La notte prima

Dopo mezzanotte

Un nero nastro d’acqua attraversa la città di Bristol sotto il freddo cielo della mezzanotte. Sulla sua superficie galleggiano e si storcono i riflessi dell’illuminazione stradale.

Su un lato del canale c’è un deposito di rottami, dove luccicano di brina mucchi di pezzi di metallo accartocciati. Sul lato opposto c’è un capannone abbandonato in mattoni rossi. Non ha vetri alle finestre e i piccioni nidificano sui davanzali.

La superficie setosa dell’acqua del canale non lascia intuire che sotto scorre una corrente, più profonda di quanto si possa pensare, più veloce e potente.

Nel deposito di rottami si accende un faretto dell’impianto di sorveglianza e una rete metallica sferraglia. Da essa salta giù un ragazzo di quindici anni che atterra pesantemente accanto alla carcassa di un’automobile. Si rialza e si mette a correre, testa all’indietro, sbracciando e ansimando. Corre a zig-zag e inciampa una o due volte, ma non si ferma.

Dietro di lui la rete metallica sbatacchia rumorosamente una seconda volta e di nuovo si sente il tonfo di una caduta e i rintocchi di passi in corsa. È un altro ragazzo e corre più veloce, ha falcate forti e fluide, e lui non inciampa. Mentre la distanza fra i due si riduce, il primo arriva sulla sponda del canale, dove non c’è recinzione, e in quel momento capisce che non ha più altro posto dove andare.

Sostano sul ciglio dell’acqua, a pochi metri l’uno dall’altro. Noah Sadler si volta verso il suo inseguitore.

«Abdi», dice con il fiato corto. È una supplica.

Nessuno di coloro a cui stanno a cuore sanno che sono lì.

Quella stessa sera

Al termine della mia ultima seduta con la dottoressa Manelli, la psicoterapeuta della polizia, ci baciamo, impacciati.

Errore mio.

Credo che sia per la felicità che provo nell’aver messo una volta per tutte la parola fine ai colloqui che sono stato costretto a fare con la Manelli. Niente di personale. È solo che non mi va di discutere la mia vita con un estraneo.

Al momento di salutarci mi offre la stretta professionale di una mano elegante, dita lunghe, una singola fascetta d’argento intorno a un polsino nero, polso affusolato, ma io senza pensarci mi allungo per un bacino sulla guancia ed è lì che ci troviamo irrigiditi in una imbarazzante mezza presa da lotta libera.

«Scusi», dico. «Comunque. Grazie».

«Prego». Si gira e rassetta delle carte sulla scrivania con due punte di rossore che le scaldano gli zigomi. «Per il futuro, sa dove trovarmi se ha bisogno di me», dice. «La mia porta è sempre aperta».

«E il suo referto?»

«Raccomanderò il suo immediato ritorno al dipartimento di Investigazioni Criminali, come si è detto».

«Quando pensa di inoltrarlo?». Non voglio dare l’impressione di premere, ma non voglio neanche lungaggini inutili.

«Appena sarà uscito dal mio ufficio, ispettore Clemo».

Sorride, ma non sa resistere a un ultimo ammonimento: «La invito a non dimenticare che per riprendersi da un periodo di depressione può volerci molto tempo. Non si aspetti che ciò di cui ha sofferto, l’aggressività, l’insonnia, sparisca del tutto. Stia sempre in guardia. Se le pare che stiano per ripresentarsi, quello è il momento in cui voglio che si faccia vivo, non dopo, quando è troppo tardi».

Prima che pianti di nuovo un pugno nel muro al lavoro, è quello che intende.

Faccio segno che ho capito e do un’ultima occhiata al suo ufficio. È semplice e silenzioso, un luogo per conversazioni private e confidenze dolorose.

Sono passati sei mesi da quando la mia terapia ha avuto inizio. Lo scopo è di gettarmi un salvagente, salvarmi dall’affogare nel senso di colpa e nel rimorso che ho provato dopo il caso Ben Finch, insegnarmi ad accettare l’accaduto e superarlo.

Quando è scomparso in un caso di alto profilo con un’elevata posta in gioco, i cui particolari hanno occupato i media per settimane, Ben Finch aveva otto anni. Io mi sono angosciato per lui e mi sono sentito personalmente responsabile del suo destino, quando non avrei dovuto. Bisogna conservare un certo distacco professionale, altrimenti non si è più utili a nessuno.

Credo di aver finalmente accettato quanto è accaduto, più o meno. Ne ho comunque convinto la dottoressa Manelli.

