Giorno 3
Alle sette di mattina il citofono dell’appartamento dove abita Abdi Mahad suona a lungo e insistente prima di spegnersi, come è già successo la prima volta che la polizia è stata da loro.
Nur è già via, a girare per le vie di Easton e oltre, in cerca di Abdi. Rallenta davanti a ogni androne buio. Lascia la macchina per perlustrare a piedi i luoghi abbandonati sotto i pilastri di cemento che sorreggono tratti dell’autostrada e si ferma a scrutare negli angoli più umidi e tenebrosi sotto le arcate della ferrovia. I turni di notte, l’apprensione per Abdi e il rimorso per essere stato così imprudente con il giornale cospirano nel fargli girare la testa per la stanchezza.
I Mahad hanno deciso di tentare di rintracciare Abdi da soli prima di informare la polizia che è scomparso. Hanno paura che così facendo lo faccia sembrare colpevole di qualcosa.
Sofia ha contattato tutte le persone che le sono venute in mente, a cui chiedere se avevano visto suo fratello, ma nessuno le ha ancora risposto. È troppo presto.
Va Sofia a rispondere al citofono, ma non prima d’aver scambiato sguardi impauriti con sua madre.
«Sono l’ispettore Jim Clemo con il detective Woodley. Possiamo salire a parlare con voi?».
Lei apre il portone.
Questa volta Clemo ha portato con sé un’interprete, una somala che si presenta come Ifrah Adan Faruur e dice di tradurre soprattutto per gli interventi dell’assistenza sociale. Ha l’aria di essere stata trascinata giù dal letto in fretta e furia, come in effetti è stato.
Sofia manda un messaggio a suo padre per avvertirlo che deve tornare a casa perché c’è la polizia.
Maryam non offre ospitalità. Osserva con diffidenza Ifrah anche se lei le sorride. Ricorda i vicini che hanno denunciato suo padre quando lei era ancora bambina. Sa che gli altri somali possono essere insieme amici e nemici, anche così lontano dalla loro patria.
Si siedono. Sofia tiene gli occhi su Clemo aspettando che parli. Nota tutto di lui, gli occhi nocciola che sono buoni ma anche calcolatori, le fosse scure che ci sono sotto, il modo in cui stamattina sembra che abbia la bocca impastata. Quando si schiarisce la gola, fa un rumore che le provoca un brivido.
«Suo padre è qui?», le chiede Clemo.
«No».
L’interprete ripete tutto in somalo per Maryam.
«Sa quando torna?»
«Presto».
«Abdi non vi ha ancora parlato di quello è successo?».
Sofia scuote la testa e cerca di controllare il respiro. Sa che dovrebbe dire subito a Clemo che Abdi è andato via, ma ha il terrore che si arrabbi perché nessuno ha telefonato alla polizia appena lo hanno scoperto.
Maryam non ha spiccicato una parola.
Clemo si sporge verso Sofia. È molto più teso dell’ultima volta che è stato lì.
«Sono desolato di dovervi comunicare che Noah Sadler è morto poche ore fa in ospedale».
L’interprete ripete le sue parole in somalo.
Per Sofia e Maryam è un trauma. Sofia sussulta in un conato e corre in bagno. Non ha la nausea, ma le si è rivoltato lo stomaco e le gira la testa. Per qualche minuto si appoggia con la schiena alla parete e cerca di respirare normalmente.
Quando torna di là, va a sedersi accanto a sua madre e le loro dita si intrecciano come un incastro a coda di rondine. Sofia piange sommessamente, ma Maryam mantiene il controllo. Le sue emozioni bruciano come quelle di Sofia, ma ha imparato da molto tempo a tenerle sotto chiave, ben compattate dentro di sé.
L’interprete porge loro una mano in segno di solidarietà, ma la ritira quando nessuna delle due reagisce.
«Mi rendo conto che è una notizia davvero tragica per Abdi e per voi, specialmente perché cambia la natura della nostra indagine».
Clemo guarda bene Sofia e Maryam mentre l’interprete traduce. Nessuna delle due risponde. Clemo si gira verso l’interprete. La somala alza le spalle.
«Avrei un’altra domanda per voi, se posso». Non aspetta che lo autorizzino a porgliela. «Abbiamo trovato la registrazione sull’iPad che ho ricevuto da voi, ma era stata cancellata, così ci è voluto un po’ più di tempo per recuperarla. Voi sapete com’è successo?»
«Io non l’ho cancellata», dichiara Sofia. Quando l’interprete traduce, Maryam scuote la testa come se la notizia l’abbia confusa.
«Forse è stata cancellata per sbaglio», suggerisce Sofia.
Lancia uno sguardo alla madre chiedendosi se possa essere stata lei.
Clemo prende un appunto e prosegue.
«Adesso è diventato molto importante che io parli con Abdi. Però forse preferite essere voi a dargli la notizia della morte di Noah».
Sofia apre la bocca. Come dirglielo? Arranca in silenzio in cerca delle parole e del coraggio di pronunciarle, con gli occhi fissi su Clemo, quando torna a casa Nur.
Alle labbra di Maryam sfugge un gridolino, perché fino a quel momento aveva conservato la speranza che Nur riapparisse con Abdi, e allora finalmente dice qualcosa.
«Vogliono parlare con Abdi», annuncia al marito in somalo. «Noah è morto».
L’interprete ripete in inglese per Clemo.
«Abdi è andato via», dice Sofia nel silenzio che segue.
L’atmosfera nella stanza cambia all’istante.
Clemo li tempesta di domande con le mascelle contratte per trattenere a fatica la collera perché non hanno avvertito la polizia appena hanno scoperto che Abdi non era più in casa. Il detective che lo affianca trascrive tutto quello che dicono.
Quando i poliziotti se ne andranno, la famiglia non si illuderà minimamente di poter tacere eventuali informazioni su Abdi e/o su dove possa trovarsi, a costo di gravi conseguenze.
«Cercherò di essere il più chiaro possibile», dice loro Clemo. «Da adesso vostro figlio è una persona di interesse in quella che potrebbe diventare un’indagine su un omicidio».
Mentre l’ispettore si mette il cappotto, Nur si fa sentire. Non si è lasciato intimorire. Ha una famiglia da proteggere. «Abdi è innocente. Che cosa intendete fare per trovarlo e riportarcelo a casa sano e salvo?».
Clemo si ferma.
“Sii buono con mio padre”, pensa Sofia. “È un brav’uomo”.
«Faremo tutto il possibile, signore. Naturalmente».
Con la faccia bianca come la mia, Woodley allunga il passo per starmi dietro andando alla macchina e non fa una piega quando impreco.
«Devo chiamare Fraser», dico.
Tiro una manata al tetto dell’auto. Rimpiango già di non aver messo subito sotto pressione Abdi Mahad per costringerlo a parlare e sono sicuro che lo rimpiangerò ancora di più dopo aver sentito lei.
Dall’espressione capisco che Woodley condivide i miei sentimenti. La sua è la faccia che si farebbe se si venisse invitati a fare le coccole a un serpente velenoso.
Quando telefono, Fraser reagisce dapprima restando in silenzio, che è anche peggio di un’aggressione verbale. Poi mi dà istruzioni in toni asciutti e concisi.
«Vai subito dalla teste come avevamo programmato e assicurati che le passi la voglia di parlare alla stampa. Io sentirò Janie. Vedo se mi è possibile evitare che venga divulgata la notizia della morte di Noah Sadler. Potrebbe spingere Abdi Mahad ancora di più a non tornare a casa, perché presumo che quando è scappato ancora non ne sapesse niente. Se non stiamo attenti, ho paura che potremmo perderlo. Dopo che avrai strapazzato la teste e io avrò messo in moto quello che posso per cercare di trovare questo ragazzo, metteremo a punto un piano su come procedere da qui in avanti».
«Boss…». Vorrei che ne discutessimo ora, perché ho qualche idea su come dovremmo muoverci, ma lei fa orecchie da mercante. Sono disarmato.
«Non ora, Jim. Chiamami dopo che avrai parlato con la teste. In ogni caso questa situazione nuova non è molto rosea per Abdi Mahad, lasciatelo dire».
Diretti al Clifton Village, attraversiamo velocemente la città grazie a una sfilza di semafori verdi. Passando davanti al Children’s Hospital mi si stringe il cuore al pensiero del corpo di Noah Sadler: inerte, staccato dalle macchine.
Troviamo facilmente il negozio della nostra testimone. C’è il suo nome, Janet Pritchard, che occupa per intero l’insegna lillà in una complicata scrittura impreziosita da riccioli e grazie. Come avevo sospettato, il negozio è uno di una fila di boutique su una strada nel cuore del quartiere, dove le vetrine risplendono e la clientela è quasi tutta alquanto danarosa.
Dentro troviamo una commessa annoiata seduta alla cassa. Quando le chiediamo dove possiamo trovare la proprietaria, ci offre risposte sotto forma di domande.
«Janet è all’Albion?», dice. «Per una riunione?».
Io so dov’è l’Albion. Pochi passi ci portano in una via pedonale piena di caffè con i tavolini all’aperto, dove c’è una bancarella di frutta e verdura. Esattamente di fronte a un arco carrabile georgiano, da cui si gode di uno scorcio di una piazza con un elegante giardino, c’è un cortile pavimentato a ciottoli dove si trova il pub.
Janet Pritchard è lì a bere un caffè con un uomo che indossa una camicia di un bianco abbagliante sotto un blazer e un paio di jeans con una fibbia di metallo ornamentale. Quando arriviamo noi, si alza in piedi. Nel locale ci sono praticamente solo loro, a parte un inserviente che sta accendendo una stufa a legna. L’aria è pervasa da un tanfo di birra.
«Che sorpresa», dice Janet. «Non vi capita mai di telefonare prima?».
Non mi piace il tono della sua voce. C’è un atteggiamento molto diverso da quel desiderio di venirci incontro che ha manifestato due giorni fa al deposito di rottami. Faccio un sorriso forzato.
«Abbiamo bisogno di due rapide parole con lei, se possibile».
«Questo è il mio socio», dice Janet. «Ian».
«Piacere». La sua stretta di mano è vigorosa e da sotto il polsino immacolato spunta un tatuaggio.
