vota, gente che non legge nemmeno il testo da approvare; questi voti sono il più grande regalo che il parlamento italiano sta facendo al neoliberismo. E al pensiero unico, quello che omologa il grosso dell’informazione e occlude ogni possibilità di dissenso. Il lavoro più facile, a differenza del passato, quando il dissenso doveva essere smontato usando persino la forza pubblica o altro, è stato quello di anestetizzare il pensiero, costruire – attraverso la subcultura social – una specie di monologo dove il bersaglio prescinde dalla riflessione.
Lo ripeto: nel pubblico ci sono davvero spese immorali, spese che scappano colpevolmente di mano. Lo ripeto: nella politica ci sono persone che fuori non sarebbero pagate nemmeno un quinto di quello che percepiscono in parlamento per non fare un tubo! Ma la retorica sul privato virtuoso no, non la accetto: gli inganni che si consumano nel mondo finanziario, lo strozzinaggio e il ricatto che viene messo in pratica, sono peggiori dei mali della Casta. Solo che qualche manina impedisce sempre che il dibattito monti. Quando davvero la diga si sfonda se ne parla un pochino, salvo poi tornare al «politici ladri», «dipendenti pubblici, troppi e fannulloni» eccetera eccetera.
«L’Italia non può abbassare le tasse perché ha un debito pubblico troppo alto» hanno sentenziato quelli del Fondo Monetario Internazionale. Embè? Che vogliono? Ci sarà prima o poi qualcuno che rinfaccerà loro tutte le previsioni sbagliate alla vigilia della crisi? Ci sarà qualcuno che rinfaccerà loro le relazioni con i principali autori della crisi? Ci sarà qualcuno che dirà che ci siamo rotti le scatole di prendere ordini dal potere finanziario privato, che in quanto privato ha interesse a far guadagnare i suoi “azionisti”, cioè le banche private? Ci sarà qualcuno che metterà in fila, per bene, tutte le malefatte (per non dire le “porcate”) del sistema bancario mondiale?
L’Italia e altri Stati sono tenuti sotto schiaffo dal debito pubblico, la più grande menzogna dei tempi moderni (come spiegheremo). Scrive Serge Latouche in L’economia è una menzogna: «Oggi il punto centrale è la lotta titanica tra il potere economico globalizzato dell’oligarchia finanziaria e le popolazioni rappresentate (molto male, bisogna dirlo) dagli Stati-nazione. Tuttavia la sola istituzione capace di salvarci dallo strangolamento da parte dei mercati finanziari rimane il vecchio Stato-nazione». Non è finita, Latouche prosegue così. «Tanto per cominciare dovremmo “riappropriarci della nostra moneta”. È chiaro: dobbiamo uscire dall’euro, almeno così come funziona attualmente.» Anche Latouche è un complottista? È un amico di quella banda di ladri, cialtroni e chi più ne ha più ne metta che sono i politici? Lo ripeto: le istituzioni sono mal rappresentate, ma attenzione a non aggrapparsi a una divinità maligna (l’élite finanziaria) come fosse una divinità salvifica, perché tale non è. Se in politica ci sono dei furfanti (e sappiamo benissimo che ce ne sono), nella finanza ci sono dei veri e propri criminali senza scrupoli. Che però noi né vediamo né disprezziamo come invece disprezziamo i politici. I quali, detto per inciso, possiamo controllare e persino mandare a casa: la vittoria del NO al referendum del 4 dicembre è la dimostrazione che il voto conta. Non solo, quel NO può rappresentare il seme di una comunità italiana che riconosce l’attualità della Costituzione. Quella vittoria – come lo è stata la difesa dell’acqua pubblica con i referendum del 2011 – è la vittoria di una comunità che orgogliosamente ha il senso dello Stato. Anzi, è essa stessa Stato. Perché lo Stato democratico, la res publica, è l’unico baluardo contro l’aggressione finanziaria che stiamo subendo inermi.
Il sociologo Luciano Gallino (altro pericoloso complottista, demagogo, che purtroppo ci ha lasciati e non può quindi continuare questa battaglia populista contro i Buoni sbarcati dal pianeta Libero Mercato) era talmente invasato da scrivere in un libro titolato Il colpo di Stato di banche e governi che il «neoliberismo ha profondamente corrotto la vita sociale, il tessuto delle relazioni tra persone, su cui le società si reggono, con i suoi errori ha condotto l’economia occidentale a una delle peggiori recessioni della storia; ha straordinariamente favorito la crescita delle disuguaglianze di reddito, di ricchezza, di potere. È la più grande forma di pandemia del XXI secolo. È anche un pericolo per la democrazia». La più grande forma di pandemia. Un pericolo per la democrazia. Teniamolo bene a mente, grazie.
Ora, il guaio è che questa dottrina è l’impalcatura (anche) dell’Unione Europea. Che quindi attraverso i suoi trattati diventa la nuova “luce” per salvare gli Stati nazionali, l’acqua che purifica il peccato originale dei politici corrotti colpevoli del gigantesco debito pubblico. Da combattere. I veri padri costituenti di questa Europa sono quelli del GangBank. Paolo Maddalena, ex giudice della Corte dei conti e in seguito della Corte costituzionale, ha scritto un libretto, Gli inganni della finanza. Come svelarli, come difendersene, dove chiarisce ulteriormente la filosofia globale che regge l’Unione Europea. «Entra in gioco una nuova razionalità politica e sociale, capace di attribuire allo Stato un ruolo attivo nella costruzione di una società, la cui norma generale è la concorrenza tra gli individui e il modello d’azione di organizzazione, anche per lo Stato, diventa l’impresa.» Maddalena indica il motore che muove la costruzione dell’edificio europeo, il quale fu pensato in origine come soggetto politico a servizio di una comunità e non come soggetto finanziario travestito da istituzione dove i cittadini diventano consumatori o, peggio, prede.
L’Unione Europea, già nella sua definizione, ha perso di vista il concetto di Stati membri, li ha annientati, ammutoliti. E non a caso. Gli Stati, con le loro regole fondamentali per la convivenza nella comunità – cioè le Costituzioni –, sono de facto esclusi da quello che un tempo si voleva costruire: gli Stati Uniti d’Europa. Unione Europea è ontologicamente differente da Stati Uniti d’Europa. Nella UE non c’è più lo Stato a riconoscere e a garantire i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, come è sancito all’articolo 2 della Costituzione, ma ci sono gli eurotrattati, per cui la libertà del commercio e degli investimenti diventa superiore all’interesse pubblico e generale, alla solidarietà sociale, alla tutela della salute, del paesaggio e via di questo passo. Nella dimensione dei trattati, il diritto pubblico diventa diritto privato.
«La sovranità non appartiene più al popolo ma appartiene agli investitori.» Ormai questo nuovo paradigma non viene nemmeno più nascosto. Il 4 dicembre scorso gli italiani furono chiamati a confermare o respingere la riforma della Costituzione così come votata dal parlamento su iniziativa del governo Renzi, ministro Maria Elena Boschi. Nei mesi precedenti al voto, il mondo finanziario si mosse con una spregiudicatezza e con una sfrontatezza degna di chi si sente “padrone”. “Padroni a casa nostra” è una frase che qualche leader politico fa propria nella speranza di acchiappare voti. Lo stesso politico però sa bene che il concetto di “padrone” e di “casa nostra” ormai non ha più senso visto che il concetto di pubblico, di Stato e di comunità è stato disintegrato da destra come da sinistra. La Costituzione è incagliata nei trattati internazionali scritti ad arte dalle lobby finanziarie; qualsiasi tentativo di pensare una qualche politica di investimenti pubblici è bloccato dal pareggio di bilancio; gli asset principali dell’economia sono stati svenduti a imprenditori amici degli amici o a multinazionali estere in nome delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni. Insomma, gli italiani sono padroni di un bel niente.
Se Metternich nell’Ottocento a Vienna faceva passare alla storia la definizione di Italia come «espressione geografica», lo stesso accade per bocca di merchant bank o di agenzie di rating o ancora di ambasciatori stranieri. Quello americano a Roma, John Phillips, poco tempo prima del voto referendario sulla Costituzione auspicava la vittoria del SÌ perché il NO avrebbe fatto compiere all’Italia un salto indietro e addio investimenti. Anche l’agenzia di rating Fitch prevedeva uno shock per l’economia italiana in caso di vittoria del NO. Fortemente a favore del SÌ è stato anche Sergio Marchionne, il manager più canadese che italiano con residenza in Svizzera che ha portato la sede legale dell’ex FIAT ora FCA in Olanda e quella fiscale in Gran Bretagna.
Ma il meglio lo hanno dato J.P.Morgan e Moody’s. Cominciamo da questi ultimi. In un paper datato 18 settembre 2015, la società di rating dichiarava che «il Senato è dannoso per la credibilità delle nostre istituzioni sui mercati finanziari, mentre l’optimum sarebbe una sola Camera dove il premio di maggioranza possa assicurare l’efficiente esecuzione delle volontà governative». La democrazia è un impiccio. La politica deve procedere velocemente, spedita. Esattamente come veloce e spedita va la finanza. Le parole sono importanti: snellezza, velocità di decisione, deregulation, privatizzazione, leaderismo, modernità, sono tutti concetti che hanno peggiorato la situazione. Sono parole proprie della finanza, del neoliberismo, del sistema GangBank, cioè di chi non vuole avere impicci nella realizzazione del proprio massimo profitto. Ci stanno riuscendo.
