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L’Europa dei tecnocrati contro l’Europa dei popoli
Il 26 marzo 2015, diciannove economisti di diverse nazioni scrivevano una lettera al «Financial Times». Una lettera per molti versi rivoluzionaria, perché si proponeva un cambio di passo radicale: invece di darli alle banche, i soldi diamoli direttamente ai cittadini.
Sì, il succo della lettera era esattamente questo: i 1.100 miliardi previsti dal programma quantitativo per stimolare l’inflazione nell’eurozona, il quantitative easing della Banca Centrale Europea successivamente ampliato a più riprese fino a superare i 2.000 miliardi passando per il valore intermedio di 1.680 (destinati poi nei fatti alle banche e ai mercati finanziari), «dovrebbero essere distribuiti a ogni cittadino europeo per tutta la durata del programma». L’ importo del “tot”, al momento del calcolo, era di 175 euro al mese a testa per ognuno dei cinquecentosei milioni di europei, a prescindere che fossero cittadini dell’eurozona o meno.
Ovviamente, questo appello è rimasto solo un invito teorico mai preso in considerazione, ma servì (non solo tra gli addetti ai lavori) a riflettere sui veri effetti del denaro creato dal nulla dalla BCE con il dichiarato intento di sollecitare i pistoni dell’economia europea – l’economia reale, intendo – attraverso lo stimolo monetario dell’inflazione.
I primi a non raccogliere lo spunto di quei diciannove economisti sono stati i politici, i quali, non sapendo più come elaborare gli insuccessi di quell’Europa su cui avevano puntato tutte le proprie fiches, hanno ormai delegato ai banchieri centrali il compito di dare un senso della politica. «Meno male che c’è Mario Draghi a salvare l’Europa dai populismi e dai rigurgiti nazionalisti» dicono, con l’affanno di chi si agita in mare aperto e ha l’acqua alla gola.
Meno male che c’è Draghi… Davvero le cose stanno così? E se anche fosse vera questa tesi, non stride forse con le dichiarazioni degli stessi politici quando ripetono – con la cantilena di chi ricicla sempre le stesse lezioncine (talvolta mi sembrano come le hostess e gli steward che prima del decollo ci illustrano le misure di sicurezza in caso di necessità) – che ci vuole più Europa politica e meno Europa della finanza? Allora come si spiega che Mario Draghi, cioè il capo della BCE, sta salvando l’euro e l’Europa, e per questo va ringraziato? Mah. Non capisco… Forse perché non c’è nulla da capire. Delle due l’una: o si sta con il banchiere Draghi o si sta con l’Europa politica. Più passa il tempo e più resto convinto che l’Europa sia come quei lettori dvd venduti nelle aree di servizio dai truffatori: apri la scatola e trovi il mattone.
Se l’intenzione del quantitative easing è quella di stimolare l’economia reale, forse sarebbe stato meglio far cadere quei soldi direttamente sul capo della gente in carne e ossa, piuttosto che darli alle banche: ai cittadini, alla famiglie, alle piccolissime imprese, ai lavoratori. Un’idea analoga l’ebbe anche il premio Nobel per l’Economia Milton Friedman, che la condensò in un’immagine provocatoria, affascinante e suggestiva: quella dei “soldi dall’elicottero”, helicopter money, ovvero banconote gettate dall’alto che i cittadini avrebbero raccolto e speso, alimentando i consumi e dando impulso diretto all’economia. A Friedman tutti replicarono che l’idea poteva funzionare solo in assenza di recessione; in caso contrario, le banconote sarebbero state risucchiate da debiti e pendenze, o eventualmente accantonate a risparmio, anziché spese nel turboconsumo del neoliberismo di cui Friedman era esponente. In Italia, gli 80 euro di Renzi e la politica dei bonus lo dimostrano: stimolo per i consumi? Zero.
Ruotando lo sguardo in un’ottica più keynesiana, invece di girare la liquidità della BCE alle banche con il quantitative easing, sarebbe stato più efficace usare il nuovo denaro per finanziare la spesa pubblica costruttiva dei governi europei, riavviare le politiche economiche espansive, riattivare gli investimenti nello sviluppo e rilanciare i progetti per le infrastrutture strategiche. Tutti veri e propri volani per l’economia e per l’indotto. O – a mali estremi, per l’appunto – si sarebbe potuto addirittura accreditare questo denaro sui conti correnti dei cittadini, onde permettere loro di far fronte alle spese correnti senza ricorrere al credito a consumo: non proprio l’effetto pensato dal neoliberista Friedman per dopare l’economia reale, ma almeno un sollievo per il popolo indebitato dei nostri tempi.
Vale sempre la pena ricordare quel che abbiamo detto fin dal principio: il debito privato è in costante aumento, tanto che recenti dati elaborati da Morgan Stanley (e loro se ne intendono…) nei paesi del G10 (paesi anglosassoni in testa) mostrano che il debito privato è spesso un multiplo del debito pubblico.
Se poi guardiamo al debito globale, un report del McKinsey Global Institute dimostra che non solo non è affatto diminuito, dall’inizio della crisi del 2008, ma è aumentato del 40%, passando dai 142 trilioni di dollari del 2007 ai 199 trilioni del 2014 (che è il dato più recente disponibile al momento della stesura di questo testo). C’è stato quindi un aumento di 57 trilioni in sette anni, accompagnato dalla fosca previsione di ulteriori incrementi sui prossimi dati in uscita per il 2015 e il 2016.
Questo debito globale di 199 trilioni è così grande da risultare illeggibile ai più; è tanto immenso da risultare inquantificabile tramite il senso comune. Centonovantanove trilioni di dollari sono centonovantanovemila (199.000) miliardi, o ancora centonovantanove milioni di milioni: un numero di gran lunga superiore al PIL globale, cioè precisamente il 286% del PIL mondiale 2014 (sempre secondo McKinsey). E cioè quasi il triplo della ricchezza mondiale prodotta. Un pozzo nero, insomma, a metà strada tra il reale e il virtuale. Il debito globale, questo mostro illeggibile, è il cumulo dei debiti pubblici e privati nel mondo, ove quelli privati sono la somma dei debiti della finanza, delle imprese e delle famiglie.
In poche parole, stiamo vivendo in un’economia dove debito chiama debito, anzi più ancora: debito moltiplica debito. In questo scenario, la mossa delle banche centrali del mondo (moltissime delle quali private e – a quanto sembra – funzionali a pochi colossi finanziari) è consistita appunto nell’immettere denaro su denaro nei circuiti finanziari inventandolo dal nulla.
Nel momento in cui scrivo queste righe, e cioè dopo quasi due anni di quantitative easing da parte di Draghi – presidente della BCE, ex capo di Bankitalia nonché ex prezioso consulente della Goldman Sachs –, pare proprio che l’economia reale non abbia trovato benefici di rilievo: il PIL resta stagnante (l’eurozona ha la crescita più bassa del mondo, con l’Italia ultima fra gli ultimi), la disoccupazione è un problema cronico, le piccole e medie aziende vanno all’aria, mentre le banche… Ecco, le banche si salvano. Già. Quelle banche che sono la causa della crisi ancora in corso si sono ritrovate con l’ennesimo jolly da giocare sul tavolo di quel casinò moderno che chiamiamo ancora, non si sa bene a che titolo, “economia”. Il mare di liquidità della BCE è finito agli istituti di credito, ai fondi e agli investitori speculativi per far girare ad libitum la pallina monetaria sulla roulette del sistema GangBank.
Dal 2008 i salvataggi delle banche in crisi in Europa sono costati alla collettività 213 miliardi di euro, tra ricapitalizzazioni a fondo perduto, nazionalizzazioni, separazioni degli attivi tra good bank e bad bank da liquidare. Il calcolo lo ha elaborato il centro studi olandese Transnational Institute lo scorso febbraio. In questo disastro si sottolinea il ruolo – ben retribuito – fondamentale svolto dalle società di revisione e di consulenza. Sono le sette società più quotate nel firmamento degli “esperti”: Ernst & Young, Deloitte, KMPG, PWC, McKinsey, Bain & Company e Boston Consulting. Molte di queste società hanno operato e certificato anche i disastri delle italiane Banca Marche, Banca Etruria, Carife, Veneto Banca, Banco Popolare di Vicenza.
Quando voglio spiegare al bar perché questa creazione di denaro non poteva risolvere la situazione, uso un’immagine: la crisi economica è come la siccità; l’economia reale è un campo arido, secco; il quantitative easing è una pioggia incessante e regolare. Poi domando: secondo voi, questa pioggia, che pure servirebbe ai campi brulli, darà beneficio agli stessi? Certo che no, perché quell’acqua scivolerebbe sulla terra come scivola sul marmo. Il guaio è che, oltre a non creare beneficio, quell’abbondante getto d’acqua (la liquidità immessa) potrebbe creare guai provocando allagamenti e inondazioni (la metafora delle bolle speculative finanziarie, che quando esplodono devastano tutto). Toccherebbe a un contadino saggio “bucare” il campo, creare dei tagli affinché quell’acqua penetri nel terreno e gli restituisca la vita. E chi è il contadino saggio, nella mia similitudine? Dovrebbe essere la politica. Che invece ha paura di sbagliare, o di prendere una decisione, o peggio ancora di ostacolare il disegno di chi potrebbe speculare sugli effetti dell’inondazione o dell’allagamento: nella nostra storia, il sistema neoliberista. Il sistema GangBank.