«Da soli sarebbe preferibile», aggiungo.
Il suo socio coglie l’imbeccata. «Vi lascio fare. Ci vediamo dopo, cara». Glielo dice con una strizzatina d’occhio. Non solo socio in affari, dunque. Chissà se è l’uomo che ha cercato di telefonare mentre stavo interrogando Janet in quel prefabbricato.
Mentre io e Woodley ci accomodiamo, Janet mette via delle scartoffie.
«In cosa posso aiutarvi?», domanda.
«In che momento ha pensato che fosse appropriato parlare alla stampa del delicato episodio che ha visto coinvolti due adolescenti le cui famiglie sono in uno stato di profonda angoscia?», le chiedo.
Woodley risucchia aria tra i denti. “Piano”, so che sta pensando, “abbiamo bisogno di blindarla”.
Janet Pritchard sostiene il mio sguardo.
«La verità», risponde, «è che non sapevo di parlare alla stampa. Quella donna è venuta nel mio negozio. Da principio pensavo che fosse una cliente, ma poi ha detto di appartenere a un’associazione di sostegno a testimoni e vittime di crimini. Siamo uscite a bere un tè».
«E lei le ha creduto?»
«Come facevo a sapere che non era vero?»
«Le ha detto di aver assistito a un’aggressione a sfondo razziale?»
«No. Ho detto a lei quello che ho detto a voi. Il resto se lo è inventato».
Non so se crederle o no, ma dalle labbra compresse capisco che questa è la sua versione e che non demorderà.
«Me la può descrivere?»
«Da sballo. Tanti capelli scuri e begli occhi. Un nome un tantino straniero, anche se non dava l’impressione di esserlo. Mi ha lasciato il suo biglietto da visita».
Mentre rovista nella borsetta, io so già che è Emma e quando mi dà il biglietto ne ho la conferma.
«Posso tenerlo io?»
«Certo. Adesso io non ne ho più bisogno, giusto? Adesso che so che non devo più parlare con lei».
Solleva le sopracciglia in un’espressione sarcastica che non mi piace.
«Se lo facesse potrebbero esserci conseguenze legali».
«Ricevuto».
«Un’altra cosa. Quando li ha visti, uno dei due ragazzi aveva uno zaino?»
«È possibile. Sì, credo di sì. Quello che è finito in acqua».
«Grazie».
Quando stiamo per andarcene ricordo un particolare che mi ha colpito dopo il primo colloquio.
«L’ultima volta che ci siamo parlati, mi ha detto di aver chiamato la polizia dalla sua auto».
«Sì».
«E ha detto che ha dovuto cercare il telefono nella borsa, motivo per il quale non ha visto bene cosa è successo nel momento in cui il ragazzo cadeva nel canale».
«Infatti».
«Il suo telefono non era connesso via Bluetooth alla macchina? La sua è un’automobile di un certo livello. Mi aspetterei che fosse collegato».
Lei fa una pausa brevissima prima di rispondere. «È perché il sistema di bordo non funziona. La connessione Bluetooth non va».
Mentre ci incamminiamo, il suo telefono comincia a squillare. È evidentemente una signora alquanto popolare. Risponde in maniera pratica e professionale mentre la porta si chiude dietro di noi.
In cortile Woodley sbadiglia per via della levataccia.
«Che fine ha fatto la registrazione della sua telefonata al centralino?», domando. «Credo che faremmo bene ad ascoltarla il più presto possibile».
«L’ho richiesta. Controllerò».
Woodley si gira a rivolgere un’occhiata nostalgica al pub mentre continuiamo a camminare. «Un po’ presto per una pinta, che ne dice, boss?»
«E se sospendessimo per un po’ le spiritosate?».
Per tornare in centrale, guida Woodley. Io mi tolgo di tasca il biglietto da visita di Emma e lo esamino. Semplice ed elegante, come mi sarei aspettato. Non c’è nessuna indicazione della sua professione, solo nome e numero di telefono.
Sono sicuro che la Manelli cercherebbe di dissuadermi nei modi più pressanti, ma so che telefonerò a Emma. Voglio farle sapere che se interferisce nel caso le faccio passare un guaio e non voglio dirglielo con le buone. In questo momento sono così infuriato con lei che non riesco a credere che solo poche ore fa ero seduto sul mio parapetto a pensare di provare ancora qualcosa per lei. Ma è una telefonata che voglio fare in privato. Mai e poi mai con Woodley a origliare.
Dalla macchina telefono invece a Fraser perché c’è una cosa per cui voglio la sua autorizzazione e la voglio stamattina.
Richiedo un’altra ricerca subacquea nella zona del canale vicino al deposito di rottami e adesso la situazione è diventata abbastanza seria perché me lo conceda all’istante. Voglio ritrovare lo zaino di Noah Sadler. A questo punto, è la nostra pista migliore per sperare di recuperare qualche indizio su quello che avevano in mente di fare i ragazzi.
Nur prende di nuovo il taxi per cercare Abdi e questa volta Maryam lo accompagna.
«Tu continua a telefonare a tutti», raccomanda Nur a Sofia prima di uscire. «Tutti quelli che ti vengono in mente. Dobbiamo trovarlo».
Sofia contatta tutte le persone che riesce. Ormai il suo telefono è un continuo ripetersi dei segnali acustici dell’arrivo di una serie di messaggi da amici e compagni che le promettono di cercare Abdi e di spargere la notizia nei social network.
Non accetta nessuna telefonata. Non se la sente di parlare con nessuno. Si vergogna della situazione quanto i suoi genitori, ma ormai non possono più tenere tutto tra le quattro mura di casa. Trovare Abdi è diventato fondamentale.
Dopo aver fatto tutto quello che le è potuto venire in mente, si ritrova sola con i suoi pensieri. Torna alla registrazione della conversazione di Abdi con Ed Sadler e alla sua scomparsa. Fa fatica a credere che sua madre l’abbia cancellata di proposito perché non è nemmeno sicura che Maryam lo sappia fare, ma non riesce a scacciare del tutto quel sospetto.
Che sua madre abbia manomesso o no l’iPad, la sua esistenza è sufficiente a convincerla che la chiave di tutto sia in quello che Abdi ha fatto negli ultimi giorni. Non ha altro su cui concentrarsi in ogni caso.
Si sente un briciolo in colpa per essere stata tanto presa dai suoi studi in quelle ultime settimane da non prestare alla famiglia tutta l’attenzione dovuta. Non sa da dove cominciare. Non può ovviamente andare a fare domande alla scuola di Noah, ma ricorda che Amina le ha detto che Abdi era al Welcome Center con Maryam quel venerdì sera e che è stata una sera insolita perché Maryam è svenuta. Sofia vi si reca cercando suo fratello a ogni passo lungo quel percorso.
Al Welcome Center stanno scaricando scatole di generi alimentari davanti all’ingresso posteriore.
C’è qualcuno a bordo del furgone. Sta controllando gli articoli in eccesso che ha raccolto quella mattina dagli esercizi della zona.
«Ho una tonnellata di riso e peperoni, pomodori… C’è del pollo! E meringhe».
Sulla soglia della porta c’è lo chef Sami, a braccia conserte.
«Ehi, Sofia», dice, «pensi che a qualcuno piacerebbe una meringa al pollo per colazione?».
Riesce sempre a farla sorridere, persino oggi.
«C’è Amina?»
«Sta facendo ordine nella dispensa delle donazioni».
All’interno il centro è come al solito in piena attività. Gli insegnanti d’inglese stanno preparando il materiale di studio nelle aule provvisorie e un avvocato che offre consulenze gratuite sta stendendo tovaglie di plastica sui tavoli a cavalletto che verranno usati a pranzo. I volontari che lavorano in cucina stanno preparando i distributori di tè e caffè e dispongono le confezioni di biscotti. Nella sala c’è una bella luce e fa caldo e Sofia sa che presto la squadra si metterà a cucinare quello che stanno scaricando dal furgone e nell’aria si diffonderà il profumo dei cibi.
Trova Amina a uno dei piani superiori. È seduta vicino a un armadio vuoto e ha una pila di indumenti che puzzano di chiuso.
Amina le mostra un top femminile macchiato. «Come fa qualcuno a pensare di poter donare una cosa così?». Scuote la testa. «Noi abbiamo bisogno di cappotti e maglioni. Indumenti caldi per uomini adulti».
Sofia le spiega cos’è successo e resiste a un momento di difficoltà quando vede gli occhi di Amina riempirsi di lacrime. In realtà è un sollievo dirlo a qualcuno di esterno alla sua famiglia.
«Ma Abdi è un così caro ragazzo», commenta Amina. «Non avrei mai immaginato di ritrovarmelo in una situazione come questa».
«Quando l’hai visto qui l’ultima volta, la sera in cui la mamma ha perso i sensi, hai visto cosa stava facendo?»
«Credi che si sia messo con dei poco di buono?»
«Non so cosa pensare. Le provo tutte».
«Quella sera l’ho visto probabilmente una o due volte, ma c’era molta gente, faceva freddo, e non sono stata attenta a nient’altro finché tua madre non è svenuta. Credo che Abdi aiutasse con il cibo. Avevamo una bella squadra di giovani volontari. Lui non serviva con noi, ma credo che ritirasse i piatti. Quando tua mamma è svenuta, alcuni di noi l’hanno aiutata a sedersi e io sono stata con lei. Abdi è scomparso per un po’, ma poi è venuto a cercarla e… e uno dei volontari li ha riportati a casa in macchina in anticipo».
«Sai perché mia madre è svenuta?»
«No. Lei ha detto che le è successo all’improvviso. Le è venuto un senso di nausea e un capogiro e un attimo dopo stava cadendo. Mi spiace di non poter esserti d’aiuto più di così, cara, ma quella notte c’era veramente il caos. Magari qualcun altro ricorda qualcosa di più. Perché non chiedi a Tim?».
Sofia trova Tim all’ingresso. Sta registrando i profughi che cominciano ad arrivare. Ha una faccia amichevole e grandi mani in cui la sua tazza di tè sparisce.
«Sì, venerdì Abdi era qui», conferma. «Una serata di quelle veramente intense. Abbiamo visto un bel po’ di facce nuove».
«Sai che cosa faceva?», domanda Sofia.