E torniamo così a J.P.Morgan e al suo pensiero. The Euro area adjustment: about halfway there è un documento dove si raffigurano le loro Costituzioni ideali. «I sistemi politici della periferia meridionale dell’Europa sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo [a costoro andrebbe detto che le più generose concessioni ai loro desiderata sono state effettuate proprio dai centrosinistra mondiali, N.d.A.]. I sistemi politici costituzionali del Sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; […] e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo.»
Nel paper si individua come preoccupante la «crescita dei partiti populisti». È fin troppo chiara la comunanza di intenti tra la riforma Renzi-Boschi e la vision di questi operatori finanziari. Ma se tale idea ha un senso nella logica speculativa della finanza, non si capisce perché la politica si stia svendendo a tale ricatto neoliberista. Se non che la politica è ormai nelle mani del grande sistema GangBank: la finanza sta eclissando le Costituzioni democratiche. Qualche volta subisce una battuta d’arresto (come il voto del 4 dicembre), il più delle volte invece va a segno.
E veniamo a un altro esempio di come la sovranità del popolo sia stata cancellata dalle élite. Mi riferisco alla famosa lettera strictly confidential, strettamente confidenziale, spedita il 5 agosto 2011 all’allora presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi a doppia firma Trichet-Draghi, a quei tempi rispettivamente capo della BCE e governatore della Banca d’Italia (nonché successore designato nella stessa BCE in sostituzione dello stesso Trichet, giunto a fine mandato). Vediamo alcuni passaggi di questa lettera che i protagonisti del governo di allora definirono ripetutamente come un «ricatto all’Italia», un ricatto che loro stessi non seppero respingere visto che Berlusconi si dimise senza nemmeno la sfiducia del parlamento (e meno male che Napolitano era il garante della Costituzione; quanto meno avrebbe dovuto chiedere una verifica. Ma tra poco spiegheremo perché non lo fece).
Nell’attuale congiuntura, riteniamo che siano essenziali le seguenti misure:
1. Vediamo la necessità di adottare misure significative per aumentare il potenziale di crescita. […] Le sfide principali sono l’incremento della concorrenza, in particolare nei servizi, per migliorare la qualità dei servizi pubblici […]
a) Si rende necessaria una strategia di riforme complessiva, di ampio respiro e credibile, che comprenda la piena liberalizzazione dei servizi pubblici […].
b) Occorre inoltre riformare ulteriormente il sistema di contrattazione collettiva dei salari, consentendo accordi a livello d’impresa al fine di adeguare i salari e le condizioni contrattuali alle esigenze […]
c) Dovrebbe essere intrapresa una profonda revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei lavoratori, in parallelo a un sistema di assicurazione per la disoccupazione e a una serie di politiche attive per il mercato del lavoro capaci di facilitare la riallocazione delle risorse verso le imprese e i settori più competitivi.
2. Il governo deve adottare misure immediate e decise per la sostenibilità delle finanze pubbliche.
a) Sono necessarie ulteriori misure fiscali correttive […] Lo scopo dovrebbe essere un deficit migliore […] e un bilancio in pareggio nel 2013, soprattutto attraverso tagli di spesa. È possibile intervenire ulteriormente sul sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità […] Il governo dovrebbe considerare inoltre una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego […] e se necessario riducendo i salari.
[…]
In considerazione della gravità dell’attuale situazione sui mercati finanziari, riteniamo essenziale che tutte le azioni elencate nei paragrafi 1 e 2 vengano intraprese al più presto per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di settembre 2011. Sarebbe inoltre appropriata una riforma costituzionale volta a rendere più rigide le regole di bilancio. […]
Una lettera tanto spregiudicata da ribaltare l’ordine delle cose, da sovvertire dall’alto ciò che democraticamente aveva un senso almeno fino a quando altre libere elezioni non avessero poi impresso un altro senso politico. Va inoltre aggiunto che non è nella natura giuridica né della BCE né di Bankitalia entrare in dettagli che costituiscono un vero e proprio programma di governo, con la minaccia sottintesa di «non comprare più titoli di Stato se non fate quello che diciamo noi». GangBank ha il coltello dalla parte del manico: i governi indebitati debbono sottostare alle decisioni dei loro “pusher”, dei loro creditori che li obbligheranno ad altro debito perché codesto è il gioco all’infinito dell’economia di carta. Dalla troika (Fondo Monetario Internazionale + Banca Centrale Europea + Commissione europea) alle merchant bank, passando per le agenzie di rating e i colossi assicurativi: le élite stanno riscrivendo gli equilibri costituzionali, stanno ribaltando le carte dei diritti. Con la complicità di una classe politica stupida ancor più che corrotta e di una collettività che purtroppo ha solo intuito (ora che sta pagando il prezzo di scelte volutamente sbagliate) il pericolo di questo potere finanziario. Un potere – quello di GangBank – che si autogenera, che si alimenta da sé. Un potere che cambia faccia e abito secondo gli ambienti esterni. Torno alla lettera partorita da BCE e Bankitalia perché quella lettera accelerò l’idea diffusa di mettere i governi non allineati in fuorigioco. Nel 2013 a Cipro il governo, insieme a Unione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale – cioè alla troika –, concordò un prelievo del 20% sui depositi bancari di oltre 100.000 euro custoditi nella Banca di Cipro e del 4% su quelli per lo stesso ammontare in altre banche. Furono le prove generali del bail in. Nel 2010 in Grecia accadde lo stesso: tutti addossarono le colpe al governo allegro di Atene e nessuno ricordò il ruolo di Goldman Sachs sui conti dello Stato ellenico.
Ma torniamo alla lettera della BCE e della Banca d’Italia. Mai nella storia della Repubblica italiana si era vista una lettera inviata da organismi internazionali, non eletti da nessuno, con un’agenda di priorità politiche tanto precise. Accelerare la piena liberalizzazione dei servizi pubblici essenziali (cioè acqua, energia, rifiuti…), deregolamentare i salari, le assunzioni, i licenziamenti, aprire un varco alle assicurazioni private per i sussidi: perché questi signori non si presentano agli elettori? Perché saprebbero benissimo di non ottenere una maggioranza per governare. E se non si governa per il popolo allora significa che si governa per l’establishment. Si rappresenta sempre un interesse.
Non ci credete? Vi faccio un esempio. Tra i punti della lettera c’era anche la riforma delle pensioni. In quel tempo a capo della Commissione europea c’era il portoghese José Manuel Barroso. Lo scorso anno il signor Barroso, al compimento dei sessant’anni di età, ha chiesto e ottenuto di incassare la rendita anticipata con solo dieci anni di contribuzione tra il 2004 e il 2014, quando riscuoteva uno stipendio da circa 25.000 euro mensili. Un prepensionamento di 7.000 euro al mese. Non male per uno che dava le pagelle ai sistemi pensionistici giudicati troppo… generosi. La verità è che la sostenibilità del sistema pensionistico è solo il pretesto per regalare fette di mercato alle banche d’affari. Infatti dove finisce il pensionato Barroso? A Goldman Sachs, come lobbista e consulente. Quella Goldman Sachs che, appunto, fu una delle banche più implicate nella crisi dei subprime, vera causa della crisi finanziaria del 2007-2008 e della crisi del debito greco. Eccolo il sistema GangBank.
L’ex premier spagnolo José Zapatero in El dilema: 600 días de vértigo svela un retroscena che oggi è sulla bocca di tutti ma che allora era una bestemmia solo il pensarlo. Zapatero il 3 novembre 2011 era al vertice di Cannes in quanto primo ministro iberico. «Mi resi subito conto che la strategia che si intendeva mettere in pratica prima del vertice era di sollecitare l’Italia e la Spagna a richiedere congiuntamente una linea di credito del Fondo Monetario Internazionale […], i responsabili delle istituzioni dell’Unione Europea e degli organismi internazionali presenti a Cannes parlavano con Berlusconi, con Tremonti e coi rispettivi staff. […] “Conosco modi migliori per suicidarsi” disse Giulio Tremonti, ministro dell’Economia del governo italiano, per tutti quelli che volevano sentirla […]. Capii perfettamente la resistenza dell’Italia a inserirsi in un programma di aiuti finanziari […]; le pressioni affinché l’Italia accettasse l’intervento del FMI furono di fatto molto intense. Sarkozy, Merkel, Barroso, Van Rompuy e Obama si spesero molto. […] Era chiaro che l’Italia non avrebbe ceduto […]. Il governo italiano uscì però indebolito da quanto avvenne a Cannes. Pochi giorni dopo, il 12 novembre, Berlusconi presentava le proprie dimissioni […] e Mario Monti, di cui già si parlava nei corridoi, veniva nominato primo ministro italiano.»
