Giorno 1
È un bel momento quando mi rimetto il distintivo dopo tanti mesi. Quello di ispettore è un grado per cui ho faticato parecchio.
Nel mio viaggetto quotidiano alla Kenneth Steele House, la sede del dipartimento di Investigazioni Criminali di Bristol, l’aria è frizzante e fredda e il traffico più leggero del solito. Vado via bene sulla nuova bici che ho comprato quando avevo tempo da ammazzare, tra le sedute terapeutiche e noiosi obblighi da istruttore.
La pedalata mi dà sensazioni dolcissime.
Qua e là vedo i residui di una manifestazione che ha avuto luogo la settimana scorsa nel centro cittadino, un mucchio di coni segnaletici gialli come birilli in parte abbattuti aspetta d’essere portato via a pochi passi dall’argine; le assi su alcune delle finestre sfondate fanno da contrappunto ai vetri riflettenti delle altre.
Il corteo è cominciato come un problema di scarsa entità, una seccante, piccola manifestazione antimmigrazione di un gruppo neonazista, con l’unica attenuante dell’aver previsto una partecipazione veramente esigua. I manifestanti si sarebbero probabilmente dispersi dopo un paio d’ore se il corteo fosse stato gestito bene, come sarebbe stato doveroso, e invece la situazione era scappata di mano. Disordini e saccheggi di una certa gravità si sono trasformati in un imbarazzo su larga scala per la polizia. La brutta figura ha lasciato un retrogusto sgradevole in bocca a molti cittadini.
Io però non ci penso più di tanto mentre mi reco al lavoro. Quando varco la soglia di quelle porte e rientro in ufficio sono tutto preso a tenere la testa più alta che posso.
L’ispettore capo Corinne Fraser non è per niente cambiata dall’ultima volta che l’ho vista mesi fa: occhi grigi, capelli crespi color ardesia domati solo parzialmente dal taglio a caschetto e uno sguardo più penetrante di una TAC al cervello. Si alza dalla sua scrivania e mi accoglie con una calorosa stretta bimane, ma mi augura buona fortuna in un tono con cui mi comunica che avrò da lavorare sodo per riconquistare la sua fiducia. È un bentornato, ma di quelli che ti mettono a disagio. È Fraser vintage.
L’accoglienza degli altri colleghi è accettabile. Per lo più è un piacere-di-rivederti dal sapore abbastanza genuino, anche se uno o due non ce la fanno a guardarmi negli occhi tanto a lungo quanto dovrebbero. Non c’è da vergognarsi, mi ha detto una volta la dottoressa Manelli, per quello che mi è successo, per il fatto di aver sclerato pubblicamente, ma immagino che alcuni dei miei colleghi la provino per conto terzi. Cerco di non metterla sul personale. È un problema loro, mi dico. Il mio compito è dimostrare quanto sono bravo nel mio lavoro.
È durante le “preghiere mattutine”, il suo briefing quotidiano, che Fraser mi assegna il caso del Feeder Canal. Ho la sensazione che sia contenta di avere un povero diavolo a cui appiopparlo. Il suo livello di priorità è specificato dal fatto che è l’ultimo della lista prima di una richiesta dell’amministrazione perché facciamo uno sforzo per riutilizzare i bicchierini di plastica al distributore dell’acqua.
Fraser chiede a una faccia familiare di illustrarmi i particolari del caso.
Il detective Justin Woodley mi spedisce un mezzo sorriso e si schiarisce la gola prima di leggere dal suo taccuino. Io non ho avuto molto a che fare con lui da quando mi ha guardato vomitare nel giardino di un importante testimone nel caso Ben Finch. Era stata una reazione umiliante a una brutta notizia.
Acqua passata sotto il ponte, mi dico. Tieni duro. Gli rispondo con un cenno del capo.
«Ieri notte un ragazzo di quindici anni è caduto nel canale poco distante da qui, dove c’è il deposito di rottami. L’hanno ripescato e portato al Children’s Hospital. Attualmente è messo molto male, in terapia intensiva e in condizioni critiche. Con lui c’era un altro ragazzo che abbiamo trovato sul ciglio del canale. Nessuna ferita, ma in stato confusionale. Lo stanno esaminando alla Royal Infirmary».
«E vogliono qualcuno del nostro dipartimento perché…?».
«C’è una testimone. Dice di aver avuto l’impressione che ci fosse qualcosa di strano tra i due ragazzi prima della caduta nel canale. È stata lei a dare l’allarme. È ancora disponibile».
«Cosa dice quello che sta bene?»
«Ancora non ha parlato con nessuno».
«Come mai?»
«A quanto pare non parla. Se non può parlare o non vuole, ancora non si è capito».
Woodley richiude il taccuino.
«Credo che la vittima sia un ragazzo bianco e che l’altro ragazzo sia della comunità somala, perciò la discrezione è fondamentale», precisa Fraser.
«Naturalmente».
«Sono sicura che non ti sorprenda di sapere che i fondi a disposizione sono ai minimi termini, posto che ce ne siano», continua Fraser, «perciò non spingerò più di tanto questa inchiesta a meno che ci sia qualche ottima ragione per farlo. Se possiamo metterla a dormire facilmente, facciamolo e lasciamo che se ne occupino gli agenti in divisa. Jim, su questo caso tu e Woodley lavorerete insieme».
Qualche rapido incrocio di sguardi mi dice che non sono l’unico a provare un certo nervosismo al riguardo.
Vado con Woodley a dare un’occhiata al posto.
È a meno di mezzo miglio dalla Kenneth Steele House, in Feeder Road, e non è la destinazione più panoramica di Bristol. Passiamo sotto un cavalcavia di cemento, macchiato e coperto di graffiti, che trasporta su quattro corsie il traffico da un angolo all’altro della città. È opprimente. Anche in una bella giornata il soffitto è tetro e l’ombra che proietta è densa.
Dall’altra parte del cavalcavia, sulla strada lungo il canale ci sono soprattutto capannoni, magazzini e officine meccaniche, che per la maggior parte sono provviste di protezioni ad alta visibilità in forma di paletti appuntiti o filo spinato.
«Tu senti puzza di fregatura?», mi chiede Woodley.
«Chissà. Dipende da cosa ha visto la teste. Potrebbe essere qualcosa o niente».
«È saltato o l’hanno spinto?». La fa sembrare come una provocazione. Mi sono dimenticato che Woodley ha un notevole senso dell’umorismo. Mi scappa da sorridere.
«Qualcosa del genere».
Woodley fa un verso a bocca chiusa. «Piena confessione: ho fatto un casino di quelli grossi su un caso. Ho perso delle prove».
Mi ci vuole un momento per assimilarlo. Si vede che non sono l’unico a portarsi in giro un peso sulle spalle.
«Che caso era?». È importante.
«Abuso su minore».
«C’è stata una conseguenza negativa?»
«Sì. Al padre è stato consentito di tornare in famiglia. Era colpevole come il peccato. Colpa mia».
È il peggior caso possibile su cui commettere un errore.
«Capita ai migliori di noi», sentenzio anche se non sono sicuro che lo conforti minimamente. Non so che cosa dire. Non sono nella posizione di poterlo giudicare, ma adesso capisco perché Fraser ci ha messi a lavorare insieme. Siamo gli ultimi due a venire scelti per fare squadra. Su questo caso affonderemo o nuoteremo insieme.
«Per quel che vale», dice dopo che ci siamo inoltrati per un po’ lungo il canale, «sul caso Ben Finch secondo me hai lavorato più che bene. Sono in molti a pensarla così. Hai seguito quello di cui eri convinto».
Lo guardo. Naso come un trampolino da salto con gli sci, un piccolo ciuffo di capelli rarefatti sulla testa e quegli occhi svegli, che cercano una reazione nei miei. Ha ancora voglia di protagonismo, credo. È un bene per entrambi.
«Grazie. Io…», ma non so cos’altro aggiungere, mi sembra troppo presto per questa discussione con un collega. Non sono pronto. Woodley non insiste.
Più avanti ci spostiamo sull’argine per esaminare la scena dell’incidente. L’acqua ha un aspetto viscoso e poco invitante. I bordi sono inzaccherati da fango marrone chiaro e sembra che la vegetazione lungo i margini sia stata depressa in via definitiva dal prolungarsi dell’inverno. Qualche centinaio di metri a est c’è un pescatore imbacuccato in indumenti da pioggia.
Di fianco a noi ci sono un capannone abbandonato e un piccolo ponte pedonale vittoriano sul canale. È invaso da erbacce e rifiuti. Sotto uno strato di vernice nera che si squama come un caso grave di psoriasi, la struttura è troppo arrugginita per far pensare che possa durare altri cento anni.
Sull’altra sponda vediamo il deposito di rottami dove ha avuto luogo l’incidente.
Non riesco a figurarmi che cosa possano esserci andati a fare due adolescenti. C’è atmosfera di abbandono e desolazione. Ci saranno venuti a cazzeggiare, a sfidarsi l’un l’altro a scavalcare il recinto o in cerca di un posto dove bere o farsi una canna di nascosto.
«Io dico che questo è un gianchetto», borbotto. Guardo l’acqua torbida. Non c’è niente da vedere eccetto le gambe di un carrello della spesa finito a pancia all’aria sull’argine. «Minutaglia da frittura. Ma sempre meglio che dirigere il traffico».
Con il senno di poi confesso d’aver dato a Woodley una prospettiva sbagliata, perché nessuno dei due aveva riconosciuto questo caso per quello che era in realtà: minaccioso, forte e insinuante, di quelli che forse non fanno onde all’inizio, ma sanno rivoltarsi di scatto e sorprenderti con un morso più tagliente di un rasoio. Questo caso era in realtà uno squalo.
Ovvio che io non l’abbia riconosciuto. Non lo ha fatto nessun altro, dunque perché avremmo dovuto riuscirci noi?
Se lo avesse saputo, Fraser non ce lo avrebbe mai assegnato.
Quando la famiglia Mahad arriva al Pronto Soccorso della Bristol Royal Infirmary, l’oscurità si va dissolvendo sopra la città, indugiando solo in qualche sacca.
I parenti hanno pochissime informazioni, niente più di uno scarno resoconto di quello che è successo ad Abdi.
I poliziotti che accompagnano i Mahad salutano due colleghi davanti all’entrata posteriore del Pronto Soccorso. Stanno parlando con un uomo appoggiato al muro, con del sangue coagulato nei capelli. Fuma avidamente una sigaretta. Sta parlando di salvezza. Metà della sua faccia è al buio, ma la luce diffusa da una lampadina attraverso la sua gabbietta di ferro ne illumina abbastanza perché Sofia noti che le sue pupille sono due spilli. Quando l’uomo vede Maryam, la sua agitazione aumenta.
«È di questo che sto parlando», dice. «Portano quel tipo di vestito che ci puoi nascondere sotto le bombe». Si lancia verso i Mahad. «Tornatevene nel vostro Paese del cazzo! Siete dell’ISIS, fottuti terroristi!».
I poliziotti reagiscono con prontezza, lo trattengono, ma non prima che un fiotto di sputo cada ai piedi di Sofia.
Nur si mette tra la sua famiglia e lui e sospinge le donne nell’ospedale. La sua espressione è perfettamente composta, ma ha il respiro corto. Sa che quelle sono le parole di un ignorante e quasi certamente uno squilibrato, ma feriscono lo stesso.
La sala d’aspetto è piena di file di seggiole disposte come all’aeroporto in maniera che gli infortunati e i malati possano passare il tempo guardandosi l’un l’altro. I poliziotti aiutano la famiglia a evitare la fila all’accettazione. Un’infermiera li accompagna per uno stretto corridoio dove ci sono le corsie con i letti, ciascuno con una tenda che assicura solo un minimo di intimità.
Davanti a un letto c’è un poliziotto che si sta facendo di caffè. Si sposta in modo che i Mahad possano infilarsi dietro la tenda.
C’è Abdi nel letto. Guarda i suoi parenti, ma sembra che non li veda.
Genitori e sorella cercano sul suo volto qualche spiegazione di quello che gli è capitato e non trovano niente di rassicurante. In lui resta poco del ragazzo che amano.
Non c’è animazione sul suo viso, nessuna scintilla di vita negli occhi, nessun guizzo dei muscoli intorno alla bocca a indicare che sta per sorridere o prenderli dolcemente in giro. È finito in un posto vuoto e muto.
Alla sua vista, Maryam sente dentro di sé il nero sfarfallio della paura. Non osa guardare Nur per tema di vedere riflessa nella sua espressione la sua sensazione di crescente terrore.
«Oh, Abdi», mormora.
Sofia guarda la madre chinarsi a posare la guancia su quella del figlio. Vede che Maryam cerca di abbracciarlo per bene, ma Abdi non fa niente per aiutarla. La madre si ritrae e gli prende invece la mano. Sofia pensa che ci sia una strana energia che scorre tra loro due.
Lo spazio intorno al letto è minimo, ma Sofia e Nur sfilano l’uno intorno all’altro per cercare a loro volta di abbracciare Abdi. Lui non reagisce a nessuno dei due. Lo trovano entrambi un po’ irrigidito, ma è come se non fosse veramente lì. Tornano indietro e sostano sulle spine nei pressi del letto, cercando di non fissare il ragazzo, senza sapere cosa fare o dove mettersi.
Sofia cerca uno spunto dalla madre, perché spesso è Maryam a determinare il clima emotivo della famiglia. Sofia non sa se sua madre sottoporrà Abdi a un interrogatorio, lo sgriderà o gli rimboccherà le coperte e gli accarezzerà la fronte. Si aspetta che Maryam faccia una di queste cose, se non tutte. Pensa all’affetto di sua madre come a una pioggerella delicata. Inzuppa con dolcezza e quando è tiepida dà la sensazione più bella al mondo. Quando è fredda molto meno. In tutti i casi l’amore di Maryam è per Sofia altrettanto intenso e incessante.
Maryam fissa il figlio per un tempo incalcolabile. Guarda Nur, che, interpretando la sua muta richiesta, prende il suo posto al capezzale di Abdi.
«Abdi, siamo qui per te. Qualunque cosa sia successa, puoi raccontarcelo».
Passa delicatamente il dorso delle dita sulla tempia del figlio.
Abdi sussulta lievemente e muove la testa sul guanciale.
Sofia sente il formicolio delle lacrime. Pensa che preferirebbe forse vedere Abdi fisicamente ferito piuttosto che in quello stato.
«È tutto a posto», gli dice Nur. «Andrà tutto bene. Nessuno si arrabbierà».
Abdi chiude gli occhi.
Nur tiene duro. «Abdi, mi dici cos’è successo?».
Niente. Sofia non ce la fa ad assistere.
Di fianco a loro un dottore sta interrogando un paziente e Sofia entra ed esce dalla conversazione.
«Che cosa ha fatto?», chiede il medico. Ottiene una risposta confusa che Sofia non riesce a sentire bene attraverso il divisorio.
«Abdi». Nur non desiste. La totale passività di Abdi lo fa soffrire troppo. Scuote leggermente la spalla del ragazzo e Abdi si gira sul fianco, gli volge la schiena.
«Perché?». Dal letto accanto la voce del dottore arriva più sostenuta.
Nur guarda Maryam e lei alza le spalle. Nemmeno lei sa come far breccia in Abdi. Si copre la bocca con la mano.
«Perché lo ha fatto?», chiede di nuovo il dottore. «Mi dica perché lo ha fatto».
“Dev’essere un tentato suicidio”, pensa Sofia. Ascoltare è insopportabile. Per forza Abdi è in quello stato. Non dovrebbe essere lì.
Mentre Nur fa un altro tentativo per indurre Abdi a parlare, Sofia sposta la tenda sorprendendo l’agente che c’è fuori.
«Perché mio fratello è qui?», domanda e mentre pensa solo a riportare a casa Abdi si dimentica la sua timidezza. «Questo è il posto sbagliato. Dovrebbe essere al Children’s Hospital. Ha solo quindici anni».
«Il solo documento di identità che gli abbiamo trovato addosso è una tessera della biblioteca, perciò se non ci parla, noi non possiamo sapere quanti anni ha», risponde il poliziotto. C’è un tubo al neon sopra di lui che saltella. «Abbiamo dovuto tirare a indovinare e abbiamo calcolato che dovesse avere sedici anni o più, visto che è un bel ragazzone».
A Sofia poco importa delle sue spiegazioni. Vuole azione.
«Be’, invece ne ha quindici e vorremmo portarlo a casa». È convinta che Abdi sia in stato di choc, che a loro parlerà e che se solo lo portano via da lì, diventerà una versione più riconoscibile di se stesso. Aspetta che il dottore finisca con il paziente accanto e pretende notizie aggiornate su Abdi.
«Fisicamente lo abbiamo trovato a posto», dice il medico sfilandosi dalle mani e buttando in un cestino un paio di guanti sporchi di sangue. «Ma pensiamo che possa soffrire di confusione post traumatica. Potete portarlo a casa, ma dovete tenerlo al caldo e a riposo, sorvegliandolo come si deve».
«Ha detto niente da quando è qui?».