E infatti i soldi del quantitative easing a targa BCE, come ampiamente prevedibile fin dal principio, non sono arrivati né allo sviluppo collettivo, né ai cittadini, né alle imprese. Sono rimasti nel circuito chiuso degli investimenti finanziari, dei mercati obbligazionari e delle borse, degli ETF e degli hedge fund, a gonfiare ulteriormente i portafogli traboccanti dei ricconi del pianeta. Fino allo scoppio della prossima bolla.
Se non altro, le analoghe politiche monetarie attuate dalla Federal Reserve americana (la famosa Fed), dopo la crisi del 2008, avevano avuto un successo maggiore, seppur parziale, incompleto, e soprattutto accompagnato dagli stessi effetti collaterali di doping finanziario visti dalle nostre parti. Ma il mandato della Fed è più vasto, rispetto a quello della BCE, e poi la Fed (pur essendo un organismo cosiddetto indipendente, il che vuol dire privato) ha forme di interlocuzione politica importanti con il governo degli Stati Uniti, che è un governo forte. In Europa, invece, abbiamo una politica debole, una Commissione europea priva di visione e autorevolezza che scolla gli Stati anziché aggregarli, e una BCE che in un certo senso è zoppa, perché, come sostiene il Nobel Joseph Stiglitz, è nata in culla senza i poteri necessari allo stimolo della crescita economica e al raggiungimento della piena occupazione e della stabilità finanziaria.
La BCE è stata partorita con il solo mandato sull’inflazione, ossessione storica della Germania. Che ha visto la sua bilancia commerciale godere di performance straordinarie. Perché dopate. Così che Draghi, pur con le armi spuntate di una Banca Centrale nata con le premesse sbagliate, assume apparentemente le vesti del cavaliere bianco, del vero leader politico europeo. Lo fa a causa del nanismo delle istituzioni comunitarie. Prova ne è che il ruolo del capo della BCE sovrappone al peso tecnico il peso politico de facto, pur tra le veementi contestazioni dei falchi tedeschi (peraltro, all’elenco delle grosse banche che hanno beneficiato grandemente del quantitative easing di Draghi dovremmo aggiungere – checché ne dicano i tedeschi – Deutsche Bank, che tra le altre cose è la banca europea a maggior rischio per il solo fatto di detenere il primato mondiale di derivati).
Le banche inseguono i loro interessi. I risparmiatori sono soggetti tra i tanti, ma il loro risparmio non è da tutelare come valore in sé. Il loro risparmio è fungibile dall’impresa finanziaria.
Luca Ciarrocca, nel suo prezioso libro Rimetti a noi i nostri debiti (ma citerei anche I padroni del mondo), scrive: «Le trenta grandi banche globali, quelle definite TBTF, cioè too big to fail (“troppo grandi per fallire”), controllano il 40% dei prestiti e il 52% degli asset mondiali. Parliamo di rischi sistemici e di concentrazione di potere in poche mani […]. Questi colossi sono dunque diventati ancor più giganteschi e incontrollabili. Come? Proprio grazie alla politica del denaro a costo zero decisa dalle banche centrali, con Fed e BCE in prima linea e tutti gli altri a seguire: Banca d’Inghilterra, Banca del Giappone e chi più ne ha più ne metta. Nel frattempo la quantità di cash nelle casse delle sei banche commerciali leader è praticamente quadruplicata dal 2008 a oggi. Ovvio, con il denaro preso a costo zero, sarebbe da folli non bussare alla porta delle banche centrali, le quali distribuiscono soldi dal loro elicottero. Inoltre, altro dato impressionante, appena dieci banche mammut negli Stati Uniti controllano il 97% di tutti gli asset bancari su cui si può fare trading. Di questi, a J.P.Morgan Chase fa capo il 43,8% mentre a Citigroup va il 24,5%».
Ora comprenderete facilmente perché queste banche d’affari possono mettere il becco – come puntualmente hanno fatto – persino nelle riforme costituzionali dell’Italia. E consentono all’ambasciatore americano Phillips di esporsi a tal punto da sostenere che «la vittoria del NO scoraggerebbe gli investimenti».
Se dunque le cose stanno così, perché la politica non fa prevalere il senso dello Stato sul senso di un mercato ora più che mai nelle mani delle élite? È una domanda che vi porrò dieci, cento, mille volte.
Mentre la pallina gira, l’economia di carta droga le Borse prolungando le scommesse debitorie, così i titolari delle fiches chiedono di detronizzare le Costituzioni impiantando in esse trattati internazionali o globali profumati di belle parole ma letali. La pallina gira e, mentre gira, le scommesse aumentano, invogliate dal metodo dei bari fuori dalle stazioni: tutto sembra facile, tutto sembra scontato.
Come stiamo dimostrando in questo libro, non c’è nessuno che sia immune dal virus dell’indebitamento. Tanto nel pubblico quanto nel privato si parla solo di crescita a debito, di nuovi mutui da contrarre, di indebitamenti proposti con una leggerezza allarmante, con il rischio – nemmeno troppo campato per aria – di dover far fronte a richieste di rientro sempre più alte; e allora comincerà un’improvvisa, veloce e progressiva vendita dei gioielli di famiglia (nel caso di soggetti privati) o di asset strategici (nel caso degli Stati). Il tutto per rientrare. O per cercare di farlo.
È qualcosa di molto simile a quello che succede nei casinò: si entra con l’illusione di vincere e si esce con la certezza di aver perso; l’entità di ciò che hai perso dipende dal freno che riesci a darti. Già, perché poi capita di trovare nelle sale chi ti presta nell’ombra dell’altro denaro, e poi dell’altro ancora. Fino a quanto gli serve per averti in pugno. Il meccanismo della finanza non è diverso dal meccanismo del gioco, gli algoritmi sono gli stessi.
A questo punto mi sia consentita una riflessione che all’inizio, forse, vi potrà apparire strana, ma che non lo è: noi scateniamo – nessuno escluso – estenuanti dibattiti, non privi di fondamento e di giusto rancore, sulla scorrettezza di quanti fanno i furbetti sul lavoro, di chi si fa timbrare il cartellino dai colleghi per poi andare a fare un secondo lavoro in nero o (peggio) per non fare un tubo. Il risentimento è sacrosanto, perché in quei casi c’è un danno alla collettività, oltre che un’ingiustizia. Perciò è giusto denunciare e stigmatizzare. Così come è giusto che il parlamento punisca seriamente queste brutte abitudini. «Rubano lo stipendio» è la frase più comune quando si commentano questi fatti.
La stessa reazione, però, non si ha quando le cronache portano alla luce le truffe compiute da broker, trader e consulenti finanziari che espongono i risparmi dei cittadini alle turbolenze del mercato azionario o fanno altri magheggi. Con un clic. Con il dito indice. In una frazione di secondo. Con un algoritmo matematico che vende sterline in un angolo remoto del pianeta creando panico globale sui mercati delle valute, come è effettivamente successo. Pensateci un attimo: qual è lo sforzo lavorativo di questi furbetti?
Ricorderete forse lo slogan-manifesto degli indignados spagnoli (dalla cui costola poi è nato il movimento di Pablo Iglesias) e prima ancora di Occupy Wall Street, che metteva in contrasto le ricchezze dell’1% del mondo contro quelle del restante 99%. Ecco, non era affatto uno slogan per fare presa, non era un’iperbole per mettere a fuoco lo sbilanciamento tra i ricchissimi e tutti gli altri. No, poggiava su numeri veri.
È noto che la metà della popolazione più povera del pianeta, circa tre miliardi e mezzo di persone sugli oltre sette del totale, ha un reddito annuale pari a quello delle ottantacinque persone più ricche del pianeta (i cosiddetti “super ricchi”, così come da elenco annuale pubblicato dalla rivista «Forbes»). Sì, esatto: ottantacinque. Qualcuno, per scherzare, ma nemmeno poi tanto, ha detto che equivale a due autobus con a bordo i grandi ricchi che arrivano a Davos, in Svizzera, per l’annuale Forum economico.
L’ultimo rapporto di Oxfam, un’autorevole confederazione internazionale molto impegnata nella lotta alle povertà e alle ingiustizie del mondo, ha rivisto le sue stime arrivando a stabilire che, dal 2014 a oggi, il club dei super ricchi si è contratto ancora di più: a detenere la stessa ricchezza di metà della popolazione più povera (3,6 miliardi persone) sono solo otto persone. Otto! «Circa la metà della ricchezza mondiale è detenuta dall’1% della popolazione della Terra. Questo reddito facente capo all’1% dei più ricchi del mondo ammonta a 110.000 miliardi di dollari (110 trilioni), sessantacinque volte il totale della ricchezza nelle mani di metà della popolazione più povera del mondo.» E non è tutto.
Nel già citato Rimetti a noi i nostri debiti, Luca Ciarrocca lega questo accumulo di ricchezza a una questione di valenza etica: «L’aumento della concentrazione della ricchezza è strettamente legato all’illegalità: “Ovunque nel mondo, gli individui più ricchi e le aziende più grandi nascondono migliaia di miliardi di dollari al fisco in una fitta rete di paradisi fiscali”».
Fior di inchieste giornalistiche e di documenti venuti alla luce per il “pentimento” (prendete questa parola con le molle: è un modo largo per intendere tante cose, dal pentimento sincero a quello per vendetta…) di alcune persone hanno portato alla ribalta nomi e aziende molto potenti e con grandi capacità di lobbying; in altre parole, siamo in presenza di élite che detengono il potere economico e che, proprio per questo, sono in grado di far scrivere le regole, come sta accadendo in Europa e nel mondo globale con i vari trattati internazionali che, in nome del libero scambio, sono tesi ad allargare le maglie normative costruite in passato a difesa dei cittadini occidentali.