«Era già tutto previsto» racconta una voce terza e non certo alleata di Berlusconi. Ogni cosa è al posto giusto: la lettera scritta da due terzi della troika, il G20 di Cannes con Sarkozy e la Merkel che strizzano l’occhio a Barroso e Van Rompuy, un Berlusconi facile facile da dare in pasto agli italiani e Mario Monti, già fresco di nomina a senatore a vita, con l’abito giusto per mettere in pratica le ricette del cannibalismo neoliberista. Monti, il professore. Monti, il rigoroso. Monti, il tecnico. Monti, l’antipolitico. Dopo la stagione dei cucù e del bunga bunga (questo era ciò che restava di una stagione politica denominata “centrodestra”), ci voleva il rigore, la serietà. Ci voleva il governo Monti, sostenuto da una maggioranza che in altre circostanze avremmo detto “bulgara”, se non fosse che in quel periodo era vietato mettere in discussione le scelte pensate e attuate dal vero regista italiano (regista per conto terzi?) dell’operazione: Giorgio Napolitano. L’Italia era in crisi, l’Italia era sull’orlo del baratro tra l’Argentina, la Grecia e forse pure l’inferno. Quell’esecutivo in loden, infarcito di bravi professori, tradusse la lettera da potenza in atto. E così vennero la riforma delle pensioni, la riforma del lavoro, il pareggio di bilancio, la ratifica del fiscal compact e tutto quello che serviva per abbonirsi gli eurodei.
L’austerity tedesca come programma di governo dell’Italia. La finanza diventa centrale con l’inganno delle parole: l’efficienza dei mercati contro la corruzione del pubblico, la velocità del privato contro la lentezza del pubblico, la preparazione dei tecnici contro il pressapochismo di governanti e parlamentari, le opportunità della flessibilità contro i privilegi della Casta, vuoi politica vuoi sindacale. Ecco, con questo inganno la finanza ha costruito tesi che alla prova dei fatti si sono dimostrate presagi da cartomanti, da astrologi, da sciamani.
Dove ci hanno portato le euroricette dell’austerità? A cosa è servito il rigorismo costruito sull’asse Berlino-Bruxelles? A fare ricca Berlino, sicuramente: la Germania che impone alla Grecia, all’Italia, alla Spagna di rispettare il divieto degli aiuti di Stato previsto dai trattati è la stessa Germania che aiuta le imprese tedesche tramite una banca a totale capitale pubblico (altri esempi di doppiopesismo o doppiofaccismo riguardano il deficit del 3% o gli aiuti alle banche in crisi…). Ma il danno maggiore, il rigorismo lo ha fatto distruggendo quell’economia reale che ci ha resi unici nel mondo, nonostante la corruzione, la mafia e tutto il peggio che ci sta appiccicato addosso. Già, perché noi nonostante tutto eravamo dei campioni. Campioni mondiali di risparmio privato; campioni di modelli d’impresa (il modello delle piccolissime, delle piccole e delle medie imprese, dei distretti e dell’artigianato è studiato nelle università estere); campioni persino di un modello di Stato sociale che qualcuno definiva “mediterraneo” per metterlo in relazione con quello scandinavo. Ora? Ora ci hanno obbligati a vivere in un mondo che non è nostro, un mondo fintamente moderno dove l’economia gira sul debito, sulla carta e sull’inganno di meccanismi finanziari.
Il dramma è che questo sistema è entrato nelle viscere dello Stato, è entrato come un virus nella Costituzione pure laddove lo Stato dovrebbe avere il primato assoluto. Questo virus neoliberista è entrato nello Stato sociale, proiettando così l’antico welfare state in un nuovo e pericoloso modello di welfare, il welfare bank. Scrive bene ancora l’ex giudice Paolo Maddalena sempre in Gli inganni della finanza: «Altra ingannevole menzogna è quella di far ritenere che il nostro debito pubblico sia dovuto a un eccesso di spesa per lo Stato sociale (sanità, istruzione, ricerca ecc.). Dati alla mano si può affermare che in Europa l’Italia ha sempre speso, e spende, per lo Stato sociale sempre meno degli altri paesi europei. Tale spesa è sempre rimasta al di sotto della media UE e dell’eurozona. […] In sostanza tutto il debito è da attribuire ai tassi di interesse che ci ha imposto il mercato e non alle spese per il nostro welfare. […] Peraltro il livello dei tassi di interesse sul debito pubblico dipende unicamente dalle decisioni del mercato (e degli speculatori finanziari)».
Stiamo morendo di interessi. Vi è chiaro? Ve lo ripeto ancora con la chiarezza di Luciano Gallino: «La grande maggioranza della moneta che utilizziamo viene creata ex nihilo dalle banche private sotto forma di prestiti, cioè di moneta debito. Questa è la vera causa dell’esplosione globale dei debiti privati e pubblici che soffocano l’economia. La moneta bancaria aumenta i debiti e sottrae ricchezza all’economia reale. La moneta dovrebbe invece diventare un bene pubblico, una risorsa messa a disposizione dallo Stato per produrre ricchezza e benessere grazie alla piena occupazione e alla svolta ecologica dell’economia. È l’unica via d’uscita dalla crisi».
Invece accade l’esatto opposto.
Purtroppo questo passaggio progressivo e costante dal pubblico al privato è stato accompagnato da martellanti campagne – alcune in buona fede, altre meno – finalizzate a “bruciare” il consenso attorno al pubblico che non funziona senza mai guardare al privato che ruba con maggiore ingordigia e al buio. Insomma, è stato costruito il mito del privato senza che ne esista un fondamento reale. Con l’ordine neoliberista di privatizzare gli asset strategici per lo Stato (dall’energia alle telecomunicazioni passando per l’industria pesante) ci siamo impoveriti a vantaggio di altri paesi. Lo vedremo bene nel capitolo sulle privatizzazioni. Con la stessa propaganda de «il privato lo fa meglio» e «il privato spreca di meno perché i soldi sono suoi» abbiamo reso sottile come carta velina i contratti di lavoro, abbiamo regalato alle assicurazioni il cuore del sistema pensionistico per le prossime generazioni e per quelle attuali siamo arrivati addirittura a coniare un termine che dovrebbe apparire simpatico, innocuo, persino accattivante: l’Ape, Anticipo pensionistico, per legare i nostri anziani a banche e assicurazioni. E lo abbiamo fatto anche sulle case con meccanismi finanziari distruttivi. E poi ancora stiamo impoverendo di risorse finanziarie e umane l’istruzione, la sanità, i servizi. Questo perché una pseudoistituzione che macina retorica per riempire i granai della finanza (l’Unione Europea) ha deciso che gli Stati devono essere messi in fuorigioco.
Nel ventunesimo rapporto annuale delle Fondazioni di origine bancaria, a proposito del loro rapporto con la sanità, era scritto: «Si riscontra in generale una prevalente proiezione degli interventi delle fondazioni verso strutture sanitarie appartenenti alla rete del sistema sanitario nazionale. Ai soggetti pubblici va il 68,4% delle somme erogate nel settore, in controtendenza rispetto al dato generale che vede largamente prevalere i soggetti privati con la medesima quota (68,4%). In sostanza i soldi delle fondazioni finiscono prevalentemente nel privato ma nel sottosettore della sanità si ha una inversione di tendenza con la maggior parte degli investimenti destinati al pubblico». Al di là della poca chiarezza espositiva (mi si consenta la battuta: guai, nel mondo finanziario, a parlare chiaro. L’inganno comincia con le parole e i tecnicismi), appare evidente che tra tagli alla sanità pubblica e politiche di convenzionamento pubblico/privato, la finanza diventa fondamentale per mantenere i livelli di welfare. «La maggior parte dei contributi relativi in questo ambito è destinata a ospedali e case di cura generali.» Certo. Ci si può consolare col fatto che le Fondazioni conservano ancora, per la loro natura, un contatto con il territorio, ma è innegabile che toccherebbe al solo pubblico il finanziamento della sanità in tutte le sue articolazioni. Consentire al mondo bancario (e contestualmente a quello assicurativo) di presentarsi come sponda quasi indispensabile ha dei rischi evidenti.
Del resto anche a Bruxelles, attorno ai palazzi che contano, le lobby finanziarie e le lobby di Big Pharma lavorano per scrivere quelle regole che l’Europa adotterà e poi farà ingoiare ai parlamenti nazionali. Come mostra il rapporto redatto nel 2015 dal Corporate Europe Observatory (CEO), un’associazione che svolge il monitoraggio a livello europeo delle lobbies industriali, in collaborazione con Health Action International (HAI), nell’aprile 2015 Big Pharma ha denunciato una spesa per attività di lobbying pari a 40 milioni di euro, quindici volte il livello di spesa delle organizzazioni della società civile che operano per tutelare i sistemi sanitari pubblici e il libero accesso ai farmaci.