Pensa a come si è comportato Abdi quando è andato a trovarla proprio in quell’ospedale alla fine di una delle sue giornate di tirocinio. Non c’era nessuno nel reparto che non avesse salutato con effusione, non una mano che non avesse stretto e non una domanda che avesse tralasciato con il primario che si era intrattenuto a chiacchierare con loro.
«Non mi pare. È possibile che sia vittima di una specie di trauma emotivo per qualcosa a cui ha assistito». Il medico sembra intenerirsi e le concede qualcosa. «Riposare a casa sarà certamente meglio per lui che restare qui».
Sofia sostituisce Nur al capezzale di Abdi mentre i genitori vanno a sistemare la burocrazia per il rilascio.
«Riposa, Abdi», gli sussurra. Gli posa una mano titubante sulla spalla e lui le permette di tenerla lì per un momento prima di liberarsene.
«Va bene», dice lei. «Ti lascio in pace. Presto ce ne andiamo a casa».
Si richiude le mani in grembo e ricorda che quando Abdi era un bebè aveva preso a seguirla dappertutto appena era stato in grado di muoversi e cercava di copiare tutto quello che faceva lei. Se lei aveva studiato il suo faccino nei minuti subito dopo la sua nascita, lui aveva studiato quello di lei un milione di volte negli anni successivi. Ricorda il suo sorriso tutto gengive, il suo sorriso con il primo dentino, il suo sorriso sdentato, e il sorriso che era venuto dopo, quando i suoi nuovi denti da adulto sembravano troppo grandi per la sua faccia. Ha l’impressione che loro due siano stati cuciti insieme alla nascita del fratellino e che così rimarranno per sempre.
Riuscirà a parlare quando sarà a casa, dice a se stessa, e lo dice a voce alta ai genitori quando tornano da lei.
I poliziotti li accompagnano fuori e offrono loro un passaggio.
Mentre vanno al parcheggio, Sofia vede il Children’s Hospital lì accanto. Le hanno detto che è là che hanno ricoverato Noah. È logico. Impossibile scambiarlo per un ragazzo di sedici anni.
Le condizioni di Noah sono critiche. La polizia lo ha spiegato ad Abdi, apparentemente nel tentativo di persuaderlo a parlare. Sofia si domanda fino a che punto sia stata una mossa saggia.
Si domanda anche che cosa abbia visto Abdi e che cosa abbiano fatto lui e Noah.
Quando deglutisce, l’unico sapore che sente è quello della paura.
«Noah», dice la mamma. «Puoi aprire gli occhi, tesoro?».
No che non posso.
Mi chiede di stringerle la mano, ma non posso fare nemmeno quello. Non posso muovere niente.
«Allora?», chiede papà.
«No».
Credo di sentire le dita della mamma che aumentano la pressione sulle mie. «Noah!», dice poi un po’ più forte di prima. «Mi senti? Puoi stringermi la mano, Noah, anche solo un pochino?».
La mia prima reazione è di pensare che potrò farlo dopo, ne sono sicuro. Ma poi non ne sono così sicuro, perché in questo momento è tutto un po’ grigiastro. Non so bene cosa stia succedendo. C’è una sola cosa chiara nella mia mente, un ricordo molto recente. È il fatto indimenticabile e irreversibile di aver avuto quello scambio di parole, quello in cui ti dicono che la bici ha perso le ruote e che non c’è modo di rimettergliele.
«Quanto tempo abbiamo?», ha chiesto la mamma a Sasha il giorno che abbiamo ricevuto la notizia. Eravamo in quella stanza all’oncologia pediatrica che dovrebbe servire ai genitori da rifugio quando le cose si fanno difficili. Ma la usano solo le famiglie che sono nuove del posto, perché tutti gli altri sanno che è la “stanza delle brutte notizie”. Si impara a evitarla come la peste.
Sasha è la mia oncologa. Il nome per intero è dottoressa Sasha Mitchell, con un sacco di lettere dopo, ma sono otto anni che mi ha in cura, così siamo saldamente ancorati a un rapporto più confidenziale.
«Non so prevederlo con nessuna accuratezza», ha detto alla mamma. «Mi spiace». Teneva stretta la mano della mamma e io ero contento perché la mamma sembrava sul punto di vaporizzarsi se qualcuno non l’avesse tenuta fisicamente. «Ma se non intervengono fenomeni inaspettati, spererei in un paio di mesi. Possiamo discutere su come alleviare i sintomi di Noah in maniera che questo periodo sia il più gradevole possibile, ma temo che di più non si possa fare».
Silenzio.
«Sono davvero dispiaciuta», ha ripetuto Sasha. Io non volevo che mi guardasse.
Quella mattina papà non era con noi. Era in aereo di ritorno a Bristol da non so dove.
Con noi c’era Sheila, la mia infermiera preferita, compresa nella cerchia delle brutte notizie. Anche lei mi cura da anni, proprio come Sasha.
Sulle ginocchia ha la mia documentazione clinica, un pacco di carte così grosso che nessuno lo ha ancora trasferito nel sistema elettronico. Gli appunti sono raccolti in diverse cartellette, tutte che sembrano sul punto di scoppiare da tanti fogli contengono, spiegazzate e macchiate di caffè, tenute insieme da laccetti fermacarte. Mi seguono in giro per l’ospedale dovunque vada per una terapia. I carrelli sembrano doversi sfondare sotto il loro peso e le infermiere devono portarle usando entrambe le braccia. Documentano tutto quello che mi è successo. Le famiglie che non sono qui a lungo come me le guardano con apprensione. Una delle copertine ha assorbito una lacrima di Sheila. Mi chiedevo che cosa ne avrebbe fatto l’ospedale quando non ci sarei stato più. Le avrebbe distrutte, immagino.
Nella stanza delle brutte notizie mi sono messo a piagnucolare, per forza. Tutti e tre mi sono corsi intorno, mi sono trovato con le loro braccia incrociate sulla schiena, e la mamma si è messa a dire: «Noah, amore, Noah».
«Ma ci sono tante cose che devo fare», ho detto.
Tornando nella mia camera con la mamma e Sheila e l’asta della flebo a cui ero attaccato, ho notato che le altre infermiere abbassavano lo sguardo. Sapevano. Io volevo che mi guardassero. Ho usato un gomito per far cascare un vassoio che una di loro aveva lasciato in una posizione precaria. Siringhe e fiale sono saltellate sul linoleum. Il colore del quarto piano al Children’s Hospital di Bristol è il blu, se vi interessa. Pavimento blu, pareti blu. Le fiale sono rotolate a una distanza soddisfacente. Per me era come se tutto stesse avvenendo al rallentatore.
La voce della mamma ha interrotto i miei pensieri. Parla lentamente, come se fossi mezzo scemo o sordo.
«Caro, hai avuto un incidente. Sei caduto nel canale e hai battuto la testa mentre eri sott’acqua. I medici ti hanno messo in coma indotto perché pensano che sia il modo migliore per aiutarti. Sei in terapia intensiva».
«Ricordi di essere stato al canale ieri notte?», chiede papà.
Il canale: acqua nera, la superficie è una membrana densa e scivolosa finché non la colpisco e il freddo mi serra il petto.
«Con Abdi?», aggiunge.
«Non farlo», dice la mamma.
«Potrebbe ricordare».
«Non è neppure cosciente».
«Allora perché gli stai parlando e gli chiedi di stringerti la mano?»
«Perché credo che sia un bene se gli parliamo, ma non credo che si debba fargli domande stressanti. Noi non sappiamo cos’è successo».
«È stato un incidente. Cos’altro se no?»
«Non ne voglio parlare ora. Dico solo che potrebbe stressarlo».
Ha abbassato la voce, ma io riconosco lo stesso il tono che usa per informarlo che lo sa lei cosa è meglio fare. È vero. Papà non è mai a casa abbastanza a lungo da poter capire tutto della mia terapia.
Per un po’ i miei genitori restano in silenzio, poi la mamma dice che deve andare in bagno. Papà aspetta finché non sente più il rumore dei suoi passi e poi mi parla di nuovo.
«Tu sei forte, figliolo, ne veniamo fuori, vedrai. Abbiamo fatto dei programmi, Noah, e li metteremo in pratica. Non finirà così».
Sta parlando della mia lista dei proponimenti. Abbiamo stilato la lista quando è arrivato all’ospedale dopo che ho avuto la notizia. Si è sdraiato sul mio letto con me per tutta la notte con il suo odore di aeroporti e posti strani e insieme abbiamo scritto a mano la lista con un mozzicone di matita che porta sempre con sé nel taschino della camicia. Insieme abbiamo ridotto l’elenco a tredici punti. Tredici non è un numero fortunato, lo so, ma vista la situazione credo che si capisca perché non sia una cosa che mi preoccupa più di tanto.
Lista dei proponimenti di Noah - Punto 1: Non dire a nessun altro che sto morendo. Neppure ad Abdi.
«Sei sicuro di questo?», mi ha chiesto papà.
«Sicurissimo». Volevo passare le mie ultime poche settimane facendo le cose a modo mio e non le fai se gli altri sono lì a piangere o a comportarsi in modo strano.
Papà aveva il mento ruvido di barba quella notte. Io ho sempre desiderato sentire la barba sulla faccia un giorno, ma ormai non potrà più succedere.
Il cancro è un ladro maledetto di quelli tosti, abbiamo convenuto quella notte parlandone. Dal giorno della mia diagnosi si è portato via molte cose, cose che volevo fare, amici che volevo avere, esperienze che non volevo perdermi, roba normale, e adesso che ha deciso di firmare con il suo inchiostro la mia condanna a morte, stava per portarsi via anche il mio futuro.
Mi accorgo di un peso sulla mano e credo che qualcuno me la stia tenendo. Dev’essere papà, perché mi sta parlando di nuovo o almeno ci prova. Oggi non percepisco la loro temperatura, ma so che le sue mani sono sempre più calde di quelle di mia madre.
«Vorrei che ti avessimo insegnato a nuotare bene», dice. Gli si spezza la voce.
Prima della diagnosi ho seguito qualche lezione di nuoto, ma quando comincia la terapia t’infilano un tubo permanente nel petto. Lo chiamano catetere centrale. Serve perché possano spararti in circolo farmaci tossici e prelevarti del sangue tutte le volte che vogliono senza forarti in continuazione con gli aghi.
Ecco una cosa forte che ha fatto Sasha quando mi sono spaventato per una sostanza che mi dovevano iniettare, perché avevo sentito dire a un’infermiera che ti brucia la pelle. Mi ha mostrato una foto sul suo telefono di un fiorellino viola.
«Per prima cosa», mi ha detto, «questo farmaco non può bruciarti la pelle perché tu hai un sondino che ti entra nel corpo ed è lì che noi te lo iniettiamo. In secondo luogo guarda bene questo fiore. Si chiama pervinca ed è da qui che si estrae il tuo farmaco di chemio. Quando torni a casa, dai un’occhiata in giardino e vedi se ne trovi qualcuno. Se ce ne sono, devi congratularti perché può sembrare un fiorellino da niente, ma farà un gran bel lavoro nel combattere le cellule cancerogene. In questo momento ti è amico».
Poche-balle Sasha. È così che la chiama mio padre e ha ragione. Mi piaceva il suo modo di dire le cose fuori dai denti anche quando ero piccolo.
Comunque, buona o non buona che fosse, quel tubicino era anche una gran rottura. Non mi era permesso bagnarlo. Le lezioni di nuoto sono finite prima che imparassi a fare una sola vasca trasversale con sicurezza sufficiente. Patetico.
Mio padre si ripete con quella cadenza da autoflagellazione che fa impazzire mia madre: «Avremmo dovuto assicurarci che sapessi nuotare meglio».
Quando comincia con quell’avremmo dovuto, vuol dire che sta per perdere colpi alla grande ed è così che va a finire.
Una macchina comincia a bippare.
«Oh, merda. Ti ho incasinato», dice papà. Lo fa in continuazione. Mia madre sa come scivolare con la dovuta attenzione intorno al mio letto come un gatto, lui invece è ingombrante e goffo, strappa tubi e urta macchinari.
Sento il fruscio metallico degli anelli della tenda che viene scostata.
«Scusi», dice papà, «credo che sia stata colpa mia».
Dev’esserci un’infermiera. Sono molto tempestive a intervenire quando parte un allarme. Sono impressionato, anche se mi sembra comprensibile.
«Non sono sicuro che sia stato lei», risponde l’infermiera. «Ora chiamo l’aiuto».
Nella mia testa la pressione cresce e si intensifica.
«Cosa succede?», chiede papà.
«Ci dia un po’ di spazio, signore, per piacere». Una voce nuova.
«Noah!», grida papà. «Noah!».
«Indietro, prego!».
«Carica. Fuori!».
Una martellata al petto.
Nella mia mente l’acqua si chiude sopra di me e mi trascina via. Ho fuoco nei polmoni. Sopra la superficie dell’acqua vedo Abdi. È sfocato. Non è più concreto di una sfuggente serie di ombre sovrapposte. È qualcosa e niente.
Mentre io affondo, lui guarda.
Io e il detective Woodley troviamo la testimone in uno dei prefabbricati del deposito di rottami. Con lei c’è un agente in uniforme che si è messo un po’ più comodo di quanto dovrebbe. Quando entriamo scatta velocemente in piedi con l’aria di un bambino sorpreso con la mano nella scatola dei biscotti.
C’è una stufetta a ventola che pompa nello spazio ristretto fetida aria calda, alimentata da una presa mezza staccata dal muro. Quasi tutto lo spazio è occupato da una scrivania coperta da fatture e ordini d’acquisto. All’attaccapanni sono appesi caschi gialli e giubbotti fluorescenti di fianco a una fila di chiavi, un guinzaglio per cani e un calendario con immagini di auto sportive.
La teste non è quello che mi aspetterei in una zona industriale come questa. È giovane, meno di trent’anni direi, attraente, e a parte le occhiaie che sono spuntate senza dubbio in seguito a una lunga notte di veglia, in buon ordine.
Quando ci presentiamo si alza per stringermi la mano ed è un gesto che ostenta sicurezza in sé. Sotto la giacca elegante indossa solo una camicetta leggera e capisco perché il ventilatore va al massimo. L’abbigliamento è completato da jeans attillati e un paio di tacchi molto alti. La ringrazio di averci aspettato.
«Stavo prendendo delle cose dal mio box laggiù». Ci indica alcune basse costruzioni dietro il deposito. «Era appena passata la mezzanotte». Ha la situazione sotto controllo, la sua voce è calma.
«Cosa stava prendendo?»
«Capi. Ho un negozio di lingerie. Di alta qualità, prima che salti alle conclusioni, detective. È a Clifton».
L’appartamento dove abito io è in un edificio ai margini di Clifton, che è anche il quartiere dove abitano i genitori del ragazzo che è quasi annegato. Clifton è fatta soprattutto di strade larghe e alberate su cui si affacciano ville vittoriane, molte delle quali nascondono scuderie chic sul retro. Un gran bel parco e il famoso ponte sospeso completano il quadro di una zona dove i prezzi immobiliari sono tra i più alti di Bristol. I negozi sono per lo più piccoli, eleganti e cari. Credo di sapere qual è il suo. Ce n’è solo uno con manichini in vetrina che indossano striscioline di pizzo con prezzi straordinariamente alti sui cartellini.
Come se mi leggesse nel pensiero, la teste mi balena un sorriso che è insieme dolce e sapiente, e io devo lottare per impedirmi di ricambiarlo d’istinto. Con la coda dell’occhio vedo sogghignare Woodley.
«Ed è sua abitudine andare a prelevare la merce in piena notte?»
«Normalmente no, ma ieri sera ero stata fuori e ho visto un messaggio che mi diceva che dovevamo reintegrare le scorte in negozio solo quando stavo già andando a casa».
«Mi vuole descrivere che cosa ha visto?»
«È piuttosto quello che ho sentito. Stavo caricando la roba in macchina quando ho sentito gridare. Lì per lì non ci ho fatto molto caso perché mi sembrava qualcuno che chiamava qualcun altro, ma poi le voci sono diventate più tese».
«Ha capito per caso cosa stavano dicendo?»
«Non proprio, ma ho sentito un nome, come se stessero chiamando qualcuno. Difficile capire da dove arrivassero, ma credo che fosse probabilmente il deposito».
«Non ha visto niente di quello che stava succedendo?»
«A quel punto no. Ho chiuso il mio box perché ero un po’ nervosa e sono salita in macchina. Passando davanti al deposito ho visto due figure sul bordo del canale. Mi sono sembrati ragazzini».
«Questo lo ha visto dalla sua macchina?»
«Non me la sono sentita di scendere». I suoi occhi sfiorano i miei come se si stesse chiedendo se la giudicherò per questa ammissione. «C’era qualcosa di strano in loro».
«Può spiegare un po’ meglio che cosa intende?»
«C’era qualcosa di minaccioso».
«Ha assistito a qualche atto violento tra i due?»
«Si prendevano a spintoni».
«È così che uno dei due è finito in acqua?»
«Non lo posso affermare, ma non ci vuole uno scienziato spaziale, giusto? Uno dei due era molto più grosso dell’altro».
«Ma non ha assistito veramente alla caduta?»