Chiamo il mio capo al dipartimento delle Indagini Criminali mentre scendo lesto le scale con gli occhi fissi sul vetro sopra la porta d’ingresso. Lustro di luce diurna, rappresenta la mia libertà.

Fraser non risponde, così le lascio un messaggio per informarla che sono pronto a tornare al lavoro e le chiedo se posso cominciare domani. «Prendo qualsiasi caso», le dico. Parlo sul serio. Sono disposto a tutto, purché mi dia l’occasione di tornare in pista.

Mentre pedalo lungo la via alberata dove ha lo studio la dottoressa Manelli, penso a quanto sudore dovrò versare per riconquistarmi un posto sul lavoro dopo quel che è successo. Sono molte le persone su cui ho bisogno di fare una buona impressione.

Sull’onda dell’ottimismo che sto cavalcando in questo momento non mi sembra impossibile.

Sono così su di giri che mi accorgo persino dei fiori sbocciati in anticipo e provo un moto d’affetto per la bella ed effervescente città in cui vivo.

Le luci della galleria invadono la strada, rischiarano il marciapiede sporco.

Sulla vetrina sono state applicate grandi lettere bianche che annunciano pomposamente il tema della mostra:

EDWARD SADLER: VIAGGI CON I PROFUGHI

Sotto, in corsivo, c’è una descrizione dei lavori esposti:

Vite sbandate & luoghi smembrati: immagini dai margini dell’esistenza

La fotografia esposta in vetrina è gigantesca e illuminata.

Mostra un ragazzino. Viene verso la fotocamera sullo sfondo di un cielo di un blu intenso, un oceano azzurro picchiettato di ochette e un panorama di costruzioni bombardate. Può avere tredici, quattordici anni. Indossa short lunghi, infradito e una maglietta da football con le maniche tagliate. I suoi vestiti sono sporchi. Guarda oltre la fotocamera e l’espressione e l’atteggiamento sono di fatica, perché di traverso, sulle spalle, trasporta un pesce martello. La fotocamera inquadra la sua bocca insanguinata. Quella e uno squarcio rosso di sangue lungo il muscoloso ventre bianco dello squalo spiccano togliendo il fiato sullo sfondo di edifici diroccati: marchi di vita, morte e violenza.

“Andando al mercato del pesce, Mogadiscio, 2012”, dice la didascalia.

Non è l’immagine che ha reso famoso Ed Sadler, questa gli ha fruttato i suoi cinque minuti e più di celebrità, ma è circolata su un buon numero di prestigiosi organi di informazione.

La galleria è piena di gente. Tutti hanno in mano un bicchiere e molti sono riuniti intorno a un uomo. È salito su una sedia in fondo al locale. Indossa una camicia celeste con le pieghe di un indumento fresco di negozio, pantaloni sportivi beige, una cintura di cuoio un po’ spelacchiata, un paio di Oxford marrone meno che nuove. Ha capelli biondi color sabbia più scuri alla radice che sulle punte e più folti di quanto ci si aspetterebbe da un uomo sulla quarantina. È di bell’aspetto, spalle larghe e mascella ben marcata, anche se secondo sua moglie ha le orecchie un tantino troppo a sventola per una bellezza maschile perfetta.

Si asciuga la fronte abbronzata. È un po’ alticcio, di birra buona, del sorprendente successo della mostra e del fatto che quella sera rappresenta il culmine della sua carriera ma anche una devastante tragedia personale.

Sono passati solo cinque giorni da quando Ed Sadler e sua moglie Fiona si sono seduti con il figlio Noah davanti al suo oncologo e hanno ascoltato la peggior notizia possibile sulla prognosi del ragazzo. Traumatizzati, finora l’hanno tenuta per sé.

Qualcuno fa tintinnare un cucchiaio contro un bicchiere e la gente fa silenzio.

Con la testa e le spalle che spuntano al di sopra dei presenti, Ed Sadler si toglie di tasca un foglietto e inforca un paio di occhiali da lettura prima di toglierseli di nuovo.

«Non credo di aver bisogno di questo», dice appallottolando il foglietto. «So cosa voglio dire».

Si guarda intorno fermandosi sugli occhi di amici e colleghi.

«Le sere come questa sono molto speciali perché non mi capita spesso di riunire tante persone che per me sono molto importanti. È con orgoglio che vi mostro questi lavori. Sono il risultato di una vita dedicata alla professione e ci sono delle persone che devo ringraziare perché senza di loro queste foto non esisterebbero. Primo fra tutti è il mio buon amico Dan Winstanley, ma ormai dovrei dire professor Winstanley. Dove sei, Dan?».