«Cucina, credo. Ha ronzato da quelle parti per quasi tutta la sera. E dopo che tua mamma ha perso i sensi chiedeva in giro di una certa persona».
Sofia sente accelerare i battiti del cuore. «Sai chi?»
«So che era un somalo, ma non so altro».
Controlla il registro dei volontari. «Quella sera con lui c’erano Kate e Jacob. Chiacchiera parecchio con loro. Potrebbero sapere di più».
«Sai come contattarli?»
«Non mi è permesso dare i loro recapiti, mi spiace, cara, però posso parlargli e chiedere che ti chiamino».
«E potresti chiedere anche a tutti i volontari di cercare Abdi e telefonarci se lo vedono?»
«Senz’altro. Tutto quello che possiamo fare. Qui gli vogliamo tutti molto bene. È uno dei nostri volontari più amati».
Sofia gli scrive il suo numero di telefono su un pezzo di carta.
«Beviti un tè prima di andar via», la esorta lui. «Hai l’aria di averne bisogno».
La timidezza la spinge subito a dire di no, ma si trattiene. È a digiuno dal giorno prima e si sente debole.
Si serve tè e biscotti e saluta tutti i volontari che riconosce. In quel posto il flusso dei volontari è di poco inferiore a quello dei profughi. Si apparta a un tavolo nell’angolo della sala e guarda i profughi arrivare. Alcuni sono allegri, ansiosi di seguire le lezioni o di scambiare qualche chiacchiera con gli amici. Altri hanno espressioni meno gioviali. In quella sala accogliente ci sono tè caldo e sostegno affettuoso per i più vulnerabili, ma Sofia percepisce la loro sofferenza collettiva come un’entità separata. Diventa insopportabile. Già pochi minuti dopo va a restituire la tazza e il piatto ed esce.
Anche Maryam sta pensando al Welcome Center seduta di fianco a Nur sul suo taxi che gira per il loro quartiere e oltre.
Nell’attimo prima di svenire ha visto un fantasma del suo passato, una versione di una faccia che non vedeva in carne e ossa da molto tempo, ma che la visita con regolarità nei suoi incubi.
Nur svolta in direzione della stazione e del Feeder Canal.
«Voglio vedere dove sono andati», spiega.
Maryam tace.
Quando il taxi transita davanti al centro commerciale dove amano ritrovarsi Sofia e i suoi amici, Maryam si gira a guardare Nur. Lui è concentrato sulla guida. È un ottimo guidatore, molto attento. Quanto gli vuole bene.
Definisce Bristol un nuovo inizio ed è una cosa che fa ridere i figli, visto che è così che la chiama da ormai quindici anni, ma per quanto spesso lo ripeta, Maryam la vive in modo diverso. Per lei Bristol è il posto dove aspetta la sua fine, la chiusura del ciclo, perché troppe delle cose che sono successe in Somalia e al campo sono ancora testardamente presenti nella sua memoria come interrogativi privi di risposta.
Se Abdi se ne è andato o si è reso colpevole di qualcosa di terribile, sa che suo marito non vi sopravviverà.
Pensa all’uomo che ha visto al centro profughi. Al momento in cui le hanno ceduto le gambe. Pensa al figlio scomparso e a che cosa può aver fatto o avere in mente di fare. Sa che tra le due cose c’è un nesso. Come può non esserci?
Mentre Nur imbocca Feeder Road, le sue dita scendono a toccare una cicatrice che ha sull’avambraccio.
Viene ad aprirci Ed Sadler, depresso e disorientato come è logico attendersi.
Entriamo. Questa volta ci fa strada in cucina, un grande locale che occupa tutto il lato posteriore della casa. Una parete a vetrate esibisce un giardino come un panorama.
Fiona Sadler siede al tavolo della cucina. Indossa un golf rosa chiaro e ha un’aria vulnerabile che più di così non sarebbe possibile.
«Le mie più sentite condoglianze», dico.
Lo sguardo che mi rivolge è di quelli che non si possono sostenere.
«Quel ragazzo si è deciso a parlare?», chiede.
Sputa le parole come semini amari.
«Fi». Ed Sadler va a fermarsi dietro di lei, le posa le mani sulle spalle, gliele massaggia.
«Sa una cosa, ispettore?», dice lei. «Siamo stati ingannati. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di guadagnare tempo, fin dal primo giorno della diagnosi di Noah. Com’è che scopriamo solo ora che aveva pochi mesi da vivere, e solo se fossimo stati molto fortunati? E ora ci hanno portato via persino quelli. Ingannati».
È la stessa protesta che ha manifestato all’ospedale, solo che questa volta non la trattiene. I filtri sono caduti ed è molto adirata. Posa sul tavolo i pugni chiusi. Le sue nocche hanno una lucentezza perlacea.
«Ho paura di dovervi parlare di una questione difficile». Mantengo un tono pacato perché più di tanto non posso edulcorare il problema nonostante tutta la comprensione che provo. Ora la reputazione e forse l’incolumità di Abdi Mahad sono in gioco molto più di prima ed è mio dovere tener presente anche lui.
Mi guardano come se non riuscissero a credere che io possa avere qualche altra brutta notizia da scaricare loro addosso.
«Avete forse visto il “Bristol Echo” di ieri?».
Scuotono entrambi la testa. Io mi consolo pensando che almeno è meglio che gli arrivi da me. Significa che possiamo tentare di controllare la loro reazione, evitando il rischio che vengano a saperlo per altre vie e facciano magari qualcosa di avventato.
«Mi spiace dovervi dire che hanno pubblicato in prima pagina un articolo con una foto di Noah al reparto di terapia intensiva».
Fi Sadler comincia a piangere.
«Sembra che la foto sia stata scattata di nascosto, così stiamo interrogando il personale dell’ospedale. Avete idea di chi potrebbe aver fotografato Noah a sua insaputa?»
«No». La parola è poco più di un bisbiglio.
«Mi spiace. Capisco che è molto doloroso per voi. Nell’articolo si parla anche di aggressione razziale, un aspetto sul quale non possiamo farci un’opinione prima di avere qualche prova sostanziale. Ci rendiamo conto che, dopo averci riflettuto, potreste avere la tentazione di parlare con la stampa per far conoscere la vostra versione, ma noi vi esortiamo vivamente a evitare qualunque contatto con i giornalisti. Sappiate che finché è in corso l’indagine la massima discrezione è di fondamentale importanza».
«Sanno che Noah è morto?», chiede Fiona.
«No. Non ancora. E vorrei che le cose restassero così il più a lungo possibile, lasciandoci lavorare in piena libertà lontano dagli occhi del pubblico. Non possiamo impedire per sempre che si sappia, ma desidero anche concedervi il più a lungo possibile la facoltà di gestire questo cordoglio in privato».
«Come hanno ottenuto il permesso di pubblicare una foto di nostro figlio?», vuole sapere Fiona. «Come lo giustificano? È disgustoso».
«Be’, che avessero o no il diritto è certamente qualcosa di cui ci occuperemo e se è stato commesso un illecito, può star sicura che qualcuno verrà querelato».
«Quel ragazzo sa che Noah è morto?»
«Purtroppo di Abdi si sono perse le tracce».
Fiona Sadler mi fissa come se questa fosse una notizia di troppo per lei e probabilmente lo è. Ed Sadler si gira dall’altra parte a guardare dalla vetrata. Gli tremano le spalle.
«È stato Abdi, è lui il responsabile, lo so».
Suo marito si volta.
«Fi! Noi non lo sappiamo! Smettila di parlare così».
Ma la tragedia ha spazzato via qualunque eventuale residuo di razionalità a cui possa essere rimasta aggrappata fino a quel momento. «Abdi era un ragazzo in buona salute», dice. «Avrebbe dovuto proteggere Noah. Come ha potuto lasciare che succedesse una cosa così? Noah non sarebbe mai stato capace di arrivare fin laggiù a piedi e meno che mai arrampicarsi su una rete metallica. Deve essere stato aiutato. Abdi è responsabile di tutto questo. Perché sarebbe scomparso altrimenti?»
«Non stai parlando sul serio».
«Ah no?».
Le si sono arrossati gli occhi e ha la faccia bagnata di lacrime.
Mi alzo. È ora che ce ne andiamo.
«Vi prego, telefonatemi se pensate che ci sia qualcos’altro che dovremmo sapere dei ragazzi o di lunedì sera. Contattatemi pure a qualunque ora. Qui c’è il numero del mio cellulare».
Lascio sul tavolo il mio biglietto da visita vicino a un mazzo disordinato di volantini sulla mostra di Ed Sadler.
Lui segue la direzione del mio sguardo. «È lì che eravamo lunedì sera. All’inaugurazione. I ragazzi ci sono venuti con noi».
Prendo un volantino.
«Vorrei che non avessimo mai permesso ad Abdi di venire». Fi Sadler non ha esaurito le sue recriminazioni. Il volume della sua voce sale. «Avrebbe dovuto essere una cosa di famiglia. Solo nostra!».
«Vi accompagno», interviene Ed Sadler avviandosi alla porta.
L’aria tagliente che c’è fuori è un toccasana. Mi sembra di poter respirare di nuovo.
Sulla soglia approfitto di avere Ed Sadler da solo.
«Abbiamo parlato con lo psicologo di Noah all’ospedale. Non ha potuto dirci niente di quello che Noah ha discusso con lui, ma ci ha fatto sapere di averle riferito qualche particolare di alcune delle loro conversazioni. È così?»
«Non a me, a Fiona. Dovete chiedere a lei, ma forse non oggi».
«Lo psicologo ha accennato a una questione di cui Noah ha voluto parlare con lei, ma non con sua moglie. Ricorda di cosa si trattava?».
Esita. Mi spiace infliggergli quest’altra angoscia in un momento come questo, ma non credo che la situazione per quei due possa migliorare nei prossimi giorni, così preferisco tentare subito.
«C’è una cosa su cui mi ha mandato un’e-mail, non ricordo quando, può essere stato l’anno scorso. Mentre ero all’estero, credo. Non mi è sembrato niente di che, sinceramente. Non ci ho badato più di tanto. Era per un tema di Abdi per il quale Noah lo stava aiutando».
«In che maniera?».
La voce di Fiona Sadler che lo chiama gli fa lanciare uno sguardo dietro di sé.