«No. Stavo prendendo il telefono dalla borsa per potervi chiamare, le pare?»
«E quando ha guardato di nuovo, che cosa ha visto?»
«Ne ho visto solo uno dei due, fermo sul ciglio a guardare nell’acqua».
«Ha cercato di aiutare quello che era caduto in acqua?»
«Io non gliel’ho visto fare».
«Ha cercato di scappare?»
«No».
«L’ha minacciata?»
«No. Non mi ha visto. Mi sono chiesta se non fossero un po’ fuori di testa».
«Che cosa gliel’ha fatto pensare?».
I suoi occhi sfrecciano di lato. «Uno dei due, credo quello che è caduto, prima dondolava un po’».
«In che modo?»
«Su un fianco. Così».
Si alza e mette in scena un bizzarro barcollamento da ubriaco. Io e Woodley distogliamo lo sguardo finché non torna a sedersi. Lo spazio è piccolo e ha un fisico curvilineo.
«Ha visto come sono entrati nel deposito?»
«No. Avranno scavalcato il recinto, immagino».
«Quelli dell’ambulanza hanno dovuto tagliare la catena del cancello d’ingresso», interviene Woodley, «quindi dev’essere andata proprio così, a meno che ci sia un buco da qualche parte».
La teste rabbrividisce nonostante il caldo. Ha l’aria stanca.
Sulla scrivania che c’è tra di noi un telefonino comincia a ronzare e danzare, come per darci un segnale. Ha una finitura luccicante. Lo prende e dà un’occhiata al display. Il suo dito resta sospeso per qualche istante prima di rifiutare la chiamata.
«È il mio socio». Depone il telefonino con cura.
«Deve richiamarlo?»
«No, non c’è bisogno, ci siamo già parlati. È solo in pensiero». C’è qualcosa nel modo in cui lo dice che mi spinge a tenere la bocca chiusa per un minuto, giusto per vedere se elaborerà il concetto. Lo fa. Lo fanno quasi sempre. La gente in generale sente il bisogno di spiegare.
«Non pensa che sia in pericolo. Però mi vuole a casa».
Noto un baffetto di rossetto sugli incisivi quando mi rivolge un sorriso che è più un esercizio di controllo muscolare che una dimostrazione di calore emotivo.
«Si capisce», dico. «È comprensibile».
Lei si stringe le braccia l’una con l’altra in un gesto di disagio e mi mostra uno scorcio di qualcosa di merlettato in uno spiraglio della camicetta. Io stacco di nuovo gli occhi. La ventola della stufetta continua a sparare aria calda e io e Woodley ci diamo entrambi una tiratina al colletto.
«Dunque, giusto per essere chiari, lei non ha visto cosa è successo nel momento preciso in cui uno dei due ragazzi è caduto nel canale, perché stava prendendo il telefono dalla borsetta, giusto?»
«Non ho visto, ma mentre facevo il numero ho sentito lo scroscio e quando ho guardato di nuovo il ragazzo bianco non c’era più. C’era solo quello nero fermo laggiù a guardare l’acqua».
«E da dove si trovava ha potuto definire il colore della pelle dei due ragazzi?»
«No, ma li ho visti dopo».
«Dopo cosa?»
«Dopo che sono arrivati i soccorsi e lo hanno ripescato dall’acqua. Davvero, mi sorprende che sia ancora vivo. Non riesco a credere che l’altro non lo abbia aiutato. Se non avessi telefonato a voi…».
«Ha fatto la cosa giusta».
Appena se ne è andata, spengo la stufetta e lascio la porta aperta. La guardiamo attraversare lo spiazzo per andare a recuperare la sua macchina rimasta davanti all’ingresso. È una piccola Mercedes di prima fascia, sportiva e veloce.
«Che ne dici?», mi chiede Woodley.
«Non ha veramente assistito a un crimine».
«Ma farebbe la sua figuraccia in tribunale», commenta lui mentre la guardiamo andar via.
Sono d’accordo. Parla bene, è sicura di sé, ha una bella presenza.
«Perché dovrebbe frugare in una borsetta a caccia del telefono se va in giro su un gingillo come quello?», chiedo. «Avrà ben una connessione Bluetooth. Vuoi controllare con quelli dell’ambulanza se confermano la sua storia? E mi piacerebbe sentire la registrazione della telefonata che ha fatto, per favore, se me la puoi procurare».
Quando la famiglia Mahad arriva a casa dall’ospedale, Abdi sale le scale da solo, con Nur che gli è ansiosamente a ruota fino in cima. È un’ascesa che avviene a una lentezza esasperante.
Abdi va direttamente a letto. Ancora non ha aperto bocca.
Sofia, Maryam e Nur hanno concluso che la cosa migliore per lui è lasciarlo dormire, nella speranza che serva a farlo uscire dallo choc. Anche così per un paio d’ore Sofia non smette di andare a vedere come sta. Ricorda l’apprensione delle mamme al primo parto a cui assiste all’ospedale.
Per un po’ siede accanto a lui in una veglia silenziosa con un libro di testo su cui non riesce a concentrarsi, attirata invece dal corpo immobile del fratello.
È irrequieta e rialza la testa di scatto quando sulla soglia compare suo padre a bloccare la luce.
Nur allunga lo sguardo nella stanza.
Sofia è profondamente affezionata al padre e conosce alla perfezione ogni centimetro della sua silhouette. Da qualche tempo ha notato una curvatura delle spalle che prima non c’era e che le ha procurato una piccola fitta di tristezza.
«Sofia», sussurra, «potresti telefonare a Fiona Sadler? Vogliamo chiederle come sta Noah».
Fiona Sadler è la mamma di Noah e a Sofia non piace. Se qualcuno glielo chiedesse, non c’è niente di preciso che Fiona abbia detto o fatto da offrire a Sofia un motivo per la sua antipatia. È più che altro che non le sembra una persona sensibile. Sofia la trova permalosa e difficilmente accessibile.
«Pensi che dovremmo?», domanda. «Probabilmente sono all’ospedale».
È un labile tentativo di rimandare la telefonata, perché se i suoi genitori glielo chiedono, vuol dire che hanno già deciso. Lo chiedono a lei perché è sempre lei a telefonare ai Sadler. Quando Noah e Abdi erano più piccoli, Maryam non poteva mai telefonare per prendere accordi per far giocare insieme i due bambini perché non parlava abbastanza bene l’inglese, così toccava a Sofia.
Nur se la cava meglio, ma il suo inglese non è fluente come quello dei figli.
È una barriera linguistica che nel corso degli anni ha offerto a Sofia e Abdi, come ai figli di altre famiglie di immigrati che conoscono, molte occasioni per malignità e marachelle.
Sofia compone il numero pregando in cuor suo che non risponda nessuno. La timidezza fa sì che per lei le telefonate siano generalmente un’impresa, ma oggi il suo sesto senso le dice che questa in particolare è anche una cattiva idea.
Dopo un sufficiente numero di squilli da farle sperare che intervenga la segreteria, si sente uno sfiatato: «Pronto?»
«Signora Sadler? Sono Sofia, la sorella di Abdi. Scusi se la disturbo, ma volevamo sapere come sta Noah».
Si sente come se avesse spicchi di limone in bocca.
All’altro capo del filo, Fi Sadler fa un verso come un risucchio e poi un gemito, lungo e cupo, e Sofia ne sente l’eco nel profondo di se stessa.
Constata di aver avuto ragione e sprofonda in qualcosa di molto simile alla vergogna: fare quella telefonata è stato un errore madornale. Quel che è successo a Noah è molto brutto.
Volge la schiena ai genitori.
«Mi spiace tanto…», comincia a dire, ma in linea interviene un’altra voce.
«Chi è?»
«Signor Sadler? Sono Sofia Mahad. Sono mortificata. Ci stavamo chiedendo come sta Noah, ma non avrei dovuto chiamare».
«Sofia». Lo dice come un sospiro. «Fi non è in grado di parlare. Abbiamo avuto un momento complicato con Noah, ma è di nuovo stabile. Lo stanno tenendo in coma indotto perché quando è caduto nell’acqua ha picchiato la testa. Altro non saprei dirti».
«Sappia», dice Sofia ricorrendo a parole molto formali perché in quel momento si sente fuori posto di almeno ventimila leghe, «che pensiamo a lui e preghiamo per lui e per la sua famiglia».
«Grazie», e poi, quando Sofia già pensa di poterla chiudere lì, domanda: «Abdi come sta?».
“Zitto”, pensa Sofia, “ma fisicamente integro almeno in apparenza”. Le sembra sbagliato dirlo quando le condizioni di Noah appaiono così disperate. «È traumatizzato. È a casa, ma in stato di choc. Dorme».
«Ci chiedevamo… Abdi ha detto per caso cos’è successo? La polizia ci ha riferito che con loro non vuole parlare».
Sofia non sa se si sta solo immaginando il leggero tono d’accusa che ha sentito nella sua voce. È così insicura da rispondere con molta prudenza.
«È per via dello choc. Ora come ora non può parlare, ma lo farà quando si sveglierà, ne sono certa».
In linea c’è un silenzio che le sembra un tantino troppo lungo, ma appena formulato quel pensiero, subito si ricrede, dice a se stessa che è solo paranoia.
Solo tre sere fa Abdi si è messo in posa da culturista davanti alla TV.
«Nero e musulmano», ha detto flettendo i muscoli e girandosi di qua e di là per esibirli ridendo di sé. Stava provando una T-shirt nuova.
Ha fatto ridere Sofia, perché Abdi era bravo a prendersi in giro, ma il sorriso le era morto quasi subito sulle labbra, perché i riferimenti alla razza e alla fede della sua famiglia danno ossigeno a una paura che palpita dentro di lei un giorno sì e un giorno no. Non riesce a staccarsi mai dall’idea che una o l’altra di quelle etichette sia uno dei motivi per cui certa gente in Gran Bretagna la odia e trova questo fatto molto doloroso da accettare.
Ed Sadler sta parlando di nuovo. «Hai idea del perché i ragazzi erano giù al Feeder Canal? Noi non riusciamo a capire».
«No. Non sappiamo perché».
«Non riusciamo a pensare a un motivo perché siano andati laggiù. Al deposito di rottami, se ho capito bene».
«Non sappiamo nemmeno questo».
«Credi che stessero venendo da voi? O dalle vostre parti?».
Sofia ci pensa su, ma Feeder Road non è un percorso che farebbe da Clifton a Easton, anche se ammette di non avere un gran senso dell’orientamento.
«No, mi spiace, non penso. Pensavamo che sarebbero rimasti da voi per la notte. Abdi ci teneva tanto».
Rimpiange quelle parole appena le ha pronunciate per tema che sembrino un’accusa, ma Ed Sadler viene dirottato.
«Scusa, Sofia, ma devo andare. C’è il dottore».
La comunicazione s’interrompe prima che possa salutare.
Quando si gira, le facce dei suoi genitori sono così desiderose di sentire buone notizie, che minimizza lo stato di Noah.
«È stabile», è tutto quello che dice.
«Era Fiona Sadler?». Poiché personalmente non riesce a comunicare come si deve con Fiona, Maryam ha sviluppato una grande curiosità per quella donna.
«No, era Ed».
Nur si alza. La tensione è così grande che non riesce a stare fermo. Recita una muta preghiera per Noah, per entrambi i ragazzi. Gli ci vuole un secondo per sentire che Sofia gli ha rivolto una domanda.
«Dov’è di preciso il Feeder Canal?»
«Dietro la stazione di Temple Meads».
Nur ha nella testa la carta topografica della città vista dall’alto. È in grado di visualizzare i binari della ferrovia che escono dalla stazione, per diramarsi nel resto del Paese. Poco distante da quelle rotaie serpeggianti sa che c’è un tratto di strada dritto come una schioppettata lungo un tratto di canale dritto come una schioppettata: Feeder Road e Feeder Canal.
Nur è un lettore vorace e uno studioso autodidatta di tutto e di più, perciò sa che il canale fa parte del grandioso progetto ingegneristico vittoriano da cui hanno avuto origine il porto galleggiante di Bristol e la prosperità dei suoi commerci. Sa tutto della colorita storia mercantile della sua città adottiva e nel complesso l’ammira nonostante certi suoi aspetti così gravemente vergognosi.
Nur l’ammira perché crede nel possibile e nel trionfo del duro lavoro. Crede che ci sia del buono da trovare nelle persone e nella vita. Crede nella speranza. È ciò che gli dà la forza di alzarsi tutte le mattine. È ciò che ha portato lì lui e la sua famiglia fin dalla Somalia.
«Ci chiedono se sappiamo perché i ragazzi sono andati laggiù».
«Ce lo spiegherà Abdi quando si sarà svegliato», dice Maryam.
Il canovaccio che ha tra le mani è tutto ritorto.
La volta dopo che mi sveglio ricordo di essere in terapia intensiva, ma non so quanto tempo è passato. Per essere più preciso, so di essere fisicamente presente nel reparto di terapia intensiva, ma è come se stessi galleggiando nell’acqua non so dove sotto un grande cielo vuoto. È solo il suono delle voci dei miei genitori a tenermi ancorato di tanto in tanto. Per il più del tempo vado alla deriva, sperimentando tutt’insieme il mio passato e il mio presente.
Ho conosciuto Abdi il primo giorno delle medie. Avevo quasi dodici anni.
Quel giorno ero una specie di chiodo male in arnese. Durante la terapia avevo perso i capelli in maniera irregolare e avevano ripreso a crescermi altrettanto irregolarmente, così sembravo una pecora tosata malamente con dei ciuffi in certi posti e degli strani riporti qua e là, tutti di una smorta sfumatura di castano chiaro, per niente aiutati dal pallore spettrale della mia carnagione e dagli occhi arrossati. Non ti fai molti selfie quando sei in terapia.
Prima di entrare nella mia classe ho dovuto vedermi con la preside, il coordinatore preposto ai programmi speciali messo a disposizione dall’istituto, Molly, la mia personale specialista dell’apprendimento messa a disposizione dall’ospedale, e mia madre, per visionare insieme il mio piano di istruzione, progettato per reintrodurmi nel sistema educativo principale. Non esiste al mondo documento più noioso di quello.
Ho chiuso gli occhi mentre loro discutevano e ridiscutevano ogni punto e sottopunto. Quando la mamma si è accorta che mi ero mentalmente assentato, ho spiegato che stavo conservando le energie per poter reggere per il resto della giornata. Era abbastanza vero. Avevo la sensazione che se avessi ascoltato la parola “speciale” ancora una volta sarei caduto in uno stato di stress cronico.
«Non lasciarti intimidire», mi ha detto Molly quando ci siamo finalmente ritrovati in corridoio davanti alla mia nuova aula di scuola. Era sempre molto franca e più spesso che no aveva briciole di biscotto incastrate tra i denti di sotto. «Sii te stesso».
Io ero un po’ preoccupato, ma non avevo intenzione di dirglielo perché ero deciso a farmi degli amici e a divertirmi al Medes College. Pensavo che lì avrei trovato della gente simpatica. Era la vecchia scuola di mio padre. La nostra famiglia conosceva almeno due dei presidi. Dopo la mia ultima ricaduta, uno di loro mi aveva mandato una foto incorniciata della squadra di calcio di Boston. Era firmata da tutti i giocatori. Ci ho ricavato un bel gruzzolo vendendola su eBay.
Quando sono entrato in classe e ho dovuto stare davanti ai banchi per essere presentato, avevo tutti gli occhi addosso.
Erano seduti a due a due a parte uno che se ne stava per conto suo, Abdi. Io sono andato a occupare il posto vacante di fianco a lui.
Quando la mamma è arrivata a prendermi dopo la scuola, mi sentivo peggio che morto. Ero appoggiato alla recinzione nel posto che avevamo concordato.
Non ha avuto bisogno di domandarmi se mi ero fatto degli amici perché Abdi era lì con me, tutto sorridente. E quando gliel’ho presentato, le ha porto la mano e lei gliel’ha stretta e gli ha fatto i complimenti per il suo zaino.
«Abdi mi è sembrato simpatico», ha detto in macchina.
«È molto simpatico».
«Gli altri come sono?»
«Okay».
«Ci hai parlato?»
«Un po’. È stato molto stancante».
La verità era che non avevo parlato con nessun altro perché ero concentrato a farmi amico Abdi. Era divertente e mi aveva mostrato tutto quello che avevo bisogno di sapere. Non molti altri mi avevano parlato, così siamo rimasti insieme noi due per quasi tutto il tempo, in classe e poi durante l’intervallo e il pranzo.
Non volevo però che mamma lo sapesse, così ricordandole con giusto tempismo che quanto a resistenza le mie condizioni fisiche non erano ottimali ho ottenuto di sviarla al momento giusto.
«Sei stato bravissimo a reggere per tutta la giornata. Ti dirò che sinceramente mi aspettavo che mi telefonassi per farti venire a prendere prima».
Dopo la scuola mi sono riposato e ho ripensato alla mia giornata. Quella sera sono riuscito a sedermi a tavola per cena. C’era a casa papà.
«A una bella giornata», ha detto la mamma portandosi alle labbra il bicchiere di vino. Io ero contento di vedere che sorrideva anche con gli occhi. Non succedeva sempre.
