Giorno 5
Non sorprende che resti sveglio quasi tutta la notte. Tirati fuori gli artigli, la mia insonnia si rifiuta di farmi perdere coscienza per più di qualche minuto alla volta. Il sonno arriva a spizzichi e non dà comunque tregua ai pensieri che durante le ore piccole della notte mi si serrano intorno come un cappio.
Quando riesco a dormire, quei pensieri si trasformano semplicemente in percezioni più oscure e ondivaghe che al risveglio mi fanno sentire ancor più disorientato. Tutto quello che ricordo di quei frammenti di sogno sono facce che diventano nitide a intervalli e che non riconosco.
Alle cinque del mattino sono sudato e stanco morto e la città è immersa in un silenzio innaturale come se non volesse tenermi compagnia.
Alzarmi è un sollievo. Oggi troveremo Abdi Mahad, non ammetto alternative.
Alle sei parto per l’ufficio anche se Fraser mi vuole solo alle sette e mezzo. Riesamino le prove fino all’ora dell’appuntamento.
Fraser è di un umore perfido.
«Gli agenti che stanotte hanno sorvegliato la casa a Montpelier hanno visto andare e venire due somali e un britannico. Riteniamo che uno di loro sia Maxamud Abshir Garaar e un altro Robert Summers, il suo complice. Sono stati autorizzati rinforzi armati perché risulta che Summers possegga un’arma da fuoco. Dalle indagini limitate che abbiamo potuto svolgere sembra che il sospettato Maxamud Garaar abiti in quella casa almeno temporaneamente con Summers. A preoccuparci è la presenza nello stesso stabile di un appartamento occupato da una famiglia in cui potrebbero esserci dei bambini. Al momento non possediamo informazioni più precise perché non abbiamo potuto indagare a fondo durante la notte, il che significa che non abbiamo stabilito se Abdi Mahad sia stato in quella casa, ma non voglio perdere tempo. Voglio che ci entriamo noi adesso».
Per stamane ho convocato la guardia notturna, quando smonterà dal suo turno, con l’intento di chiarire bene che cosa è successo ai ragazzi, ma di quell’interrogatorio dovrà occuparsi qualcun altro. Questo è troppo importante. Contatto un sergente di cui mi fido e gli chiedo di prendere il mio posto.
Sono al parco macchine con gli altri uomini della squadra organizzata da Fraser, quando vedo un taxi fermarsi nel parcheggio e scaricare la famiglia di Abdi Mahad.
Impreco sottovoce. Non posso ignorarli. «Vai senza di me», dico a Woodley. «Io vi raggiungo appena posso».
Conduco la famiglia in una delle stanze per gli interrogatori e cerco di non far vedere troppo la mia impazienza. A fare da portavoce è Sofia Mahad.
«Abbiamo qualcosa da dirle», comincia. «È una cosa molto difficile».
Parla così sommessamente che devo tendere l’orecchio per udirla.
«Ascolto», dico.
«Pensiamo che mio fratello Abdi sia andato in cerca di un individuo molto pericoloso perché ha scoperto che quell’uomo è suo padre».
Sofia e suo padre mi guardano con attenzione. Maryam Mahad tiene gli occhi abbassati.
«Mia madre è stata violentata», dice Sofia. «Al campo profughi, quindici anni fa». Sta facendo uno sforzo enorme per mantenere un tono di voce costante.
«Mi spiace molto».
«Da un uomo molto cattivo. È l’uomo della foto, quello con il palato leporino. Crediamo che Abdi abbia scoperto che quest’uomo è suo padre e che sappia dove si trova. Pensiamo che sia andato lì nel tentativo di incontrarlo».
«Sapete come Abdi sia riuscito a scoprire dov’è quest’uomo?»
«Il signor Sadler, il padre di Noah, aveva detto ad Abdi di aver visto quest’uomo uscire da una casa dirimpetto al centro di arrampicate di St. Werburgh. Lo ha riconosciuto perché lo aveva già fotografato e aveva notato la cicatrice che aveva sul labbro».
«Lei come sa queste cose, Sofia?»
«Me le ha dette il padre di Noah. Gli ho parlato ieri sera. Era all’aeroporto».
«D’accordo».
Rifletto velocemente: Sofia e i suoi genitori sono giunti alla nostra stessa conclusione, cioè che Abdi è andato a caccia di Maxamud Garaar, solo che lo collocano in un altro posto. E quello indicato da loro è corroborato da un testimone oculare che ha dato la stessa informazione anche ad Abdi.
«Quest’uomo ha stuprato mia madre. La prego, ispettore, deve trovarlo prima che lo faccia Abdi. Farà del male a mio fratello».
Tre paia di occhi mi fissano speranzosi.
«Aspettate qui», dico loro.
Esco dalla stanza e chiamo Fraser.