La cifra rappresenta un’enormità se rapportata a quanto lo stesso comparto industriale dichiarava di spendere nel 2012, 8,3 milioni di euro. Tre anni più tardi le prime dieci società farmaceutiche dichiaravano di spendere 15 milioni, oltre 6,6 milioni in più. Le stesse società potevano inoltre contare, complessivamente, su quarantanove lobbisti a tempo pieno, trenta dei quali avevano pieno accesso al parlamento europeo. Secondo il rapporto realizzato dal CEO, le prime tre principali industrie farmaceutiche, Bayer AG, GlaxoSmithKline e Novartis International AG, hanno speso nel 2014 per attività lobbistiche rispettivamente 2,5 milioni la Bayer, e 2 milioni ciascuna Glaxo e Novartis. Dal novembre 2014 al marzo 2015 Glaxo ha incontrato ben quindici volte la Direzione generale per l’igiene e la sicurezza degli alimenti e la nutrizione, mentre nello stesso periodo Novartis lo ha incontrato otto volte.
Qualcuno potrebbe obiettare che, dal novembre 2014, la Commissione europea ha preteso l’iscrizione nel Registro per la trasparenza di tutte le lobby che avessero intenzione di incontrare gli organi dell’Unione Europea, a partire dalla stessa Commissione. È vero, ma non si tratta di un obbligo, dunque non è prevista alcuna sanzione nel caso di una sua violazione.
Tanti soldi per tenere rapporti, per fare pubbliche relazioni, per stringere sempre di più i contatti con coloro che scrivono le regole o che prendono le decisioni. Sarebbe molto facile buttare lì una frase del tipo: «Provate a pensare cosa si potrebbe fare con quei soldi investiti in lobbismo al fine di aiutare i malati o potenziare una ricerca sempre in affanno». Certo il privato non è il pubblico, quindi il privato deve perseguire profitto. Però ballano tanti soldi… Possiamo dire che sono soldi sprecati? Certo che lo possiamo dire, perché la tiritera dello spreco è stata proprio il grimaldello usato al fine di denigrare il sistema del welfare pubblico.
«Non ci possiamo più permettere un welfare che copre i cittadini dalla culla alla bara!»: quante volte avete sentito questa frase, non solo stupida ma anche scorretta. È la Costituzione – quella Costituzione che il sistema GangBank vuole smantellare a vantaggio della sua pseudocostituzione neoliberista (ricordatevi sempre i paper delle merchant bank e delle agenzie di rating sulle riforme costituzionali!) – è la Costituzione, dicevo, che prevede una copertura dei diritti per tutti i cittadini, dalla nascita alla morte. Modificare la seconda parte della Costituzione forzando il bilanciamento istituzionale implica di per sé una neutralizzazione nei fatti della prima parte, quella cioè sui diritti fondamentali. Lo stiamo vedendo già nelle scelte di questi ultimi decenni: più liberalizzazioni, più mercato, più concorrenza. Tutto sulla pelle dei cittadini!
Il sistema GangBank punta agli individui fin da subito. Li instrada sui binari dell’economia di carta. Quello che negli anni Ottanta era il vecchio libretto postale che nonni e qualche genitore riempivano in luogo della busta regalo, oggi sono i piani d’investimento per gli under 18. Piani di diversa natura, per lo più presentati come l’unica alternativa a una magra pensione o piani per finanziare progetti; piani però non privi di trappole e di rischi.
Il vecchio libretto postale di risparmio o i buoni fruttiferi postali non rendono granché? Allora ecco il carnet di opzioni possibili, dal riscatto della laurea o ai fondi comuni della casa o ancora al fondo pensione («Pensaci prima che sia troppo tardi» è il refrain comune, come a sottintendere che la previdenza pubblica e lo Stato siano sempre il Titanic). La pubblicità o le guide al risparmio sono ricche di consigli pratici, consigli che però soltanto alla fine del gioco sapremo quanto fossero convenienti per il risparmiatore. Per il banco la convenienza c’è sempre. Ci sta, per l’amor del cielo. Quello che non ci sta è ormai lo squilibrio di questa finanziarizzazione della vita.
Vuoi la casa? A pensarci non c’è lo Stato (chi sente più parlare di edilizia popolare o di un imponente piano case? Parliamo di accoglienza poi però le case sono gestite in periferia da racket di malavitosi), c’è la finanza. Vuoi la pensione? L’INPS sta scoppiando, non ci saranno più pensioni per le giovani generazioni, quindi c’è la finanza dei fondi pensione. Non c’è un lavoro, una retribuzione certa e dignitosa? Ci sono i prestiti della finanza. Ecco, questo smantellamento dei diritti non ci sta.
Il welfare bank si sostituisce al welfare state. Ed è in quest’ottica che vanno viste alcune carte pesanti che la finanza sta calando sul tavolo. Promovendole come un qualsiasi prodotto: un jeans, un profumo, un nuovo modello di telefonino o un televisore. Ora, per esempio, è di moda la cessione del quinto.
La cessione del quinto è una forma particolare di prestito personale. La banca o chi per essa incassa le rate del debito tutti i mesi, senza fatica, trattenendole direttamente da stipendi e pensioni. Fino a un quinto del loro importo, ovvero fino al 20%.
Quando te lo propongono sembra quasi che ti facciano un favore: «Guarda che bravi che siamo, tu sei in difficoltà e noi ti diamo qualche soldino. E, pensa un po’, tu non ti devi nemmeno preoccupare della scadenza delle rate per la restituzione perché… ehm…». Perché te le pignorano loro direttamente, dal tuo stipendio o dalla tua pensione. Per cinque anni, per dieci… Ovviamente caricandoci fior di interessi anche in un’era di tassi a zero. Nel sistema GangBank, le banche prendono liquidità in prestito dalla BCE a tasso zero, cioè gratis, ma poi – detto in maniera molto volgare – “fanno la cresta” sui loro clienti. È il loro guadagno, il loro profitto. Tutto a norma di legge, ma le norme le scrive il sistema neoliberista. E ciò nonostante, questi banchieri insaziabili si lamentano di non guadagnare abbastanza: piangono miseria per i margini ridotti, addossando la colpa allo stesso tasso zero di cui godono, come se lo trasferissero ai clienti senza metterci alcun ricarico! La verità è che la miseria delle banche, ove c’è, nasce da ben altro: cattiva gestione, speculazione, incompetenza, commistioni politiche, malaffare.
A dirla tutta, la cessione del quinto è uno strano aiuto perché somiglia dannatamente a una sottile forma di ricatto economico-sociale di cui sono vittime gli italiani con scarso potere d’acquisto e di cui le banche sono beneficiarie. Anche questo strumento è figlio di politiche governative filofinanziarie e filobancarie che smontano i servizi pubblici e lo Stato sociale, sviliscono il potere d’acquisto dei lavoratori e infine forzano i cittadini alla deriva del debito individuale. Arricchendo le banche, le società finanziarie, persino le Poste, inzuppate come sono di finanza, imbottite di fondi d’investimento e di varie forme di assicurazione.
Un giorno in televisione ho sentito un parlamentare sostenere che per la cessione del quinto non servono garanzie, né garanti, né ipoteche. Peccato che non avesse avvertito del lato B di questa nuova moda: la… presa in ostaggio dello stipendio. La vera garanzia resta il TFR. Non è tutto. Per la parte di prestito eccedente il tuo TFR (e cioè la tua ipoteca mascherata) ti dicono che «una polizza assicurativa copre il rischio vita e il rischio impiego», così oltre alle rate della banca devi pagare anche il premio all’assicurazione1.
Attenzione poi alle clausole, perché ove mai vinceste alla lotteria e voleste estinguere anticipatamente la cessione del quinto, occhio alle penali eventualmente contenute nel contratto, nascoste sotto i nomi più fantasiosi. Se, al contrario, non è la fortuna a baciarti ma lo fosse la sua sorella cattiva e invidiosa (una malattia, la perdita del posto di lavoro ecc.), sono cavoli tuoi: entri nel girone infernale delle persone di cui diffidare. Ci sono fior di elenchi di cattivi pagatori.
La cessione del quinto può essere appannaggio dei neoassunti con contratti a tutele crescenti purché l’importo richiesto non sia elevato e l’azienda sia di dimensioni medio-grandi. Deve essere chiaro che il settore dei prestiti è un mercato, un mercato in crescita come si legge tranquillamente sui siti di finanza specializzata online. E la cessione del quinto è un segmento di mercato appetibile. Un bocconcino delizioso che garantisce rendite mensili fisse agli istituti bancari e ai loro consimili, a spese dei lavoratori e dei pensionati. E se lavori con i voucher, o hai questi contratti flessibili tanto invocati dalle troike, be’…un qualche modo per indebitarti il sistema GangBank lo trova sempre.
A tutto il terzo trimestre 2016, la domanda di prestiti da parte di individui e famiglie è cresciuta di quasi l’8% rispetto al 2015. Questo, nonostante le perplessità di Federconsumatori sui dati di acquisti al consumo, e cioè sulla capacità reale delle famiglie di comprare beni e servizi. Secondo il Barometro CRIF, gruppo specializzato nei sistemi di informazione creditizia alle imprese e alle famiglie, nel mese di agosto 2016 «si è assistito a un incremento delle domande di prestiti pari a circa il 5,9% su base annua». Ma non si è mai sazi, perché a sentire Directafin, leader italiano nella cessione del quinto e dei prestiti online, «prosegue anche nel terzo trimestre del 2016 la crescita dei prestiti in Italia, un andamento se pur confortante ma non ancora rassicurante [sic]». «Il dato relativo ai prestiti personali» per Directafin «segna infatti una crescita dei volumi erogati del 14%.»