Un uomo in camicia blu con il colletto abbottonato e con capelli troppo lunghi e disordinati alza una mano con un sorriso imbarazzato.

«Voglio ringraziarti innanzitutto per avermi lasciato copiare i tuoi compiti di matematica tutte le settimane quand’eravamo a scuola. Credo che sia passato abbastanza tempo per poterlo dichiarare senza paura di gravi conseguenze!». Queste parole suscitano una risata.

«Ma, molto più importante, voglio ringraziarti per avermi consentito di recarmi in molti diversi luoghi della Somalia e in particolare a Hartisheik, il campo profughi dove ho scattato le foto su cui ho costruito la mia carriera. È stato quest’uomo, Dan, a portarmici per la prima volta quando stava costruendo SomaliaLink. Se qualcuno fra voi non conosce SomaliaLink, è un peccato. Grazie alla straordinaria abnegazione e al talento di Dan, è oggi una premiata organizzazione che svolge un ruolo incredibile in progetti educativi di ricostruzione in tutta la Somalia, ma fu fondata quasi vent’anni fa con il più umile obiettivo di allacciare legami tra la nostra città e la comunità di profughi somali, molti dei quali sono arrivati qui a Bristol da Hartisheik e dagli altri campi di quell’area. Sono molto fiero di aver partecipato a questa iniziativa. Dan, tu sei stato il mio facilitatore per più anni di quanto sappia ricordare, ma sei stato anche il mio ispiratore. Non ho mai potuto contribuire molto quanto a idee, ma spero che queste immagini aiutino a diffondere il tuo operato nel mondo. Scattarle è spesso pericoloso e qualche volta spaventoso, ma credo che sia necessario».

Seguono uno scroscio di applausi e l’intrusione di uno dei suoi amici del rugby che gli strappa un sorriso.

«Faccio questo anche per un’altra ragione ed è ciò di cui voglio soprattutto parlare stasera…». La voce gli muore in gola, si riprende. «Scusate. Quel che sto cercando di dire è che non avrei mai potuto fare nulla senza la famiglia di cui vado così profondamente orgoglioso. Per Fi e Noah, non è sempre stato facile, usando un eufemismo, ma grazie, senza di voi io non sarei niente. Tutto questo lo faccio per voi e vi voglio bene».

Di fianco a lui l’espressione di Fiona vacilla leggermente nonostante lo sforzo che sta facendo per tenersi su.

Ed cerca il figlio con lo sguardo. È facile trovarlo perché con lui c’è il suo amico Abdi, una delle sole quattro facce nere presenti nel locale, tolte quelle delle foto.

Ed alza la sua bottiglia di birra in onore del figlio e nota contento la vampata di piacere che accende le guance del ragazzo. Noah gli risponde alzando il suo bicchiere di Coca.

«Oooooh», esclama metà delle persone presenti, prima che qualcuno gridi: «Fiona e Noah!», e tutti levino il proprio bicchiere.

L’applauso che segue è forte e diventa potente, colorito da un paio di fischi sonori.

Ed fa segno alla band di cominciare a suonare.

Scende dalla sedia e bacia la moglie. Ora hanno entrambi le lacrime agli occhi.

Intorno a loro cresce il fragore della festa.

Mentre Abdi Mahad è al vernissage con l’amico Noah, il resto della sua famiglia trascorre la serata a casa.

Sua madre Maryam sta guardando un talent show somalo sulla Universal TV. Giudica le esibizioni rumorose e sciocche, ma sono anche abbastanza coinvolgenti da trattenere la sua attenzione, soprattutto per quanto sono orrende.

Quel programma è il suo vizio inconfessato. Ride di una donna che canta malissimo e osserva perplessa due uomini che si esibiscono in un numero acrobatico da far drizzare i capelli.

Nur, il padre di Abdi, dorme sul divano di fianco alla moglie, testa all’indietro e bocca aperta. Maryam gli lancia occhiate. Nota che di recente si è ingrigito un po’ di più sulle tempie e ammira il suo profilo. Non ha però il suo solito aspetto signorile, perché russa abbastanza forte da gareggiare con gli striduli presentatori in tv. Un turno di nove ore in taxi seguito da una riunione dei membri di un’associazione della comunità locale e un pasto pesante con gli amici lo hanno messo fuori combattimento peggio di una randellata.