Torno allora alla sproporzione che c’è tra la rabbia verso i furbetti del cartellino e la mancanza di indignazione contro i criminali col colletto bianco, che godono di quella strana immunità sociale e politica che li rende impermeabili al diritto e alla pubblica riprovazione. La domanda è secca: perché contro i signori delle truffe finanziarie l’indignazione sociale e la reazione normativa sono così scarse? Tanto per farvi capire, il rapporto annuale del Consiglio Europeo sulle statistiche giudiziarie rivela che nelle carceri italiane solo lo 0,9% è in cella per reati finanziari. Nonostante l’aumento dei disastri e degli imbrogli finanziari, solo 312 condannati con sentenza definitiva! A tal proposito, voglio citare un ampio passaggio del confronto che due ex magistrati del pool di Mani Pulite, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, hanno messo nero su bianco nel libro La tua giustizia non è la mia. Si parla dei crimini commessi dai cosiddetti “colletti bianchi”: di crimini finanziari, insomma. Davigo, oggi presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, rispondendo a Colombo (che rimarcava come «i colletti bianchi non vanno mai in prigione»), sviluppa il ragionamento con alcune considerazioni («Il problema è che ci dovrebbero andare, in galera; in realtà sono gli unici che utilizzano tutti gli strumenti studiati a beneficio degli altri, che invece rimangono in carcere») e un racconto. Che vale la pena di riportare. «All’epoca del processo Parmalat per aggiotaggio, mi capitò di parlare con la collega Ponti, che presiedeva quel processo. Venni a sapere che si erano costituite qualcosa come quarantacinquemila parti civili, cioè quarantacinquemila vittime che dovevano essere risarcite. […] Quanto ci impiega uno scippatore a fare quarantacinquemila vittime? Se fa quattro scippi e mezzo al giorno, cioè nove scippi ogni due giorni, ci vogliono diecimila giorni. Una vita! Secondo punto: quanto può avere nella borsetta una signora che viene scippata? Nella mia esperienza di magistrato, se lo scippatore trova una mensilità di pensione può ritenersi fortunato. Io non ho mai trovato persone che nella loro borsetta tenessero i risparmi di tutta una vita. Situazione nella quale si trovava invece buona parte di coloro che avevano investito soldi nei bond Parmalat. Dunque chi appartiene alle classi dirigenti, quando delinque, non soltanto fa un numero di vittime incomparabilmente maggiore del delinquente da strada, ma a ciascuna di queste vittime causa danni enormemente più gravi.»
Davigo ha ragione da vendere su un punto preciso a cui noi non pensiamo mai: chi commette reati finanziari può fare letteralmente strike di birilli umani.
Lascio che sia Davigo a chiudere il cerchio con quest’altra sua considerazione che ci riporta alle responsabilità diffuse della sottovalutazione sociale del crimine finanziario: «Quando l’ex presidente di Parmalat fu arrestato, ai giornali ha dichiarato: “Non me l’aspettavo”. Ecco, io uno scippatore che quando viene arrestato ai giornali dice: “Non me l’aspettavo” non l’ho ancora trovato. Invece la classe dirigente si rifiuta di accettare le conseguenze delle sue azioni. […] La verità è che non sono abituati a essere presi. Perché in Italia si cambiano le leggi, si fa di tutto perché non siano puniti».
Orbene mi domando: perché i politici cavalcatori di sdegno contro gli impiegati scorretti delle basse gerarchie e contro i reati comuni non alzano i toni anche contro i delitti finanziari? Perché si spiana la strada a indebitamenti privati che somigliano allo spaccio di droga? Perché certe pratiche sono incentivate invece di essere stoppate? Perché ai signori di codesto spaccio di indebitamento e alle loro società si presta ascolto come se fossero oracoli? Il discorso si fa aspro quando alla truffa finanziaria si accompagna una violenza psicologica che in alcuni casi estremi porta persino al suicidio. Si arriva all’estremo per cui la finanza può essere perfino violenta. Come certa delinquenza di strada. Abbiamo sentito molte storie di piccoli imprenditori, artigiani e lavoratori vessati dalle banche o marcati a uomo da società di recupero crediti con metodi che definire “discutibili” è spesso un miserabile eufemismo.
Ne ho raccontate tante, nelle mie trasmissioni. E mai nessuna banca, dopo aver minacciato azioni legali, è poi passata alle vie di fatto. Oltre alle storie da me presentate in televisione, ha preso piede anche una narrativa di genere assai interessante. Io so e ho le prove di Vincenzo Imperatore è il racconto di un ex dirigente di banca che ha vuotato il sacco, raccontando le tante malefatte del sistema bancario, le firme ai risparmiatori strappate con una insolita tecnica di persuasione e tanto altro ancora. La rivolta del correntista di Mario Bortoletto è il racconto di un imprenditore edile che si è ribellato allo strapotere e all’arroganza del sistema bancario e ha vinto quattro cause.
Il refrain è sempre lo stesso: posizioni di prestito aperte, mutui, insomma normali rapporti tra imprenditori e banche (normali fintanto che le banche facevano le banche e c’erano capi filiale in grado di capire che gli istituti di credito sono funzionali alla crescita economica e sociale di un territorio); poi l’ordine improvviso di rientrare. Dalla collaborazione si passa all’indifferenza o peggio all’ostilità. «La banca mi ordina di rientrare perché ha bisogno di liquidità.» E via con le lettere degli uffici legali. Nomi grossi, perché più grande è la banca e più potente è lo studio legale. Qualcuno alza subito la voce, ci prova. Poi, se la faccenda comincia a farsi brutta, nel senso che il cliente è palesemente dalla parte della ragione, ecco il primo abboccamento: «Chiudiamo con una transazione e amici come prima». Il secondo abboccamento è: «Rateizziamo il rientro, rivediamo gli accordi e… amici come prima». Insomma, tra un “amici come prima” e un altro, la banca prima fa di tutto per farti saltare per aria facendoti pagare interessi in odore di usura, poi cerca con metodi da azzeccagarbugli di rigirare la frittata dalla sua parte. In Italia, interi distretti industriali sono stati “bombardati” così dalle banche. Banche che solo le sentenze dei giudici fanno tornare con i piedi per terra.
Tanto per dire come la reazione del patron di Parmalat («Non me l’aspettavo») sia la regola di certi ambienti, traggo da Contro gli abusi delle banche, il sequel del libro di Mario Bortoletto, questa storia esemplificativa. La faccio breve: una donna di Genova, titolare di una piccola impresa ereditata dal padre, scopre gli abusi della sua banca: «Gli interessi applicati sono tutti in usura […], così l’imprenditrice genovese, come stabilito dal giudice, deve avere indietro 798.000 euro, di cui 665.000 frutto di usura». Ma la banca non paga, prende tempo; loro hanno sempre una ragione per non pagare il dovuto e si permettono pure di alzare la voce: «Signora, io non posso darle nulla, le pare che una banca le consegni una tale cifra in mano? Dove li prendo tutti questi soldi, figuriamoci». La donna non demorde e, visto che la banca non rispetta una sentenza, sapete che fa? Torna nella filiale con il proprio legale e con l’ufficiale giudiziario. La scena è stupenda: «Direttore, dobbiamo apporre i sigilli alla cassaforte dell’istituto» dice il funzionario del tribunale. «Ma sta scherzando, chi la autorizza a fare una cosa del genere?» risponde il direttore. «La sentenza del tribunale di Genova. E devo procedere.» Il direttore a quel punto telefona ai mammasantissima (che sapevano tutto e facevano melina) della banca, quelli che pensano che a loro tutto sia sempre possibile. Stavolta la legge li inchioda. La storia finisce con il direttore che, per evitare i sigilli alla cassaforte, firma tre assegni pari alla somma risarcitoria e amen.
Per fortuna, casi del genere cominciano a essere tanti. Ma la questione di base è: perché occorre arrivare in tribunale – spendendo non pochi soldi (e meno male che esistono associazioni a tutela dei consumatori che stanno facendo un grande lavoro, sia a livello pratico sia dal punto di vista del supporto psicologico) – per far valere i propri diritti? Perché si stanno moltiplicando i casi di abusi contro i risparmiatori? Semplice, perché le banche sono un potere, e in quanto potere sanno che possono contare su una rete di amicizie; sanno che possono guidare la mano del legislatore nello scrivere o aggiustare le norme. Quando Belinda Luscombe intervistò per la rivista «Time» il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, alla domanda: «Perché nessun banchiere è stato perseguito penalmente per l’attuale crisi finanziaria?» l’economista americano rispose così: «Negli anni prima della crisi, sono state approvate delle leggi che hanno reso possibile per le persone che agiscono all’interno della legge fare un mucchio di cose cattive. Molte delle pratiche abusive con le carte di credito, prestiti predatori, erano chiaramente immorali. Hanno oltrepassato il punto della decenza ma non sono andati oltre ciò che era legale». E anche in Italia (e in Europa) siamo passati dalle famigerate leggi chiaramente ad personam a leggi opache che sono surrettiziamente ad finanzam, se mi passate la sgrammaticatura.