Se la macchina del welfare state viene fatta inceppare con la scusa che «lo Stato sociale costa troppo e la modernità non si può permettere quel che ci siamo permessi finora», o che «non possiamo essere così egoisti da mettere sulle spalle delle prossime generazioni il fardello dei nostri debiti», o ancora che «non ci sono più soldi per mantenere in equilibrio conti scappati di mano», di contro la giostra del welfare bank gira che è un piacere. Gira allargando la forbice tra ricchi e poveri, gira indebitando la gente a tal punto che la classe media scivola sempre più in basso. Un tempo c’erano gli stipendi perché il lavoro non era aleatorio e poi c’era la pensione. Il resto lo faceva la nostra attitudine al risparmio, che oggi ci rende preda da aggredire. I giovani vedevano la possibilità di un lavoro sicuro, con garanzie (che è diverso da lavoro garantito); le famiglie erano una ricchezza per il paese non solo in quanto società naturale fondata sul matrimonio ma anche come modello d’impresa che ci ha reso competitivi nel mondo; i pensionati godevano della loro meritata pensione dopo una vita di lavoro e sacrifici.
Cos’è cambiato? Perché non riusciamo a disincagliarci dalle secche? La risposta sta nel modello neoliberista che non ha seri avversari culturali e politici. Checché se ne pensi, lo Stato ha perso la sua centralità. Oltre alla crisi del lavoro con la sua molteplicità di contratti (e ormai possiamo affermare che la flessibilità non ha prodotto né lontanamente il risultato di “piena occupazione” né un aumento sensibile dei posti di lavoro), assistiamo all’aggravamento di vecchie questioni. I lavoratori italiani sono sempre più schiacciati. Il costo del lavoro è cronicamente compresso: i salari non crescono, e le tasse si mangiano quel poco che c’è. Il costo del lavoro per addetto è praticamente inchiodato dal 2011. Una compressione lunga oltre cinque anni. L’ultimo sussulto fu nel 2010. E gli spagnoli? Pesci in faccia anche per loro. E invece la Germania festeggia con un +15% nel periodo 2010-2016, aggiornato al mese di novembre. La Francia con un bel +10%.
I lavoratori italiani sono saccheggiati dal fisco e maltrattati dalle nuove politiche sul lavoro: intascano salari netti prossimi alla miseria partendo da un costo del lavoro complessivo, già basso di per sé, ove sono comprese le trattenute e i contributi (sempre che te li versino).
Ma non importa! Quel che conta è la flessibilità! Eh sì, perché il lavoro flessibile, senza tutele e con i costi ridotti all’osso aumenta la produttività. È questo che ci insegnano i soloni della finanza, gli eurotecnocrati, i nostri politici e i media allineati.
E invece guarda un po’: la produttività non cresce! E perché, di grazia? Semplice. Lo svilimento del lavoro è demotivante. Oltre che stancante, perché mina le riserve di energie fresche delle persone. Insomma, ti sbatti da mattina a sera, non hai tutele, sai che non avrai la pensione e ti fanno coprire uno, due, tre, quattro incarichi alla volta: cassa, bar, tavoli, cucina, bagni. Tutto insieme. E quello che metti in tasca non ti dà di che vivere.
Devi chiedere i soldi ai nonni, che hanno pensioni da sopravvivenza. Tu ti logori, ti logori, ti logori. E loro ti insultano pure. Ministri, politici, finanzieri, datori di lavoro: «I giovani non hanno voglia di lavorare, di fare sacrifici…». Una frase consolatoria per la generazione dei padri e delle madri con il ditino puntato (sempre sui figli altrui…), un alibi perfetto per esorcizzare le responsabilità culturali di una generazione. Sono stati i giovani a togliere loro diritti e contratti? Sono stati i giovani a non rispettare quel che la Costituzione fissa in tema di lavoro? Sono stati i giovani a creare le condizioni di una concorrenza sleale nel mercato di lavoro, anche con politiche migratorie tanto politically correct quanto devastanti?
Eppure nonostante tutto i numeri ci dicono che prima della crisi e prima dei golpe finanziari, l’Italia dava lezioni di produttività a tutti. Fatto 100 il PIL prodotto per ogni ora lavorata nel 2010, ci accorgiamo che l’Italia dava dieci punti di distacco a Germania e Francia nel 2000, e circa quindici nel 1995! Prima dell’euro mangiavamo in testa a tutti!
Non solo. I maciullati lavoratori italiani si impegnano ancora, e assai. Lo si vede dall’andamento del costo del lavoro per unità prodotta. Gli italiani tanto ingiuriati e sottopagati riescono a colmare parzialmente il gap: sfornano relativamente di più rispetto al costo per addetto in virtù del basso costo per unità di prodotto.
È inutile che ci giriamo attorno: il sistema GangBank vuole che il lavoro sia un prodotto e che i lavoratori siano interscambiabili. La questione salariale – prepotentemente e paradossalmente tornata di moda con l’avanzare di leadership nazionaliste, sovraniste e populiste (nel senso di “interesse del popolo”) – non è una sua questione. Il loro costrutto è: «Ti servono i soldi? Te li diamo noi». L’outlet dei prodotti finanziari è aperto h24. Da quando il modello neoliberista ha piano piano preso il sopravvento, sostenuto dalle “riforme” e dalle menzogne del peggior capitalismo, la finanza ha preso il posto dello Stato. Presentando il conto.
Prima abbiamo conosciuto la cessione del quinto dello stipendio, ora parliamo del prestito vitalizio ipotecario. Il prestito vitalizio ipotecario non è un prestito normale. È un prestito particolare. Molto particolare. È diverso dalla cessione del quinto, è assai peggiore. Diremmo odioso. Perché dà l’idea di un’arma puntata contro chi lo chiede o contro chi è costretto a chiederlo. Su cara sollecitazione di chi lo “vende”. Il mercato dei nuovi bisognosi è una platea che si allarga. Su tutti, i pensionati che non arrivano alla fine del mese, gli anziani indigenti con pensioni da fame. Il prestito vitalizio ipotecario è riservato ai nostri vecchi (e basta con questa storia che “vecchio” è una brutta parola: dalla letteratura greca e latina fior di autori elogiano la senectus, cioè quella vecchiaia pregna di esperienza) che hanno lavorato una vita e che lo Stato non ripaga a sufficienza nonostante i contributi versati. Il mercato del prestito vitalizio ipotecario è per i pensionati le cui entrate sono state fatte a pezzi dall’euro, che ha raddoppiato loro il costo della vita. Per i pensionati che hanno una casa di proprietà, da ipotecare in cambio di briciole di pane che però possono servire ai figli che hanno bisogno, perché hanno perso il lavoro, o hanno le macerie di un divorzio che li mette in croce (sapeste quanti mariti divorziati fanno la fila alle mense della Caritas o centri analoghi dove si ritirano cibi, beni di prima di necessità e vestiti usati. O dove si può dormire in attesa di una sistemazione).
La casa e il lavoro sono le spie rosse sul pannello di controllo delle istituzioni, peccato che siano proprio loro a regalare al sistema GangBank anche la possibilità di fare leva sulle case per mostrare i loro denti aguzzi. Case e capannoni da regalare alle banche in cambio di quella dignità che la Costituzione italiana – la Costituzione è la nostra forza, se solo ne conoscessimo tutte le potenzialità invece di bucarla con riforme e trattati ispirati alla logica del Dottor Faust di Marlowe – riconosce, garantisce e tutela. Indebitarsi con clausole dannate per far studiare i figli, per curarsi, per uscire da una crisi che magari lo Stato stesso ha provocato perché è il primo a non onorare i debiti della pubblica amministrazione!
Le dichiarazioni di certi parlamentari hanno fatto il giro d’Italia. Ormai senza ritegno, la finta sinistra degli anni Duemila ha gettato la maschera e vota contro i lavoratori, le rivendicazione dei quali sono state sacrificate sull’altare della troika, del neoliberismo che li ha portati al potere. «Avete una pensione da fame? Ipotecate la casa»: c’è chi in televisione ha detto anche questo. Il video è ancora su YouTube. Il distacco tra politica e realtà è talmente grande che chi siede nei palazzi non si rende conto della gravità di quello che dice. E chi legifera non si rende conto della gravità di quello che fa. La dittatura finanziaria dell’euro, dell’Europa e dei tecnocrati è tanto invadente da decidere l’agenda dei nostri governi, ai quali i parlamentari si piegano disciplinatamente. Ciecamente schierati con il capo partito che li ha nominati.