«Arrivo subito!», grida. «Aspettate qui», aggiunge poi rivolto a noi. Sale le scale.
Io e Woodley restiamo a farci gelare i piedi sulla porta per qualche minuto prima che ricompaia. Ha in mano dei quaderni.
«Questi sono i diari della terapia di Noah. Credo che qui ci sia pressoché tutto quello di cui ha discusso con il suo terapeuta, ma vi avverto che può essere una lettura tremendamente noiosa. E vi prego di non dire a Fi che ve li ho dati. Noah non voleva che li vedesse. Credo temesse che potessero sconvolgerla ancora di più. Era già dura quando lo psicologo ce ne parlava a voce. Se avessimo potuto li avremmo bruciati, ma il dottore ha insistito perché li conservassimo, così Noah mi ha chiesto di tenerli nascosti nel mio studio. Io me ne vergognavo. Adesso sembra stupido essersi preoccupati tanto di una cosa così insignificante».
«Glieli restituiremo senz’altro».
«Non m’importa di non rivederli più. Non è sulla base di quello che c’è scritto lì che voglio ricordarlo».
Getta un’altra occhiata all’indietro in reazione a un altro richiamo di Fiona. «Comunque quello che mi aveva detto lo psicologo è lì da qualche parte. Io non ci darei troppa importanza, però. Sono le tipiche questioni di un ragazzo. Io ho fatto di ben peggio alla loro età».
«Grazie».
Quando chiude la porta e torna da sua moglie, mi chiedo se la loro relazione sopravvivrà a questa prova o se si aggrediranno a vicenda.
Sofia sa che oggi non riuscirà mai a concentrarsi sulla sua tesi. Decide di andare alla galleria. Vuole vedere di persona la mostra di Ed Sadler e cercare la foto di cui Abdi parla nella registrazione. È matematicamente sicura che non ci troverà né Ed né Fiona, date le circostanze, così non sarà costretta ad affrontarli.
Prende il treno per Montpelier. Sono solo due fermate. Potrebbe andarci tranquillamente a piedi, ma attraversare zone che non conosce della città la preoccupa. Il suo hijab attrae più sguardi di quanto vorrebbe. Si sente più al sicuro in treno, specialmente dopo i disordini seguiti alla manifestazione.
Trova da sedere vicino al finestrino e guarda scorrere paesaggi familiari, i quartieri popolari e qualche grattacielo solitario lasciano spazio a schiere su schiere di abitazioni vittoriane, alcune aree industriali e una zona lottizzata che ha trasformato in scacchiera un ripido pendio. Montpelier ospita file di case georgiane, molte in colori pastello, altre nella loro originale arenaria dorata. Una metà è curata. Le facciate delle altre sono macchiate e deturpate dalle intemperie. Spuntano ciuffi d’erba dalle fessure dei tetti e negli angoli si annidano i graffiti.
Dalla stazione di Montpelier prosegue a piedi in Cheltenham Road e da lì verso Stokes Croft.
È una zona che le piace molto. C’è una vibrante atmosfera artistica, caffè all’aperto e vita in strada, un miscuglio di gente diversa.
I palazzi al di là delle arcate della ferrovia in Cheltenham Road appartengono agli artisti di graffiti. C’è qualcuno che dorme sui gradini freddi di qualche casa in un sudicio sacco a pelo e c’è un tizio con le pupille contratte che gira per le strade censurando tutti e nessuno. Sofia attraversa la strada per evitarlo e tiene la testa bassa per schivare una conversazione con alcuni ubriachi molto socievoli che occupano un minuscolo triangolo erboso incastrato tra un bivio e l’angolo di una costruzione in mattoni rossi.
C’è una grande scritta dipinta sulla parete che dice: “Repubblica popolare di Stokes Croft”. Ma è una zona proibita. Ci sono caffè e bar hipster infilati tra strip club, rivendite di associazioni benefiche e ristoranti che servono cibi di tutti gli angoli della terra e dietro la fila dei negozi spunta il guscio di un caseggiato abbandonato, su cui, per quanto sembri impossibile, non è rimasto un solo piccolo spicchio che non sia coperto da graffiti. Più in là ancora l’Esercito della Salvezza sta costruendo una sua sede nuova. Torreggia una gru e il traffico viene regolato da alcuni semafori provvisori.
Qualche centinaio di metri più avanti, quando scorge finalmente la galleria, Sofia sente crescere il suo disagio.
Sulla facciata interna della vetrina è stata applicata con cura in lettere bianche la scritta: “Edward Sadler: viaggi con i profughi”.
Sofia attraversa la strada. Quasi non controlla se c’è traffico.
Si sofferma a guardare una grande foto esposta in vetrina. Si vede un ragazzo che porta sulle spalle un pesce martello morto.
Quando entra, una ragazza si alza da una scrivania in fondo alla stanza. Ha lunghi capelli biondi acconciati in trecce che vorrebbero sembrare disordinate. Indossa una maglia a collo alto su una gonna di pelle.
«Posso aiutarla?»
«Do solo un’occhiata».
«Se le interessa acquistare, ho una lista dei prezzi con una spiegazione dell’opera scritta dal fotografo. Le foto non sono tutte in vendita. Faccia pure con comodo! Sono opere di un realismo assoluto».
A Sofia basta un’occhiata superficiale per avvertire una morsa di paura ancora più potente.
Reagisce all’istante alle immagini del campo profughi, che evocano in lei ricordi sensoriali: odori, rumori e voci fanno a gara per conquistare la sua attenzione.
Osserva le fotografie della Somalia che le provocano un effetto diverso, perché là non ci è mai stata. Se cerca in Google la Somalia, trova molte immagini come quelle. Sono spesso scene di violenza, sofferenze e distruzione. Altrimenti si vedono cammelli o nomadi che posano nel deserto in inquadrature da cartolina, o altri vari cliché africani.
Quello che manca, e vale anche per le fotografie di Ed Sadler, sono le vite comuni. Le fotografie immortalano situazioni estreme. Puntano agli aspetti scioccanti. Raccontano una storia che è incompleta e sensazionalistica.
Dove sono le madri e le figlie, i padri e i figli e i fratelli e le sorelle che sono il cuore vivente di questi luoghi, perché non sono violenti, perché desiderano solo vedere le cose migliorare? Sofia sa rispondere al proprio interrogativo prima ancora di averlo formulato: le storie ordinarie sono noiose. Non fanno vendere i giornali e non richiamano donazioni.
Ma in quella sala degli orrori a lei manca la gente comune. Ha nostalgia del loro calore umano, il loro coraggio e il tedio della loro esistenza, delle piccole cose che fanno tutti i giorni per sopravvivere. I suoi genitori erano quella gente e lo erano molti dei loro amici e vicini al campo. Nella mente di Sofia i veri atti di eroismo sono le cose per niente sensazionali che facevano loro. Al contrario, trova quelle foto insensibili e anche se riconosce in esse parte del problema, si scuote da quelle riflessioni. Non è lì per quello.
Al centro di una delle pareti vede quello che sta cercando, l’immagine degli uomini che assistono a una partita di calcio. È la foto di cui Abdi chiede nel colloquio registrato.
Vede l’uomo menzionato da lui. È al centro dell’immagine, l’unica faccia che si gira verso la fotocamera, anche se non guarda direttamente nell’obiettivo. È una foto rubata. La deformità del suo palato leporino è spaventosa. Fissa con attenzione l’immagine, ma non trova nessun indizio che le spieghi perché quell’individuo in particolare abbia interessato tanto Abdi. Forse dovrebbe chiedere ai suoi genitori. Usa il telefonino per scattare una foto.
Le si avvicina la ragazza della galleria e la fa sobbalzare quando le rivolge la parola in un tono troppo esuberante. «Questa è una delle mie foto preferite», trilla. «Allora, che le pare della mostra in generale?»
«Orribile», dice Sofia. Sentire la propria voce esprimere inaspettatamente ciò che prova in realtà le fa venire un’improvvisa voglia di piangere.
«Ma molto necessaria, non trova?»
«No. Solo orribile».
«Fanno impressione al primo colpo, questo sì, ma quando uno pensa al metasignificato…».
Sofia parla in un tono moderato, ma con molta fermezza. «Non c’è nessun metasignificato. Queste fotografie spettacolarizzano e sensazionalizzano la sofferenza».
«Quelle più traumatiche non sono in vendita».
Sofia non onora di una risposta quell’affermazione.
Quando esce sul marciapiede prende qualche respiro profondo per calmarsi e domare la nausea. Non sa immaginare cosa possa aver provato Abdi a trovarsi a un party che celebrava foto come quelle.
Tornato alla centrale, mi immergo nei diari della terapia di Noah Sadler mentre aspetto che Fraser si liberi.
Comincia a infiammarmisi il collo per il guinzaglio troppo corto che mi ha appioppato con i rapporti biquotidiani che pretende da me, ma siccome è solo il mio terzo giorno di ritorno al lavoro, non mi sembra di avere altra scelta al momento che abbozzare.
Mentre leggo cerco di reprimere il senso di fatica. Inizia a pesarmi la mancanza di sonno e questi diari, come mi aveva avvertito Ed Sadler, sono una vera barba.
Nei primi diari, che sono in realtà dei semplici, sottili quaderni da scuola con un’etichetta che riporta l’anno, la scrittura è immatura. Ci trovo elenchi datati degli argomenti discussi da Noah con il suo dottore e niente di più. Devono risalire a quando Noah aveva solo undici anni, dunque non mi meraviglia che siano così scarni.
Non posso però esimermi dal riflettere su quanto sia triste il catalogo degli argomenti. Un’annotazione tipica è:
Parlato di chemio, amicizie, scuola.
Solo quando arrivo al quinto diario, il più recente, le cose si fanno più interessanti perché Noah comincia ad aggiungere commenti personali. Sono soprattutto variazioni sul tema.
Amicizie a scuola: molto da studiare, ogni tanto mi sento solo, cerco di chiedere alla gente che sentimenti prova.
Qua e là mette qualcosa di più personale:
Devo cercare di non pensare a Imran come a una minaccia. Penso alle cerchie di amici.
L’unico punto in cui scende veramente nel particolare è in un’annotazione molto recente, dove ho l’impressione che sia stato spinto a scrivere di più da una sensazione di ingiustizia.