Non avevo molto appetito, ma ho mangiato qualcosa e ho spinto gli spaghetti avanzati in un angolino della fondina quando ho calcolato che da dove era seduta la mamma non poteva vederli.
«Hai parlato con Will Kelly?», mi ha domandato. «A scuola?».
Ho fatto segno di no con la testa.
«È nella tua classe».
Lo sapevo bene. Lo avevo visto quando mi ero seduto di fianco ad Abdi. È quel tipo di ragazzo che probabilmente i miei genitori vorrebbero che fossi anch’io: tutto rugby/hockey/football con quella bella pelle sana e quel portamento sicuro che ti vengono solo se fai sport tutta l’estate e tutti i fine settimana. Durante l’intervallo ho notato quanto gli ronzassero intorno ragazzi e ragazze. Se la contavano ad alta voce prendendosi a pacche e spintoni.
Ho pensato di mettermi con loro, ma poi ho preferito stare con Abdi. Aveva bisogno di qualcuno che l’aiutasse a spostare certi libri per la bibliotecaria. Will Kelly poteva aspettare un’occasione in cui avessimo potuto parlare noi due da soli e probabilmente un momento in cui fossi stato un po’ più forte. Non volevo che mi giudicasse dalle mie membra come grissini e dalla mia voce che non aveva nessuna speranza di farsi sentire nel chiasso della mensa. Ero sicuro che la mia fosse una decisione intelligente, ma non credevo che mamma avrebbe capito.
«Parlerò con Will Kelly domani», ho detto. «Oggi proprio non ho avuto la possibilità».
«Chi è questo Will Kelly?», ha voluto sapere papà.
«Sai, i Kelly che abitano in Chantry Road», gli ha risposto la mamma come se stesse facendo riferimento a Dio o al primo ministro, da tanto che era ovvio.
«Oh! D’accordo, molto bene». Si vedeva che papà non aveva la più pallida idea di chi fosse.
Silenzio. Mamma ha versato dell’altro vino per sé e lui.
Papà ha fatto uno sforzo: «Quando li abbiamo conosciuti?»
«Al corso di vela di Noah. L’estate scorsa».
La mamma riscrive parecchio la nostra storia. Ciò a cui alludeva con quelle parole era il mattino in cui, seduto sull’argine del porto galleggiante, ero stato a guardare i miei coetanei che imparavano ad andare a vela. A me non avevano permesso di partecipare per via del mio catetere centrale.
La mamma si è divertita parecchio perché per una volta si è vestita bene e ha bevuto un caffè con le altre mamme sotto il sole mentre io aiutavo la figlia dell’istruttore a sistemare le cinture salvagente.
Papà ha annuito.
«Ho pensato che potremmo alternarci con i passaggi in macchina», ha detto la mamma come se questo spiegasse ogni cosa.
Per cambiare argomento io ho raccontato di Abdi a papà.
«Di dov’è?»
«Non lo so. Non viene a scuola a piedi. Suo papà ce lo porta in taxi».
«Dicevo da dove viene la sua famiglia».
«Non ricordo. Ma ha detto che forse prenderà l’autobus per venire a scuola quando sarà più grande».
«Papà intende da quale Paese ha origine la sua famiglia?». La mamma non parla mai con la bocca piena, così prima di fare questa precisazione è passata attraverso una lunga e laboriosa masticatura.
Fuori la luce si andava spegnendo e ho visto una gazza che scacciava gli uccelli più piccoli dalla mangiatoia.
«Non lo so».
«Come fa di cognome?»
«Ha due cognomi, ma non me li ricordo».
«Somalia, forse», ha proposto papà. «Chiedigli se vengono dalla Somalia».
La mamma ha alzato gli occhi al soffitto perché la Somalia è uno degli argomenti preferiti di papà. Ha cominciato una versione condensata della storia dell’immigrazione dei somali a Bristol anche se noi l’avevamo già sentita e risentita: «Molti più di quanto si penserebbe… nel corso di decenni… forti legami tra i campi profughi e Bristol… una comunità abbastanza consistente ormai… ricordate quel negozio di Easton dove siamo andati a prendere i limoni per la ricetta della Nigella… abitano quasi tutti là…».
«Qualcuno vuole il dessert?», lo ha interrotto la mamma quando non ne ha potuto più.
Mentre andava a prendere il gelato dal frigo, papà si è sporto sul tavolo e ha mangiato i miei spaghetti avanzati.
«Dovresti chiedere ad Abdi di dov’è la sua famiglia», ha detto. «È interessante conoscere la storia delle persone».
«Va bene».
«Indovina dove vado la settimana prossima».
«Timbuktu?»
«Ah! Non poi lontano un milione di miglia, anche se forse qualche migliaio sì».
Ha risucchiato rumorosamente uno spaghetto e sollevato le sopracciglia come a dire: “Provaci ancora”.
«Non lo so».
«Namibia. Skeleton Coast».
«Dove ci sono i relitti?»
«Relitti di navi che spuntano dalla sabbia come carcasse di animali. E dune di sabbia che quando ci voli sopra sembrano piccole onde, ma quando sei giù a terra sono immense. Scendono nell’oceano come la facciata di una scogliera».
«Ci vai in aereo?»
«Un aereo piccolo, sì, in maniera da poter volare basso per scattare le foto».
«Non userai un drone?»
«No. Mi piace reggere la fotocamera e sentire la foto nelle mani, vedere il soggetto con i miei occhi nel mirino. Sai che così stai facendo qualcosa di speciale perché sei in contatto con la scena. Senti di esserne l’autore».
«Noah!». È tornata la mamma con le ciotole e il gelato con i pezzetti di biscotto e cioccolato. «Sei diventato bianco!».
D’un tratto sono tornato nel mondo degli affaticamenti e degli affanni.
Ho sentito i miei che parlavano mentre ero sdraiato nella stanza accanto. Non sono mai stati bravi a tenere la voce bassa.
«Sembra che oggi sia andata bene», ha commentato papà.
«Così mi pare. L’insegnante mi ha dato questa impressione».
«Le hai parlato?»
«Già già».
Questo mi ha dato fastidio perché non mi piaceva che mi spiassero per poi riferire. Volevo che la mamma prendesse per buona la mia parola.
«Un buon inizio, allora», ha concluso papà.
«Solo che…».
«Cosa?»
«Vorrei tanto che entrasse nel giro».
«Lo so. Anch’io».
«Pensi che quel ragazzo sia un amico adatto?»
«Ne sono sicuro».
Poi la mamma ha detto qualcosa abbassando troppo la voce e papà ha risposto: «Dài, non farlo».
«Non fare cosa?»
«Non creare qualcosa di negativo da una buona notizia. Ha passato una bella giornata. Si è fatto un amico. Non dovremmo essere contenti?».
Un tintinnare di posate e piatti e poi la voce della mamma: «Scusa».
«Parlami, Fi».
«Non è niente. Sono contenta. È già quasi un miracolo che sia potuto tornare a scuola».
«Si è fatto un amico già il primo giorno. Questo non può che essere un buon segno. Io al Medes College mi sono trovato benissimo. So che sarà così anche per lui».
«Io voglio solo che qualcosa per lui vada per il verso giusto».
«Ci andrà. Te lo prometto, ci andrà».
Mi sono messo un cuscino sopra la testa. Con le orecchie soffocate mi immagino a bordo di un piccolo aeroplano in alto nel cielo sopra la Skeleton Coast, a volare nel sole andando così vicino da non vedere più niente.
Il giorno dopo, a scuola, Abdi parlava con un altro ragazzo, ma io gli ho dato un colpetto sulla spalla e gli ho chiesto se mi voleva aiutare a trovare la saletta dei professori di matematica. Avrei potuto trovarla da solo ovviamente, ma volevo che venisse con me.
Mentre ci andavamo gli ho raccontato tutto del viaggio di mio papà in Namibia e delle dune di sabbia che si elevano nel cielo come scogliere.
Ho parlato così tanto che sono rimasto senza fiato e Abdi mi ha aiutato a sedermi su una panca dove siamo rimasti a riposare per qualche minuto.
La panca era nel corridoio di marmo e ho mostrato ad Abdi il nome di mio padre stampato in lettere d’oro su una grande tavola di legno perché è stato un house captain.
È stato bello.
Lista dei proponimenti di Noah - Punto 2: Visitare la Skeleton Coast (questa è dura, lo so).
Oltre alla registrazione della telefonata giunta al Pronto Soccorso, richiedo quelle della videosorveglianza pubblica raccolte dalla centrale lungo tutti i percorsi che potrebbero aver fatto i ragazzi per andare da Clifton al Feeder Canal. Voglio anche i filmati presi dal deposito di rottami e dall’area circostante, ma questi vanno chiesti a chi in quella zona possa avere installato telecamere private, quindi ci metto a lavorare Woodley.
Andiamo a prendere una macchina e percorriamo il breve tragitto fino a Easton. Woodley accetta di tenersi in secondo piano durante il colloquio. Voglio che osservi mentre io interrogo. Alcuni esponenti della comunità somala hanno fama di essere molto chiusi. Non so quanto sia giusto, ma mi spinge a stare attento a non assumere atteggiamenti che possano alienarmi questa famiglia.
I Mahad vivono in un quartiere incastrato tra Stapleton Road e l’autostrada. Non è il più brutto di quella zona, né ha la reputazione peggiore, ma è probabilmente un posto da cui progetti di battertela appena puoi.
Al centro c’è una piccola area a prato e io vado a parcheggiarci accanto. C’è un po’ troppo fango e segni di scarsa manutenzione e non credo che le altalene passerebbero un’ispezione per condizioni di igiene e sicurezza anche ad allungare qualche bustarella.
Non ho ricevuto nessun particolare specifico su questa famiglia, così mentre ci avviciniamo al palazzo in cui vive non so bene cosa aspettarmi. In una breve fila di pulsanti guasti o privi di un numero che identifichi un appartamento, il loro ha una bella tesserina inserita in uno spazio apposito con il nome scritto con cura con una penna a sfera.
Dentro non c’è ascensore e il vano delle scale è male illuminato, ma non tanto da non vedere che la vernice è tutta piagata. La famiglia vive al terzo piano. Veniamo accolti con una stretta di mano da un uomo alto che porta lenti rotonde in una montatura d’oro, una camicia bianca, pantaloni grigi e un’espressione di profonda preoccupazione.
«Nur Mahad», dice e noi ci presentiamo.
In casa, sedute su un lato di un divano a L, ci sono due donne, entrambe in hijab. Il velo della donna più giovane è di un saturo color rubino ed è ripiegato con eleganza sopra un soffice golf color avena. Porta anche jeans scuri a tubo. Si fa rigirare un braccialetto d’oro al polso. È un po’ rotondetta, ma anche straordinariamente graziosa.
L’abbigliamento della madre è molto più tradizionale: un velo nero su un lungo vestito marrone scuro che le copre i piedi. Indossa anche un cardigan celeste, che non le impedisce di dare l’impressione di avere freddo. Sulla sua faccia non c’è niente di superfluo. Le guance sono quasi concave.
Indirizzo un cenno della testa alle donne ricordando che, se la famiglia è molto osservante, offrire la mano potrebbe non essere il gesto più indicato.
«Mia moglie, mia figlia», mi dice Nur Mahad. «Maryam e Sofia». Parla con un forte accento.
«Abdi è qui?», domando. «Mi piacerebbe scambiare una parola con lui se possibile».
Cinque passi ci portano all’uscio di una camera con un letto singolo e uno scrittoio di modeste dimensioni. Ci sono tende accostate davanti a una piccola finestra. Abdi è girato di schiena, quasi completamente coperto dal suo piumino.
«Abdi!», lo chiama suo padre. «È venuto il detective a parlare con te!».
Apre le tende e scuote dolcemente il figlio prendendolo per una spalla. Entra luce grigiastra, ma non molta, perché la vista dalla finestra è occupata quasi per intero dal muro di fronte. Il corpo di Abdi si muove mentre viene scosso, ma ridiventa fermo appena suo padre stacca la mano. È molto più alto di Noah Sadler, da quel che riesco a vedere. È magro, con arti lunghi, ha le forme di un maschio adolescente reduce dalla sua fase di slancio di crescita. Ha i capelli tagliati bene e sono corti. Ha molto l’aria dello scolaro.
Nur Mahad si stringe nelle spalle. «Mi spiace», dice. «È così da quando è tornato a casa. Non sappiamo cosa fare».
Torna a scuotere il figlio.
«Signore», dico io, «non c’è problema. Posso parlargli io?».
Si fa da parte e io mi chino sul letto ma mi mantengo a rispettosa distanza. Se il ragazzo sta soffrendo, non voglio essere accusato di maltrattamenti.
«Abdi», dico alla sua nuca, «sono l’ispettore Jim Clemo». Mi sembra che il movimento di saliscendi delle sue spalle acceleri leggermente. Sta ascoltando.
«Sto indagando su quello che è successo al canale la scorsa notte. Ti va di parlarmene?».
Nessun cambiamento. La pancia mi dice che non è una finta. Ha paura. O ha visto qualcosa o ha fatto qualcosa che lo terrorizza al punto da ammutolirlo. È una situazione che sollecita il mio interesse.
«Non sei nei guai, figliolo», dico anche se non ne sono sicuro al cento percento. «Sono qui per ascoltarti».
Niente. Valuto le mie alternative e scelgo l’unica che mi sembra realisticamente praticabile.
«Senti, Abdi, lascio qui il mio biglietto da visita». Ne prendo uno dal portafogli. Non c’è un comodino, così lo punto nell’angolo di una bacheca di sughero appesa vicino al letto. Ci sono certificati della scuola e lettere di encomio.
C’è anche una foto di due ragazzini sui dodici o tredici anni, direi, che si tengono per il collo e reggono un trofeo. Ha la forma di un pezzo degli scacchi. Sotto c’è scritto: “È una vittoria di contea per Abdi e Noah!”.
I due ragazzini che sorridono felici festeggiando la vittoria non potrebbero essere più diversi dal corpo inerte e silenzioso che c’è nel letto davanti a me.
«Puoi contattarmi in qualsiasi momento, Abdi. Mi piacerebbe davvero sentire da te cos’è successo ieri notte».
Cerco di mantenere un tono il più neutrale possibile. È tutto quello che posso fare al momento. Forzando un interrogatorio, anche se potrei, rischierei di vedermi cassato in un’aula di tribunale tutto quello che avrei appreso da lui, se si decidesse che non stava abbastanza bene per parlarmi.
Penso a cosa avrebbe detto mio padre, a come avrebbe mandato in quella casa un paio di agenti a prelevare il ragazzo per portarlo alla stazione di polizia dove farlo parlare.
Quando mi giro per uscire dalla stanza le due donne si dissolvono, ma sono più che conscio dei loro sguardi mentre mi accomodo.
Woodley è lì con me, seduto in silenzio. È bravo in questo. Per un detective, riuscire a confondersi con la tappezzeria è una virtù importante. La gente ha la tendenza ad abbassare la guardia e si possono venire a sapere un sacco di cose.
Mi guardo intorno e giudico la stanza per la prima volta. Belle tende con un bordino color oro. Su un piccolo mobiletto a giorno in un angolo ci sono delle arance in una fruttiera e dei libri. La madre porta un vassoio con il tè e lo posa sul tavolino di vetro. Dalle tazze sale vapore aromatizzato.
«Ovviamente abbiamo bisogno di parlare con Abdi appena starà meglio», spiego, «ma nel frattempo mi piacerebbe sentire qualche particolare da voi, se posso».
Nur Mahad annuisce in segno di assenso. Si è seduto sul divano che si trova ad angolo retto rispetto a dove sono appollaiato io. Le sue ginocchia sfiorano le mie e siede proteso in avanti. Il linguaggio del suo corpo grida la sua volontà di compiacermi. Non è l’atteggiamento nervoso o refrattario del genitore di un adolescente piantagrane.
«Quanti anni ha Abdi?»
«Quindici».
«Che scuola frequenta?»
«Il Medes College. Ha vinto una borsa di studio completa».
Il Medes College è un istituto privato costoso e prestigioso che si trova nel centro della città. Sono impressionato.
«È sua abitudine fare tardi la sera con il suo amico?»
«No! No, per niente». È una negazione molto vigorosa. «Pensavamo che fosse andato a dormire a casa di Noah. Abdi non ha mai e poi mai avuto alcun problema con la polizia o la scuola. Con nessuno. È un gran bravo ragazzo. Sempre ottimi voti, campione di scacchi, squadra di badminton».
«Dunque è un fatto anomalo?»
«Molto anomalo».
La figlia mi osserva con attenzione, ma la moglie sembra più distaccata. Lascia trapelare molto poco del suo stato d’animo e ancora non sono riuscito a incrociare il suo sguardo per più di qualche istante. Rivolgo la mia prossima domanda a entrambi.
«È importante che ci facciamo un quadro il più completo possibile di Abdi. Potete illustrarmi come si svolge la sua giornata abituale? Chi frequenta, dove va?».
Nur mi dà l’impressione di voler rispondere, sapendo però di doverlo demandare a qualcun altro. Mi hanno informato che fa il tassista, perciò ho il sospetto che sia via di casa alle ore più impensabili.