Eccolo qui, il trucco di GangBank: creare il chiaroscuro, creare la zona grigia, creare quella giungla dove predare tutti, dai governi ai cittadini. I politici andrebbero presi a pedate (pura immagine metaforica) non per le auto blu su cui salgono o per gli odiosi e ingiusti privilegi di cui pure godono, andrebbero puniti perché si stanno prestando a fare da palo al crimine a norma di legge che prende il nome di neoliberismo. Questo accade ovunque, anche in Italia. Dove il parlamento sforna norme che nemmeno forse capisce perché arrivano già scritte nelle stanze più riservate. Non è nemmeno lobbismo: è malafede. O peggio.
In condizioni normali, questo inganno dovrebbe muovere una ribellione. Invece vediamo soltanto una mesta rassegnazione generale. «Tanto cosa volete che gli facciano?» sento dire. Forse è vero: loro sono troppo forti. O forse, peggio, hanno costruito un sistema di copertura che è di tipo culturale, nel senso che culturalmente hanno costruito una fiction dove il male è incanalato soltanto verso mondi fittizi. Sono state create le condizioni perché l’inganno non sia compreso, ancor prima che scoperto. Si ha paura a penetrare in un mondo dove i termini sono incomprensibili e gli schemi sono dei rompicapi. Una specie di Truman Show dove solo pochi hanno avuto il coraggio di sfidare le tempeste create ad arte perché l’inganno non fosse scoperto.
La crisi finanziaria è la crisi di un modello di società che solo la politica può sovvertire con i mezzi democratici. Basta non farsi fregare dalle “tempeste in un bicchier d’acqua” – tra l’altro sempre le stesse – fatte partire da manine sapienti contro i soliti bersagli e mai contro altri. Purtroppo il giochino riesce perché attaccare più i politici e meno i colletti bianchi produce maggiore ascolto. Il linguaggio semplificato (persino banalizzato) usato dai politici e la loro sovraesposizione sono di maggiore accessibilità rispetto alle questioni attinenti alla finanza o all’economia.
Mi spiego: le notizie fanno presa quando tutti i soggetti della commedia hanno una parte ormai schematizzata, cosicché tutti possano comprendere. Se io parlo di appalti truccati e politici coinvolti, la gente capisce, perché la mia denuncia si ricollega a un’idea già stabilita e diffusa della politica. Se, al contrario, racconto i guai prodotti dai contratti derivati o un crimine finanziario, difficilmente intercetto l’attenzione dei più. Inoltre, se si prova a semplificare i fatti, si rischia di regalare agli uffici legali delle società finanziarie la vittoria in giudizio, con risarcimenti dei danni che ti fanno passare la voglia di fare altre inchieste.
Il crimine finanziario, le truffe pensate e poi messe in pratica, hanno una pericolosità sociale altamente (e in taluni casi colpevolmente) sottovalutata. E questo sistema si manifesta con intensità diverse e protagonismi diversi: dalle piccole società di investimento cui è permesso fare pubblicità con slogan pericolosi («Ti serve denaro? Te lo diamo noi. Subito») alle grandi merchant bank o alle agenzie di rating.
L’inizio di questo secolo ha visto due grandi scandali bancari perpetrati da colletti bianchi che non hanno fatto breccia nelle prime pagine dei giornali o nei talk show.
I due scandali riguardavano la manipolazione dei tassi Libor ed Euribor. Questi ultimi sono tassi interbancari che misurano il costo del denaro; cioè, ti dicono con quali interessi le banche si prestano reciprocamente i soldi. Questi stessi tassi sono usati anche come parametri di riferimento nel mercato dei prestiti a tasso variabile tra soggetti di diversa natura, inclusi cittadini e banche al momento della sottoscrizione di mutui indicizzati. La faccio facile, o almeno ci provo: manipolare questi tassi significa truccare uno dei motori più strategici della macchina finanziaria; significa, nella vita quotidiana di tutti noi, che le banche fanno una cresta occulta ai loro clienti su qualsiasi prestito bancario legato al Libor o all’Euribor (conto corrente, mutuo, leasing, derivato); significa che chi concede i prestiti richiede e riscuote interessi superiori a quelli realmente dovuti.
«Ogni mattina, dal lunedì al venerdì per quasi vent’anni, sedici tra le più grandi banche del mondo hanno compiuto sistematicamente un reato» ricorda Luca Ciarrocca in I padroni del mondo. «Banche truffatrici. E impunite fino al maggio del 2012, quando è scoppiato lo scandalo. Banche che hanno truccato i numeri presentando una griglia dei tassi di interesse “taroccata” a loro vantaggio attraverso un accordo interbancario.» In poche parole, è come se avessero truccato il termometro per vendere più medicine contro la febbre. Per farvi un’idea dell’entità dell’imbroglio messo in atto dal sistema GangBank, sappiate che le banche colpevoli di aver manipolato il Libor (oltre che il mercato dei cambi) hanno dovuto patteggiare di fronte ai giudici dopo aver ammesso la propria colpevolezza. E hanno pagato multe salatissime. Le banche in questione rispondono ai nomi di UBS, Barclays, Royal Bank of Scotland, Deutsche Bank, J.P.Morgan e Citigroup.
E, come in un copia-incolla, Barclays, Deutsche Bank, Royal Bank of Scotland e Société Générale sono state multate per manipolazione del tasso Euribor. Condannate per aver stretto accordi di cartello illegali, tesi a gonfiare gli interessi a carico dei loro clienti, i cittadini europei. Punite con una multa complessiva da 1,7 miliardi di euro comminata dalla Commissione antitrust dell’Unione Europea. Quest’ultima, invero, è stata a sua volta contestata dalle associazioni dei consumatori per aver pubblicato la sentenza con grave (e colpevole?) ritardo, nonché per averla depurata di diverse informazioni «relative a eventuali segreti industriali». Oltretutto, come potete vedere, tre delle banche condannate sono pure recidive: hanno taroccato sia il Libor che l’Euribor.
Limitatamente all’Italia, la manipolazione del tasso Euribor ha danneggiato due milioni e mezzo di famiglie che hanno sottoscritto prestiti in varie forme (prevalentemente mutui) presso vari istituti bancari, non necessariamente presso le quattro banche condannate, in quanto il tasso – una volta stabilito – è di uso comune in tutto il mondo bancario.
Federconsumatori e ADUSBEF hanno stimato un danno complessivo per i sottoscrittori italiani di oltre 3 miliardi di euro in interessi non dovuti. Circa 1.200 euro a famiglia. Le vittime dell’illecito possono mettere in mora le banche con cui hanno contratto i mutui a tasso taroccato, ma poiché il recupero delle proprie somme si prescriverebbe in dieci anni dall’illecito, il tempo a disposizione per chi è stato truffato sarebbe molto compresso o addirittura nullo, visto che il periodo di riferimento va dal 2005 al 2008. In un comunicato congiunto del 22 novembre 2016, le due associazioni dei consumatori hanno denunciato: «La sanzione […] al cartello bancario […] ha un effetto diretto nei confronti delle banche multate, ma indiretto sulla legittimità del tasso Euribor che risulta indelebilmente marchiato». Del tutto inattendibile e illecito. I contratti sono «invalidi, dalla palese nullità».
E poi c’è un difetto all’origine: nel contratto tra un cittadino e una banca si introduce una variabile che, a prescindere dalla manipolazione, è comunque decisa dalla stessa banca ovvero dal pool di banche di cui quella banca fa parte. Quindi, la variabile che dovrebbe essere indipendente è de facto di parte, in quanto strettamente legata alla banca che te la propone. Infatti, come viene calcolato il tasso Euribor? Si tratta di un sondaggio giornaliero attraverso cui «l’agenzia Thomson Reuters interpella quarantaquattro grandi banche europee per sapere a quali tassi si siano prestate reciprocamente il denaro. […] Per l’Italia partecipano le maggiori quattro: Intesa, UniCredit, MPS, UBI».
ADUSBEF e Federconsumatori hanno infine affermato che i diritti dei consumatori sono stati «calpestati e frodati da un cartello bancario protetto da contigui e pasciuti vigilanti». E noi qui vi specifichiamo che codesti vigilanti hanno i nomi e i cognomi di chi governa le banche centrali, che non controllano come dovrebbero. Come la Banca d’Italia, la BCE, la Banca d’Inghilterra, la Bundesbank e la Banca Centrale francese. I vigilanti non vigilano. I controllori non controllano.
A questo proposito, in Italia le tutele dei cittadini sembrerebbero del tutto compromesse, visto che la nostra banca centrale è privata, cioè è in mano a quelle stesse banche che dovrebbero essere sottoposte a vigilanza, in uno schema assurdo in cui i giocatori (ossia le banche) sono anche gli arbitri della partita. Dopo la privatizzazione delle banche pubbliche e delle banche di interesse nazionale, un tempo dell’IRI, il capitale sociale di Bankitalia è per il 94,33% nelle mani di banche private, mentre solo il 5% è di proprietà di enti pubblici come INPS e INAIL. Va ricordato che sulla ricapitalizzazione delle quote di Bankitalia ci fu, a inizio legislatura e sotto il governo Monti, una gran polemica che solo il Movimento 5 Stelle (basta riguardare le cronache di quelle settimane) seppe comprendere compiutamente. Quella manovra, infatti, consentì alle banche di ottenere ossigeno in un momento di grande difficoltà. Ossigeno che però servì a poco.