Il prestito vitalizio ipotecario si mette su questa scia. Tale prestito si è riaffermato con l’entrata in vigore del decreto del ministro dello Sviluppo economico 22 dicembre 2015, n. 226. Come scrisse «Il Sole 24 Ore» il 2 marzo 2016, il decreto mirava a rivitalizzare questa particolare forma di finanziamento dedicata ai soggetti anziani. Perché rivitalizzare? Perché già nel 2005 si era provato a introdurre forme simili di prestito. Ma il provvedimento legislativo si era sostanzialmente afflosciato su se stesso: forse non era ancora ben congegnato nei suoi meccanismi indebitativi o forse non c’era ancora una platea di indigenti e anziani con l’acqua alla gola. Oggi invece, grazie alle attenzioni dei Monti, dei Letta, dei Renzi e con la supervisione di Napolitano, grazie all’austerità degli eurotecnocrati, grazie alla bolla finanziaria del 2008 e alla crisi del debito sovrano provocata di proposito nel 2011, il “mercato” di chi è schiacciato dalla crisi c’è. Eccome se c’è, basti pensare che uno studio del settore case (Casa.it) fa emergere che il 70% di chi mette in vendita la propria abitazione lo fa per difficoltà economiche, il 22% per fare fronte a esigenze legate all’avanzare dell’età o per sostenere i figli nell’acquisto della casa.
Come funziona il prestito vitalizio ipotecario? Sintetizziamo così. Il prestito vitalizio ipotecario si ispira al mondo anglosassone e si applica ai soggetti over 60 che offrano l’ipoteca del proprio immobile (non gravato da altre ipoteche). Chi ti vende il prestito ti spiega che il «finanziamento è strutturato appositamente per le esigenze della popolazione di età avanzata». All’anziano «viene concesso un finanziamento» a fronte di un’ipoteca sulla casa di proprietà.
Per la banca che fa l’affare «l’anziano non è costretto a vendere, potendo continuare a viverci serenamente». Allora è la “nuda proprietà”? No, è molto di più perché nel sistema GangBank modernità fa spesso rima con “ecco che arrivano i guai”. La restituzione del capitale e degli interessi costa! E grava sulle spalle degli anziani e dei loro eredi. Infatti se costoro non possono ripagare il finanziamento o se non riescono a stare dietro agli interessi, «la banca può vendere l’immobile e soddisfarsi con il ricavato, restituendo agli eredi l’eventuale eccedenza». «Dal lato del soggetto finanziato (e dei suoi eredi), la principale ombra è rappresentata dall’esponenziale crescita del debito» proseguiva «Il Sole 24 Ore». Secondo noi, un macigno gravato di interessi «in grado di mangiare in poco tempo l’intero valore dell’immobile».
E se volessi riprenderti la tua casa, affittarla o venderla? Non si può: «La casa oggetto di ipoteca non è vendibile, non è ulteriormente ipotecabile e nemmeno è possibile concederla in locazione a terzi». Pena il pagamento alla banca dell’intero capitale prestato e di tutti gli interessi. Morale: gli anziani indigenti che chiedono un prestito del genere resteranno indigenti e perderanno la casa. La banca fa cassa e ringrazia.
Sulla casa le banche stanno giocando una partita assai attiva. Di fronte a uno Stato da tempo distratto a varare un piano casa come tema strategico di welfare, il sistema bancario si ritrova a dover gestire un patrimonio immobiliare derivante da investimenti o dall’acquisizione di immobili incagliati in fallimenti o sofferenze di varia natura. Non è un caso che le ristrutturazioni degli organici sia passata dalla trasformazione di vecchi contratti bancari in contratti più leggeri, tra i quali quelli – diciamo così – di agenti immobiliari. Le banche si reinventano nel settore real estate e anche il personale in esubero (che non sia già stato prepensionato o allontanato altrimenti) è costretto a cambiar pelle se non vuole finire in pellicceria.
Non bastano però le trasformazioni organizzative: se arriva pure la “leggina amica” è meglio. Alcune cosette le abbiamo viste, ne mancherebbe un’altra: il leasing abitativo o immobiliare. In sé sembra una cosa buona perché si tratta di acquistare l’abitazione principale direttamente dall’istituto di credito alla fine di un leasing operativo, che comporta un canone di locazione prestabilito interessi inclusi. A rendere ancora più appetibile il tutto ci sono pure alcuni incentivi fiscali.
Insomma, un bell’affare. No? Non tanto, perché a conti fatti l’affare vero lo mettono a segno ancora una volta le banche. Intanto perché le case in oggetto sono e devono essere solo del catalogo della banca, in poche parole la casa disponibile è tra quelle che la banca ti offre (per liberarsene. Del resto la banca non è, o meglio non dovrebbe essere, un’agenzia immobiliare. Ma ormai abbiamo visto che ognuno vende tutto). Il canone di locazione alla fine diventa un altro modo per sistemare i bilanci degli istituti di credito e trasformare le zucche in carrozza. Infatti cosa accade se non riuscite più a pagare o cambiate idea sulla casa (ipotesi: nasce un figlio e gli spazi non bastano)? Succede che la rata del leasing si rivela assai spesso più cara dell’affitto tradizionale (si tratta di due tipologie di contratto diverse tra loro) e i canoni versati sono come il latte versato: inutile piangerci sopra; ormai sono andati. O giù di lì. Infine il leasing immobiliare a detta di molti agevola anche gli sfratti per morosità con maggiore snellezza. Queste e altre condizioni insomma ci consentono di mettere pure la casa nel welfare bank. Con un “ma” che andiamo a vedere.
Da Milano a Palermo i tribunali stanno mettendo in vendita uno stock di case sempre maggiore, spesso a prezzi più che convenienti. Talvolta potremmo dire a prezzi di saldo. Secondo i dati dell’Osservatorio Immobiliare Digitale, nel 2016 ci sono state in Italia 98.468 aste immobiliari, il 24% in più rispetto all’anno precedente e il doppio rispetto a cinque anni fa. Ovviamente questo trend è destinato anche per l’anno in corso ad aumentare il suo volume con l’effetto quasi certo di un ulteriore ribasso dei prezzi.
Perché accade questo? Perché, quando devi fare i conti con 214 miliardi di sofferenze nelle banche italiane e quasi la metà è garantito da immobili, la risposta viene facile. In cima alle garanzie immobiliari troviamo le residenze, poi i capannoni, i negozi, i terreni. Il sistema bancario sta soffrendo questa situazione e ha una certa fretta di liberarsi di questi immobili che diventano a tutti gli effetti dei non performing loans. Anche la vigilanza europea fa pressing sulle banche perché se ne liberino alla svelta. Più c’è fretta e più il mercato abbassa i valori immobiliari. Il solito cane che si morde la coda: il settore sarebbe in ripresa ma l’eccesso di offerta abbassa il valore. Insomma una bomba innescata sotto il mercato immobiliare per colpa della crisi finanziaria.
Ma dove il welfare bank dà il meglio di sé, come in buona parte abbiamo visto nelle pagine precedenti, è sul mondo dei pensionati e sulle pensioni. L’ultima perla è l’Anticipo pensionistico, l’Ape.
Vi ricordate la lettera della BCE e della Banca d’Italia all’allora presidente del Consiglio Berlusconi? Vi ricordate che tra i punti da assolvere vi era anche la riforma delle pensioni? Bene. Ricorderete anche che l’allora ministro tecnico Elsa Fornero mise mano alla pratica con un intervento correttivo sui conti pensionistici, con i voti di centrodestra e centrosinistra allora maggioranza “delle larghe intese”. Ebbene, a distanza di pochi anni e con molti pasticci – uno su tutti: gli esodati. E meno male che erano tutti professori… –, oggi la politica fa un mezzo passo indietro: l’età pensionabile s’allunga ma se vuoi andare in pensione prima la banca ti aiuta a pagare gli anni di anticipo. Con un prestito, naturalmente. Roba da non crederci. Però lo hanno fatto.
Le pensioni diventano un lusso, mica il frutto che si coglie dopo aver pagato i contributi. Certo, ci sono le pensioni d’oro e le baby pensioni, ma non è facendo lavorare di più la gente che si mettono in ordine i conti. Le pensioni e le buonuscite del sistema GangBank – dopo ne vedremo alcune – non sono meno scandalose di quelle dei politici. La vicenda dell’ex presidente della Commissione europea José Manuel Barroso ve l’abbiamo raccontata poco fa: dava indicazioni sulla sostenibilità dei sistemi pensionistici e poi ha preteso di andare in pensione con circa 7.000 euro al mese. Il prepensionamento di José Manuel Barroso rilancia le polemiche sui privilegi degli euroburocrati nelle istituzioni comunitarie a carico dei contribuenti europei. Un privilegio che – lo ricordo ancora una volta perché è il meccanismo politico dell’Europa neoliberista – si aggiunge alle porte girevoli con le banche d’affari. Barroso oggi è a libro paga di Goldman Sachs Europe, è un lobbista a tutti gli effetti, con in tasca l’agenda giusta per fare gli affari della potente merchant bank. Un altro della lunga serie.
Per ora rimettiamoci a bordo dell’Ape e all’idea che la sorregge, cioè sempre la stessa: lo Stato non ha i soldi, la spesa pensionistica ci sta ammazzando, o si rivede adesso il sistema previdenziale o i giovani saranno senza assegno previdenziale. Lo dico per inciso: ma questa cantilena che l’austerità di oggi è un passaggio obbligato per non ammazzare i giovani per quanto tempo troverà ancora chi ci crede? Me lo domando tenendo sempre a mente le recenti scelte del popolo in Gran Bretagna, in America e in Italia dove la più forte bocciatura è arrivata dai giovani, i quali sono al centro di un processo di emarginazione sociale. E meno male che lo spot a favore dell’Europa politica vuole essere sempre nel segno della “generazione Erasmus”.