Risponde Sofia. La sua voce è sottile.
«Abdi va a scuola con l’autobus. Esce alle sette e mezzo e torna a casa verso le cinque, eccetto quando ha un club del doposcuola o un torneo di scacchi o una partita di badminton. Allora arriva più tardi. Noah è il suo miglior amico. È l’unico amico che Abdi va a trovare a casa».
«Sa dirmi qualcosa di più della loro amicizia?»
«Va bene. Sono molto legati. Hanno stretto amicizia subito, il giorno che Noah ha cominciato la scuola. È stato carino con Abdi. Aveva già conosciuto uno o due altri ragazzi, ma non aveva un miglior amico».
«Capita mai che litighino?»
«Non credo. Abdi non lo ha mai detto».
«Nessun piccolo disaccordo di qualche genere? Soprattutto di recente?»
«Non mi risulta».
«Come descriverebbe la loro amicizia?»
«Felice, piuttosto competitiva quanto al rendimento a scuola e cose così. Un po’ da secchioni. Non farebbero mai niente di brutto l’uno contro l’altro. Abdi non è di quel tipo. È buono davvero».
Suo padre ascolta annuendo e sua madre posa una mano sul braccio di Sofia e dice qualcosa in somalo.
«Le traduco la sua domanda», spiega Sofia e hanno un rapido scambio in somalo prima che torni a guardare me.
«Sua madre ha qualcosa da aggiungere?»
«Dice che i ragazzi erano bravi l’uno con l’altro. Si spronavano a vicenda a studiare di più».
Non mi piace non essere capace di capire cosa stanno dicendo. Il mio lavoro è ascoltare la gente e prendere contemporaneamente nota del loro linguaggio del corpo. È lì che cogli spesso le parti fasulle delle cose che ti raccontano. Qui purtroppo non posso farci molto, così incalzo.
«I ragazzi si sono mai messi nei guai?»
«No. Ad Abdi piaceva la scuola. Voleva dare una buona impressione di sé».
La sento sempre più sulla difensiva, così ricaccio giù la mia prossima domanda per dare a tutti il tempo di fiatare. «Alle volte Abdi fa volontariato aiutando sua madre al Welcome Center», dice Nur Mahad durante la pausa di silenzio.
«Non ne so niente».
«È un centro di assistenza ai profughi. Solo cinque minuti da qui. Maryam ci lavora da volontaria, aiuta in cucina. Per cinque giorni alla settimana i profughi possono avere qualcosa di caldo da mangiare».
«Quanto spesso ci va Abdi?»
«Alle volte la sera dopo la scuola, dipende da quanti compiti ha da fare a casa».
«E che cosa fa quando ci va?»
«Qualsiasi cosa gli chiedono, tradurre, affettare verdure, giocare a ping-pong con gli altri ragazzi, lavare i piatti. Quello che c’è bisogno di fare. È un buon lavoratore».
Io do un’occhiata ai miei appunti. Al momento ce n’è abbastanza da proseguire nell’inchiesta e non sto aggiungendo niente di nuovo.
Decido di andarmene finché sono in vantaggio e di passare a sentire qualcun altro.
«Siete stati di grande aiuto, grazie. Vi prego di contattarmi immediatamente se Abdi migliorasse e si sentisse pronto a parlare con noi e anche se vi venisse in mente qualcos’altro che sarebbe bene che sapessi».
Lascio sul tavolino un altro dei miei biglietti.
«Cosa ne pensi?», mi chiede Woodley quando siamo in macchina.
«Se quel ragazzo stava combinando qualcosa, credo che i suoi ne sarebbero sorpresi».
«Io alla sua età ne facevo di tutti i colori e i miei genitori non ne sapevano niente».
Non ha tutti i torti. Non sarebbe la prima volta che un adolescente ha una vita segreta. Anche se nella casa dove sono cresciuto io era diverso. Quando tuo padre governa a suon di pugni, ci pensi più di due volte prima di scantonare. Io almeno me ne guardavo bene. Mia sorella era forse più coraggiosa o più stupida di me, a seconda dei punti di vista.
«E l’immagine di “miglior amico” contraddice la teste», osserva Woodley.
«Io ho avuto l’impressione che quel ragazzo sia impaurito».
Tornando al quartier generale, Woodley scoppia a ridere come se avesse ricordato qualcosa all’improvviso. «A quindici anni ho fatto una cosa veramente molto stupida», dichiara.
«Ti va di raccontarmi?»
«Nossignore. Complimenti per averci provato, boss».
Mentre guido, penso che una cosa che farò di sicuro se tornerò a trovare quella famiglia, sarà portare con me un interprete. Ho anche la sensazione che non riusciremo a chiudere questo caso con un bel fiocchetto, e nemmeno lo faremo abbastanza presto.
Voglio scoprire che cosa ha spaventato a morte quel ragazzo.
Dopo che i detective se ne sono andati, Sofia è presa dal bisogno urgente di uscire. Ama la sua famiglia e la sua casa, ma ci sono momenti in cui la travolge un senso di claustrofobia e sente il bisogno di allontanarsi da loro per poter smettere di essere una figlia e una sorella ed essere solo se stessa. È il miglior modo che conosce per elaborare i suoi pensieri.
«Vado in biblioteca», annuncia. Nessuno avrà niente a che ridire, perché in famiglia l’istruzione è in cima a tutto il resto. «Papà, chiamami se cambia qualcosa».
Per la strada cammina finché comincia a schiarirlesi la testa.
Le sembra d’aver fatto male a lasciare Abdi, anche se sa che i suoi lo sorveglieranno a dovere. Non sa bene cosa pensare dei detective. L’ispettore Clemo è stato gentile, ma Sofia non è immune al timore di molti della sua comunità che la polizia li giudicherà e sospetterà perché sono somali. Ad ascoltare quello che si dicono i maschi a scuola, sembra che nessuno dei ragazzi bianchi sia mai stato fermato e perquisito dalla polizia, mentre dalle parti loro ai ragazzi somali capita spesso. Li fa sentire vulnerabili e presi di mira, e qualche volta anche arrabbiati.
Sofia è sempre più preoccupata che, se non parla, Abdi sarà discriminato, e forse anche se parlasse.
Si chiede cosa può fare per lui e pensa che potrebbe essere d’aiuto se andasse a prendere le sue cose a casa dei Sadler in maniera da fargliele trovare quando si sentirà meglio. L’idea le dà un po’ di energia e una piacevole sensazione di utilità.
Dopo due corse di autobus è al Clifton Village nella via di Noah e sta pensando a quanto tempo è passato dall’ultima volta che è stata lì. Sa che probabilmente i Sadler sono all’ospedale, ma spera di trovare a casa la loro governante.
Suona il campanello e la porta si apre quasi subito. Alvard, la governante, è come se la ricordava, una donna piccolina e sulle spine con corti capelli scuri, vividi occhi neri e una fronte tutta rughe. Ogni volta che Sofia la vede, ricorda quando Alvard le ha messo in mano un tovagliolo pieno di biscotti ancora caldi e le ha detto che quello che le mancava di più dell’Armenia era il pescheto di sua madre.
«Non c’è nessuno», dice Alvard. «Sono all’ospedale. Mi hanno detto che posso andare a casa, ma voglio prima mettere in ordine per loro».
«Va bene se prendo le cose di Abdi?».
Alvard la fa entrare. «Abdi come sta?», domanda. «Sta bene?». E Sofia si trova a perdere la compostezza che ha tanto lottato per conservare.
«No, direi di no», confessa contro la spalla di Alvard. Detesta piangere. Quando le neomamme piangono al lavoro lo trova bello e giusto, ma quando piange lei, si sente brutta e debole.
Alvard la sostiene con delicatezza nell’anticamera surriscaldata dell’abitazione dei Sadler. Mentre riprende il controllo delle sue emozioni, Sofia si sintonizza sul fondo e lento ticchettio di un orologio a pendolo e pensa a quanto è triste quel suono.
«Andiamo a prendere le cose di Abdi», dice Alvard. «Vieni».
Sofia indugia istintivamente prima di seguirla su per le scale, perché in quella casa non è mai andata oltre l’anticamera. L’atrio è dove soleva aspettare Abdi quando suo fratello era stato lì a giocare. Lo esortava a sbrigarsi perché o fuori c’era papà ad aspettarli in taxi o avevano da prendere un autobus. Fiona Sadler si fermava ai piedi delle scale e gridava verso il piano di sopra e poi rivolgeva a Sofia un sorriso a labbra strette e se ne stavano lì senza che nessuna delle due sapesse cosa dire all’altra.
«Vieni!», ripete Alvard in cima alle scale e Sofia comincia a salire appoggiandosi per la prima volta all’elegante corrimano e ne sente sotto i polpastrelli la consistenza e la lucidatura.
La stanza di Noah è all’ultimo piano della casa e Sofia è impressionata. È uno spazio enorme, inondato di luce da due lucernai, nonché da una finestra a battenti con una vista su Clifton e verso Leigh Woods. Noah ha un letto matrimoniale tutto per sé e ci sono scaffali pieni di libri e souvenir, oltre a una TV e a un set di videogame. È quel genere di stanza da ragazzi che Sofia ha visto solo nei film.
Alvard va a un lettino di emergenza e Sofia riconosce la borsa di Abdi che c’è sul pavimento, aperta per metà, che sembra buttata lì, cosa tipica di suo fratello. I suoi indumenti per la notte sono sul letto.
Mentre Sofia ripone gli effetti personali di Abdi, Alvard fruga tra gli oggetti che ci sono sulla scrivania di Noah.
«Qui potrebbe esserci qualcosa di Abdi», dice.
Sofia è momentaneamente distratta dalla vista attraverso la porta socchiusa di un armadio di una tonnellata di materiale medico. Ci sono un cestino per i rifiuti clinici, confezioni di siringhe, bende e garze, soluzioni detergenti, guanti, e una bombola di ossigeno. Sono cose che vede tutti i giorni quando fa i suoi turni di tirocinio in ospedale, ma vedere quegli oggetti nascosti in un angolo di quella camera così perfetta le ricorda la realtà che si trova al centro della vita di Noah, cioè che è spesso a un passo dalla morte. Non può fare a meno di domandarsi se ci è mai stato così vicino come oggi e quel pensiero la fa rabbrividire.
«Sofia?», la richiama Alvard.
Si scusa. Spera di non aver fatto la figura dell’impietosita, incantata a fissare in quella maniera.
Alvard le porge un iPad.
«Questo non è di Abdi», dice Sofia.
«Non credo che sia di Noah».
«Oh!».
Sofia prende l’iPad e lo gira. Sul retro c’è un adesivo della scuola. Abdi deve esserselo fatto prestare. Lo mette nella sua borsa.
«Controlliamo anche di sotto», dice Alvard e Sofia la segue trottando giù per le scale. Sa che Alvard non l’avrebbe lasciata entrare se fosse stato inopportuno, ma anche così le sembra di ficcare il naso nelle cose dei Sadler alle loro spalle e prega che non rincasino all’improvviso.
Al primo piano della casa Alvard apre una porta ed entra in una stanza che è spaziosa ma accogliente. Sofia la segue in un ambiente decisamente maschile. Ci sono un divano di pelle parecchio usato con un paio di scarpe da corsa abbandonate davanti, un gigantesco televisore e una mazza da cricket autografata in una vetrinetta appesa al muro. Davanti alla finestra c’è una grande scrivania moderna. È un posto molto diverso dallo stile Buckingham Palace che domina nell’atrio e nelle altre stanze formali della villa in cui Sofia ha allungato lo sguardo passando davanti alle porte.
«Conviene guardare anche qui», dice Alvard. «A Noah piace venire quaggiù e usare la scrivania di suo padre».
«Va bene». Ora Sofia ha una voglia disperata di andare via. In quel locale, più ancora che nella camera di Noah, ha la sensazione di aver violato l’intimità dei Sadler. È mentre si gira per uscire che vede la cartelletta.
Non se ne sarebbe mai accorta se non per quell’etichetta così vistosa. Le salta agli occhi la parola “Hartisheik”. Si avvicina per esaminarla.
Alvard sta sprimacciando i cuscini del divano, sui quali sembra che abbia dormito qualcuno, e Sofia ne approfitta per aprire la cartelletta. Dentro c’è un rapporto ufficiale intitolato “Condizioni di vita al campo di Hartisheik”. Ci sono anche la matrice di un biglietto d’aereo per Addis Abeba e alcuni altri documenti, fra i quali una mappa disegnata a mano su un A4 a righe con le orecchie e sgualcita dove il foglio è stato precedentemente ripiegato a dimensioni da tasca.
Con un dito Sofia fa scivolare la mappa fuori dalla cartelletta per poterla vedere per intero. Mostra una vista aerea del campo profughi dove è vissuta la sua famiglia prima del viaggio per l’Inghilterra. Chi l’ha disegnata ha lavorato alla svelta, i segni sono abbozzati, ma ha contrassegnato tutte le aree. Fa scorrere il dito sulla mappa percorrendo i passaggi principali. Il suo ricordo del campo non è preciso perché quando c’è stata era ancora una bambina, ma ricorda l’ospedale, gli edifici dell’Alto Commissario per i Rifugiati dell’ONU dove venivano distribuiti acqua e cibo, il mercato, il cimitero, e la zona in cui viveva la sua famiglia.
Sulla mappa c’è tutto e più ancora. È molto particolareggiata. Sofia è così assorta che spicca un salto quando Alvard compare al suo fianco e le parla. «Il signor Sadler va in certi posti difficili», le dice. «Fa un lavoro difficile».
«Sì», risponde Sofia. Non riesce a staccare gli occhi. Lei in quel posto ci è nata. Reagisce fisicamente. Le si arricciano le narici ricordandone l’odore. Vede il cielo sconfinato e sente formicolare la pelle nel caldo del sole e le sferzate del vento che spira impietoso sul deserto e strappa il telo che copre il loro ricovero, giorno dopo giorno.
Già sapeva da Abdi che Ed Sadler aveva passato del tempo in quel campo, ma non aveva prestato grande attenzione a quell’informazione perché che motivo avrebbe avuto di farlo? Non c’era da intrattenersi in conversazioni nostalgiche su quello che aveva passato la sua famiglia in quel posto. Sofia avrebbe provato caso mai vergogna nel parlarne con Ed. Aveva archiviato nella mente quel collegamento e non lo aveva riesumato nemmeno quando i suoi genitori si dannavano nel cercare di decidere se permettere o no ad Abdi di andare all’inaugurazione della mostra di Ed Sadler.
Trovarsi davanti agli occhi la prova del soggiorno di Ed Sadler al campo, per quanto tempo sia trascorso da allora, è molto diverso. Le fa sentire molto più reale il legame tra le loro famiglie e per la prima volta percepisce il profondo disagio dei suoi genitori.
Si allontana frettolosamente perché non vuole che Alvard pensi che si stia trattenendo troppo a lungo e stia ficcando il naso dove non dovrebbe.
Da basso Alvard la saluta con affetto, stringendole la mano tra le sue. «Prego per tutti e due i nostri ragazzi», dice.
Uscita dalla casa Sofia si aggiusta la hijab in modo che le nasconda la faccia un po’ più del solito, in parte perché il freddo è diventato molto più intenso, ma in parte perché non vuole che nessuno si accorga del suo stato d’animo di smarrimento. Lo rimpiange pochi minuti dopo quando è sull’autobus e una donna la guarda con fastidio e si sposta per non esserle troppo vicina.
Sofia vorrebbe rispondere a tono alla croce che la donna porta appesa al collo, giusto per sottolineare che non c’è differenza tra loro, ma non lo fa. Sa che non è così che funziona e lei non è quel tipo di persona. Siede invece molto composta con la borsa di Abdi ai piedi e si sente insieme spaventata e arrabbiata. Appena l’autobus si ferma di nuovo, va a sedersi in fondo.
Quando ero alle elementari avevo un amico che si chiamava Matthew. È venuto a trovarmi in ospedale molto presto dopo la mia diagnosi. Ero nell’area principale del reparto dove c’erano altri tre letti oltre al mio nella medesima corsia.
«È un po’ come in campeggio, no?», ha commentato la mamma mentre riponevamo le nostre cose nel mio armadietto. Il dottore aveva detto che saremmo rimasti per almeno quattro giorni. Il programma era di sottopormi a un intervento per l’inserimento del catetere centrale e ad alcuni esami per scegliere le medicine giuste per me. Era la mia prima operazione e il mio primo ricovero ospedaliero.
Sul letto di fronte c’era una ragazza più grande, che stava seduta e guardava un film su un lettore portatile di DVD con cuffie rosa sulle orecchie. Aveva braccia sottili come stuzzicadenti e un tubo che le entrava nel naso. Di fianco al suo letto c’era la sua mamma. Aveva un libro aperto sulle ginocchia, ma teneva gli occhi chiusi.
Nel letto accanto al mio c’era un ragazzo un po’ più giovane di me senza capelli che guardava un album di figurine dei Pokémon. Lui era da solo. È sceso dal letto e mi ha fissato. «Il mio papà prende una moto», ha detto. Aveva una cicatrice spaventosa che gli faceva il giro intero della testa e una palpebra cadente.