Se aggiungiamo che la maggior parte dei nostri istituti è scalabile o già parzialmente in mani straniere, potremmo finire – per quanto sembri assurdo – con l’avere una banca centrale controllata da banche private straniere, o peggio ancora da Stati stranieri i cui interessi quasi sicuramente non coincideranno con quelli della collettività italiana o magari di una azienda italiana per di più strategica. La stessa Société Générale è stata data più volte in pole position come possibile azionista di riferimento di UniCredit. Che peraltro, al 4 gennaio 2017, era già imbottita dei seguenti azionisti stranieri: il fondo sovrano Aabar al 6,5%, riconducibile al governo di Abu Dhabi tramite la controllante International Petroleum Investment Company; Capital Research con il 6,7%; il gigantesco fondo di fondi BlackRock; Dodge & Cox; Franklin; Vanguard; e anche Norges Bank, che è posseduta dallo Stato norvegese. I fondi del Qatar e grosse schiere di investitori istituzionali internazionali aspettano il momento migliore per appropriarsi di questo e di quello. Sempre dopo opportuna cura ricostituente a spese dello Stato. Cioè a spese nostre, ovviamente. Perché gli stessi soloni che pontificano sul debito pubblico poi muoiono, se non ricorrono alla mammella statale. Con l’assurdo che l’Italia (sempre più depredata dalle politiche di privatizzazione tanto care a Prodi, Ciampi, Draghi, Amato, Monti, Renzi, Padoan…) cadrà sempre più nelle mani non solo di privati stranieri, ma pure degli Stati stranieri. L’immigrazione dal basso e la “conquista finanziaria” dall’alto: altro che la sovranità…
Faccio un esempio di cui si parla sempre poco ma che è sintomatico della nostra schizofrenia politica. Un gioiello storico dell’industria privata italiana come la Pirelli, quinto produttore mondiale di pneumatici con esperienza e know-how ultrasecolare, non trovando sbocchi di ulteriore sviluppo in Italia è finito in mano allo Stato cinese attraverso la società pubblica ChemChina. Ma come, svendiamo i nostri gioielli di Stato denigrando la mano pubblica, e poi si scopre che ci siamo dati in pasto non solo ai privati, ma persino a un conglomerato di Stati esteri che ci stanno colonizzando? Privatizziamo tutto seguendo il dogma neoliberista per cui «lo Stato è il male», e poi lo Stato cinese ci porta via la Pirelli? Ma allora che senso ha fare politica all’insegna del «padroni a casa nostra»? Padroni? A casa nostra? In quelle quattro parole si nasconde una colossale presa per i fondelli. Nel migliore dei casi siamo in mano a gente miope; ma nei casi peggiori siamo guidati da sciocchi, da servi e da malfattori.
La privatizzazione della Banca d’Italia è un lungo processo che parte da lontano, dall’adesione dell’Italia allo SME nel 1979, sfocia nella decisiva, rapida e risolutiva legge Carli-Amato, la n. 35 del 29 gennaio 1992, e culmina nell’approvazione del Testo Unico Bancario (TUB) del 1993 promosso dall’allora governatore Ciampi.
A quei tempi e fino all’altroieri esisteva il più stretto mistero e riserbo istituzionale sui nomi dei reali proprietari, smascherati grazie alla pressione civile innescata nel 2004 da un articolo di «Famiglia Cristiana». Già, fu il settimanale cattolico a tracciare la griglia segreta di nomi, percentuale per percentuale. I maggiori soci, oggi, sono Intesa, UniCredit, Assicurazioni Generali e quasi tutte le altre banche italiane, incluse quelle che hanno fatto crac lasciando in mutande centinaia di migliaia di risparmiatori. Per intenderci: Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Monte dei Paschi di Siena, (Nuova) Banca delle Marche, (Nuova) Carife e compagnia.
Oltre al fatto in sé di essere un ente privato, è l’uso privatistico e non pubblico della propria funzione a distorcere gli equilibri con lo Stato e quindi con i cittadini. Secondo il suo statuto, la Banca d’Italia è un «ente di diritto pubblico» che opera in «piena autonomia e indipendenza».
Il gioco è sempre nelle parole: la banca centrale “autonoma e indipendente” suona bene, vero? Nei fatti, significa che non deve rendere conto a nessuno, tantomeno allo Stato, al governo e ai cittadini. Questo grazie alle decisioni di Carlo Azeglio Ciampi e Beniamino Andreatta, che decretarono la separazione di Bankitalia dal ministero del Tesoro (1981) e che, con i già citati blitz del 1992-1993, resero lo Stato dipendente dalla Banca d’Italia, contro ogni logica che dovrebbe volere l’opposto, cioè la banca centrale al servizio dello Stato (l’unico diritto del governo italiano riguarda infatti la nomina del governatore). Ovviamente, tutti a benedire e incensare la separazione. I nostri guai cominciarono lì.
Oggi come oggi, sotto la BCE (la cui composizione è “ibrida” ma le cui politiche sono sicuramente più funzionali alla finanza privata che al bene della collettività), Bankitalia ha un ruolo depotenziato: non stampa moneta e non fa politica monetaria (la fa la Banca Centrale Europea), non controlla l’inflazione (lo fa, peraltro male, sempre la BCE), non supporta politiche economiche né favorisce la piena occupazione (questo però in Europa non lo fa nessuno, tanto meno la BCE).
E allora cosa fa Bankitalia? Opera per conto della Banca Centrale Europea. È un organo meramente esecutore. Per esempio acquista titoli di Stato italiani su “ordine del capo”, oggi Mario Draghi. Vigila, o per meglio dire dovrebbe vigilare sull’operato delle banche, con il paradosso che il controllore (Bankitalia) e le banche (proprietarie di Bankitalia) sono la stessa cosa. Poi custodisce le nostre duemilatrecento tonnellate d’oro (a proposito: saranno ancora davvero nostre?); eroga dividendi ai propri soci (le banche stesse, per l’appunto); sforna statistiche ridondanti, talvolta doppioni di dati e informazioni reperibili attraverso altri canali; dirige, sotto l’ala della BCE, la “macchina” bancaria italiana coordinandone il funzionamento.
Fin dai tempi di Carli, Amato, Ciampi e Andreatta, la finanza ci ha sfilato lentamente Bankitalia. Poi, nel 2014, il governo Letta – con il ricatto dell’IMU – ne ha rivalutato per decreto le quote (ormai già) private: con il famigerato decreto IMU-Bankitalia, il capitale sociale è stato aumentato da 156.000 euro a oltre 7 miliardi. Con un colpo di penna. Come dire: se e quando lo Stato volesse riappropriarsi delle quote, dovrà pagare fior di indennizzi. Ammesso e non concesso che la rinazionalizzazione della nostra Banca Centrale sia mai possibile: ve lo immaginate uno scontro tra gli attuali governi nani della Repubblica Italiana e il gotha finanziario nazionale e internazionale, di cui la composizione dell’azionariato UniCredit è un piccolo saggio?
La vicenda dei cartelli bancari dimostra come il libero mercato sia ormai la foglia di fico che copre non solo l’avidità del sistema finanziario, ma direi soprattutto le sue debolezze di fondo. E dimostra anche come la dimensione politica sia stata addomesticata dalle forze della globalizzazione. In un periodo di crisi, ogni mezzo è buono per truccare la partita e far cadere il conto sulla platea dei risparmiatori, nella certezza che alla fine il gioco vale la candela.
Un film dal cast stellare che bene ha raccontato queste ombre è stato La grande scommessa, pellicola basata sulla storia vera di quattro investitori che capiscono prima degli altri il grande bluff dei mutui subprime che poi ha provocato lo scoppio della bolla immobiliare.
In questo film, tra le altre cose, si mette in luce la scorrettezza di certe agenzie di rating e del loro modus operandi con i grandi gruppi finanziari. Chi lo vedesse (e ve lo consiglio) capirebbe come quella crisi fosse chiaramente prevedibile, perché le menzogne erano reiterate e palesi. Si trattava di un meccanismo di ingegneria finanziaria e criminale non meno evidente del re nudo, solo che in quel caso nessuno voleva denunciarlo apertamente. Finché, invece di fare come il bambino che candidamente apre bocca e svela la verità sotto gli occhi di tutti, questi quattro broker scommettono sull’imbroglio. E fanno bingo, sulle macerie americane e non solo.
Questo sistema di moltiplicazione del debito privato è la ragione sociale del sistema GangBank, un sistema che sta entrando nella pelle dell’Europa, accompagnato dal flauto ingannatore dello slogan retorico: «Ce lo chiede l’Europa». Non è così. Ce lo sta chiedendo il neoliberismo, i cui tentacoli sono riusciti a impossessarsi delle chiavi d’accesso per ricattare – sì, ricattare – gli Stati, intesi non solo come istituzioni ma anche come comunità, proprio passando per la porta della tecnocrazia europea. Ed è proprio per questo che premier e governi insistono con quello slogan bugiardo.
La stessa Europa si sta ritrovando con le spalle al muro per i risarcimenti che questa finanza allegra dovrebbe pagare ma non vuole sborsare, se non con compromessi al ribasso. In un articolo pubblicato da «Il Sole 24 Ore», il vicedirettore Alessandro Plateroti ha dato atto alla vigilanza europea di aver voluto affrontare il problema degli abusi in banca ed «eliminare il sistema di incentivi con cui le banche premiano dipendenti, consulenti e promotori per il numero di contratti che fanno firmare ai clienti retail senza alcuna verifica oggettiva del loro profilo di rischio. Anche se l’Italia è finita sul banco degli accusati per essere il mercato in cui le famiglie e i piccoli risparmiatori hanno la quota più alta d’Europa di bond bancari in portafoglio [e chi glieli ha fatti mettere secondo voi questi bond in portafoglio, eh? Le vicende giudiziarie di questi ultimi mesi hanno messo a nudo l’ennesimo bubbone, N.d.A.], gli abusi della vendita spregiudicata ai clienti retail di titoli e prodotti finanziari rappresenta la peggior passività del sistema bancario europeo e mondiale».