Amicizie a scuola: ho parlato dell’aver fatto scrivere a Imran il tema per Abdi e di tutto il putiferio che c’è stato dopo. Non capisco perché dovrebbe essere un problema. Imran moriva dietro al GTA5 e alla fine l’ha preso per venti sterline da uno dell’ultimo anno che conosce al club di badminton, così sono tutti felici. Alla fine nessuno se l’è presa con me. L’ho raccontato a papà che ha pensato che fosse una gran bella azione!
Questa nota è un tantino anomala quanto alla quantità di particolari che offre. Vado avanti. Trovo altre annotazioni ancor più dettagliate, ma nessuna mi colpisce quanto questa. La mostro a Woodley.
«Il GTA5 è Grand Theft Auto, il videogame», mi spiega. «Molto vietato ai minori».
Rileggo il passaggio. «Dunque ho ragione a pensare che Noah e Abdi abbiano comperato da Imran un tema per venti sterline, perché serviva ad Abdi, e che Imran era contento dell’affare perché coi soldi ha acquistato una copia di Grand Theft Auto, che è un gioco per computer, giusto?»
«Grand Theft Auto 5. È importante. È migliore delle altre versioni. Miglior ottimizzazione, miglior esecuzione, migliore grafica».
«Parla inglese, Woodley».
«Ti sto solo prendendo un po’ in giro, boss. È gergo da videogame».
«Io ho capito “grafica”».
«Uno su tre. Poteva andare peggio».
«Mi fai sentire vecchio. Non hai niente di meglio da fare?».
Mi lascia abbozzando un saluto militare.
Fraser non finisce più dentro l’ufficio. Mentre aspetto, giocherello di nuovo con il biglietto da visita di Emma. Ogni spizzico di informazione che riusciamo ad avere su questi ragazzi aggiunge un briciolo di colore alla loro vita e mi fa sentire come se li conoscessi un po’ meglio, ma aumenta anche la mia collera per la tattica meschina che ha usato per ottenere il materiale per il suo articolo.
Mi cerco una stanza vuota e la chiamo. Voglio farle sapere come la penso. Non so se mi ascolterà, ma io ci voglio provare.
Il telefono squilla e squilla finché sono sicuro che sentirò la sua voce registrata in segreteria ed è solo quando mi schiarisco la gola chiedendomi se vale la pena che lasci un messaggio e comincio a pensare a che cosa dire, che finalmente risponde.
«Jim».
Dunque non ha cancellato il mio numero e questo fatto mi svuota momentaneamente il cervello lasciandovi solo il rammarico per aver pensato di poter gestire questa telefonata. Vado avanti comunque. Ormai non ho scelta. Non posso riappendere facendo la figura del fifone. Sarebbe troppo umiliante.
«Ciao», dico.
«Sei tu».
«Sì».
Voglio metterla in guardia a muso duro. Sul serio. Voglio dire che quello che sta facendo è sbagliato e immorale e chiederle come ha potuto scendere così in basso. Come ha potuto riferire di un atto criminoso avvenuto nella nostra città in un modo così sconsiderato sapendo bene che conseguenze avrebbe potuto avere sull’indagine, sui suoi ex colleghi e soprattutto su persone che non hanno nessuna colpa.
«Come stai?».
Mi mette nuovamente al tappeto con questa domanda innocua, in un tono che mi è difficile interpretare, caricando su quelle parole quel tanto di implicito da spingerle oltre il livello dei convenevoli, ma non tanto da convincermi che le importi qualcosa.
«Sto lavorando al caso», le dico. «Quello del canale».
Silenzio.
«Voglio che smetti di parlare con i miei testimoni».
«Non hai assolutamente nessun diritto di dirmi cosa fare».
«Quello che stai facendo è sbagliato. Lo sai».
«Come ti permetti?».
Non ho nemmeno il tempo di prendere fiato prima che mi rovesci addosso diciotto mesi di rancore per il modo indegno in cui l’ho trattata, per come meritava di più, per come non ho il diritto, assolutamente nessun diritto al mondo, di invadere la sua vita adesso.
«Hai finito?», chiedo quando resta senza parole, perché sono pronto a renderle pan per focaccia, ma è una cosa che posso solo dire a me stesso perché intanto lei ha riappeso.
Sono ancora lì a guardare il telefono e a mettercela tutta per resistere all’impulso di scagliarlo contro il muro, quando fa capolino Woodley. «Eccoti! Ci hanno appena inviato la registrazione della telefonata al centralino. Tutto bene, capo?»
«Stupendamente. L’hai ascoltata?».
«Sicuro che va tutto bene?»
«Se ti dico che va tutto bene, sono sicuro che va tutto bene. Hai ascoltato la chiamata?»
«No. È appena arrivata e stavo pensando a un’altra cosa. Quand’eravamo in quel prefabbricato con Janet Pritchard, aveva un telefonino che luccicava. Te lo ricordi?»
«Sì».
«Ma il telefono che ha squillato quand’eravamo al pub era un iPhone. Aveva quella suoneria tipica».
«Telefono nuovo?»
«Oppure usa due telefoni. Uno potrebbe essere un prepagato. Si spiega come mai non usa il Bluetooth della sua macchina se non vuole lasciare tracce di un prepagato».
«E dunque?»
«Non so. Sto solo pensando ad alta voce. Potrebbe non essere niente, ma io sento qualcosa che stride sui rapporti tra lei e il suo socio».
«Sono d’accordo».
Torniamo in sala operativa dove Woodley ha sullo schermo il link della registrazione. Sembra che sia andata come l’ha riferita Janet Pritchard.
«Pronto, centralino del servizio di emergenza, di cosa ha bisogno?»
«Ambulanza».
«Gliela passo subito».
In linea si sente un operatore nuovo.
«Di che natura è la sua emergenza?»
«Qualcuno è caduto nel canale e non so se è in grado di salvarsi da solo».
«Dove?»
«Sono sul Feeder Canal, al posto di stoccaggio dietro Herapath Street».
«C’è qualche punto di riferimento che può segnalarmi?»
«Sono nel deposito di rottami. Fate in fretta!».
«Grazie. Mando subito qualcuno».
«Il cancello è chiuso a chiave».
«Grazie ancora, riferisco. Mi dà nome, indirizzo e un recapito telefonico?».
Fermo la registrazione dopo che Janet Pritchard ha fornito i dati richiesti. Mentre parla si sente già una sirena in lontananza. Noah Sadler era stato fortunato ad avere un’ambulanza già nei paraggi.
«Hai sentito cosa c’è in fondo?», chiede Woodley. «Ascolta di nuovo».
Ascoltiamo usando a turno le cuffie per escludere il rumore di sottofondo dell’ufficio e sentiamo tutti e due chiaramente che c’è anche qualcos’altro.
«Sembrerebbe un’altra persona», dice Woodley togliendosi le cuffie. «A meno che uno dei due ragazzi abbia una voce molto fonda. Ma non capisco cosa dicono».
«Ti ricordi che la teste abbia parlato di qualcun altro?».
Scuote la testa. «Ha addirittura specificato che non c’era nessuno».
«Puoi chiedere a qualcuno di isolare quel suono per poterlo sentire meglio?»
«Come fatto».
«E digli che lo voglio oggi stesso».
Lui è già al telefono. Un dito alzato mi comunica che mi ha udito e ha capito.
La porta di Fraser si apre e la vedo stringere la mano ai due individui che erano in riunione con lei.
Andati via loro, fa segno di entrare a me. «Ho fatto diffondere a largo raggio un avviso di persona scomparsa per Abdi Mahad», mi informa mentre mi siedo. «Non abbiamo specificato che lo cerchiamo per interrogarlo. Rispettiamo prima di tutto la sua condizione di vulnerabilità come minorenne».
«Mi pare che sia già abbastanza protetto».
La sua espressione è corrucciata. Un minorenne a rischio fa questo effetto e io e lei ci siamo già passati.
«Faremo fare anche un appello in televisione».
«Ho chiesto alla famiglia di Noah Sadler di non divulgare la notizia della sua morte».
«Possiamo fidarci?»
«Credo di sì. Lo spero. La madre è molto arrabbiata, vuole qualcuno da incolpare, ma sa che è nel suo interesse tenere la bocca chiusa perché solo così c’è qualche probabilità in più che Abdi torni a casa e ci fornisca qualche risposta».
«Oppure potrebbe arrivare a un tale livello di rabbia da sfogare tutte le sue emozioni con la stampa e mandare definitivamente alla malora il caso». Fraser è in uno stato d’animo di cupo pessimismo. Devo muovermi con cautela.
«Non credo che lo farà».
«Ma pensi che ritenga il ragazzo somalo responsabile della morte del figlio?»
«Credo che sia possibile, ma è una reazione istintiva. È conseguenza del suo dolore. Suo marito non la pensa come lei».
«Avresti dovuto costringere quel ragazzo a parlare, Jim».
«Lo so. Sono stato blando perché non volevo essere accusato di metterlo sotto il torchio. Tutte le volte che l’ho visto era stremato e muto. Non sapevo cos’altro fare. E viene da una famiglia amorevole. Non ha il profilo di un poco di buono».
«Avresti dovuto andare giù più duro».
Cerco di distrarla.
«Mi sono procurato un diario che ha tenuto Noah Sadler con annotazioni sulla sua terapia psichiatrica. Ci sono un paio di cose che potrebbero essere interessanti e continuerò a scavare».
«Scava anche nella sua famiglia e nel circondario, ma con discrezione, e vediamo se salta fuori qualcosa. Non credo che potremo evitarlo ancora. La teste?»
«Le ho parlato. Dice che per farla parlare Emma si è fatta passare per la rappresentante di una misteriosa associazione di sostegno alle vittime».
Fraser dilata le narici.
«La teste dichiara che non parlerà più con i giornalisti».
«Le credi?»
«Non posso fidarmi ciecamente, ma ci spero. Novità da Janie?».
Non rivelo alla Fraser di avere appena parlato con Emma. Sarebbe pleonastico dire che non penso apprezzerebbe l’esito di quella telefonata.