«Bello», ha detto la mamma.
«Io ho cinque anni», ha detto lui.
Quando è venuta l’infermiera, lo ha rimesso sotto le coperte e ha acceso la TV in cima a un braccio di plastica che si protendeva sopra il suo letto. Trasmetteva un cartone animato molto rumoroso.
«Se resti a letto fino alla fine del programma», gli ha detto l’infermiera mentre chiudeva la sua tenda, «quando viene la mamma le dico quanto sei stato bravo».
Io ho finito di disfare i miei bagagli e ho controllato ogni cosa e mi sentivo emozionato all’idea che venisse a trovarmi il mio amico Matthew. Volevo fargli vedere la macchinetta che faceva inclinare e ripiegare il mio letto.
Matthew è arrivato due giorni dopo. La sua mamma mi ha portato un regalo. A quel punto io ero indolenzito per l’operazione del catetere centrale e mi faceva molto male muovermi, ma ho mostrato a Matthew la medicazione trasparente che copriva sul mio petto il punto da cui usciva il catetere e gli ho mostrato la bustina di tessuto che le infermiere mi davano da tenere al collo e dove infilare la fine del catetere. La bustina aveva facce di cane smiley e un fiocchetto blu. L’infermiera mi ha detto che c’erano delle simpatiche signore che le confezionavano apposta per i bambini. «Noah!», ha esclamato la mamma quando ha visto cosa stavo facendo. «No! Mettilo via!».
«Non c’è nessun rischio», è intervenuta la mamma di Matthew. «È molto bello, Noah. Sei stato veramente coraggioso. Non credi, Matthew?».
Matthew ha guardato il catetere e si è succhiato un dito. Io ho riabbassato la maglietta.
Abbiamo acceso la TV mentre le mamme andavano a prendere il tè, ma non abbiamo trovato niente che volessimo vedere. Dopo che Matthew ha provato la macchinetta che fa muovere il letto e ha fatto cadere dal fondo tutte le mie cose, la mamma non ce l’ha più lasciata adoperare.
C’era molto poco spazio intorno al mio letto per starci tutti, così siamo andati nella sala giochi del reparto. Ho raccontato a Matthew che il giorno prima in quella sala era venuto a trovarci un cane. Era un cane speciale che fa visita alla gente quando è malata. Io l’avevo accarezzato e quando ho detto: «A cuccia», si è seduto, ma non ha voluto rotolarsi sulla schiena quando gliel’ho chiesto. Mi ha solo leccato la mano. Ho raccontato a Matthew anche che volevo prendere un cane ma che dopo la mia diagnosi abbiamo dovuto dire all’allevatore che non potevamo avere un cucciolo. La mamma mi ha promesso che prenderemo un cane appena starò meglio. (Questo non succederà mai, dunque: Lista dei proponimenti di Noah - Punto 3: Prendere un cane in prestito).
Mentre io e Matthew eravamo in sala giochi, è arrivato il bambino del letto accanto con uno specialista di giochi dell’ospedale. Si sono messi a montare un trenino. Il bambino aveva delle linee tracciate con una penna nera sulla testa pelata.
«Radioterapia, credo», ha mormorato la mia mamma alla mamma di Matthew.
Matthew si è messo di nuovo a fissare. La sua mano è scivolata nella mano della sua mamma e si è seduto accanto a lei e non ha voluto giocare.
«Non voglio che vengano più i miei amici», ho detto alla mamma dopo che sono andati a casa.
Dopo Matthew, il primo a venire a trovarmi in ospedale è stato Abdi e quando è venuto aveva l’atteggiamento giusto.
Era la fine del semestre di primavera del nostro secondo anno di scuola. A quel punto io e Abdi eravamo migliori amici. Facevamo tutto insieme, eravamo vicini di posto sull’autobus che ci portava ai campi sportivi, andavamo insieme al circolo di scacchi e al club di pratica informatica, ci sedevamo insieme a pranzo e stavamo insieme agli intervalli. Io lo aiutavo con i compiti a casa d’inglese e lui aiutava me in matematica.
Abdi è arrivato in ospedale una sera quando ero lì da circa una settimana. Aveva una scacchiera e sotto il braccio stringeva dei fumetti.
Io ero in una stanza tutta mia. Te ne danno una se sei un neonato o se la tua terapia è molto pesante.
«Non credi che gli scacchi siano un po’ troppo?», ha detto la mamma.
Abdi mi ha guardato. «Per me non c’è problema», ha risposto. «Possiamo anche solo parlare».
«Io ho voglia di giocare», ho detto io.
Abbiamo dovuto fare una riorganizzazione complicata dei miei tubi e delle mie macchine e ci è voluto un po’ perché mi mettessi nella posizione giusta, ma ce l’abbiamo fatta. Abdi si è appollaiato in fondo al mio letto e ha appoggiato la scacchiera su un cuscino tra me e lui.
«Io credo che questo potrebbe stancarti», ha detto la mamma.
«Possiamo smettere in qualunque momento». Abdi ha disposto i pezzi con movimenti precisi.
«Tu puoi andare a prendere un caffè, se ti va», ho proposto alla mamma.
Per un momento ho pensato che rifiutasse, visto la faccia sorpresa che ha fatto. «Se diventa più pallido di com’è ora», ha detto poi ad Abdi, «o se vedi che fa fatica a respirare…».
«Chiamo l’infermiera», ha detto Abdi. «Promesso».
La mamma sapeva che di Abdi ci si poteva fidare, perché glielo avevo detto e ripetuto non so quante volte e, anche se farà un po’ ridere, non ero stato sincero fino in fondo: per chi mai si può mettere la mano sul fuoco?
«D’accordo, be’, vorrà dire che starò seduta qui fuori così puoi chiamarmi se hai bisogno di me».
«Sto bene, mamma».
Nemmeno questo era del tutto vero, perché avevo un dolore alla schiena che la morfina non riusciva a raggiungere e un leggero disturbo della vista, ma non ero disposto ad ammetterlo.
Rimasti soli, Abdi ha cominciato la partita con una mossa che non gli avevo mai visto fare prima.
«Ti stai approfittando di un bambino malato?», gli ho chiesto.
«Non ti permetterò di vincere solo perché sei qui dentro».
Io ho fatto la mia mossa.
«Che faccia tosta!», ha esclamato.
Non ha mai fatto cenno alla mia brutta cera. Non mi ha mai fissato. Mentre giocavamo mi sono concentrato tanto da non sentire più il sibilo dell’ossigeno e i rumori del reparto.
Dopo un po’ Abdi ha socchiuso la finestra. Con l’aria fresca sono entrati nella mia camera i suoni di una strada piovosa. Ha convinto le infermiere a portarci un bicchiere per poterci mettere dentro il telefono e improvvisare una cassa acustica. Mi aveva preparato una playlist e l’abbiamo ascoltata mentre complottavamo la distruzione reciproca dei nostri pezzi sulla scacchiera. Non mi sono mai divertito tanto in ospedale.
Ho retto tre quarti d’ora prima che il dolore avesse la meglio e fossi costretto a prendere un’altra dose di morfina. Quando mi sono riavuto, sulla sedia accanto a me c’era di nuovo la mamma e Abdi era andato via, ma la scacchiera con tutti i pezzi al loro posto era stata trasferita sul davanzale ed è rimasta lì fino a quando è tornato la volta dopo e abbiamo continuato la partita.
E la parte migliore?
Abdi è venuto tutte le volte che poteva. Non sono state molte, perché aveva bisogno che venisse a prenderlo il suo papà che lo infilava dentro i turni di lavoro, ma è stato il primo e solo amico a venire a trovarmi regolarmente.
Sono cosciente di tutto il rumore che mi circonda. Rumore di macchinari e musica, come attraverso delle cuffie. Credo che mi stiano facendo una TAC.
Le TAC mi provocano il panico. In passato dovevano sedarmi. È la claustrofobia. La sento adesso, ma non posso fare nient’altro che aspettare, guardando il buio, ascoltando i rumori, sentendo la paura che cresce. Per la prima volta mi chiedo quando mi tireranno fuori da questo coma e fino a che punto di preciso sono malato.
Ho il disperato bisogno di riuscire a chiederlo a mamma. Lei ha di sicuro la risposta.
Ho una sensazione di movimento, di ruote che girano e qualche sobbalzo, e poi dobbiamo essere di nuovo in reparto perché sento papà che chiede: «Hanno detto niente?»
«Parleranno con noi dopo che avranno esaminato il risultato della TAC con il primario».
«Ti ho preso un tè».
«Grazie».
Li sento bere il loro tè.
«Quell’aiuto asiatico ha detto che se l’emorragia nel suo cervello si è stabilizzata, forse domani cercheranno di svegliarlo».
«E se no?»
«Non so. Non pensiamoci».
Sento papà che fa schioccare le dita e geme sgranchendosi la schiena. Fa un grande sbadiglio e dice: «Ancora non riesco a credere che nessuno di noi due li abbia sentiti uscire».
«Non tormentarti per quello. Non serve».
«Non avrei dovuto sbronzarmi».
«Era l’inaugurazione della tua mostra. Avevi diritto a bere qualcosa».
Ecco cosa vorrei dire a papà: «Ragazzi, se hai trincato!». Perché lo ha fatto: una bottiglia di birra di quelle buone via l’altra mentre eravamo alla galleria.
Io e Woodley ci incontriamo all’ingresso del reparto di terapia intensiva al Children’s Hospital.
Dentro l’atmosfera è quella cupa che c’è da aspettarsi. Bambini grandi e piccoli sono più malati di quanto si vorrebbe dover vedere. Diretti dalle infermiere, ci inoltriamo nel reparto verso una corsia in fondo. Da una parte e dall’altra ci sono letti occupati per lo più da corpi immobili. I genitori siedono ai capezzali, sprofondati nell’ansia.
“Getta uno sguardo freddo”, penso.
Io e la dottoressa Manelli condividiamo un’ammirazione entusiasta per la poesia di W.B. Yeats. Mi ha detto di usare questo verso se mi è d’aiuto. Ho bisogno di uno sguardo freddo per potermi muovere tra questi letti, altrimenti sono costretto a girarmi e uscire.
In fondo al reparto una donna in camice apre una tenda proprio mentre arriviamo noi e vedo una donna che deve essere la madre di Noah Sadler.
Siede di fianco al suo letto. Sembra abbattuta, come se le mancasse qualcosa di vitale. Dall’altra parte del letto di Noah ci sono dei macchinari e un groviglio di tubi di plastica e cavi elettrici.
Noah Sadler ha l’aria di essere molto malato. Ha gli occhi chiusi ed è immobile, come lo era Abdi, ma a differenza del suo amico, in Noah non c’è nessun indizio di vita. Cerco di non farmi stregare dalle venuzze che gli attraversano le palpebre. So già che me lo ricorderò, che l’immagine del corpo riverso di Noah Sadler mi è già penetrata sotto la pelle.
Fiona Sadler non vuole parlare davanti al letto di Noah.
«Non so quanto possa sentire», spiega, «ma non voglio allontanarmi per troppo tempo».
Conferisce con le infermiere prima di accompagnarci in una saletta attigua al reparto.
«Non ci sono molti locali disponibili», ci dice. «Va bene qui?».
Ci sediamo su sedie di plastica messe in fila. Davanti a noi delle infermiere preparano medicazioni in una stanza fortemente illuminata dietro il vetro inserito nella metà superiore della porta. Ce n’è un’altra senza vetro con la scritta “Stanza dei genitori”.
Fiona Sadler è esile, come se avesse smesso da tempo di consumare pasti decenti. Seduti dall’una e dall’altra parte, io e Woodley la sovrastiamo. Non è il mio modo preferito di condurre un interrogatorio, ma mi ci butto.
«Ha qualche idea del motivo per cui ieri sera i ragazzi sono usciti?».
Lei scuote la testa. Prima che io possa passare alla domanda successiva, ne ha lei una per me. «Sa che mio figlio ha il cancro, detective?».
Ci sono certe frasi che quando le ascolti sono un pugno emotivo e sentire che un bambino è malato di cancro è decisamente una di quelle.
«Non lo sapevo. Mi dispiace davvero tanto».
«È terminale».
E questa è un’altra di quelle frasi. Ho avuto a che fare con famiglie in situazioni davvero tragiche, e i Sadler rientrano nella categoria delle più disperate.
«Sono veramente tanto dispiaciuto». Mi sto ripetendo. Vorrei dire di più, ma mi mancano le parole.
Certe volte non vedi l’ora di affondare i denti in un testimone o in un parente che sospetti di negligenza o complicità, ma ci sono altre volte in cui interrogare diventa crudele, anche se il tuo scopo finale è di giungere alla verità. Se non lo era già, questa è diventata ora decisamente una di quelle volte.
«Ci hanno detto che abbiamo al massimo qualche mese». Solleva il mento e batte ripetutamente le palpebre finché non riesce a ricomporsi. Il suo autocontrollo è fenomenale.
Apro la bocca per cercare di articolare una risposta che non sia del tutto inadeguata, ma lei mi precede con il suo prossimo commento.
«E io voglio quei mesi, detective».
«Capisco».
«Li voglio tutti, dal primo all’ultimo».
Si è impedita di piangere, ma le mani le tremano così forte che c’è il rischio che rovesci il contenuto del bicchierino che stringe tra le dita.
Mi è difficile assistere alla sua angoscia. Sollecita ricordi della madre di Ben Finch, Rachel, che minacciano di portarmi fuori strada. Se mi chiedessero di descrivere uno scenario professionale che mi sarebbe piaciuto evitare il mio primo giorno, settimana, mese, o anche anno di ritorno al lavoro dopo il caso Ben Finch, sarebbe questo: una madre per cui tutto ciò che conta è stato messo in gioco perché la vita di suo figlio è in grave pericolo. Eppure sono qui e devo fare il mio mestiere.
Cerco di formulare una risposta che trasmetta comprensione e rispetto del suo cordoglio. Devo tenere un coperchio sopra i miei sentimenti personali perché non si sviluppino in qualcosa che potrei non riuscire a gestire, ma non voglio sembrare insensibile.
La porta della stanza dei genitori si apre e ne esce un uomo con un telefonino che gli spunta da una tasca e le mani occupate da due tazze di qualcosa di caldo. La porta non si chiude automaticamente dietro di lui, così vediamo lo scorcio di un locale di piccole dimensioni con un angolo cucina provvisto di frigorifero, forno a microonde e un lavandino. C’è anche un tavolino quadrato. Sul frigorifero un vistoso cartello avverte: “Preghiamo di contrassegnare con chiarezza il vostro cibo con il nome di vostro figlio e il numero del reparto”. Dalla stanza sgorga un forte odore di cibo scaldato al microonde che sembra addensare l’aria in corridoio. Vedo un baffo di vapore uscire dal becco di un bollitore.
Fiona Sadler mi salva dal venirmene fuori con una risposta inopportuna. «Scusate», dice. «Non è colpa vostra».
«Possiamo farlo in un altro momento, se preferisce».
«No. Voglio che scopriate cos’è successo a mio figlio. Perché qualcosa è successo. Fuori a quell’ora di notte, senza di noi, in una zona industriale… Non so dirvi quanto questo sia lontano da Noah».
Ora che ha ripreso il controllo delle sue emozioni, mostra uno spirito combattivo.
«Forse potrebbe cominciare dicendoci cosa è successo ieri sera prima che i ragazzi uscissero di nascosto».
Descrive il party a cui sono stati alla galleria del marito e precisa di aver riportato i ragazzi a casa verso le dieci e mezzo. Mentre parla, la stanchezza le filtra progressivamente nella voce spegnendola sempre di più. Le ultime parole suonano infiacchite. Sotto le luci di quella stanzetta la sua pelle è di una insalubre sfumatura di giallo.
«Era una sera speciale. Io volevo che fosse una sera per la famiglia e basta, ma Noah ha chiesto se poteva venirci anche Abdi, per poi restare a dormire da noi, e non ci è parso di poter rifiutare».
«È abbastanza abituale che Abdi dorma da voi?»
«Abituale no, ma era già successo una o due volte».
«Quando Abdi è rimasto a dormire con Noah nelle volte precedenti, avevano forse fatto qualche ragazzata insieme? Sgattaiolare fuori casa o cose del genere?». Sono più che sicuro di sapere già la risposta, ma lo devo chiedere.
«Mai che io sappia. Noah non lo farebbe mai. Non riesco proprio a immaginarmelo. Non è mai stato quel tipo di ragazzo».
«L’amicizia tra lui e Abdi è di quelle buone?».
Aspetta qualche momento prima di rispondere e pizzica il bordo del coperchio di plastica sul suo bicchierino.
«Sì».
«Però lei ha qualche riserva, eh?». Non è da scienziati nucleari. La sua risposta è stata come minimo titubante. È il primo indizio che mi fa sospettare che il giudizio di Fiona Sadler su questa amicizia possa discostarsi da quello della famiglia Mahad. Sollecita il mio interesse.