Il nuovo regime non è ancora entrato in vigore e siamo solo all’avvertimento, però viene svelata una (diffusa) modalità di retribuzione in uso nel sistema bancario: bassi stipendi base, alte variabili. Si torna al mors tua, vita mea: il mio guadagno è proporzionalmente elevato in base alla maggior esposizione al rischio “accettata” dal cliente.
Per il passo avanti compiuto dalla vigilanza europea, tuttavia, ce n’è uno indietro: i nomi delle banche condannate per abuso di mercato sono coperti da omissis. Perché? Boh, a pensar male, mi viene da dire che forse è per non scatenare a cascata una serie di ricorsi, con il rischio di accrescere i risarcimenti.
I risarcimenti, ahi che dolore… Il balletto attorno ai risarcimenti di chi è rimasto letteralmente fregato da alcuni istituti italiani (al momento in cui scriviamo gli epiloghi di quelle vicende non sono ancora chiari), i ritardi e le incertezze di pezzi importanti dello Stato circa il controllo di ciò che stava accadendo hanno dato l’impressione ai risparmiatori di essere stati non solo traditi (ricordiamo che la Costituzione tutela il risparmio), ma addirittura barattati in nome di chissà quali equilibri politici.
Si è parlato a lungo di una commissione d’inchiesta sulle banche salvate più o meno direttamente dal governo, ma diciamo che questa commissione per ora non sta sorprendendo quanto a risultati. L’allora capo del governo Matteo Renzi, per frenare le polemiche attorno a Maria Elena Boschi – ministro chiave del suo gabinetto per la trattazione della riforma costituzionale (poi bocciata da una maggioranza schiacciante di italiani: ricordiamolo sempre) nonché figlia di un dirigente di Banca Etruria, cioè uno degli istituti coinvolti –, accettò la proposta delle opposizioni di avviare questa commissione d’inchiesta, ma senza accelerarne troppo il percorso, lasciando così intatto il dubbio di non voler fare pienamente chiarezza sulla vicenda. Com’è noto, i poteri e i limiti di una simile commissione sono pari ai poteri istruttori dell’autorità giudiziaria.
Leggermente diverso è stato invece il passo del governo Gentiloni. Dico “leggermente diverso”, anche se avrei potuto usare l’espressione “timido”, proprio perché la lentezza di certe decisioni sembra nascondere la reale intenzione di non sciogliere il nodo.
Chissà perché quella velocità decisionale che i politici lamentano di non poter imprimere per la mancanza di riforme (l’ultimo esempio è stato proprio Renzi nella campagna elettorale per il referendum costituzionale: «Vogliamo una politica veloce», dicevano il premier e il ministro Boschi) non viene usata laddove le decisioni dipendono solo da loro… Forse perché in certi casi la marcia più veloce è meglio non inserirla?
È difficile non sostenere che pressoché tutta la politica è ormai strettamente connessa alla finanza, e talvolta addirittura succube. Sono tutti amici, frequentano gli stessi salotti. E chi se ne frega se poi, alla fine del monòpoli, toccherà ancora una volta allo Stato – al tanto vituperato Stato – mettere i soldi pubblici per risanare i bilanci delle banche… E infatti: regalo di Natale 2016, ecco pronti 20 miliardi di nuovo debito pubblico italiano per salvare per l’ennesima volta il Monte dei Paschi di Siena e quante altre banche vogliano i nostri soldi dopo averne già bruciati a tonnellate (al momento in cui scriviamo, non sappiamo come questa vicenda andrà a finire).
Dunque, dicevamo di amicizie tra affari e politica: si cominciò con i banchieri in fila per votare alle primarie dell’Ulivo per arrivare al bubbone Monte dei Paschi di Siena, passando per la stagione delle privatizzazioni servite sul piatto d’argento a capitani d’industria dalla bassa propensione al rischio imprenditoriale; perché, con il regime tariffario e il mercato bloccato, sai che ci vuole a fare l’imprenditore… Mai come in questi ultimi anni i manager dal profilo finanziario sono diventati i consiglieri del principe: Sergio Marchionne, Andrea Guerra, Davide Serra, il numero uno di Poste Italiane Francesco Caio, Francesco Starace di Enel.
Prendiamo quest’ultimo. È proprio per il suo profilo finanziario, non per quello imprenditoriale o tecnico-industriale o di visione e di organizzazione, che la conferma di Starace alla guida dell’Enel «sarebbe apprezzata dagli analisti» delle banche d’affari. Lo si leggeva su «Milano Finanza» il 6 gennaio 2017: «Gli analisti hanno apprezzato le ipotesi di stampa secondo cui il governo dovrebbe confermare il CEO, Francesco Starace, per un altro mandato triennale». «Si tratterebbe di una buona notizia» perché «crediamo che Starace sia molto rispettato dalla comunità finanziaria; […] sarebbe un fattore positivo per quanto riguarda la ristrutturazione del portafoglio di Enel in corso.» Semplicemente, il manager di Enel nominato dal governo Renzi è funzionale alle logiche di monetizzazione immediata basate su acquisizioni e cessioni, fusioni e dismissioni, incorporazioni e scorporamenti. Su giochi di carte che non si fondano su piani di sviluppo tecnico-industriale a lungo termine, ma sul cash immediato per garantire le rendite dei nuovi azionisti. Le rendite di coloro che erodono le nostre eccellenze di Stato in cambio di un quantum discutibile o grazie a diluizioni progressive e inarrestabili delle quote pubbliche italiane a vantaggio di quelle private straniere.
Si fa finanza anziché industria. Nulla di male, per carità: è solo una scelta politica. Del resto, anche la ricerca, di cui l’Enel rappresentava un’avanguardia mondiale e che ha fatto dell’Enel di Stato un faro del settore energetico, è stata svuotata da anni. Scelte discutibili, sotto il profilo gestionale, sono state fatte anche su Telecom o Poste Italiane. Punti di vista, certo. Talvolta, però, una certa idea di futuro può dare alla testa, può far scivolare il piede dalla frizione.
«Per cambiare un’organizzazione […] innanzitutto ci vuole un gruppo sufficiente di persone convinte. […] Poi vanno individuati i gangli di controllo dell’organizzazione che si vuole cambiare, e bisogna distruggere fisicamente questi centri di potere. Per farlo, ci vogliono i cambiatori che vanno infilati lì dentro, dando a essi una visibilità sproporzionata rispetto al loro status aziendale e creando quindi malessere nel ganglio che si vuole distruggere. Appena questo malessere diventa sufficientemente manifesto, si colpiscono le persone che si oppongono al cambiamento. E questo va fatto nel modo più plateale e possibilmente manifesto possibile. In modo da ispirare paura o esempi positivi nel resto dell’organizzazione» affermava Starace davanti agli studenti della LUISS nell’aprile 2016. In perfetta sintonia con la teoria del “terrorizza e soggioga” (shock and awe), la ricetta storica con cui i neoliberisti d’oltreoceano hanno fatto danni urbi et orbi per cinquanta o sessant’anni. Le successive scuse di Starace (venute dopo che le proteste erano approdate in parlamento) possono aggiustare la forma ma non la sostanza delle cose, finché il retropensiero culturale resta all’interno dell’impianto neoliberista.
Sempre alla LUISS, Sergio Marchionne così arringava la folla studentesca: «Il capitalismo va rivisto, oltre un certo limite il profitto diventa cupidigia, serve una buona coscienza». Non male per un manager che guadagna 7 milioni di stipendio e 60 milioni di euro in stock option. Che ha la residenza fiscale in Svizzera, a Zugo, una piccola enclave che concentra decine e decine di elusori ed evasori individuali. Non male per un manager che ha giocato a poker con un’azienda non sua, la FIAT ora FCA, “sfilandola” all’Italia senza restituire le centinaia di miliardi di soldi italiani a fondo perduto che ne hanno permesso la sopravvivenza (e quindi anche il traghettamento nell’era Elkann-Marchionne).
Senza di noi, questo manager canadese non avrebbe trovato la FIAT. Se è arrivato dov’è, dovrebbe avere almeno l’educazione di ringraziare noi italiani. Senz’altro avrà detto grazie al governo Renzi, che gli ha spalancato le porte delle scorciatoie fiscali permettendogli di portare la sede legale di FCA in Olanda e quella fiscale nel Regno Unito. E a Fassino, che da sindaco di Torino si disse «orgoglioso» di questa internazionalizzazione di FIAT; orgoglioso perché la più storica tra le aziende italiane ci viene portata via da sotto il naso, dopo averla mantenuta così a lungo?
Nelle vesti di player nella globalizzazione FCA potrebbe giocare al gatto col topo: o fate le politiche che dico, o niente investimenti e chiudo quei pochi stabilimenti rimasti. E allora vai di Jobs Act (non a caso tanto applaudito da Marchionne) e decontribuzioni: così FCA, oltre a non pagare qui il grosso delle tasse, si fa pagare parte dei contributi dei lavoratori dallo Stato italiano, che si impoverisce e si indebita viepiù!
Come se non bastasse, questo brillante signore canadese con residenza in Svizzera, capo di una società anglo-olandese, viene indicato da Renzi come rappresentante dell’italianità agli incontri bilaterali Italia-Germania. Insieme all’italoamericano John Elkann, che oltre a FIAT si è portato via dall’Italia la cassaforte della famiglia Agnelli: la finanziaria Exor, anch’essa ormai anglo-olandese.