«Ho una possibile ubicazione alternativa per l’indiziato», le dico. «È arrivata qui la famiglia Mahad nel momento in cui stavamo per metterci in moto. Portano informazioni valide».
«L’operazione è già in corso. Non la fermo ora. Vacci tu».
«Boss, la famiglia Mahad…».
«Ci sentiamo quando sei là, Jim, e vacci immediatamente. È un ordine».
«Posso almeno mandarci qualche agente?».
Sto parlando al vento, perché ha riattaccato. Quando metto giù il telefono mi sento scottare le guance di frustrazione e di una dose più che discreta di collera. Stono stufo di farmi tarpare le ali.
Vedo i Mahad attraverso la finestrella nella porta della stanza per gli interrogatori. Non so nemmeno immaginare che cosa dev’essergli costato venire qui oggi a raccontarmi la loro storia.
Torno dentro e mi costringo a sedermi per un po’ con loro anche se mi friggono i piedi.
«Le vostre informazioni sono estremamente utili e avete la mia parola che ce ne occuperemo questa mattina stessa».
«Lei ha un figlio, ispettore?», mi chiede Nur Mahad.
«No».
«Abdi è mio figlio. Le chiedo di trovarlo e proteggerlo».
«Capisco».
Mi afferra una mano tra le sue per un istante, come a suggellare un patto. È un gesto umano e disperato, dignitoso. So che cosa farò.
«Grazie», dice.
Mi alzo in piedi. Lotto per mantenere un atteggiamento professionale, ma ce la faccio solo a stento.
«Credo che sia meglio che torniate a casa. Prometto di contattarvi appena ho qualche notizia».
«Andrà a quella casa?», chiede Sofia. È astuta. Vuole la conferma che verranno presi provvedimenti concreti a seguito della loro informazione.
Li prenderò e lo farò immediatamente. Non ne avevo intenzione. Mi preparavo a farlo rispettando la volontà di Fraser. Così è stato fino al momento in cui Nur Mahad mi ha affidato la vita di suo figlio e mi ha preso le mani. Da uomo a uomo.
«Sì», dico. «Avete la mia parola. Ora vi prego di andare».
“Ci sono già cascato”, penso mentre esco. “Ho seguito il mio istinto e ho fatto da solo di testa mia e ricordo come è andata a finire”. Metto via quel pensiero. Lo farò anche questa volta, ma telefono a Fraser per avvertirla perché glielo devo. Non mi risponde, così chiamo invece Woodley e spiego a lui. Sento che pensa che sia una pessima idea dal modo in cui risucchia aria tra i denti, ma si trattiene. È il mio funerale, suppongo.
«Lì come va?», chiedo.
«Ci stiamo mettendo in posizione per avvicinarci da entrambi i lati. Io sono un paio di vie più in là con Fraser a guardare il video, ma in questo momento è fuori».
Allude alle telecamere sugli elmetti degli uomini della squadra.
«Io vado a St. Werburgh». Gli do il nome della via. «Devo controllare un’informazione che ci hanno dato i Mahad. Se Fraser chiede qualcosa, dille che arrivo al più presto».
Prima di partire chiedo a uno degli agenti in servizio di contattare Ed Sadler e farsi confermare quello che ci ha riferito Sofia.
Monto in bici e sono a St. Werburgh in venti minuti. Il centro cittadino è a non più di mezzo miglio, ma questa è una sonnacchiosa zona residenziale che ha conservato un po’ di dolce atmosfera campagnola, anche se sono più di cento anni che viene progressivamente assediata dall’estendersi della città.
Nella fila di casette davanti al centro di arrampicate tutto sembra tranquillo. Il centro si trova all’interno di una chiesa secolare la cui guglia domina la scena. I piccoli cottage vittoriani si affacciano praticamente sul marciapiede.
Busso alla porta del pub dirimpetto e ho un po’ di fortuna. C’è la proprietaria a lavare i pavimenti e mi lascia entrare. Da come guarda il mio distintivo non penso che sia una fan della polizia, ma mi concede di spiare dalle sue finestre. Ho un’angolazione favorevole.
Le chiedo se posso restare per un po’ e lei mi risponde con «Non le servo niente».
«Non è per quello che sono qui, signora», chiarisco.
Mi siedo e aspetto.
Abdi si sveglia tutto indolenzito. Ha gli abiti umidi e sporchi di fango. Dopo un momento di vuoto, ricorda perché si trova lì e che cosa ha in mente di fare.
Quando apre gli occhi del tutto si meraviglia di scoprire che c’è già luce. Esce dal suo nascondiglio nel cespuglio e orina dietro un albero. Ha sete e freddo, anche se il giorno promette di essere di quelli belli, con il cielo che perde il giallo dell’alba e vira verso un’intensa tonalità di cobalto.