«Ha parlato con il giornale, ma mi sembra di capire che da quel fronte non abbiamo da aspettarci niente di buono. Sta preparando un comunicato che spera pubblichino almeno in parte. Dobbiamo augurarci che non colleghino quella storia all’appello per Abdi. Non vorrei ritrovarmi ad avere per le mani una caccia all’uomo». Smette di sbattere oggetti sulla scrivania e mi punta addosso la penna che stringe nella mano. «Sono molto preoccupata come te per questo ragazzo scomparso e voglio che venga ritrovato sano e salvo, ma non deve impedirti di considerarlo seriamente come un sospettato solo perché mamma e papà sono due brave persone. Ricordati che in questo momento siamo sotto riflettori che ci piantano addosso da tutte le parti».
«Non è quello che intendevo».
Woodley bussa alla porta. «Scusate l’interruzione, ma possono lavorare alla registrazione adesso, se vogliamo salire».
Fraser mi rivolge un gesto di congedo. «Fila».
Mi aspetto una tana tecnologica come vuole il cliché, uno spazio privo di finestre con cestini traboccanti e tanti di quei cavi elettrici da poterci tessere una sciarpa. In realtà troviamo una giovane donna dall’aspetto atletico in un bel locale tranquillo all’ultimo piano dell’edificio. Dà l’impressione di dominare perfettamente l’ordinata batteria di monitor che ha davanti e una rigogliosa pianticella in fiore sulla sua scrivania. Se ruota la sua poltroncina girevole può godere della vista di alcune delle villette dipinte su una collina di Bedminster, come una fila di casette variopinte del Monopoli.
Per prima cosa ascolta la registrazione, poi lavora alla tastiera finché non ha isolato il suono che ci interessa.
All’inizio è come due colpi di tosse fonda, più lo sbotto di un rumore che altro.
Altri armeggi e trasforma il rumore in due parole. Le riascolta molte volte e si concentra arricciando il naso.
«Sembra “Roger Platts”», dice. «Avete idea di chi sia Roger Platts?»
«No». Woodley scuote la testa e guarda me, ma brancolo nel buio anch’io.
«Può mandarmelo giù?», chiedo. «Quel pezzettino».
«Certamente».
Mentre ce ne andiamo, si mette a lavorare a un’altra registrazione, una conversazione telefonica il cui contenuto è così palesemente nauseante da farmi dubitare che si possa reggere per molti anni a fare un mestiere come quello.
Sul finire del pomeriggio Sofia ha raccolto una tonnellata di risposte ai suoi post su Abdi. Non c’è una sola persona che non esprima sgomento e preoccupazione. Tutti promettono di stare attenti e di contattare altri perché facciano altrettanto. Nessuno lo ha sentito da prima del fine settimana.
Un’amica pubblica un lungo intervento sulla pagina di Facebook di Sofia su una loro ex compagna di classe scomparsa all’improvviso per andare in Siria ad arruolarsi nella jihad. Era stata accuratamente, totalmente e segretamente radicalizzata e nessuno se ne era accorto prima che fosse ormai tardi.
Sofia si stacca. Sa che non è quello che è successo ad Abdi o pensa di potersi dichiarare certa al novantanove percento. Nella sua famiglia se ne sarebbero accorti di sicuro.
Ciononostante non può fare a meno di cercare in Google la sua vecchia compagna, e quello che trova porta inevitabilmente ad altre informazioni. Si immerge in una serie di resoconti su altri bravi ragazzi in ogni parte del mondo che sono stati radicalizzati e spinti ad abbandonare il loro Paese per unirsi alla jihad, voltando le spalle a famigliari disperati, ridotti a implorarli di tornare a casa davanti agli obiettivi delle telecamere e ad assumere mediatori che cerchino di recuperarli dalle zone di guerra.
È una di quelle cose che temono tutti i genitori e i fratelli della loro comunità, il ritorno di un membro della famiglia alla violenza per fuggire dalla quale hanno messo a repentaglio la vita. È l’incubo degli immigrati. Ma è anche un fenomeno molto raro e Sofia lo sa. Quasi tutti i suoi amici hanno troppo buonsenso. Sono quelli vulnerabili a cadere nella trappola. Quel pensiero la induce tuttavia a chiedersi: “Può Abdi essere vulnerabile a questo genere di influenze?”.
È contenta che gli squilli del telefono la distraggano.
È il Tim del Welcome Center.
«È difficile che possa servire a qualcosa», dice, «ma ho fatto qualche domanda in giro e uno dei miei altri volontari, un certo Dan che venerdì sera lavorava con Abdi, dice che dopo che tua mamma è svenuta Abdi era molto agitato e cercava informazioni su una certa persona. Al momento Dan non ha un telefono, ma il giovedì lavora all’Hamilton House, dunque se vuoi parlargli dovresti poterlo trovare lì».
Sofia prende di nuovo il treno. L’Hamilton House è a pochi minuti a piedi dalla galleria dove espone Ed Sadler. Quando ci arriva, sale i gradini dell’ingresso e passa intorno a uno Staffordshire Terrier legato alla ringhiera con a fianco una ciotola d’acqua. Sullo stretto terrazzino c’è una coppia che beve un caffè e fuma una sigaretta, imbacuccata in strati di indumenti caldi di vario colore.
Sulla fiancata dell’edificio accanto c’è un grande murale di Banksy, The Mild Mild West, uno dei suoi preferiti. Il muro opposto è stato dipinto interamente d’oro a spray e su quello sfondo è stato disegnato Gesù con uno straccio a coprirgli i lombi, che fa una verticale su una mano sola. Sofia non ha idea se debba significare qualcosa.
Nel caffè al piano terra una donna le indica dove può trovare Dan. Passando davanti a corsi di yoga e studi di artisti finisce finalmente in un ampio spazio dove ci sono sedie allineate davanti a uno schermo. Dan è lì a trafficare con un proiettore. Per qualche secondo lo schermo si anima di movimenti in un borbottio di suoni. È un film in bianco e nero.
Dan la riconosce. È un sollievo, perché non lo conosce molto bene.
«Ehi», la saluta. «Sofia?».
Si siedono in ultima fila.
«Puoi dirmi che cosa ha detto Abdi venerdì?»
«Certo. A proposito, mi spiace molto che sia scomparso. Sono sicuro che tornerà. Ha sempre mostrato di essere molto legato alla famiglia ed è sempre stato amico di tutti».
Sofia si sente gonfiare il cuore.
«Scusa», ritratta lui. «Non volevo metterti in imbarazzo. Quando tua mamma è svenuta, tutti l’hanno fatta sedere e le hanno portato delle cose. Amina soprattutto si è preoccupata che stesse bene. Tua mamma era stordita e agitata e stavamo pensando di chiamare un’ambulanza, ma non ha voluto sentirne parlare. Mentre era seduta, Abdi si è messo a girare per la sala chiedendo a tutti se avevano visto un uomo con una cicatrice sul labbro superiore. Sembra che fosse vicino a tua madre quando ha avuto quel mancamento. Non so se Abdi pensava che quell’uomo le avesse detto qualcosa di orribile o l’avesse insultata e volesse rinfacciarglielo. Fatto sta che non c’era più. Un paio di persone se lo ricordavano, ma nessuno sapeva chi fosse. Quella sera avevamo il pienone, un manicomio. Ma ricordo questo fatto di Abdi che chiedeva in giro, perché non l’avevo mai visto così alterato. Poi si è calmato quasi subito e Daniella li ha riaccompagnati a casa. Adesso che te l’ho raccontato, mi sembra tutto abbastanza stupido. E tu hai fatto tutta questa strada per venire fin qui. Comunque è un fatto che Abdi cercava un tizio e che non sembrava lui».
«Mi è stato di grande aiuto, grazie», dice Sofia. «Sei stato davvero gentile».
«Ti spiace se…». Dan indica lo schermo. «Il film deve cominciare tra mezz’ora».
Si alza e torna a trafficare con il proiettore. La macchina si mette in moto e Sofia, alzatasi a sua volta, si ritrova con immagini in bianco e nero che le scorrono sul cappotto.
Alza una mano per proteggere gli occhi mentre si sottrae al fascio di luce. «Grazie», ripete.
«Immagino che non hai voglia di restare, vero?», chiede lui.
«No. Devo rientrare a casa».
«Ovvio. Ma torna pure quando vuoi. Il giovedì proiettiamo dei film. Sei sempre la benvenuta. E spero che ritroviate Abdi. Sono sicuro che rispunterà presto. Se c’è nient’altro che posso fare per aiutare a…».
Tornata giù, Sofia compra un tè al gelsomino e sceglie un tavolo da cui può vedere la strada.
Guarda di nuovo la foto che ha scattato alla galleria con il telefonino, quella dell’uomo con il labbro leporino che sta guardando una partita di football.
Non può essere sicuramente una coincidenza, pensa, il fatto che l’uomo che ha provocato lo svenimento di sua madre avesse una cicatrice sul labbro superiore. Significa che l’uomo della foto è a Bristol? Può essere quello il motivo per cui Abdi chiedeva di quella foto nella registrazione? O è lei che sta vedendo connessioni impossibili?
Apre il Messenger di Facebook. C’è un ottimo wi-fi al caffè.
Clicca sul nome di Abdi e allega la foto a un messaggio.
“Questo cosa vuole dire?”, scrive sotto e invia.
Non può sapere se lo riceverà, ma prega che così sia.
Sono le sei del pomeriggio quando io e Woodley arriviamo alla scuola dei ragazzi per interrogare Imran Fletcher-Kapoor sulla sua amicizia con Noah e Abdi. Possiamo prendere due piccioni con una fava perché sarà presente anche Alistair Hawkes, l’insegnante a cui Abdi ha inviato l’e-mail con le sue perplessità sul tema e la sua borsa di studio.
Prima vediamo la preside per informarla della morte di Noah, ma le chiediamo di tenere per il momento la notizia per sé. Dopo che si è ripresa, ci accompagna in una stanza annessa all’atrio dell’istituto dove ci aspettano Imran con la madre e l’insegnante.
«Sarah Fletcher», si presenta la donna alzandosi per stringerci la mano. «Sono avvocato», aggiunge come se avessimo l’intenzione di incriminare suo figlio invece che di scambiare due parole.
L’uomo in pantaloni cachi, giacca scura e cravatta reggimentale si presenta come Alistair Hawkes.