Sono centinaia di miliardi che escono dall’Italia senza colpo ferire, con un bel “prego, si accomodi” da parte dei nostri governi, che sono accomodanti con i potenti ma spietati con il primo cartolaio di quartiere che si dimentica di battere uno scontrino da 80 centesimi.
Caro lettore: tutte le tasse che questi signori di FCA e di Exor non pagano più in Italia, le dovrà pagare qualcun altro. Chi? Per paradosso, anche uno degli undici milioni di italiani in povertà relativa. O uno dei quasi cinque milioni in povertà assoluta. O magari chi è attualmente senza stipendio o ne ha uno troppo basso. O magari ancora un giovane disoccupato. È la finanza che lo consente. E lo consente a norma di legge! È la dinamica dei mercati globali, dei mercati liquidi.
Con le pensioni dei genitori e dei nonni che stanno finendo, la prossima generazione ha un futuro da quarto mondo. Qual è la logica secondo cui alcuni guadagnano troppo e altri lavorano gratis? Sulla base di quali benefici i giovani devono ringraziare perché almeno imparano un lavoro, come nel caso dei volontari sfruttati da Expo?
Lo abbiamo visto, da anni i ministri e i governanti fanno a gara a chi insolentisce di più i giovani italiani, vittime di politiche scolastiche, economiche e sociali che ne hanno pregiudicato il futuro. E così si va dai «bamboccioni» di Padoa-Schioppa, ex ministro del governo Prodi, alle sentenze di Poletti che chiosa: «I giovani italiani vanno all’estero? Alcuni meglio non averli tra i piedi». Lui, ministro del Lavoro, con un retroterra da capo delle cooperative; lui – anche lui – con un figlio ben sistemato nel ruolo di direttore di un giornale a cui arrivano i contributi pubblici. Passando dalla Fornero di montiana memoria, che esortò i trentenni a non fare gli schizzinosi se non hanno il posto fisso, quando sua figlia di posti fissi ne aveva due. Per forza, poi, chi può scappa all’estero. Ministri come questi sono responsabili della fuga dei nostri cervelli che accelera l’impoverimento materiale dell’Italia.
Nei suoi quasi tre anni di governo, Matteo Renzi è stato accusato di stendere troppi tappeti rossi alle multinazionali e di essere poco presente tra quei capannoni che hanno sempre rappresentato il modello industriale vincente italiano. Tanti sono stati gli endorsement reciproci tra Marchionne e Renzi sul Jobs Act, sulle riforme fiscali, sulla riforma costituzionale e in generale sull’azione di governo. Gli archivi fotografici sono pieni di sorrisi e di abbracci. Provocando qualche perplessità non solo in ordine al protocollo, ma anche rispetto all’opportunità politica della scelta, Renzi decise di organizzare un delicato incontro bilaterale Italia-Germania con Angela Merkel all’interno dello stabilimento della Ferrari a Maranello, per la gioia dei videomaker che potevano mettere il cavallino rampante – prestigiosissimo simbolo del made in Italy nel mondo (anche se magari, con Marchionne, vincente lo è un po’ meno che in passato…) – al centro delle loro telecamere.
Matteo Renzi, però, ha allargato le braccia per accogliere non solo il manager di FCA, ma anche altri manager di brand globali assai celebri: dalla Coca-Cola alla Philip Morris, da Apple a Google, da Facebook ad Amazon, dalle cui file aveva persino preso in prestito il numero due, Diego Piacentini, per metterlo a capo del progetto Agenda Digitale Italiana, suscitando non poche polemiche circa l’opportunità di quella nomina e i possibili conflitti di interesse.
Sono multinazionali che spostano le loro sedi in paradisi creati ad hoc, complice il servilismo globale di governi accomodanti sia italiani che europei. Paradisi che ormai abbondano. Non bisogna più andare fino alle Cayman, la scelta è dietro l’angolo: ci sono enclave a Londra, in Irlanda e nel Lussemburgo di quel signor Juncker che ci hanno pure rifilato alla presidenza della Commissione europea.
Alcune di queste aziende, come Apple, sono state colte in offside: il signor Tim Cook, che ne è il CEO, è stato beccato con quasi un miliardo di tasse non pagate in Italia. «L’avranno punito senz’altro» direte voi. Galera? No. Tassi di mora? No. Interessi a pioggia? No. Pignoramenti? No. Cause legali? No. Udite udite: con un megasconto sulle tasse dovute, il manager di Apple se l’è cavata con poco più di trecento milioni, pagando così un terzo di quello che deve a noi italiani. Noi stupidi che continuiamo a comprare i suoi prodotti mettendoci in fila il giorno dell’arrivo del nuovo modello. Noi stupidi che paghiamo senza saperlo i quasi seicento milioni di ammanco al posto suo. Noi stupidi che ci facciamo imbonire da presidenti del consiglio che fanno pubblicità (neanche troppo) occulta a questi marchi durante le dirette streaming con gli elettori. Noi stupidi vessati dal fisco, da Equitalia o da chi per essa. Noi stupidi liberi professionisti, artigiani e commercianti costretti a versare al fisco fino al 70% dei nostri introiti. Noi stupidi che anticipiamo di un anno il versamento dell’IVA su ricavi presunti e su incassi incerti, rischiando perdite sanguinose se gli affari andranno male. Noi stupidi che tiriamo la cinghia a Natale perché è proprio a fine anno che ci massacrano con l’IVA.
Ma torniamo alle banche. Alle banche di casa nostra e agli intrecci con il Palazzo. Nell’ambito di queste relazioni tra affari e politica, una pagina decisamente opaca ha riguardato il Monte dei Paschi di Siena.
Il 2 ottobre 2016, l’ex direttore del «Corriere della Sera» Ferruccio De Bortoli ha analizzato alcuni passaggi della crisi di Monte Paschi in un lungo e dettagliato articolo intitolato Un’opaca vicenda bancaria. Queste sono le sue parole esatte:
Sono giornate decisive per il futuro del sistema bancario italiano. Discussioni private molto accese, ed è un eufemismo. Dibattito pubblico pressoché assente. Dobbiamo tutti augurarci che il Monte Paschi risolva finalmente i suoi problemi di ricapitalizzazione e di sistemazione dei crediti in sofferenza, che le quattro good bank (Marche, Ferrara, Chieti, Etruria) trovino un compratore, che il fondo Atlante completi il salvataggio degli istituti veneti e non solo. Naturale che il governo sia impegnato al massimo nel promuovere una soluzione privata. Un intervento pubblico, per la normativa europea, penalizzerebbe azionisti e obbligazionisti subordinati e non. Il senso di responsabilità nazionale non ci impedisce, anzi ci impone, di avanzare qualche scomoda questione. Le modalità con cui è stato cambiato il vertice a Siena avrebbero scatenato, in altri tempi, forti polemiche. Cominciamo da una telefonata. È il 7 settembre. Il ministro dell’Economia Padoan, su incarico di Renzi, chiama il presidente Massimo Tononi, per dirgli «da ambasciatore» di licenziare l’amministratore delegato Fabrizio Viola. Il Tesoro ha solo il 4% della banca quotata in Borsa. Tononi non gradisce la procedura irrituale e qualche giorno dopo si dimetterà. Fa presenti le difficoltà di trovare – nelle condizioni particolari in cui versa la banca che pure oggi guadagna – un sostituto. Il ministro gli dice che il nome c’è già. È Marco Morelli, professionista molto apprezzato ma con un passato nell’istituto senese.
Gli organi societari, in questa circostanza, sono ridotti a soprammobili. Gli altri azionisti non contano nulla. L’incarico al cacciatore di teste, una finta. La forzatura è figlia di un accordo tra il governo e la banca americana J.P.Morgan del quale non sappiamo nulla. Renzi incontra a pranzo a palazzo Chigi il numero uno Jamie Dimon su sollecitazione di Claudio Costamagna, presente l’ex ministro Vittorio Grilli, oggi in J.P.Morgan. Una delle più grandi banche d’investimento mondiali promette di impegnarsi nell’aumento di capitale di Siena, nella concessione di un finanziamento ponte (bridge financing) finalizzato alla successiva cartolarizzazione dei crediti in sofferenza (non performing loans). Agli americani Viola non piace, preferiscono Morelli che ha lavorato con loro. La BCE non gradisce la sostituzione. L’amministratore delegato uscente, peraltro, aveva appreso della sua sostituzione da un sms scrittogli da Marco Carrai, non si sa a quale titolo interessato alla vicenda.
Il giorno stesso della pubblicazione dell’articolo, Carrai chiarirà che non fu lui a dare la notizia a Morelli: «Sono da anni amico di Viola, che è venuto anche al mio matrimonio e che mi ha sempre manifestato la sua vicinanza anche in momenti di mia personale difficoltà. Quando ho saputo della sua sostituzione gli ho inviato un sms per abbracciarlo come fanno gli amici autentici nei momenti di disagio. Come De Bortoli potrà facilmente ulteriormente verificare, il mio messaggio è partito quando i giornali avevano già ampiamente dato la notizia delle dimissioni del dottor Viola. […] Non ho avuto alcun ruolo nella decisione di sostituire Viola con Morelli».
Torniamo al j’accuse di De Bortoli sul «Corriere».