Se il pub aprisse di buonora potrebbe forse sgattaiolare dentro per bere un sorso d’acqua e asciugarsi gli abiti con l’asciugatore ad aria nella toilette.
Poi si rimprovera dandosi dello stupido. È lì per fare una certa cosa e sa che è ora. Perché rimandare? A cosa serve ormai mettersi in ordine o fare la cosa giusta?
Scende dal pendio, questa volta con la dovuta cautela.
I piedi bagnati fanno rumore di sciacquio nelle scarpe da ginnastica.
Quando è in strada rischia di perdersi d’animo. La casa dove ha visto il suo vero genitore è a soli settantacinque metri, ma sa che quell’uomo è pericoloso. Alla fine è solo perché la luce del giorno gli rivela che la casa è dipinta di rosa, un rosa chiaro per niente minaccioso, che trova il coraggio di proseguire.
Mentre cammina, gli viene incontro trotterellando un cane, un piccolo terrier, e Abdi si fa da parte per lasciarlo passare, tenendo la testa bassa quando incrocia la sua padrona, di cui nota solo il quotidiano che tiene sotto il braccio e gli stivaletti di gomma luccicanti.
Si concede una rapida occhiata al pub sull’altro lato della strada. Vede la sagoma di un uomo a una finestra. Gli sembra che lo stia osservando. Abbassa di nuovo la testa.
Alla porta della casa, bussa forte tre volte. Per un attimo gli sembra di sentire un colpo nel pub alle sue spalle, ma lo ignora. È impegnato a cercare di respirare. La porta si apre.
«Mohammed Asad Muse?», chiede l’uomo che Abdi sospetta sia suo padre. Non pronuncia le parole molto bene. Gli scivola la lingua nel parlare e sulle prime è difficile capire cosa abbia detto, ma è chiaro che sta aspettando qualcun altro. Abdi resta interdetto, ma solo per un attimo. Decide di mentire, perché così è sicuro di poter entrare.
«Sì», risponde. «Sono io».
La porta si apre giusto il tanto necessario a farlo passare.
Se la tizia del pub non mi avesse parlato proprio in quel momento avrei guardato dalla finestra in tempo per vedere subito Abdi Mahad. Forse sarei riuscito a impedirgli di entrare in quella casa.
Riesco a scorgerlo solo per pochi istanti, ma lo riconosco dal video della telecamera di sorveglianza e statura e corporatura coincidono. Sono sicuro che sia lui.
Tiro una manata al vetro della finestra per attirare la sua attenzione, ma non mi sente e quando finalmente esco in strada ormai è entrato e non ho visto chi gli ha aperto.
Chiamo Fraser. «Ho appena visto Abdi Mahad e credo che sia con il nostro uomo. Ho bisogno di rinforzi».
«Hai visto anche il ricercato?»
«No».
«Allora non sospendo l’operazione in corso qui. Ormai manca poco».
«Non puoi mandarmi nessuno? Siete a poche centinaia di metri da me». Potrei chiamare rinforzi dalla centrale, ma una squadra addestrata e armata sarebbe preferibile e impiegherebbero di meno ad arrivare da dove si trova Fraser.
«Vedo cosa posso fare. Tieni d’occhio la casa. Se esce, prendi il ragazzo. Dove sei di preciso?».
Le do l’indirizzo.
Vado fino in fondo alla via per vedere se posso farmi un’idea di come siano messe le case sul retro, ma è impossibile guardare bene sull’altro lato senza perdere di vista le facciate. Attraverso la strada e vado ad aspettare nel vecchio cimitero che circonda il centro di arrampicate. Su di me incombe la guglia della chiesa. È alta, con quattro grandi finestre gotiche che salgono da terra fino in cima. Cerco di richiamare sul display del mio telefonino una mappa che mi dia un quadro generale della disposizione di quella zona, ma il segnale è troppo debole e non riesco a scaricarla.
Il centro di arrampicate è chiuso. Busso e ho un altro colpo di fortuna quando un addetto mattiniero mi fa entrare.
«Può mettersi qui?», gli chiedo. «Sorvegli la strada, non stacchi mai gli occhi e mi avverta subito se qualcuno esce da quella casa».
Gli spiego cos’altro desidero e mi indica una scala, una rampa stretta e ripida di gradini di pietra con la scritta “Accesso riservato al personale”. I gradini sono consumati e scivolosi e salgono dentro la guglia.
Mi fermo abbastanza in alto da dominare Mina Road attraverso una sezione di vetro trasparente in una delle finestre. Godo di una perfetta vista aerea della zona.