Mentre i presentatori elogiano un numero rap che Maryam giudica al massimo mediocre, Nur russa così rumorosamente da svegliarsi. Maryam ride.

«Ora di andare a letto, vecchietto?».

«Da quanto tempo sto dormendo?»

«Non molto».

«Abdi si è fatto vivo?»

«No».

Il fatto che Abdi andasse alla mostra fotografica li aveva preoccupati. Sanno che il tema sono i viaggi dei profughi e sanno che alcune delle immagini che hanno reso famoso Edward Sadler sono state scattate nel campo profughi in cui hanno vissuto anche loro. Sono cose che li mettono a disagio.

Abdi non è mai stato in un campo profughi. Nur e Maryam hanno rischiato la vita per migrare nel Regno Unito e assicurarsi che non dovesse mai sperimentare un’esistenza vagamente simile a quella vissuta da loro quando tutto quello che avevano conosciuto era catastroficamente e violentemente degenerato in una guerra civile. Entrambi erano stati strappati ad ambienti dignitosi e acculturati, dove in certe sere dal giradischi usciva la voce di James Brown e c’erano i romanzi di Ernest Hemingway tra i libri italiani nello scaffale della libreria, le figlie non conoscevano la lama del coltello e ai giovani non si insegnava a perpetrare le conflittuali politiche dei clan, i cui effetti sarebbero presto diventati letali.

Nur e Maryam avevano cercato in ogni modo di dissuadere Abdi dall’andare alla mostra, ma il ragazzo non aveva voluto saperne.

«Non potete pensare di tenermi sotto una campana di vetro», ha detto ed è stato difficile obiettare. Ha quindici anni, è sicuro di sé, è intelligente, sa esprimersi con proprietà. Sanno di non poterlo proteggere per sempre.

Alla fine hanno deciso che se la sua voglia di sapere le circostanze in cui è avvenuto il loro viaggio di profughi si limiterà alla visita a una mostra fotografica, allora forse se la caveranno a buon mercato, così lo hanno lasciato andare e gli hanno augurato di divertirsi.

Maryam spegne la TV e lo schermo si oscura e rivela qualche impronta digitale. Schiocca la lingua e pensa che le pulirà l’indomani mattina.

«Sei preoccupato?», chiede a Nur.

«No. Non mi aspettavo comunque che ci mandasse un messaggio. Andiamo a dormire».

Mentre loro compiono le rituali manovre di trasformazione del divano in letto, Sofia Mahad, la sorella di Abdi, è al suo tavolino nella camera accanto.

Ha appena ricevuto una e-mail dalla sua ex preside che le propone di tenere una conferenza agli studenti dell’ultimo corso in occasione del giorno dedicato alla carriera nella sua vecchia scuola.

Sofia ha vent’anni e frequenta il secondo anno di un corso di ostetricia. Non ha mai parlato in pubblico. È timida, perciò lo ha evitato come la peste. È lusingata dall’invito, però, e specialmente dalla frase in cui è descritta come “una delle nostre studentesse simbolo”.

«Volete sapere una cosa?», grida ai genitori. «Mi hanno chiesto di fare un discorso!».

Si toglie un auricolare per poter sentire la loro risposta, che però non arriva. Evidentemente non l’hanno sentita. Glielo dirà di persona dopo, pensa, quando potrà vedere i loro sorrisi orgogliosi.

Rilegge l’e-mail. “Una cosa che potrebbe veramente interessare ai nostri studenti”, scrive la preside, “è che cosa ti ha ispirata a diventare ostetrica”.

Sofia fa quello che fa di solito quando riflette su qualcosa. Si alza e guarda dalla finestra. Fuori vede un giardinetto vuoto e tranquillo e il grande caseggiato che si trova dall’altra parte. Le finestre prive di tende le rivelano le vite di altre persone, illuminate da tutte le gradazioni di neon, da quello a luce calda a quello tremolante, alcune con lo sfarfallio di una TV.

Sa perfettamente che cosa l’ha ispirata: è stata la nascita di Abdi. Il suo problema è che non è sicura di poterne scrivere, perché nessuno nella sua famiglia ha mai parlato apertamente di quello che è successo quella notte. Sua madre racconta una versione molto concisa della storia della nascita di Abdi: «Abdi è nato sotto le stelle».

Sofia sa che la storia non è tutta lì, perché ricorda benissimo quella notte. Come tutti i suoi ricordi dell’Africa, è scolpito nella sua memoria. Certe volte pensa a quella parte della sua vita, la parte prima dell’Inghilterra, come a una specie di iperrealtà.