Può darsi che la proposta di J.P.Morgan, con Mediobanca in un ruolo minore, sia l’unica percorribile. Ma visto l’attivismo di Renzi e Padoan, se dovesse fallire coinvolgerebbe l’intero governo, complicando la soluzione B (capitale pubblico) che pure si sta studiando. Quali sono gli accordi allora? E qui la vicenda si complica. E si fa oscura. Al momento non risulterebbe firmato alcun contratto tra MPS e J.P.Morgan per il prestito e la cartolarizzazione. Particolare curioso. Solo un pre underwriting agreement, e solo per l’aumento di capitale: poco più di una stretta di mano. Il successo dell’aumento di capitale (cinque miliardi) comporterebbe per J.P.Morgan una commissione del 4,75% che sia Tononi sia Viola hanno giudicato elevata. Ma sono i crediti in sofferenza posti a garanzia, e la loro messa sul mercato attraverso cartolarizzazioni a sollevare non poche perplessità. In sintesi, l’operazione è questa. MPS cede 9 miliardi di sofferenze nette su 28 lorde. Svalutandole in bilancio, prima della cessione, si crea un ammanco di capitale che va coperto. A fronte della cessione di 9 miliardi di sofferenze, MPS dovrebbe ottenere 7,6 miliardi, di cui 1,6 da Atlante e 5 da J.P.Morgan come prestito ponte per diciotto mesi.
Il prestito guidato da J.P.Morgan però sarebbe concesso con la garanzia di tutti i non performing loans. Se qualcosa dovesse andare storto, la banca d’affari si prenderebbe tutti i 28 miliardi a un prezzo effettivo di 18 centesimi contro i 33 riconosciuti alla banca, di cui 27 pagati subito. Il margine di guadagno potenziale sarebbe elevatissimo. E Atlante, cui partecipano sessantanove istituzioni italiane, compresa la Cassa Depositi e Prestiti con i soldi del nostro risparmio postale, perderebbe tutto. Non solo. J.P.Morgan per fare una valutazione delle sofferenze ai fini del prestito, ha incaricato Italfondiario del gruppo americano Fortress mettendo in discussione la scelta fatta da Atlante che si è affidato a Fonspa. Qui si pone anche un duplice rischio. Il primo che Italfondiario fornisca una valutazione dei crediti in sofferenza inferiore a quella garantita ad Atlante, a tutto vantaggio delle banche creditrici, soprattutto J.P.Morgan. Il secondo che si formi una posizione dominante visto che Italfondiario non si limiterebbe, come Fonspa, alla valutazione dei crediti, ma è anche il principale operatore nella gestione e nella riscossione. Tutto ciò sarebbe in contrasto con il memorandum of understanding siglato da MPS con Quaestio, ovvero Atlante, e reso pubblico, che prevede «concorrenza e trasparenza» nella gestione di un mercato delle sofferenze che avrà dimensioni colossali.
Con l’indebolirsi delle grandi banche d’investimento europee (Deutsche Bank è il caso più clamoroso), le istituzioni americane hanno gioco facile. Muovono capitali ingenti, arruolano ex capi di governo e ministri. J.P.Morgan è istituzione seria. Ma un po’ più di trasparenza nei rapporti con il governo e nella ristrutturazione del capitale MPS appare opportuna, specie tenendo conto che la banca americana sarà impegnata anche nell’aumento di UniCredit. Tra i tanti dubbi che questo caso solleva, ci rimane da capire quali consigli darà J.P.Morgan alla sua clientela nello scegliere tra i titoli dei due istituti, MPS e UniCredit. E se poi, nello sbrogliare la matassa di Siena, non avrà alcun ruolo chi confezionò, in J.P.Morgan, ai tempi di Mussari e Vigni, il famoso, o meglio famigerato, strumento finanziario «Fresh» per l’acquisto da parte di MPS di Antonveneta. Uno strumento complicatissimo che permise alla Fondazione Monte Paschi di mantenere il controllo a Siena, però con soldi a debito. Operazione che ottenne l’avallo dello stesso Grilli, allora direttore generale del Tesoro con supervisione delle Fondazioni. I guai cominciarono lì. La memoria del paese è corta. Quella di risparmiatori, azionisti e lavoratori delle tante banche coinvolte un po’ meno. Rinfrescarla fa bene a tutti.
Era doveroso, secondo me, affidare a un prestigioso e preciso giornalista la ricostruzione di uno scenario che egli stesso ha definito «opaco». Certo, le miserie del dibattito politico oggi derubricano le questioni serie a faccende da gufi. Ahinoi, il sistema bancario necessiterebbe invece di chiarezza assoluta.
La vicenda J.P.Morgan in MPS è finita con un nulla di fatto perché il rilancio non fu raccolto da nessuno nonostante decine di incontri con investitori. Quello che però qui resta è che il pranzo di Renzi con Jamie Dimon ci fu, ed è ancora lecito domandarsi il senso di uno schieramento così palese in un momento di trattative. Caso ha voluto che certi ambienti finanziari non abbiano mai lesinato giudizi positivi rispetto all’azione di quell’esecutivo, arrivando ad abbracciare la riforma costituzionale e aggiungendo che una vittoria del NO avrebbe avuto ripercussioni sugli investimenti stranieri.
Voglio altresì ricordare che queste banche d’affari con ministri poi loro consulenti le abbiamo già incontrate nella parte in cui abbiamo parlato di contratti derivati.
Insomma, alla politica i manager della finanza piacciono eccome. E piacciono alle banche.
E proprio le banche e la finanza, gli immobiliaristi, le multinazionali e le grandi aziende italiane privatizzate sono sempre disponibili a finanziare non tanto i partiti, quanto le loro fondazioni (una via più discreta e più scaltra) e i think tank legati ai politici.
Il sito Openpolis ha censito sessantacinque fondazioni, un numero aumentato nettamente dopo l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Il 93,33% di queste fondazioni omette, con la scusa della privacy, di rendere accessibile l’elenco dei soci e dei donatori.
È ciò che pensa anche il presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone: «Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici. […] Sulle fondazioni c’è totale anarchia. Viene previsto solo il controllo formale e generico delle prefetture, che non hanno capacità di incidere sui bilanci: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’è trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi. […] Il problema è che i potenziali conflitti di interesse possono essere contrastati o attenuati solo attraverso meccanismi di trasparenza. Se l’imprenditore Tizio finanzia la fondazione del politico Caio e questo dato è noto, come avviene ad esempio negli USA, questo sterilizza il conflitto d’interessi perché quando si discuterà di provvedimenti che riguardano l’imprenditore Tizio, direttamente o indirettamente, tutti potranno rendersi conto dei legami».
Open è il nome della fondazione che riunisce gli intimi di Matteo Renzi. Nel consiglio direttivo, in carica fino al 2017, siedono l’amico Alberto Bianchi che ne è presidente (ora consigliere dell’Enel), il sottosegretario Luca Lotti, il braccio destro Marco Carrai e il ministro Maria Elena Boschi. Un’inchiesta pubblicata da «l’Espresso» documentava quanto segue: «Il patrimonio iniziale di 20.000 euro, stanziato dagli amici fondatori, si è moltiplicato di centoquaranta volte con i contributi successivi: in totale, 2.803.000 euro. Sul sito compaiono solo tre sostenitori sopra quota 100.000: il finanziere Davide Serra (175.000), il defunto imprenditore Guido Ghisolfi (125.000) e la British American Tobacco (100.000). Molto inferiori le somme versate da politici come Lotti (9.600), Boschi (8.800) o il nuovo manager della Rai, Antonio Campo Dell’Orto (solo 250). Tirando le somme, i finanziamenti conosciuti ammontano a 1.849.000 euro. La trasparenza però è solo apparente nel caso dei 45.000 euro versati da due società fiduciarie: schermi legali che coprono i veri interessati. E soprattutto restano misteriosi i donatori che si trincerano dietro il presunto diritto alla privacy. A conti fatti, si tratta di 934.514 euro: come dire che un terzo dei finanziatori di Renzi sono anonimi».
I contributi diretti o indiretti, dichiarati o anonimi, trasparenti o mascherati dietro fiduciarie o altre entità, alle fondazioni dei partiti arrivano sempre. Quando invece si tratta di tutelare o rimborsare i risparmiatori fregati… be’, vale il detto “s’attacchino al tram”.
«In fin dei conti non glielo ha imposto nessuno di accettare il rischio azionario» si sente dire da supponenti manager bancari a propria difesa. Così si fa passare la tesi che anche i correntisti contadini diventano (d’improvviso…) esperti di finanza speculativa perché hanno avuto la brillante idea di trasformare i propri risparmi in azioni e obbligazioni convertibili: guarda caso sempre quelle della banca dove hanno depositato i risparmi.
La verità è che molte banche sono fin troppo abili a piazzare i loro prodotti finanziari tossici a risparmiatori inermi. Firme false, firme estorte, profili di rischio accomodati, riaggiustati o perfino taroccati, raggiri palesi: insomma, la riffa della truffa è sotto gli occhi di tutti, negli atti presentati alle varie procure. Ma nessuno sapeva. Nessuno controllava.
Forse anche per questo certi elenchi di banchieri finanziatori delle fondazioni è meglio non farli vedere. Del resto, la legge lo consente.
Purtroppo, questa rete opaca di relazioni miste diventa poi la trama nascosta del racconto europeista, della redenzione europeista dalle miserie dell’Italietta, dell’europeismo intriso di finanza neoliberista che ci viene spacciato come la salvezza dai nostri peccati. Del fallace ritornello «ce lo chiede l’Europa» che ci viene ripetuto acriticamente da Maastricht (che proprio nel 2017 compie venticinque anni) fino a oggi.
Anche se adesso, finalmente, la gente ha capito che l’eurosogno è tutt’altro che irenico.