Abdi Mahad è entrato in un cottage dipinto di rosa. I bambù che crescono nella stretta striscia tra il bovindo e il muro di cinta sono alti abbastanza da coprire gran parte della finestra. A un certo punto gli infissi sono stati sostituiti con porte e finestre in PVC. Sono sporchi ma intatti, a differenza del tetto, dove qualche tegola è venuta via intorno al comignolo.
La costruzione è sul lato di un isolato con case a schiera simili, quasi tutte di mattoni rossi. I giardini sul retro sono racchiusi in un’unica recinzione. Riesco a individuare solo uno o due punti di uscita, anche se sarebbe possibile scappare da una qualunque delle abitazioni potendovi accedere.
Chiamo Woodley. «Come va?»
«Sono in posizione», mi riferisce, «e stanno per entrare. Fraser ha chiesto di mandarti dei rinforzi, ma non sarà una cosa veloce».
Guardo dalla finestra. Tutto sembra tranquillo. Solo che c’è un uomo che sta arrivando a piedi, diretto alla casa rosa. Sembra somalo.
«Stanno entrando adesso», mi informa Woodley.
Abdi entra nella casa e chiude la porta. L’uomo lo fa passare in una piccola stanza con due poltrone macchiate e un futon sul quale c’è un sacco a pelo.
L’uomo che pensa sia suo padre lo squadra, come se Abdi non fosse la persona che si aspettava. Gli porge una mano e si scambiano una stretta di circostanza prima che Abdi venga invitato ad accomodarsi su una delle poltrone. Il contatto fisico ha avuto qualcosa di elettrico. Guarda quell’uomo, vede la linea della cicatrice. A spaventarlo è la sensazione di minaccia che emana. È il modo in cui si muove e in cui lo guarda, parte disprezzo, parte sfida.
«Allora lo hai portato?», chiede ad Abdi in somalo.
All’inizio Abdi non riesce a rispondere. Tutto quello che aveva preparato mentalmente in previsione di quel momento si è sciolto nella sensazione di aver fatto un errore madornale.
In certa misura aveva sperato che quell’uomo sapesse chi era, che potessero vivere un momento di riconoscimento reciproco, ma adesso si rende conto di quanto è stato stupido. Abdi sapeva che quell’uomo era un violento, ma non aveva pensato che fosse una condizione quasi palpabile, né che avrebbe provato un così penetrante senso di pericolo in sua presenza.
Scatta in direzione del corridoio, ma l’uomo è lesto e sbatte la porta prima che Abdi abbia il tempo di uscire.
Lo spinge di nuovo sulla sua poltrona con la semplice pressione del palmo della mano sul petto. «Siedi», dice.
Abdi non ha scelta.
«Non sono la persona che pensa», gli dice Abdi in somalo. Lo dice in maniera precipitosa, come se fosse interrogato da un insegnante. Non sa cos’altro dire. Vuole solo andar via.
«Allora chi sei?».
Ogni parola che pronuncia è impastata. Abdi lo capisce a stento.
«Abdi Nur Mahad».
«Quanti anni hai, Abdi Nur Mahad?»
«Quindici».
«E perché sei qui?»
«Ho sbagliato casa».
Abdi sta sudando. Sa che si capisce perfettamente che sta mentendo.
«Riprova».
Abdi deglutisce. «Ho qualcosa a che fare con lei».
L’uomo ride. «Sono abbastanza impegnato per oggi, Abdi, ma sono curioso. Di che cosa si tratta?»
«Lei è mio padre».
Qualunque cosa Abdi aveva sperato che potesse accadere in quel momento di rivelazione, non è quel che accade. Aveva immaginato emozioni di ogni tipo, ma non la loro assenza totale.
L’uomo sospira come preparandosi a fare una cosa che non vorrebbe.
«Allora dovrei picchiarti», dice dopo qualche istante. «Perché non sai stare al tuo posto».
Si alza in piedi e Abdi si schiaccia contro lo schienale.
L’uomo lo afferra, lo solleva e lo scaraventa contro il muro.
Abdi grida e sente la mano dell’uomo che gli schiaccia la bocca spingendogli la testa all’indietro fino a fargli provare dolore. Con l’altra mano gli tasta le tasche. L’espressione sul suo volto è di disgusto.
«Se io sono tuo padre, allora la donna che ti ha partorito dev’essere una miserabile puttana».
La faccia dell’uomo è così vicina alla sua che Abdi vede i pori aperti del naso e le vene iniettate di sangue negli occhi.
«Vado via subito», cerca di dire strusciando le labbra sul palmo della sua mano.
Qualcuno bussa alla porta.
L’uomo pianta l’altra mano sul collo di Abdi e fa pressione. «Non un sospiro», ammonisce. «Non ti muovere».
Lo lascia andare e la schiena di Abdi scivola lungo il muro finché si inginocchia. Ansima.
L’uomo lascia la stanza e una chiave gira nella serratura.
Abdi sente aprirsi la porta d’ingresso.