«Senta, detective, posso parlare con franchezza? È solo una sensazione, la mia, e non ho niente di concreto su cui basarmi, ma ho sempre pensato che alla lunga quell’amicizia sarebbe stata un male per Noah».
«Sa dirmi perché?»
«Veramente non lo so. Una sensazione? Un’intuizione? La chiami come preferisce. E probabilmente non avrei nemmeno parlato perché immagino che non sia giusto nei confronti di Abdi, ma è quello che sento. Ed vi dirà che Abdi è un ragazzo adorabile, ed è vero, dunque forse sono io a essere iperprotettiva. La malattia di Noah distorce le cose».
«Capisco».
«Ah sì?».
Io stacco gli occhi dai suoi, perché ora in lei c’è un aspetto nuovo ed è ostile. L’esperienza mi ha insegnato che una madre messa in dubbio può diventare un’avversaria feroce e non voglio inimicarmi questa. A meno che sia costretto.
«Ci provo», rispondo.
Mi sembra di averla tranquillizzata abbastanza. I suoi occhi incrociano per un attimo i miei come se cercasse segni di sincerità. Annuisce.
«Ed ha incoraggiato molto questa amicizia e Noah vuole sempre accontentare suo padre. Lui venera Ed. Suo padre per lui è un eroe».
Lo dice come se non fosse sempre una cosa buona. Per un momento penso che abbiamo finito, che adesso si alzerà e andrà via, tornerà dal figlio, ma mi sbaglio. Fiona Sadler invece si apre:
«Quello che deve capire su mio marito è che lavora con persone in situazioni che sono le più terribili che si possano immaginare. E in alcuni dei posti più terribili. Sono cose che porta a casa con sé, detective, quella compassione, o quella fame di pericolo, o qualunque cosa sia a trascinarlo. Così quando ha conosciuto Abdi Mahad, Ed era felice e ha incoraggiato la loro amicizia. Ha lavorato in posti di tutti i tipi, ma è particolarmente interessato alla Somalia e ai campi, perciò, quando ha scoperto che la famiglia di Abdi è arrivata qui attraverso uno dei campi profughi che aveva visitato, è stato come la ciliegina sulla sua torta. Era solo logico che volesse che i due ragazzi diventassero amici. È un’amicizia buona? Non lo so. Forse, ma non posso negare che mi mette in ansia. Suppongo di volere, aver voluto, che Noah si sentisse libero di scegliersi i propri amici e non fosse costretto a frequentare certe persone solo perché sono quelle apprezzate da suo padre. Ma capirà anche lei che adesso la questione è diventata irrilevante, tutta quanta, e Ed dovrà smettere di assumersi la responsabilità di tutte le miserie del mondo per dedicarsi invece alla sua famiglia. Forse siamo finalmente abbastanza miserabili anche noi perché si decida a concederci un minimo di fottuta considerazione».
Nel finire il suo discorso ha alzato la voce. Una delle infermiere ha un’esitazione passandoci vicino, ma Fiona la invita con la mano a proseguire.
«Mi scusi», mormora.
«Non ce n’è motivo. Non ha niente di cui scusarsi. Posso chiederle se sa se ultimamente c’è stato qualche disaccordo tra i due ragazzi?»
«Non mi risulta, anche se in questi giorni Noah mi parlava meno. Non mi confidava tutto come una volta. Ha quindici anni, quindi immagino che sia inevitabile, nonostante tutto quello che abbiamo passato insieme».
Fa un gesto per indicare lo spazio intorno a noi e credo di capire che cosa intende: le quattro mura, l’arredamento ospedaliero pacchiano, antiquato e sterilizzato, i medicinali, le attrezzature, il rapido ritmo dei passi e l’amichevole cicaleccio professionale di medici e infermieri. È l’ospedale visto come una macchina, di cui da molto tempo lei e la sua famiglia sono diventati ingranaggi.
«Posso chiederle com’erano i ragazzi durante la serata? Come le è sembrato che si comportassero l’uno con l’altro?»
«Benissimo, per quel che ho visto, ma non è che li ho sorvegliati per tutto il tempo, perché era una festa. Suppongo che questo faccia sembrare stupido tutto quello che ho detto finora; non è vero, ma non posso negare che sembrava si divertissero tranquillamente. Da quando abbiamo conosciuto la sua prognosi, Noah l’ha presa molto meglio di me e Ed. Dirò però che se avevano combinato insieme in anticipo l’idea di scappare di casa durante la notte, posso garantirle che è stata tutta farina di Abdi. Noah non avrebbe saputo da che parte cominciare».
«Avete rapporti con la famiglia di Abdi?»
«Ed ci ha provato, ma per la verità vediamo sempre solo la sorella, che è molto timida o riservata, non saprei. Sembra sempre che non veda l’ora di andarsene. Il padre di Abdi fa il tassista, quindi lavora a tutte le ore, e la madre non parla nemmeno inglese».
«Avrebbe qualcosa in contrario se dessimo un’occhiata al computer di Noah e ad altri eventuali dispositivi di sua proprietà? Ci aiuterebbe a sapere con chi ha comunicato di recente».
«È proprio necessario?»
«Potrebbe servire».
«Allora va bene, immagino. Sembra un po’ un’intrusione nella sua privacy, però, per quanto posso dire».
«A questo punto è una cosa che faremmo solo se è d’accordo anche lei».
«Sono d’accordo. Ed sarà a casa per un paio d’ore. Lo avete mancato per un niente, ha fatto un salto a casa per cambiarsi e riposare un po’. Potete prendere il computer mentre c’è lui, se volete».
A casa loro ci andrò senz’altro per interrogare il marito. Il computer dovrà essere prelevato in un altro momento per rispettare la catena della custodia delle prove. Voglio che tutto sia fatto secondo le regole.
«Vorrei sapere se Noah ha mai parlato del Feeder Canal o sia stato nella zona in cui lo abbiamo trovato».
«Non credo che sappia nemmeno che esiste. Il suo mondo sono casa sua, l’ospedale e la scuola. Per questo sono convinta che andarci sia stata un’idea di Abdi».
Una delle infermiere fa capolino dalla porta che dà nel reparto. «Signora Sadler», dice. La testa della madre di Noah si gira di scatto verso di lei. «Il dottore è pronto».
«Vada, prego», dico io. «Grazie del tempo che ci ha dedicato».
Il suo bicchierino rotola sul pavimento sulla sua scia seminando baffi di caffè.
Io e Woodley troviamo gli ascensori e aspettiamo davanti a una parete di vetrate sporche che ci offrono una vista del centro cittadino. Il cielo è pesante di nuvole cariche di pioggia e le strade sono piene di traffico. Ci sono gabbiani a stagliarsi contro un orizzonte grigio scuro. Il contrasto con la brillantezza artificiale e il silenzio del reparto di terapia intensiva è un sollievo.
«Messaggi un po’ contraddittori», commenta Woodley. Vedo la sua faccia parzialmente riflessa nel vetro.
«È fuori di sé per il dolore».
«Lo saresti anche tu, no?».
Annuisco. Guardo le persone in strada che cominciano ad aprire gli ombrelli e la pioggia che picchia contro il vetro come grandine.
Quando scendiamo in ascensore si unisce a noi un uomo in camice con un’espressione assente e un pacchetto di sigarette e un accendino nella mano.
Certe volte è difficile impedire all’infelicità altrui di infilartisi nelle ossa.
Una cosa che so è che la situazione di Noah Sadler complicherà il caso. Non è un ragazzino qualsiasi che è uscito di casa di nascosto per scherzo o per commettere qualche piccolo reato di scarsa importanza andato maledettamente storto. È un teenager malato terminale. Da un certo punto di vista il cinico che è in me riconosce che questa circostanza ne fa un caso di notevole risonanza. Il cancro classifica automaticamente Noah Sadler come vittima e voglio essere sicuro che non condanni il suo miglior amico senza un accurato esame delle prove.
«Abbiamo bisogno di sentire Abdi Mahad», dico.
Con discrezione, nell’angolo dell’autobus dove si è rifugiata per ridurre al minimo il contatto con gli altri passeggeri, Sofia medita sulle carte che parlano del campo di Hartisheik che ha visto nello studio di Ed Sadler e si chiede come mai fossero fuori. È una coincidenza difficile da ignorare. Ultimamente l’interesse di Abdi per la loro vita prima che nascesse lui è andato crescendo, di conseguenza forse aveva fatto domande in proposito al signor Sadler, gli aveva chiesto cose che magari non voleva chiedere in casa per paura di turbare lei o i loro genitori.
Per distrarsi, toglie dalla borsa di Abdi l’iPad e lo accende.
Le chiede una password. Sofia gioca d’azzardo. Sa che la password del laptop della scuola che Abdi ha avuto in prestito in passato è “Medes” seguita dall’anno accademico, così prova con quella. Il dispositivo si avvia, ma la batteria è esaurita e non succede niente altro.
Fruga nella borsa di Abdi e trova un cavo. Appena a casa lo metterà in carica.
Tira fuori le carte che ha prelevato e le sfoglia. È difficile esaminarle con un minimo di cura in autobus perché le scivolano dalle ginocchia.
Ammira la scrittura precisa di suo fratello, ma da quel che vede, le carte non hanno niente di interessante da raccontarle. È roba di scuola, un progetto di chimica da quanto capisce. Le rimette nella borsa.
Guarda dal finestrino e pensa alla vita che fa a Bristol. Non indugia di solito sulla sua situazione, preferisce andare avanti negli studi e nella sua vita quotidiana, ma le ultime ventiquattro ore hanno messo a fuoco la sua realtà.
Sofia è generalmente una persona felice. Sa che la sua famiglia non gode di nessuno dei privilegi materiali di una famiglia come quella dei Sadler, ma non le importa, perché si sente amata e non ha dimenticato qual è la vera vita grama.
Capisce perché alcuni dei suoi compatrioti si sentono in conflitto sulla loro identità di immigrati, né pienamente britannici né pienamente somali, bensì qualcosa che resta nel mezzo, ma la dura applicazione a scuola e all’università l’ha generosamente ricompensata, donandole un’enorme quantità di forza interiore. In una buona giornata, crea la propria identità da questi elementi positivi. In una brutta giornata lascia che la sua paura di essere un bersaglio di odio inibisca le sue azioni e insidi la sua sicurezza, e questo è un giorno brutto. Si chiede se non sia troppo indulgente con se stessa. Forse dovrebbe ascoltare di più le sue paure invece di lasciarsi rassicurare dagli altri. Forse non è possibile abbassare la testa e cominciare qui una nuova vita nel modo in cui hanno creduto lei e la sua famiglia. Forse anche se fai tutto giusto, tutto può andare orribilmente storto.
Un segnale acustico l’avverte di un messaggio sul suo telefono. È di suo padre. Nessun cambiamento in Abdi, dice. Le chiede a che ora tornerà a casa e se può passare a prendere del latte.
In negozio la signora Khan è occupata a tener d’occhio tre scolari che se ne vanno in giro per le corsie con aria sospetta. Sofia riconosce in uno di loro un compagno di Abdi dei tempi delle elementari. Prende del latte ed esce, contenta che per questa sera abbia potuto evitare di chiacchierare con la signora Khan.
Non le va altrettanto bene quando svolta l’angolo sulla via di casa. A riempire il marciapiede c’è Amina.
«Sofia!». Farsi avviluppare di Amina dà una sensazione di immersione totale in aromi e indumenti. Sofia vuole molto bene ad Amina e la vede come una versione a briglia sciolta della propria madre. Le piacerebbe che Maryam si vestisse come lei, in colori sgargianti e turbanti di seta invece delle bigie tuniche e dei pesanti veli da cui si rifiuta di separarsi. Le piacerebbe tanto vedere sua madre con un bel rossetto sulle labbra, con un po’ di colore sui begli zigomi. Le piacerebbe che sua madre sorridesse di più.
La sola cosa che a Sofia non piace di Amina è il puntuale esame clinico al quale non ha mai saputo come sottrarsi. Amina la squadra con attenzione e le strizza un braccio come per testarne la maturità, quindi emette il suo verdetto.
«Hai un brutto colore».
«Sono stanca».
«Hai bisogno di vitamine. Ti ho detto che ho preso un estrattore?»
«Sì». “Già dieci volte”, pensa Sofia, ma non lo dice perché crede che Amina sia la persona più affettuosa che si possa sperare di conoscere.
«Prima non sta bene tua madre e adesso tu!».
Sofia ha un contraccolpo chiedendosi cosa sappia Amina che lei non sa, perché stia dicendo così. Anche se Amina è un’amica di famiglia, Sofia sa che ai suoi genitori non farebbe piacere che altri sapessero cos’è successo ad Abdi, se non dovendo essere costretti a rivelarlo. La vergogna che ne conseguirebbe sarebbe un altro colpo per la famiglia.
«La mamma non è stata poco bene», dico.
«Non ti ha detto cos’è successo? Venerdì sera è svenuta al Welcome Center. Piombata giù mentre servivamo da mangiare. È lì che scodella pasta e un attimo dopo è per terra. Si sarebbe fatta male se il cuoco non l’avesse presa al volo».
«Non mi aveva detto niente».
«Immagino che non volesse preoccuparti. Cattiva bambina! Le ho detto che deve riguardarsi. L’avrei riportata a casa io stessa, ma Abdi ha detto che ci pensava lui».
«C’era anche Abdi?»
«Sì, cara. È stato venerdì scorso. Non dirmi che non ti hanno detto niente».
Amina aggrotta la fronte preoccupata. Sofia torna indietro nella memoria. In quegli ultimi tempi è stata così presa dal suo lavoro per l’università da non aver prestato molta attenzione al va e vieni del resto della famiglia. Si sente il cervello sottosopra, così mente.
«Sì che me l’hanno detto. Scusami. Comunque ora la mamma sta bene».
Le viene anche in mente che, se pensasse che Maryam non sta bene, Amina potrebbe voler andare a trovarli, così si sforza di rassicurarla.
«Tutto a posto, cara». Amina la osserva con aria scettica. Sa sentire puzza di bruciato da cento metri di distanza. «Anche tu però non hai una bella faccia».
«Io sto benissimo».
«È quello che ha detto tua madre! Va bene, cara, devo andare. Riguardati. Di’ a Maryam che la chiamerò».
Un altro abbraccio caloroso e Sofia viene lasciata libera. Mentre cammina ripensa al venerdì. Le era sembrato che quella sera sua madre non stesse bene? Non le pare di ricordare niente di insolito, ma è difficile interpretare sua madre. Amorevole e disponibile un attimo prima, chiusa in se stessa un attimo dopo, la sua famiglia ha imparato a convivere con gli estremi e a non indagarli. Sofia non ricorda che Maryam sia mai stata diversa. Da tempo sospetta che sua madre soffra di depressione, ma sa che è una cosa che non si potrà mai dire apertamente.
Quand’è più vicino a casa si sente prendere da un senso di urgenza. Vuole vedere Abdi, sapere come sta, ma si fa forza nel caso non ci siano stati miglioramenti.
In casa Maryam guarda la figlia riporre il latte in frigorifero. Sta cercando di pensare a cosa potrebbe cucinare per indurre Abdi in tentazione, perché è tutto il giorno che non mette in pancia niente, così quando Sofia le rivolge la parola viene colta in contropiede.
«Come si chiamava il campo dov’eravamo noi?», le chiede sua figlia.
«Hartisheik», risponde, sperando che Sofia non si accorga della forza con cui ha deglutito come se le si fosse riempita la gola di bile. «Perché?»
«Ci stavo pensando oggi, ma mi sono dimenticata come si chiamava».
Maryam sa che sua figlia non gliela sta raccontando giusta. La legge come un libro aperto. Ma il fatto stesso che la sua bambina sempre onesta e sincera stia mentendo le toglie il coraggio di chiederle perché. Resiste al potente impulso di rabbrividire perché menzionare il campo in un giorno come quello può essere solo un brutto presagio. Rimpiange che Nur sia appena uscito dalla cucina. Ha bisogno di dirglielo. Vuole che sia faccia a faccia.
Mentre la sua mente lavora, continua a trafficare in cucina come se avesse inserito il pilota automatico. Prepara la pastella per dei pancake. Sono il piatto preferito di Abdi. Non sa bene cos’altro fare.
Mentre mescola si sforza di reprimere ricordi del campo accendendo la radio, distraendosi con la musica, sbattendo la pastella molto più a lungo di quanto sarebbe necessario. Alle volte queste tattiche funzionano, alle volte si fa venire semplicemente le vesciche sulle mani piuttosto di fermarsi a pensare. E alle volte niente riesce a tenere a bada i ricordi.
Sofia ha notato la reazione di sua madre e vede che sta cercando di nasconderla, ma non ne è molto sorpresa, perché Maryam detesta parlare del loro passato. Sofia è troppo nervosa per chiederle dello svenimento al Welcome Center, perché potrebbe destabilizzare Maryam ancora di più. Forse ne parlerà a suo padre.
Trova Nur nella stanza di Abdi, seduto di fianco al letto del ragazzo, a pulire con delicatezza le lenti degli occhiali. Se li rimette ed esce con lei in soggiorno.
«Ho cercato di farlo parlare, ma niente da fare», la informa. «Devo andare al lavoro».