Imran è un ragazzo magrolino, che deve aver però sovrastato Noah Sadler. Ci fa un bel sorriso quando ci presentiamo, ma si morde in continuazione le unghie, eccetto quando sua madre lo ferma posandogli una mano sul braccio. Indossa un paio di occhiali con la montatura nera alla moda e lancia spesso sguardi nostalgici fuori della finestra.
Sarah Fletcher mi precede prima che riesca ad aprire bocca. «Vuoi raccontarlo tu con parole tue, Imran?», dice rivolta al figlio.
Il ragazzo guarda prima Woodley e poi me. La sua è l’espressione di chi sta valutando con chi ha a che fare, la qual cosa mi incuriosisce sulla sua disponibilità a confessare d’aver venduto il tema. Credo che stia cercando di intuire quanto conosciamo dei retroscena del caso.
«Puoi dirci tutto quello che vuoi», lo esorto. «Tutto può essere d’aiuto».
Lui guarda sua madre. Lei lo incoraggia con un cenno.
«Noah Sadler ha spinto Abdi a non essere più mio amico».
La preside si schiaccia il mento sulla gola e inala rumorosamente dal naso. È la reazione all’atteggiamento offensivo di uno studente che non sa più raccontare la sua versione o ha qualcosa che considera falso o forse esagerato. Non saprei dire quale.
Sarah Fletcher se ne accorge e contrattacca. «All’epoca ce ne siamo lamentati, ma non è stato fatto niente».
«Vuoi dirci qualcosa di più?», chiedo.
Imran ci descrive una serie di comportamenti, cose piccole ma un po’ poco piacevoli, di cui Noah Sadler si era reso responsabile quando era tornato a scuola dopo aver trascorso un periodo in ospedale. Erano tutte azioni che sembravano calcolate allo scopo di porre fine all’amicizia che si era sviluppata durante la sua assenza tra Abdi e Imran.
«Se si prende ciascun episodio separatamente», interviene la madre, «sono solo piccoli screzi sui loro rapporti interpersonali, ma messi tutti insieme costituiscono senza dubbio un caso di bullismo di basso livello».
Alistair Hawkes dà segni di disagio ma non dice niente. La preside rimane immobile a labbra compresse.
Io non sono molto preoccupato su quali conseguenze questi fatti possano avere avuto su Imran, perché mi dà l’idea di essere un ragazzo più che in grado di assorbirli, ma è interessante andare un po’ più a fondo sullo scontro che c’è stato tra Noah e Imran per conquistarsi l’affetto di Abdi. È un piccolo triangolo complicato.
«Secondo te come l’ha presa Abdi?», domando.
«È una cosa che detestava con tutto il cuore, ma sentiva di dover proteggere Noah».
«Sai perché?»
«Perché Noah non piace a nessun altro».
«Perché dici così?»
«È troppo arrogante. Va tutto bene finché fai quello che vuole lui, ma se non lo fai, va a dirlo a sua madre e lei telefona a scuola e dice che lo stai maltrattando».
Alistair Hawkes si schiarisce la gola prima di intervenire. «È successo una o due volte».
«Avete indagato?»
«Abbiamo verificato, ma il comportamento che abbiamo rilevato era da considerarsi più esuberanza che maltrattamento. Ci sono genitori molto sensibili a questo genere di cose, però, e soprattutto in un caso come quello di Noah con la sua situazione clinica, credo che sua madre temeva potesse soffrire più di altri dei nostri studenti in condizioni di salute migliori della sua. Il professor Jacobson ha sentito i ragazzi coinvolti».
Il tipo massiccio con cui avevamo già parlato ai campi di squash.
Intercetto gli occhi di Imran. «Cosa pensava Abdi della sua amicizia con Noah? Ne parlava?».
Lui si stringe nelle spalle. «Non proprio. Un pochino».
«Ricordi cosa diceva?»
«Diceva che in certi momenti era intensa».
«In che senso?»
«Perché Noah era appiccicoso».
«Nient’altro?»
«Forse qualche volta Noah era troppo competitivo».
«Competitivo su cosa?»
«Gli scacchi e certe volte sui voti a scuola». Guarda sua madre. «Io mi sono tenuto fuori da quello».
«Erano anche buoni amici l’uno con l’altro o c’era solo competizione?»
«Sono migliori amici. Se la ridono l’uno con l’altro. Alle volte dà fastidio».
«Tu sei geloso della loro amicizia?». Faccio fatica a evitare di parlare di Noah al passato.
Imran scuote la testa. «Quando ho cominciato a frequentare questa scuola volevo diventare amico di Abdi, ma quando Noah è tornato dall’ospedale non ne valeva veramente più la pena, perché ha reso tutto difficile».
«E ti sei arrabbiato per questo?»
«All’inizio un po’, ma poi mi sono fatto degli altri amici».
Sorride e io gli credo. Mi dà l’impressione di essere piuttosto socievole. Credo che gli sia abbastanza facile legare con i compagni.
La madre guarda me e Woodley e di nuovo me e drizza la schiena.
«Abbiamo finito? Imran ha una lezione di karate».
«C’è solo ancora una cosa che voglio chiederti, Imran», dico. «Non ci vorrà più di un minuto e poi potrai andare. Finora sei stato di grande aiuto».
Si rilassa con un sorrisone da Stregatto, compiaciuto d’aver superato l’esame e pregustando la libertà.
«Riguarda un tema».
Il sorriso gli scompare dalla faccia.
«Sai di cosa sto parlando?»
«No».
«Hai mai scritto un tema che poi hai venduto o ad Abdi o a Noah?».
Fa segno di no con la testa ma non è un bugiardo patentato. I suoi occhi schizzano di qua e di là mentre cerca di mettere assieme una spiegazione. Sua madre si accascia contro lo schienale con la faccia di chi ha morsicato un limone. Non c’è traccia di sorpresa né sul suo volto né su quello degli insegnanti presenti nella stanza. Sanno già tutto, proprio come immaginavo.
«Ho aiutato Abdi con un tema», è quello che tira fuori il ragazzo.
«Puoi spiegare meglio che cosa intendi con “aiutato”?». Voglio i particolari.
«Abdi era rimasto indietro con il suo lavoro e non aveva tempo per scrivere il tema». Imran lancia un’occhiata agli insegnanti. «Così l’ho aiutato io».
«Te lo ripeto, in che modo di preciso lo hai aiutato?».
Si morsica un’unghia. «Gli ho scritto il tema».
«E lei ne era al corrente?», domando alla preside.
«Certamente. Abbiamo preso i provvedimenti previsti dai nostri protocolli e la madre di Imran è stata informata».
Sarah Fletcher-Kapoor conferma con un secco cenno del capo.
«È una cosa che hai fatto spesso?», chiedo.
«Solo quella volta. Abdi era davvero nei guai».
«Ad Abdi è stato offerto sostegno ufficiale da parte dell’istituto. L’episodio è stato affrontato nella maniera appropriata per ciascuno dei ragazzi coinvolti». È Alistair Hawkes che fa la sua parte. Tormenta tra pollice e indice l’angolino di un foglio che sporge da una cartelletta che tiene sulle ginocchia. Disagio o noia, è difficile a dirsi.
«Avete informato i suoi genitori?». Mi chiedo perché non ce ne abbiano parlato.
«Gli abbiamo scritto. Era il metodo preferito di comunicazione con loro per via dei problemi di lingua».
Annuisco e penso a come sarebbe stato facile per Abdi intercettare una lettera o raccontare alla madre qualcosa di diverso da quel che c’era scritto quando gliel’ha tradotta.
Sarah Fletcher-Kapoor mi guarda con le sopracciglia levate e si piazza la borsetta su un ginocchio segnalandomi che abbiamo consumato abbastanza del tempo suo e di suo figlio.
«Abbiamo finito qui? Non credo che Imran abbia altro da aggiungere».
Imran mi guarda fisso e per la prima volta non si dimena. Sa che non abbiamo ancora finito.
«Quanti soldi hai preso per il tema, Imran?».
«Cosa?», interviene la madre e i due insegnanti siedono più eretti… e anche più tesi. È chiaro che non sapevano che Imran avesse guadagnato economicamente dall’aver scritto quel tema.
«Venti sterline? Trenta? Quaranta?».
Imran scuote con forza la testa, ma io ho bisogno di sentirglielo ammettere. È importante che sappia se Noah stava comprando favori per Abdi o Abdi si arrangiava da solo. Mi serve per stabilire chi esercitava il potere nei rapporti tra loro tre.
«Una copia di Grand Theft Auto 5 costa quaranta dollari se la compri nuova», dice Woodley, «quindi dev’essere una cifra in quell’ordine di grandezza. Se però ne trovi una di seconda mano da un amico o magari da uno dell’ultimo anno, potrebbe venire a meno».
«Cosa ne pensi, Imran?», pungolo io.
Mi sembra di scorgere un briciolo di irritazione nel fondo dei suoi occhi, anche se riesce a contenerla con molta efficacia. Sa d’essere stato messo con le spalle al muro, ma fa comunque un ultimo tentativo.
«Non saprei», dice.
«Imran non fa giochi violenti», dichiara sua madre. «Non gli permetteremmo mai di giocare a un videogame come quello».
Ma mentre parla, vedo la sua mente mettere dei tasselli al loro posto giusto. «Hai venduto quel tema? Hai venduto un tema per poter comprare un videogioco violento senza che noi lo sapessimo? Imran! Rispondimi!».
Provo un po’ di compassione per il ragazzo. Non è stata una gran bella azione smascherarlo in quel modo, ma ho la sensazione che saprà rimettersi in piedi.
Tiene la testa bassa incassando i rimproveri di sua madre sotto gli sguardi aggrottati degli insegnanti, ma scommetto che il suo cervello sta lavorando a cento miglia all’ora nell’architettare il modo di minimizzare il danno ed ecco che se ne viene fuori con una difesa a velocità impressionante.
«Mi spiace davvero tanto, mamma», dice. «È vero che l’ho fatto, ma ho odiato quel gioco appena l’ho provato. L’ho regalato subito. Era orribile. Te lo giuro, l’ho eliminato. Mi vergognavo di averlo preso».