«Chi è?», chiede.
«Mohammed Asad Muse».
«Entra».
Mentre ridiscendo veloce per i gradini della guglia della chiesa, Woodley resta in linea.
«Piano terra libero», annuncia. «È molto buio».
«Abdi Mahad è ancora dentro la casa», gli dico. «Credo di dover intervenire».
«Non farlo», mi ammonisce lui. «Non essere precipitoso».
«Credo che Abdi sia in pericolo. È appena entrato un altro individuo».
«Sii paziente. Stanno per arrivare i rinforzi».
«Non c’è tempo!».
«Stanno salendo al piano di sopra», riferisce Woodley descrivendomi quello che vede nel video dell’irruzione. «È un porcile. Rifiuti e rimasugli da tossici dappertutto. Scalini rotti».
«Io entro», dico.
«Non farlo, boss. Ricorda».
Non ha bisogno di aggiungere altro. So a cosa si riferisce. Ricordo un’alba nebbiosa in cui io e lui usciamo in campagna a interrogare un indiziato e io finisco a vomitare nel giardino di casa sua perché ho fatto una scelta che si rivela potenzialmente molto distruttiva ed è costata la vita a un bambino.
«Primo piano libero», annuncia Woodley. «C’è un altro piano. Oh, cazzo!».
«Che succede?», chiedo anche se nel rumore che mi giunge all’orecchio riconosco immediatamente il baccano di una sparatoria.
Sofia, Maryam e Nur sono stati lasciati nell’incertezza alla Kenneth Steele House.
L’ispettore Clemo li ha rassicurati e invitati a tornare a casa, per poi scomparire in tutta fretta, ma non ha spiegato di preciso quale sarebbe l’azione che intende intraprendere.
Nur e Maryam temono di essere stati imbrogliati.
Mentre escono arriva un uomo con la moglie e insieme si dirigono al banco nell’atrio. L’uomo fissa apertamente i Mahad, che però non lo guardano se non molto distrattamente. È in tuta con un paio di scarpe da corsa ai piedi, ma la moglie porta scarpe con i tacchi bassi che fanno un gran chiasso sul pavimento. Lui si tiene una mano sul fondo della schiena come se provasse dolore.
Mentre Nur sta già parcheggiando davanti a casa loro, Maryam dice: «Voglio tornare a St. Werburgh».
«Io credo che dobbiamo fidarci del poliziotto», dice Sofia. «Gli abbiamo detto dove pensiamo che sia Abdi».
Maryam e Nur si scambiano un’occhiata. Sanno di doversi fidare della polizia di qui, ma se Clemo non avesse preso seriamente le informazioni che gli hanno dato su Abdi?
«Abdi potrebbe fare qualcosa di avventato», dice Maryam. «Non sappiamo che cosa ha in mente di fare se trova…». Non se la sente di descrivere quell’uomo. «Non saprebbe rendersi conto del pericolo».
«Andiamo a dare un’occhiata e se vediamo che c’è la polizia, ce ne andiamo subito», propone Nur.
Durante il tragitto non parlano molto. Sono tutti e tre in preda alla paura.
Da quando è cominciata la sparatoria Woodley non è più in linea. Le ultime parole che ha detto sono state: «Devo richiamarti». Aspetto all’entrata del centro di arrampicate e decido di far passare ancora cinque minuti prima di entrare in azione. Non voglio lasciare Abdi Mahad in pericolo più a lungo di così.
In strada sono comparsi dei pedoni, uno o due scalatori che vengono per arrampicarsi in chiesa e una donna anziana che procede lentamente tirando un piccolo carrello per la spesa. Mi mettono in ansia. Ho bisogno di mantenere l’area sgombra, ma ci sono troppi accessi perché possa farcela da solo.
Mi faccio da parte per lasciar entrare gli arrampicatori. Meno male che oggi indosso gli abiti civili della domenica. Altrimenti spiccherei qua in mezzo come un pugno nell’occhio.
Ancora tre minuti di attesa. Nient’altro nella via.
Cerco di contattare Woodley, ma non risponde. La signora anziana ha percorso solo cinquanta metri.
Due minuti.
La porta della casa si apre. Esce l’uomo che ho visto entrare poco fa. Gli scatto una foto con il mio telefonino.
Ha una tasca gonfia come non ricordo d’aver visto prima. S’incammina per la strada, supera la signora anziana e scompare velocemente alla mia vista.
Ancora non registro movimenti nella casa.
Tento di nuovo con Woodley.
«È un vero casino», mi dice. «C’è stata una sparatoria ma nessuna traccia del bersaglio».