I giovani sono stati spogliati del diritto ad avere un contratto di lavoro vero, a tempo indeterminato (ribadiamolo sempre ad alta voce: il contratto a tempo indeterminato non è un biglietto della lotteria che se hai fortuna afferri e incassi. È un diritto e soprattutto è un pistone per l’economia reale di uno Stato. Rinunciare all’indeterminato – e lo dico per esperienza personale – è una libera scelta, non il ricatto sottile della modernità neoliberista). Il tema della disoccupazione e di chi non ha più alcuna speranza di inserimento è il tema della politica, che solo una classe dirigente preparata e libera dal virus GangBank può affrontare e risolvere, al netto di quell’altra litania per cui i giovani non vogliono lavorare e fare sacrifici.
Ci sono tantissimi giovani che lavorano in condizioni di sfruttamento, senza contratti, senza straordinari e senza una banca che li ascolti. Ci sono giovani lavativi? Certo, come ci sono viziatissimi imprenditori junior che mandano all’aria le aziende dei genitori. Quindi vediamo di piantarla con questo gioco al massacro e apriamo pure gli occhi quando gli under 30 cercano di emergere ma sono ostacolati nei luoghi di lavoro da chi ha paura della loro fame o quando i loro padri vengono assunti perché alle condizioni attuali conviene pagare un cinquantenne già formato e attualmente disoccupato ma che costa come uno al primo contratto. Ai giovani abbiamo inculcato l’idea che non avranno una pensione e quindi si devono già consegnare al sistema GangBank per ottenere una qualche rendita negli anni della vecchiaia. Ma la pensione è un diritto, non una botta di fortuna.
Tutto questo per concludere che le politiche attuali non solo hanno inaridito e tradito la generazione Erasmus, ma stanno impoverendo anche i loro genitori. L’Anticipo pensionistico rientra in questa visione sbagliata della cosiddetta ripresa. Secondo alcune simulazioni – ve ne sono dei sindacati così come di centri studi animati da docenti non allineati al pensiero neoliberista –, chi decidesse di usufruire dell’Anticipo pensionistico dovrà rinunciare fino al 20% dell’assegno che si è guadagnato, non solo per pagare gli interessi alla banca per il prestito ottenuto, ma anche per finanziare una costosa assicurazione contro il rischio di morire prima di avere ripagato il debito. I lavoratori che hanno perso il posto a pochi anni dalla pensione di vecchiaia e usufruito di tutti gli ammortizzatori sociali potranno invece usare la cosiddetta Ape Social: il lavoratore in questo caso non ci perde niente, perché gli interessi alle banche li paga direttamente lo Stato.
Suvvia, sono sempre queste le soluzioni alla crisi? Oppure – come è la tesi di questo libro – il sistema GangBank scrive le leggi per conto di politici senza preparazione? Ma la vita e la dignità delle persone hanno ancora un senso oppure non più? Da quando siamo entrati nell’euro il potere d’acquisto degli italiani è calato, le retribuzioni sono ferme al palo, l’instabilità sociale è sotto gli occhi di tutti e le tariffe – alla faccia della convenienza delle liberalizzazioni! – aumentano di anno in anno. Mai come negli ultimi anni il portafoglio degli italiani sta subendo un’aggressione così palese e arrogante. Se il principio dev’essere che lo Stato si pone a garanzia del sistema bancario, allora tanto vale scommettere sullo Stato con la libertà di cambiare la classe dirigente qualora si dimostrasse inadeguata. Lo dico anche alla luce dell’entusiasmo con cui anche il presidente dell’INPS ha salutato l’Ape: «Dà una maggiore libertà di scelta alle persone, alle imprese e al tempo stesso, in questo momento, potrebbe dare anche un aiuto all’ingresso nel mercato del lavoro dei giovani».
E ridagli con l’illusione di fare il bene dei giovani…
A conti fatti, da quando l’austerity è diventata la stella polare delle politiche economiche, si fa sempre più densa la quota di famiglie che oltre a sostenere il precariato dei figli e qualche volta dei nipoti si ritrova pure un’altra tranche di debito con le banche. Per ottenere un diritto. È dalla crisi greca, la cui gravità sta nelle ricette di chi ipocritamente si è presentato con il camice bianco del medico curante ma con la mentalità del boia, che lo Stato viene messo sul banco degli imputati tralasciando che la crisi che stiamo vivendo è una crisi del debito, è una crisi finanziaria. «Quanto stiamo vedendo in Grecia è la spirale della morte del welfare state» era scritto sul «Washington Post» nell’estate 2013. «Ogni nazione avanzata, inclusi gli Stati Uniti, deve affrontare la stessa prospettiva […]. I problemi sorgono da tutte le prestazioni assistenziali (indennità di disoccupazione, assistenza agli anziani, assicurazioni sanitarie) oggi garantite dagli Stati.»
In Italia una tesi del genere ha trovato tanti analisti o bardi. Sempre con lo stesso ritornello: il welfare state del vecchio continente si scopre vecchio come la sua patria; vecchio e insostenibile. Negli anni del montismo (come rimbalzo agli anni del berlusconismo) i tifosi dell’“A morte il vecchio Stato sociale!” si sono scatenati con la scusa dei conti pubblici da rimettere sotto controllo. L’ordine delle èlite finanziarie, dell’establishment, era partito: con i pacchetti anticrisi i governi (splendidi esecutori) demolivano poco alla volta l’anima delle costituzioni degli Stati-nazione per edificare un nuovo edificio. Il mercato prima di tutti e di tutto.
Il progetto è servito: il welfare state non regge, il debito si sposta sulla lotteria del banco GangBank. Poi se salta… ci penseranno gli Stati, com’è accaduto tutte le volte che le banche sistemiche si sono incagliate nei loro debiti. Privatizzazione dei profitti e pubblicizzazione delle perdite: ecco lo schema vincente dell’avidità neoliberista, per la quale lo Stato torna centrale solo per il tornaconto dei suoi profeti.
Il conto finisce sempre sulle solite spalle. Recentemente ho visto ringalluzzito il duo Monti-Fornero: nelle loro comparsate televisive, i due professori non perdono occasione per provare a rifarsi una verginità di fronte al pubblico, dipingendosi come dei Robin Hood che, ai tempi del loro governo, avrebbero messo le tasse sui ricchi come misura di giustizia sociale a beneficio della comunità.
Tasse sui ricchi e sulla ricchezza. Giustizia ed equità a beneficio dei più deboli. Sicuri? Nel famoso decreto “Salva Italia” (che belli questi titoli con cui addolciscono le amarezze…) troviamo il combinato disposto dell’imposta di bollo sugli estratti conto bancari e quella su conti deposito, risparmi, strumenti finanziari per risparmiatori, titoli, conti correnti e quant’altro. Tradotto: è una doppia patrimoniale sui risparmi degli italiani di cui la maggioranza di noi non sa nulla, salvo interrogarsi perché ogni tanto ci tolgono i soldi dal conto. Tradotto meglio: è una vera e propria tagliola che si abbatte sui lavoratori colpendo nel mucchio. Una mannaia da cui si salvano i nullatenenti o quasi (e che vuoi portargli via, agli sfortunati?) e i supermegaultraricchi.
Insomma: la patrimoniale sui nostri soldi è già una realtà, non uno spettro futuribile. Lo spettro sta nel fatto che qualcuno vorrebbe incrementarla (e sarebbe la quarta volta). Il governo si insinua costantemente nei conti degli italiani sottraendo dai loro estratti conto 34,20 euro tutti gli anni. Come se non bastasse, si infila nei depositi, nei libretti, nei piccoli patrimoni investiti e – zitto zitto – si porta via il 2‰ ogni anno. Dico: in dieci anni fa il 2%, su denari che hanno già assolto l’Irpef, le addizionali comunali e regionali eccetera eccetera. Avete dei BTP? Ve li tassano. Avete depositi bancari e postali? Ve li tassano. Vi siete fatti infinocchiare con obbligazioni convertibili e fondi comuni dalle presunte performance mirabolanti? Ve li tassano. Qualunque cosa abbiate in denaro, ve la tassano. Tassati a vita, per sempre, su denari già tassati più volte alla fonte. Vi tassano con un’imposta che è nata come l’1‰ di tutti i vostri averi, è poi aumentata all’1,5, ed è arrivata al 2‰ a partire dal 2014.
Questo 2‰ malandrino erode voracemente i vostri risparmi se questi non sono messi a rendita o se avete una gestione patrimoniale in perdita. Se invece avete una piccola rendita, per esempio il 2% netto, l’imposta del 2‰ ha un effetto leva devastante e si porta via il 10% della vostra rendita (già detratta di un’aliquota del 26%). E si porta via il 20% se la vostra rendita netta è solo dell’1%. Si salvi chi può!