Abdi era nato nel deserto e Sofia sa richiamare alla mente quelle stelle. Vagavano nel cielo in grandi ammassi nebulosi. Facevano pensare a cellule che si moltiplicano sotto le lenti di un microscopio. Appena il camion si è fermato e i fari si sono spenti, li hanno illuminati con il loro bianco brillio.

Gli uomini non hanno lasciato scendere Maryam dal camion finché non era stata ormai molto vicina al parto. Aveva cominciato ad avere le doglie ore prima, stipata nel cassone con gli altri, e aveva continuato nel vuoto sahariano. Non c’erano altre donne ad aiutarla, così era stata Sofia a inginocchiarsi per prendere in grembo la testa di sua madre, erano state le sue dita a sentire il sudore sulle guance di Maryam e la tensione delle sue mascelle. In ginocchio vicino a loro Nur aveva messo al mondo il maschietto con le mani tremanti.

Sofia ricorda il dolore dei sassi conficcati negli stinchi, nelle ginocchia e nel dorso dei piedi. Ricorda il modo in cui la luce delle stelle e dello spicchio di luna facessero tremolare le superfici mutevoli delle dune. Pensava che il loro fulgore avesse risucchiato in cielo le urla di Maryam e attirato il bambino fuori del suo corpo.

I trafficanti avevano parlato con durezza a Maryam dicendole di sbrigarsi e di non farsi sentire. Avevano tutti una silhouette con una terza gamba, quella della lunga canna di un fucile. L’avevano incalzata con l’impazienza dovuta alla violenza e alla smania di fare in fretta e trarre il massimo profitto dal loro carico umano.

Sofia ricorda come aveva scintillato nella luce delle torce la lama del coltello quando gli uomini avevano tranciato il cordone ombelicale di Abdi. «Presto! Monta sul camion!», avevano detto gli uomini e nei loro occhi c’era la minaccia di abbandonare Maryam nel deserto se non avesse ubbidito. Pochi minuti dopo lei aveva diligentemente espulso la placenta sul terreno disseccato, bagnata e sanguinolenta, e il vento l’aveva tempestata di granelli di sabbia.

Di nuovo sul camion, le facce degli altri passeggeri erano coperte contro sabbia e vento. Maryam aveva perso i sensi: un corpo pesante, fradicio di sudore, che stringeva tra le gambe una sostanza scura di sangue. Nur la sosteneva e il suo respiro sussultava agli sforzi striduli del motore. Sofia teneva tra le braccia il fratellino. Lo teneva al caldo. Abbassava la faccia per scrutarlo. Nella luce delle stelle aveva esaminato i suoi occhi chiusi, il suo corpicino morbido e umido e i suoi capelli sottili e aveva sentito di amarlo.

Mentre il camion ballava e slittava sulla pista attraverso il deserto, quel pensiero le aveva infuso una sensazione di calore, anche se era molto impaurita.

Sofia respira all’improvviso, è quasi un rantolo che la distoglie dal ricordo. Scrive una e-mail alla preside ringraziandola per l’invito e dicendole che desidera pensarci su.

Fatto quello, scivola nuovamente nel ricordo di Abdi e pensa possa essere strano nascere tra un posto e un altro, come è capitato a lui, sotto lo sguardo di trafficanti e criminali. Di dove sei, in realtà? In che modo può influenzarti, giù, nel profondo del tuo spirito? Sai che sono state le minacce a strapparti al corpo sudato e atterrito di tua madre?

Non si dilunga più di tanto su queste considerazioni, però, perché viene presto richiamata dal brusio del suo traffico nei social network e da tutte le distrazioni del presente.

Sofia non pensa più ad Abdi quella sera. Nemmeno i suoi genitori, a parte una breve discussione quando sono sotto il piumone e si intrattengono in un assonnato dibattito sull’opportunità che Abdi rinunci al suo circolo degli scacchi per dedicare più tempo agli esami che deve sostenere quell’estate. Sperano tanto che ottenga i risultati di cui ha bisogno per fare richiesta di iscrizione a un’università di rango.

Tutto è immerso nel silenzio durante la notte. È nelle fredde prime ore del mattino che il campanello di casa loro comincia a suonare a ripetizione, a lungo e forte, prima di spirare come un sospiro in punto di morte all’esaurirsi della batteria. Nur si alza per rispondere. È sveglio giusto quel tanto da permettergli di reggersi in piedi.

«Sì?», dice. Vede il proprio alito.

In risposta sente una parola che ha imparato a temere fin da piccolo: «Polizia».