«Digli di correre qui!», insisto io. «Ho bisogno di qualcuno, chiunque. Dobbiamo mettere uomini in Mina Road al centro di arrampicate e in Lynmouth Road, St. Werburgh’s Road e Seddon Road, a sorvegliare tutte le uscite. Ho bisogno di uomini armati prima che sia troppo tardi!».
«Ti sento, boss. Riferisco».
Chiamo Fraser e ascolto la segreteria. Le lascio lo stesso messaggio. Chiamo il nostro centralino e ripeto il messaggio un’altra volta, che mi mandino qui chiunque abbiano a disposizione. Mi sforzo di non mettermi a gridare.
Da uno dei cottage della fila escono una madre e un bambino in tenuta da football.
Woodley mi manda un messaggio: “In arrivo rinforzi armati”.
Conferisco velocemente con uno degli addetti al centro di arrampicate prima di uscire e andare a bussare alla porta della casa all’angolo dell’isolato. Mostro le mie credenziali al primo inquilino e mi porto un dito alle labbra quando apre la bocca per rispondere.
«Ho bisogno che abbandoni la sua abitazione, si assicuri di chiudere bene porte e finestre e vada al centro di arrampicate, senza fiatare», gli dico. «Aspetti là fino a nuovo ordine. Non se ne vada». Uno dopo l’altro, faccio visita a tutti i residenti della fila di cottage che precedono quello del mio uomo e ripeto a tutti le mie istruzioni. È un processo lento. Devo evitare che escano tutti contemporaneamente allertando gli occupanti della casa rosa.
Devo passarci davanti per avvertire quelli che si trovano dall’altra parte, ma spero di poterlo fare senza essere notato grazie ai bambù che coprono la finestra. Indirizzo gli abitanti delle case successive al negozio all’altra estremità della via. Non voglio che nessuno di loro passi davanti alla casa rosa.
Finita questa manovra, mi resta il cruccio di non poter fare lo stesso sull’altro lato della strada senza perdere di vista la casa in questione.
Chiamo di nuovo Woodley.
«Siamo a un isolato da te, boss», mi informa. «Io e Fraser e due agenti armati».
«E gli altri dove cazzo sono?»
«Ancora sulla scena. Necessario intervento medico».
Questa non è una bella notizia, ma dobbiamo accontentarci di quel che abbiamo.
Abdi ascolta lo scambio di parole tra suo padre e l’uomo che è arrivato dopo di lui senza riuscire a sentire bene cosa si dicono, poi la porta d’ingresso si chiude di nuovo.
Ha male al collo e non si è mosso da dove gli è stato ordinato di restare.
Ha molta paura.
Sente la chiave girare nella serratura della porta della stanza in cui si trova e rientra suo padre.
Si siede in punta dell’altra poltrona e, nel tono di una conversazione casuale, dice: «Allora, Abdi, adesso ho bisogno di sapere come mi hai trovato».
Abdi racconta concitato la sua storia.
«Qualcuno sa che sei qui?».
Abdi cerca di valutare in tutta fretta quale sia la risposta migliore. D’acchito gli verrebbe da dire: “La mia famiglia”, ma sa che così potrebbe mettere i suoi cari in pericolo.
«La polizia», dice.
«La polizia. Sei un ragazzo sincero, Abdi?».
Abdi sorride. “Pensa al tuo grado di onestà in senso generale”, dice a se stesso, “non al fatto che hai appena detto una bugia, e può darsi che ti creda”.
«Sei stato molto stupido».
È così fulmineo che Abdi è colto di nuovo alla sprovvista. Suo padre lo issa in piedi, gli imprigiona la testa sotto il braccio e lo trascina in una squallida cucina sul retro dell’abitazione. Abdi riesce a vedere solo le luride piastrelle del pavimento.
Sente aprirsi un cassetto e scorge lo scintillio di una lama nella mano del padre.
«In ginocchio», gli ordina.
Abdi sta tremando. È una conseguenza della debolezza accumulata in giorni di fuga e dell’incredulità per la situazione in cui è venuto a trovarsi al cospetto di un uomo da cui la violenza scaturisce spontanea, come se fosse una seconda natura, ma è anche il sintomo di un’improvvisa esplosione di collera.
Quando il padre allenta leggermente la stretta per farlo inginocchiare, Abdi si scaglia contro le sue gambe catapultandolo all’indietro.
L’uomo cozza contro i mobili della cucina, ma ritrova immediatamente l’equilibrio.
Abdi ansima, fermo davanti a lui.
Suo padre è tra lui e la porta.
Gli sorride, come per riconoscergli di aver fatto una buona mossa, per quanto inutile. Estrae di tasca una piccola pistola e gliela punta addosso.
«Preferirei evitare il rumore di uno sparo», dice, «ma sembra che ce ne sia bisogno».
Abdi lo guarda dritto negli occhi a muso duro, vuole che sappia che non si è lasciato intimidire, che è un mostro di cui non ha paura. Abdi lo fa per sua madre e per Nur.