Già… E chi può salvarsi? I soliti ricconi delle società finanziarie. Eh già… Perché, per i capitali al di sopra dei 7 milioni di euro, i soggetti diversi dalle persone fisiche non pagano un tubo. Zero! Nulla! L’imposta massima è fissata per legge a 14.000 euro, mentre per tutto quello che eccede c’è l’esenzione totale. Hai 50.000 euro di risparmi da gestire? Ti cucchi tutta l’imposta al 2‰ e anche i 34 euro e passa sugli estratti conto. Hai un miliardo? Basta conferirlo nella finanziaria di famiglia e la tua imposta media sarà lo 0,001% in virtù del fatto che 993 milioni sono esentasse. Alla faccia della progressività obbligatoria prevista dalla nostra Costituzione.
E chi altro può salvarsi? Guarda un po’, le assicurazioni. Chissà perché poi… Sembrerebbe un gran favore a qualcuno, ma non possiamo scriverlo altrimenti ci dicono che siamo complottisti … Ma, come diceva Andreotti, a pensar male ci s’azzecca. E quindi se volete salvarvi anche voi, sottoscrivete una bella polizza, pregando però Iddio affinché non vi freghino.
Ragazzi, questi mediocri piazzisti che le GangBank usano come frontman puntano le loro fiches sull’estinzione della classe media, depauperandola con ogni mezzo. Noi ci rifiutiamo di credere alle sirene delle tasse sui ricchi perché abbiamo già avuto numerose dimostrazioni che, nei fatti, si tramutano in tasse sui ceti medi e poco abbienti.
La mia opinione è che le cosiddette patrimoniali sui ricchi dei signori Monti e Fornero agevolano le aggregazioni patrimoniali da parte di famiglie molto ricche, facilitano gli individui estremamente abbienti che conferiscano la propria liquidità in società di comodo, favoriscono i grandi soggetti finanziari a scapito del popolo, ed esentano i prodotti assicurativi per spianare il mercato alle società di assicurazione. Se tutto questo non bastasse, a tutela delle GangBank ci sono sempre i paradisi fiscali da cui entrare e uscire a piacimento: in un batter di ciglia si spostano montagne di liquidità in Lussemburgo, in Irlanda o alle Cayman. Le tasse le pagherà sempre e soltanto chi è incagliato in Italia.
Tutto questo accade in un contesto in cui anche la crisi delle banche si riverbera sui costi dei clienti risparmiatori. Poco tempo fa il «Corriere della Sera» ha redatto una ricerca comparativa chiara. Riportiamo quello che risulta. Il costo dei conti correnti per famiglie con operatività media (duecentoventotto operazioni all’anno) è salito infatti del 13% in dodici mesi, contro un’inflazione negativa. L’ISC, Indicatore Sintetico di Costo annuo, è passato in media da 127,50 euro del gennaio 2016 ai 144,70 attuali. La versione online dei conti tradizionali è aumentata ancora di più, da 98,70 a 115,60 euro: +17%.
Dietro l’incremento medio del 13% ci sono due cause: il contributo al salvataggio delle banche in difficoltà e l’aumento di alcune commissioni. Nel primo caso si sono mossi Banco Popolare e UBI, che hanno applicato un costo aggiuntivo ai clienti per rientrare di parte dei soldi spesi per il Fondo interbancario e per il Fondo di risoluzione. Nel secondo spicca l’incremento dei costi di carte di credito e bonifici per cassa (il calcolo, per omogeneità con l’anno scorso, è su sette banche: Intesa, UBI, MPS, ex BPM, Cariparma, BNL, UniCredit).
Il canone delle ormai redditizie carte di credito è salito in media a 33,14 euro (da 29,80). Il costo medio di un bonifico in contanti allo sportello passa a 6,50 euro (da 5,66), così come pagare le utenze allo sportello per cassa costa ora in media 2,41 euro (da 2,28). Il rendimento minimo medio dei conti correnti è sceso allo 0,001% (da 0,004%), mentre quello passivo nominale massimo (il caso dello sconfino in assenza di fido) è salito dal 18,3% al 18,6%, con picchi oltre il 21% in Intesa e MPS (dove però si paga il 18,20% per sconfini fino a 1.500 euro). Va aggiunta al tasso la commissione d’istruttoria veloce: stabile, in media a 36 euro (ma tocca i 60 euro nell’ex BPM).
Per chiudere, vorrei dedicare qualche riga al boom del gioco d’azzardo. Perché ve ne parlo in un libro dedicato alla finanza? Ci arriviamo. Importanti ricerche ci dicono che in Italia un ragazzo su due si è avvicinato alle macchinette dei bar o delle sale lottery nonostante i divieti. Sono oltre un milione e duecentomila, infatti, quelli che hanno tentato la fortuna almeno una volta nel 2016. Il fatto è che questa pessima abitudine giovanile si mette sulla scia comportamentale degli adulti. Non deve infatti apparire contraddittorio il ricorso alla fortuna proprio quando la crisi si fa sentire sui bilanci: più si teme il domani e più ci si aggrappa alle tentazioni.
Nel 2016 il gioco d’azzardo ha visto salire la spesa complessiva del 7% a 96 miliardi di euro. Calcolando che la popolazione nazionale si aggira sui sessanta milioni di persone, inclusi i bambini, scopriamo che nell’anno appena trascorso abbiamo speso la media di 1.500 euro a testa, pressappoco un intero stipendio solamente per scommettere sulla fortuna al gioco. Cifre da capogiro, che diventano ancora più strabilianti, se si considera che nell’arco degli ultimi otto anni, ovvero in piena crisi economica, il business del gioco d’azzardo è raddoppiato dai 47,5 miliardi del 2008.
Tutto questo non arriva per caso: nel 2016 le società del settore hanno investito in pubblicità 71,6 milioni di euro contro i 51,3 milioni dell’anno precedente. Insomma, un bell’incremento del 39,6% rispetto al 2015. A beneficiare di questa notevole spinta di denaro sono state le televisioni (61 milioni di euro), poi internet, i quotidiani, le radio e altri. Anche queste cifre fanno parte della strategia GangBank. Il moltiplicarsi delle agenzie di gioco d’azzardo e la massiccia campagna pubblicitaria (con eccellenti uomini dello sport e dello spettacolo che si prestano come testimonial “accalappiaragazzi”) sono funzionali a una “educazione” che vede nei meccanismi della scommessa lo stesso schema della finanza speculativa. In fin dei conti cos’è la finanza moderna se non un casinò allargato? Lo dimostrano i collegamenti societari che spesso legano le agenzie delle scommesse online con le applicazioni di trading online.
In Cina il fenomeno dei ragazzi trader è una delle cause dell’impazzimento finanziario. Il perché nasce dall’investimento universitario che sta a monte: la finanza dipende dagli algoritmi e i ragazzi cinesi fanno la fila nelle università di matematica, perché hanno capito che è un ottimo modo per fare soldi. Ai master di Ingegneria finanziaria delle più prestigiose università americane gli studenti hanno quasi tutti cognomi cinesi. Cinese era uno dei guru di J.P.Morgan e di Barclays: David Li. La sua “funzione di copula gaussiana” divenne il segreto magico per molte agenzie di rating che dovevano valutare il tasso di rischio di mutui assai diversi tra loro. Lui guadagnò una montagna di soldi, le agenzie di rating sbagliarono a fidarsi ciecamente della funzione e come sempre una moltitudine di investitori ci perse i soldi. L’idea di far girare la finanza sulle funzioni matematiche però resta assolutamente valida.
Il boom della finanza ha origine proprio da questa speranza: poter calcolare tutti i rischi connessi agli investimenti tramite formule matematiche e calcoli delle probabilità. Naturalmente questa utopia tecnico-scientifica si è rivelata più volte totalmente falsa. Nonostante ciò, l’uso della matematica nella finanza resta centrale. A fare le fortune di BlackRock, il più grande fondo finanziario del mondo, è stato ad esempio un algoritmo, di nome “Aladdin”, che gestisce in automatico investimenti per migliaia di miliardi di dollari.
L’indebitamento americano sta passando anche attraverso dinamiche che assomigliano al gioco. Il film Money Monster con George Clooney e Julia Roberts ha il pregio di portare sul grande schermo proprio la facilità con cui la scommessa sui titoli diventa un game, salvo poi scatenare perdite devastanti. Esattamente come accade coi debiti («Nessuno gli dice di indebitarsi»), anche per il gioco sbrigativamente diciamo: «Nessuno li obbliga a giocare». Il meccanismo di dipendenza scatta nel momento in cui vi è un bombardamento pubblicitario: se un comparto investe cifre colossali per spingere su un prodotto è perché vuole che quel prodotto sia comprato. Il gioco d’azzardo è un prodotto iperpubblicizzato: è quindi normale che la platea di consumatori si allarghi proprio nel momento di maggiore debolezza. Basterebbe limitare fortemente questo business per risolvere molti problemi. Ma lo Stato ricava molti soldi dal gioco e gli stringenti parametri di bilancio europei rendono impossibile rinunciarvi.
1. Per i dipendenti statali l’assicurazione può essere rilasciata sia dall’INPDAP che da compagnia assicurativa privata, mentre per i dipendenti di aziende private solo da una compagnia assicurativa privata.