«Chi ha pagato per il tema?», gli domando. «Noah o Abdi?»
«È stato Noah. Lo ha comprato lui per Abdi perché Abdi non aveva i soldi».
Poco dopo io e Woodley li lasciamo.
«Non credo che oggi Imran andrà a lezione di karate», commenta Woodley.
«Un giovanotto con un forte spirito imprenditoriale». Ammetto di provare un certo rispetto per lui. Io a scuola non sarei mai stato capace di fare una cosa così.
«Mi fa sentire molto felice di non aver fatto l’insegnante», dice Woodley. «T’immagini star lì ad ascoltare chissà quante volte tutte quelle scuse e quelle bugie?»
«Somiglia un po’ al lavoro dei poliziotti».
«Okay, sì, te lo concedo. Ma almeno quando prendiamo i bugiardi possiamo sbattergli un paio di manette ai polsi e non ci sono madri che si mettono tra i piedi. Dico, che razza di tipo è quella lì? “Sono un avvocato”». Imita molto bene la voce di Sarah Fletcher-Kapoor.
Mi fa ridere, così non gli ricordo di Rachel, la madre di Ben Finch, o di Fiona Sadler e Maryam Mahad, tutte madri che non hanno potuto evitare di finire immischiate nei guai dei loro figli.
Intorno a noi si accendono centinaia di luci di stop nel traffico dell’ora di punta sulla via della centrale.
Io sento che l’immagine che mi sono fatto della personalità di Noah Sadler sta prendendo forma. Era molto malato, disperatamente desideroso di avere un amico del cuore e abbastanza furbo da usare tutte le sue risorse per conservarselo. Mi domando però se i suoi sforzi non abbiano finito per alienarsi Abdi o se Abdi traesse soddisfazione dalle sue attenzioni e dall’aiuto che riceveva per il suo rendimento scolastico.
Quello che non riesco a inquadrare fino in fondo è Abdi. Ho trovato interessante scoprire che ogni tanto aveva dei problemi con la scuola nonostante fosse più che in gamba negli studi. Mi chiedo se abbia preteso troppo da se stesso o se, come ha sostenuto Imran, l’episodio del tema è stato un caso estemporaneo.
In un senso o nell’altro non getta molta luce sul caso. Un’amicizia iperprotettiva darebbe ad Abdi un movente per voler far del male a Noah se la situazione fosse diventata tanto insostenibile da fargli perdere le staffe con l’amico. Ma sarebbe strano se fosse successo sulla sponda del canale perché il fatto stesso di essere andati laggiù presume un notevole lavoro di preparazione da parte di entrambi.
L’istinto mi dice che in questo caso non c’è stata premeditazione, si è trattato di un incidente. D’altro canto resta la teste…
Questo fatto che ogni nuovo particolare che aggiungiamo al quadro faccia pendere la bilancia ogni volta da una parte diversa, spostando di qua e di là la probabilità che sia stato l’uno o l’altro dei ragazzi a mettere l’amico nei guai, non fa che aumentare la mia frustrazione.
Sono anche cosciente che ci resta soltanto un piccolo spiraglio per ottenere informazioni con la discrezione necessaria. Non possiamo nascondere ancora per molto la morte di Noah e c’è la possibilità che quando si verrà a sapere si scatenerà un putiferio.
«Sai una cosa?», dico a Woodley. Sta tamburellando sul volante un pezzo degli anni Novanta. «Doveva giusto capitare a due sfigati come noi che questo caso facesse gola ai media».
Mi scocca un’occhiata. «Stai alludendo al caso Ben Finch?»
«È l’ultima cosa di cui ho bisogno. Appena si saprà che Noah Sadler è morto ci piomberanno addosso come avvoltoi. Sai che se appena possono butteranno tutto in politica per via del retroterra etnico e questo vuol dire che finirà in politica anche ogni singola mossa che facciamo noi. Non ho nessuna voglia di lavorare di nuovo nella vasca dei pesci rossi».
«Con i media infilati in tutti gli orifizi», borbotta lui.
«Be’, non la metterei proprio in questi termini».
«Stiamo facendo progressi, boss. È l’unica cosa che possiamo fare».
Ha ragione. Non devo perdermi d’animo. Questo caso è la mia occasione per dimostrare che ci so ancora fare, ma non posso certo spremere sangue da una rapa. “È quello che è”, avrebbe detto mia madre. Questa espressione di pragmatismo la metteva in piedi tutte le mattine e la rimetteva a letto tutte le sere, con tutto quel che aveva intorno al posto giusto, là dove pensava che dovesse essere. Eccetto che per la fiducia in se stessa, distrutta da mio padre così efficacemente che non le fu più possibile ricostruirla.
Quando torno finalmente a casa mia sorella è di nuovo inchiodata davanti alla tele, anche se il gonfiore sulla sua faccia è diminuito un po’ e ci ha preparato qualcosa in umido. Il mio campanello d’allarme suona solo per la dipendenza che sembra abbia sviluppato per il suo telefono.
«È lui?», domando quando il nostro pasto viene interrotto per la quarta volta dall’arrivo di un messaggio.
«Mi stai facendo da babysitter?»
«Pensavo che avessi chiuso con lui».
«È complicato».
Abbiamo ereditato tutti e due gli occhi di mio padre. Oro scuro. Un colore che strega e sfugge. Per un secondo mi sembra di guardare lui.
«Becky».
«Non sei il mio babysitter. Lasciamela gestire a modo mio».
Prende rabbiosa i piatti vuoti e se ne va portando con sé il telefono.
Io mi sintonizzo sull’ultima edizione delle notizie locali e sono contento di vedere che mandano ancora in onda l’appello trasmesso in diretta alle sei. Fraser l’ha registrato sui gradini della Kenneth Steele House mentre io e Woodley eravamo alla scuola. È un’altra eco del caso Ben Finch, anche se quella volta io ero di fianco a lei.
Descrive Abdi Mahad come uno “studente quindicenne di origini somale”.
“Questo comportamento di Abdi non è assolutamente nel suo carattere e siamo molto preoccupati per lui”, aggiunge guardando direttamente nell’obiettivo. “Se qualcuno sa dove si trova Abdi, è pregato di contattarci. Vogliamo sottolineare che Abdi non è ricercato per qualcosa che ha fatto”.
Il numero a cui telefonare passa in sovraimpressione sul fondo dello schermo.
Fraser ha fatto un buon lavoro, fermezza ma con cordialità, preoccupazione ma senza panico.
Becky è ricomparsa e sta guardando dalla soglia. «È il tuo caso?»
«Sì».
Torna a sedersi accanto a me. Ha lasciato il telefono nell’altra stanza.
«Da quanto è scomparso?»
«Quasi ventiquattr’ore. Il suo amico è morto ieri sera».
«Oh, mio Dio, è terribile. È per questo che è scappato?»
«Crediamo che non lo sappia».
«Hai l’aria stanca».
«Perché tutt’a un tratto sei così carina?». Sto cercando di rischiarare l’atmosfera. Non ho voglia di lambiccarmi continuamente sul caso.
«Lo hai trovato offensivo? Riformulo: hai un’aria di merda».
«Mai quanto te».
«Beccata». Si tocca con prudenza l’occhio con la punta delle dita. «Posso farti una domanda ficcanaso?»
«No».
«Hai un’amica? Non mi stavo impicciando, ma ho notato della roba nell’armadietto in bagno».
«Abbiamo rotto».
«Quando?»
«Molto tempo fa. Mi ero dimenticato della sua roba».
«Eri innamorato di lei?».
«Dritta al punto, perché no?»
«T’imbarazza?»
«No».
«Allora rispondi».
«Sì, ero innamorato di lei».
«Allora sai come mi sento io».
Dunque è lì che andava a parare. Si sta giustificando.
«La grossa differenza è che nessuno dei due pestava l’altro».
«Non riesce a trattenersi», dice e io non riesco a credere che mia sorella così intelligente e ingegnosa mi rifili questo cliché del partner violento. «Con quello che ha passato, non ha mai avuto l’occasione di crescere nella maniera giusta. Ci prova, ma è così che ha imparato».
«Non è una scusa».
«Non lo sto scusando, sto cercando di spiegare».
Adesso sono incavolato.
«È adulto. È responsabile del suo comportamento. È una cosa che si sceglie, Becky».
«Per lui non è sempre una scelta!».
«Questo è l’atteggiamento che comincia permettendogli di farla franca quando ti dice: “Ti prego ti prego, mi spiace tanto. Prendi questo mazzo di fiori da cinque sterline per scusarmi di quella pelle arrossata e, ops!, di quelle ossa rotte”, e finisce con te all’ospedale! L’ho visto succedere. Più di una volta!».
Lei mi fissa. «Credevo che avresti capito».
«E io credevo che tu fossi più furba. Le persone devono assumersi la responsabilità di quello che fanno, anche quelle a cui si vuole bene».
«Io sono tua sorella, Jim, non un qualsiasi bastardo che hai appena arrestato e ha bisogno di una lavata di capo. Ti ho detto che è complicato!».
«Becky…».
«Non devo star qui ad ascoltare queste cose. Domani sera tolgo il disturbo».
«Non è necessario».
«Buonanotte».
Sbatte la porta della mia stanza e si chiude là dentro per il resto della serata.
Quando l’orologio mi dice che è ora di dormire, non ci provo nemmeno.
Apro di nuovo la finestra spinto da una gran voglia di aria fresca, chiedendomi non per la prima volta se la mia insonnia non sia una forma di claustrofobia, la paura di trovarmi in balìa dei miei pensieri, la paura di finirne prigioniero.
La porta della mia stanza è ancora fermamente chiusa, così non posso prendere niente di quello che mi serve. Mi sdraio sul divano vestito.
La finestra mi offre una vista perfetta del cielo notturno, che questa volta è limpido, con una spruzzata visibile di stelle.
Penso ai Sadler che girano per la loro grande casa avendo per compagnia solo il dolore della loro tragedia. Penso a Becky e al suo uomo e a tutti i modi in cui possiamo sentirci intrappolati dalle nostre circostanze. Penso al ragazzo scomparso e spero che sia scaltro e sano e salvo e recito una preghiera a un dio in cui non credo, chiedendogli di far sì che Abdi Mahad non abbia le mani sporche di sangue.