Nel momento in cui l’indice di suo padre comincia a premere sul grilletto della pistola, un’ombra passa davanti alla finestra sul retro.
Là fuori c’è qualcuno.
Suo padre pensa velocemente.
«Di là», dice. «Ora».
Si avvicinano di qualche passo alla porta d’ingresso. Suo padre gli cinge il collo da dietro e gli schiaccia la canna della pistola sulla tempia.
«Apri la porta», ordina.
«Il retro della casa è sotto controllo», è l’informazione che ricevo via radio pochi secondi prima che la porta della casa si apra.
Abbiamo spedito uno degli agenti armati dietro il cottage e abbiamo piazzato l’altro nella guglia, dove un piccolo pannello di vetro è stato tolto per permettergli di tenere sotto mira la porta d’ingresso.
Pochi secondi dopo emergono Abdi Mahad e l’uomo che si fa chiamare Maxamud Abshir Garaar. Garaar tiene una pistola puntata alla testa di Abdi.
Si fermano sulla soglia. «Voglio l’assicurazione di poter andar via liberamente da qui e in cambio lascio libero il ragazzo», grida Maxamud Garaar, farfugliando con un pesante accento straniero.
Si guarda intorno cercando dove siamo. Sa che lo teniamo d’occhio, ma non sa da dove. Trova l’auto di Fraser, messa in modo da bloccare parzialmente la via. Dietro il veicolo ci sono Fraser e Woodley. Non ne abbiamo abbastanza per barricare entrambe le estremità della strada.
Abdi ha la bocca contratta. La canna della pistola gli preme dolorosamente contro la tempia.
Nella guglia, siamo in contatto radio con Fraser e Woodley. Sono arrivati altri due agenti che si sono piazzati ai due lati del tratto di Mina Road in cui ci troviamo noi.
«Ce l’ho nel mirino», mi informa il poliziotto accanto a me. È immobile come un gatto che si appresta a spiccare il balzo, solo le sue braccia compiono certi impercettibili aggiustamenti dell’arma che tiene premuta contro la spalla.
«Camminerò adagio e voi mi lascerete andare. Altrimenti ammazzo il ragazzo!», grida Maxamud Garaar.
Si sposta lateralmente, come un granchio, tenendo testa e corpo schiacciati il più possibile su Abdi.
Si sta allontanando da noi, verso l’estremità più vicina della strada, in piena vista, nonostante da quella parte si sia posizionata Fraser. Ho il sospetto che conosca bene il quartiere e abbia già pensato a un modo per dileguarsi appena sarà arrivato in fondo alla strada.
«Libera il ragazzo e ti lasciamo andar via!», si fa sentire Fraser.
Garaar la ignora.
Dietro la macchina di Fraser, vedo sopraggiungere tre persone.
Contatto Woodley via radio. «Pedoni in arrivo, accertati che vengano fermati».
«Ci ho messo uno dei nostri», mi risponde. «Devono essere riusciti a superarlo».
Dalla guglia vedo Woodley che va loro incontro trotterellando con la testa abbassata.
Anche Garaar e Abdi si dirigono lentamente verso di loro. Il mio cecchino li tiene ancora sotto mira.
«Ce l’hai?», gli chiedo.
«Sì, se devo».
Woodley fa segno ai tre di acquattarsi e intanto gli arriva abbastanza vicino da parlargli. A me si strizza la bocca dello stomaco quando riconosco i genitori e la sorella di Abdi.
«Dovrò lasciarlo andare», annuncia il cecchino. «Tra pochi secondi sarà fuori tiro. Cambiamo posizione?»
«Oltre la nostra macchina è rischioso», rispondo. «Troppi civili. Credo che abbia intenzione di scartare di lato».
Lui chiama il suo collega per dirgli di abbandonare la sua posizione dietro la casa e spostarsi nella via laterale.
Garaar è a cinquanta metri dall’auto di Fraser quando vede arrivare due volanti dal fondo della strada. Sono i nostri rinforzi. Non avrebbero potuto scegliere un momento peggiore. Garaar si ferma per rivalutare la situazione.
In quell’attimo, uno del terzetto con Woodley si alza in piedi.
È Maryam Mahad.
«Merda!», esplodo.
Sento attraverso l’auricolare Fraser che urla qualcosa a Woodley.
Come in trance, Maryam Mahad s’incammina a testa alta verso il figlio e l’uomo che l’ha violentata.
All’inizio compie passi veloci, ma poi, quando Maxamud Garaar si accorge di lei, si mette a correre strillando. Sbraita in somalo e non so che cosa stia dicendo, ma sento un fiume di parole, tenute probabilmente in serbo per una vita intera.
È quanto basta.
Maxamud Garaar si distrae per una frazione di secondo, quasi che non riesca semplicemente a credere alla coincidenza di quello che sta vedendo e ascoltando, e in quell’attimo Abdi Mahad si sfila e io sento il rimbombo del fucile accanto a me. Il rinculo colpisce la spalla del mio collega.
Garaar stramazza sul marciapiede.
Abdi corre verso sua madre.
«Toglieteli dalla strada!», urlo al microfono. «Portateli via!».
Garaar è ferito a una spalla e ha perso la pistola che gli è caduta poco distante. Vedo che cerca di recuperarla.
«Tirateli via dalla strada!».
Fraser esce da dietro la nostra macchina e intercetta Abdi nel momento in cui Garaar fa fuoco.
I due cadono insieme dietro la volante e non li vedo più.
Mi sembra di sentire il rimbalzo della pallottola e dopo un attimo cade anche Maryam. Woodley esce allo scoperto e corre da lei.
Si china su Maryam e applica pressione sulla ferita che ha al braccio. Nur e Sofia sono stati trattenuti con un gruppo di curiosi all’imboccatura della strada e Fraser è partita all’inseguimento di Garaar, che è scomparso nella via laterale.
Non vedo più Abdi, ma spero che sia al sicuro a bordo della nostra macchina.
Il tiratore scelto accanto a me sta conferendo febbrilmente con il suo collega, gli ordina di intercettare Garaar.
Saliamo di corsa le scale fino a una finestra da cui vediamo meglio la traversa.
Scorgiamo Garaar che la sta percorrendo.
«Fin là non ci arrivo», mi dice il cecchino.
Garaar si regge il braccio sinistro premuto contro lo stomaco e ha una macchia di sangue sulla spalla della camicia. Stringe la pistola nella mano destra. Cammina sullo stretto marciapiede tra le automobili in sosta e i rampicanti che pendono dai muretti di fronte a ogni abitazione.
Sta per scomparire di nuovo alla nostra vista, quando improvvisamente si ferma e guarda verso il fondo della via.
Attraverso la radio sentiamo l’ordine che gli grida l’altro cecchino. Gli intima di gettare la pistola.
C’è un momento in cui il corpo di Garaar sembra rilassarsi, come se non sentisse più il dolore, come se si fosse reso conto che è finita, ma poi alza il braccio armato.
Sentiamo gridare di nuovo il cecchino che lo sta tenendo sotto mira, ma l’avvertimento non serve a impedire il movimento. Il cecchino fa fuoco e gli spappola un ginocchio. Noi siamo troppo lontani per sentirlo, ma lo vediamo torcersi su se stesso mentre crolla a terra e si capisce che sta urlando di collera e dolore.
La pistola cade a qualche metro da lui come prima, ma questa volta, per quanto si sforzi, non riesce a recuperarla. È ripiegato sul ginocchio ferito e il sangue che gli filtra dalla camicia e dai calzoni si riversa in una pozza nella strada. Vediamo il tiratore scelto apparire da dietro un’automobile e prendere la pistola che è scivolata sul marciapiede. Il suo collega scende dalla guglia per andare ad assisterlo.
Prima di seguirlo mi concedo un’ultima vista aerea della scena. Cerco di individuare Abdi Mahad, per poterlo allontanare da lì in tutta sicurezza.
Vedo Woodley che soccorre Maryam sul lato della via ed è in quel momento che Abdi si alza in piedi.
Non c’è traccia di Fraser. La cerco via radio.
Nessuna risposta.
Abdi è fermo in mezzo alla strada con le gambe che gli tremano come un giovane cervo impaurito. Si appoggia allo sportello dell’automobile e si guarda intorno come se fosse solo un osservatore, non un protagonista. Da dove si trova non può vedere sua madre e Woodley. Non sente la sorella anche se io la vedo muovere le labbra e formulare il suo nome dall’imboccatura della strada. È possibile che gli fischino ancora le orecchie per lo sparo, o forse è assordato dalla tempesta emotiva di tutto quello che gli è successo.
Scendo veloce le scale e corro fuori. Quando lo raggiungo, mi guarda a bocca aperta. Arrivo al suo fianco nel momento in cui sopraggiunge un altro poliziotto. Il ragazzo guarda entrambi come se vedesse avverarsi tutti i suoi incubi peggiori.
Lo agguanto prima che gli cedano le gambe.
«È tutto a posto, Abdi», gli dico vacillando sotto il suo peso. «Ti tengo».
L’altro poliziotto ci aiuta.
Abdi ha perso conoscenza, è un peso morto.
Controllo se ha del sangue addosso, ma non ne vedo.
«Questo è Abdi Nur Mahad», dico all’agente che mi sta aiutando. «È sulla lista dei minori scomparsi».
Rantolo come se avessi appena corso una maratona.