«Ci proverò anch’io più tardi», dice lei.
Lui la bacia sulla fronte ed esce prima che Sofia abbia la possibilità di parlargli del Welcome Center.
Per quel che può vedere lei, Abdi non è cambiato per niente. La sua stanza è buia e non sembra che si sia mai mosso. Invece di lasciare lì la sua borsa, se la porta in camera, pensando di tirar fuori i vestiti e lavarli per lui. Non scomoderà sua madre. Lo farà lei stessa. Prende anche l’iPad e il cavo e lo mette in carica nella sua stanza.
«Hartisheik», bisbiglia mentre infila la spina. La parola le rotola nella bocca. Dunque aveva ragione, i documenti che ha visto nello studio di Ed Sadler riguardavano il campo in cui sono vissuti loro. Voleva avere da sua madre la conferma del nome del campo, ma non voleva appesantire l’animo di Maryam con ciò che ha visto, non prima di averci riflettuto un po’ di più, aver meditato su che cosa possa significare.
Conserva un caleidoscopio di ricordi velocemente mutevoli del campo che hanno lasciato quando era ancora una bambina. Ricorda le taniche gialle dell’acqua, che era il bene più prezioso di tutto Hartisheik, e i materassini di paglia sul pavimento del loro riparo.
In tutto il campo la gente costruiva i propri ripari con rami di rovi intrecciati. Le pecore avevano la testa nera. Ogni tanto il campo si inondava e di notte non potevano sdraiarsi per terra. Nel tukul della sua famiglia c’era una sottile tenda rossa appesa tra la zona giorno e quella dove si cucinava, e lei giocherellava con l’orlo sfrangiato, tirando i fili finché la mamma non la sgridava. Fuori i maschi giocavano a calcio al tramonto, quando la polvere che sollevavano diventava dorata.
Sofia porta i pancake ad Abdi e si siede con lui. «Abdi, puoi parlarmi? Ci sono solo io. A me puoi dire quello che è successo. Ti prometto che non lo dico a nessuno se è quello che vuoi. Dài, Abdi».
Lui non risponde, anche quando lei gli sventola i pancake sotto il naso e gli dice che se mangia si sentirà meglio. I pancake si raffreddano nel piatto sul suo tavolo e il tè caldo che Sofia ha portato con le frittelle resta lì. Si perde d’animo e raggiunge la mamma.
Maryam ha acceso la tele e fissa lo schermo. Sofia capisce che sua madre non vuole parlare, così va a letto presto, molto prima che suo padre rincasi.
Sono in un limbo in attesa che Abdi parli. È la sola cosa che conta. L’attesa è disorientante e paurosa.
Si sveglia di notte e controlla l’iPad. È carico.
Batte il dito e fa scorrere e sulle prime è in parte delusa e in parte rasserenata perché sembra che non contenga niente che le offra un indizio su quello che è successo.
È a quel punto che si accorge del file audio. È l’unico nell’app vocale. La data è quella di un’ora tarda della sera precedente.
Sofia tocca il tasto dell’audio e guarda una sottile linea rossa attraversare lo schermo sotto un grafico di onde sonore.
Prima c’è silenzio, ma uno o due secondi dopo Sofia sente una voce che conosce. «Da dove vuoi che cominci?». È la voce di un uomo ed è un po’ strascicata e lenta, la voce di un narratore ubriaco.
«Com’era al campo?». Sofia riconosce entrambe le voci. La prima è di Ed Sadler. La seconda di suo fratello Abdi. Sentire la sua voce registrata la coglie di sorpresa.
«Harshek», dice Ed Sadler. Quasi non riesce a pronunciare la parola. Ride e prova di nuovo. «Har-ti-sheik. Sono stato a Hartisheik nel 1999. Quello del 1999 è stato uno dei miei primi viaggi con Dan, o era il 1998? Il primo o il secondo, non sono sicuro, comunque il novantanove è stato buono perché Fi mi ha raggiunto a Addis Abeba quando avevo una pausa di servizio e siamo andati a visitare quei posti religiosi sotterranei, sai? Quelle antiche chiese cristiane».
«In che condizioni ha trovato il campo?». Il tono di Abdi è molto serio, come se aspirasse a essere un vero corrispondente.
«Brutte, molto brutte, pessime». Passa di continuo dal sembrare molto ubriaco a molto sobrio. «Non volevano che il mondo di fuori vedesse com’era la vita dentro i campi, perciò le visite erano controllate. Lo facevano perché non si venisse a sapere fuori che cosa succedeva a quella gente in Somalia. Ma, sai, sono contento di aver insistito e poi Dan mi ha trovato la via. Sono queste le cose che bisogna fare e le conoscenze che bisogna avere per tirar fuori queste storie».
«Per quanto tempo è rimasto al campo?». La voce di Abdi è molto debole ma molto seria.
«Solo due giorni. Ho fatto due visite in due giorni. È stato sorprendente. Gente straordinaria. Tante tragedie, ma anche tanta umanità. L’anno prima ero stato in Somalia, al fronte, sai, giubbotto antiproiettile, elmetto, tutto quanto, proprio là in mezzo, con i proiettili che fischiavano da tutte le parti, molto Black Hawk Down, perciò andare al campo è stato un proseguire quella storia, mostrare il posto dove finiva la gente quando scappava da quell’orrore».
«Qual è stata la cosa peggiore di quella visita?»
«La tristezza, la fame, sete, denutrizione… la mancanza di speranza».
«E la migliore?»
«Be’, sai, mentre appendevo le foto della mostra pensavo che il giorno della partita di calcio è stato un gran giorno. Dovevamo ripartire quella sera, ma i volontari avevano attaccato uno schermo fuori del loro ufficio per mostrare la finale della Champions League. Manchester United contro Bayern di Monaco, un gran match, così siamo rimasti per vedere la partita. Atmosfera incredibile, con tutti gli uomini radunati davanti allo schermo. Uno straordinario senso di cameratismo».
Ed Sadler s’interrompe per uno sbadiglione. «Chiedo scusa, ma credo di dovermi mettere a letto. Ne ho mandato giù qualcuna di troppo».
«Ha scattato una foto degli uomini che guardavano la partita», dice Abdi. «L’ho vista alla galleria».
«Hai ragione, l’ho presa».
«Cosa c’è che non va nella bocca di quell’uomo?»
«L’uomo con tutti i denti che sporgono?»
«Sì».
«Ha un palato leporino. È un difetto comune alla nascita e se nasci qui con quel difetto, ti operano nel giro di pochi giorni o settimane. In Somalia questo non succede, specialmente se appartieni a una comunità rurale. Le strutture ospedaliere sono rare e anche a poterci arrivare, probabilmente non hai abbastanza per pagare l’operazione».
«Lei ha parlato con le persone della foto?»
«Di sicuro non con lui! Ho dovuto fare quella foto di nascosto. Non era un uomo che avrebbe voluto essere fotografato. Era in un gruppo di nuovi arrivati e i volontari sospettavano che fossero dei poco di buono. Te lo puoi immaginare, no? Che non tutti quelli che arrivano nei campi sono vittime di guerra. Dicevano che facevano parte di una squadra responsabile di molte atrocità in Somalia. Non era difficile per uomini come loro entrare e uscire dai campi e attraversare le frontiere. Nessuno aveva documenti e ogni giorno arrivavano disperati in gran numero».
«Dunque non sapeva come si chiamavano?», domanda Abdi.
«Quell’uomo aveva un soprannome, Farurey. Vuol dire labbro o labbro leporino o qualcosa del genere. Fa comunque riferimento al labbro. Non ho mai saputo il suo vero nome, non so se qualcuno sapeva come si chiamava, e non conosco gli altri uomini. È stato molto tempo fa. Mi ricordo di lui solo perché la gente ne parlava. Comunque questa sera faccio fatica a ricordare persino come mi chiamo io! Ora di andare a letto? Tu dovresti andar su e io ho bisogno di un bicchiere d’acqua».
«Ho cercato di stampare qualcosa di sopra e credo che il computer di Noah l’abbia spedito quaggiù. Ce l’ha lei?»
«Vediamo. Dai un’occhiata lì, ma ho paura che siamo rimasti senza carta. Forse ti toccherà aspettare fino a domattina. È ora di andare a letto, Abdi, ragazzo mio. Coraggio. Non so tu, ma io sono alla frutta. Sto diventando troppo vecchio per queste cose».
La registrazione finisce.
Cambia il turno delle infermiere e le voci dei miei genitori diventano più lente e più basse e scivolano negli sbadigli.
Alle volte, dopo che papà se n’è andato, sento la mamma che armeggia con la poltrona che si trasforma in letto. Alla fine di un lungo soggiorno in ospedale, mi viene da chiedermi se il suo corpo resterà per sempre piegato nella forma della mobilia ospedaliera.
Una volta Abdi mi ha chiesto come pensavo che sarebbe stata la vita della famiglia se non mi fossi ammalato. Era difficile rispondere a quella domanda, perché quando la tua famiglia è in un certo modo, non riesci a immaginarla diversa. Ho cercato di ricordare com’era la vita prima della mia diagnosi ed è da lì che ho trovato la mia risposta: «Normale».
«La “normalità” è una cosa che non esiste», ha detto Abdi.
«Sai cosa voglio dire».
Avevamo appena cominciato a frequentare il club di filosofia e Abdi aveva l’ossessione di dissezionare il significato di tutto quello che dicevamo, guardare dietro parole e frasi, fare domande in continuazione. Io lo trovavo un po’ pretenzioso, ma dopo “la chiacchierata” con la dottoressa Sasha, devo probabilmente ammettere di essere diventato un po’ così anch’io.
Lista dei proponimenti di Noah - Punto 4: Essere normale (o il più normale possibile).
La festa privata alla galleria è stata un’occasione per essere la famiglia che saremmo potuti essere senza la mia malattia.
La mamma era bellissima. Si era fatta capelli e unghie, aveva un vestito da sera nuovo ed era in gran forma. Papà ha scattato un selfie di gruppo e l’ha messo come sfondo nel suo telefonino.
«Una sera da campioni», ha detto quando ce l’ha mostrato. Io ero molto felice che dopo aver ricevuto la notizia non avevano voluto annullare la festa.
È stata la mamma a portarci in macchina alla galleria, che era in Stokes Croft. Di solito quando andiamo da quelle parti blocca tutte le portiere anche se solo ci fermiamo a un semaforo rosso, perché dice che è un posto “ai limiti”. È una descrizione che fa ridere papà. Era dubbiosa sulla galleria quando papà gliene ha parlato la prima volta, ma lui l’ha tranquillizzata. «È uno spazio gestito dall’Arnolfini Gallery, molto prestigioso», le ha detto. «Per quel che mi riguarda io non avrei voluto esporre se non a Londra».
Quando siamo arrivati, Abdi ci stava già aspettando davanti alla porta.
«Come sei elegante», gli ho detto.
«La mamma mi ha comprato una camicia nuova», ha detto lui. Era blu scuro e luccicava un po’.
Quando siamo entrati gli ho passato un braccio intorno alle spalle anche se è stato un po’ difficile perché ultimamente è cresciuto molto più di me. Ma pazienza, io volevo solo che tutti vedessero che era il mio migliore amico.
Appena entrati c’era un piccolo avviso:
ATTENZIONE: La mostra contiene immagini di guerra e di zone bombardate, che potrebbero essere mal tollerate da qualche visitatore.
La mamma era incerta sull’opportunità che ci andassimo anch’io e Abdi proprio per quel motivo, ma papà ha salvato capra e cavoli.
«I ragazzi hanno quindici anni», le aveva detto. «Prima o poi dovranno pur crescere».
Troppo giusto.
Lista dei proponimenti di Noah - Punto 5: Vedere un film vietato ai minori di diciotto. (Papà dice che andremo a vedere Alien insieme, anche se la mamma si fa venire un attacco isterico. Dice che è incredibile).
La galleria era piena zeppa, c’era tanta di quella gente che non riuscivamo a vedere bene le foto, però tutti ne parlavano.
«Da restare a bocca aperta… Splendide… La sfocatura comincia al posto giusto… Ha davvero un occhio straordinario».
Io e Abdi avevamo il compito di portare il cibo del buffet. Papà ci aveva promesso una paga oraria “sostanziosa”.
Lista dei proponimenti di Noah - Punto 6: Trovarmi un lavoro (sì, qualche ora di impiego pagato conta).
Mentre il locale continuava a riempirsi noi giravamo con dei grandi vassoi d’argento e offrivamo agli ospiti un assortimento di bocconcini prelibati. In molti mi hanno detto che ero cresciuto (mica poi tanto) e che avevo l’aria di star bene (figurati, buona questa), ma è stato molto bello lo stesso. Io e Abdi siamo una bella squadra.
Dopo un po’ c’era una tale ressa che abbiamo dovuto mollare i vassoi e qualcuno ha aperto la porta per far entrare dell’aria fresca.
Papà è montato su una sedia e ha fatto un discorso e a me è piaciuto quando alla fine ci siamo salutati come fanno i militari.
Verso le nove la gente ha cominciato ad andar via e papà e mamma si sono messi alla porta a salutare, baciando e stringendo la mano a tutti quanti. Io e Abdi ci siamo appostati con loro.
«Andiamo?», ha detto la mamma quando sono usciti anche gli ultimi. Ha sbadigliato. «Tuo papà resta a bere una birra con degli amici».
Sul marciapiede davanti alla galleria tre amici di papà aspettavano ridendo a voce alta. Due di loro fumavano.
«Non vado con loro se non vuoi», ha detto papà.
«Vai pure». L’ho abbracciato forte forte e l’ho tenuto così per un bel po’ e gli ho detto: «Sono così fiero di te, papà».
«Grazie, socio», ha detto lui. Ci siamo tenuti abbracciati per secoli.
Lista dei proponimenti di Noah - Punto 7: Assicurati che la gente sappia quanto è importante per te.
«Possiamo guardare le foto prima di andar via?», ho chiesto alla mamma dopo che abbiamo spedito via papà. «Giusto un’occhiatina?», ho detto. Era la prima occasione che mi si presentava di guardarle come si deve e adesso la galleria era vuota.
«È molto tardi».
«Ti prego».
«Cinque minuti. Stanno aspettando che ce ne andiamo per chiudere». Be’, non si sarebbe sicuramente messa a discutere con me, vero?
Ho fatto un giro con Abdi. La galleria era un bello spazio rettangolare con le foto a tappezzare le pareti. Alcuni erano ingrandimenti giganteschi, ma ce n’erano altre più piccole e appese in gruppi. Erano tutte belle foto. Alcune erano veramente impressionanti. Volevo essere sicuro d’averle guardate tutte, una per una.
Erano di posti diversi in giro per il mondo e la sezione di gran lunga più consistente era quella intitolata Corno d’Africa. La prima foto di quella sezione era di una neonata rannicchiata nuda in strada davanti a una casa distrutta. Aveva sabbia sulla faccia e sulle palpebre. In un’altra si vedeva una donna molto anziana appoggiata a un albero con la testa contro il tronco. Aveva gli occhi aperti. Era viva, ma probabilmente non per molto. Le passavano davanti delle famiglie, una lunga fila di gente che trasportava la sua roba. Mi ha fatto rabbrividire, quell’immagine di lei che aspettava la morte.
Un’altra foto era un primo piano di una donna e del suo bambino. Il bimbo aveva la pancia gonfia da far paura. La madre guardava dritto dentro l’obiettivo da sopra la testa del neonato. Gli occhi di entrambi erano spenti e giallognoli. È la fotografia più desolante che ho visto.
Le altre foto erano altrettanto scioccanti.
C’era un uomo sdraiato in mezzo alla strada, morto e coperto di sangue. Un ragazzino gli stava frugando nelle tasche stringendo in mano un fucile.
C’era un cadavere appeso a un palo con la testa piegata da una parte, mani e piedi penzoloni. Dietro c’era il muro di un negozio con sopra pitturato il disegno di sigarette e bibite e dentifrici e altre cose in vendita.
La peggiore era la foto dei piedi di qualcuno ridotti in poltiglia, con una mosca posata su un dito. Era orribile, da far star male, ma la luce era stranamente affascinante. Lì ci ho visto il talento di mio padre.
Altre non erano così terribili. Mi è piaciuta quella di un paesaggio dove si vedevano tende a cupola nel deserto, a centinaia o migliaia. Dietro, sopra un profilo di alture, si stava alzando una tempesta di sabbia e davanti il vento spingeva un cespo di rovi su cui erano impigliati pezzetti di plastica.
C’era anche la foto di un gruppo di uomini e ragazzi che guardavano una partita di calcio alla TV. Erano all’aperto, davanti a un grande schermo, gli uomini seduti su seggiole di plastica e i ragazzi a riempire gli spazi tra le seggiole e davanti agli adulti. Qualcuno doveva aver appena segnato un goal, perché uomini e ragazzi erano immortalati nell’atto di festeggiare, alcuni agitando le braccia, altri con la bocca aperta. C’era solo uno che non stava guardando la partita ma aveva la testa girata, dalla parte dove c’era la fotocamera, ma non direttamente verso l’obiettivo. Era su una sedia di plastica gialla e la sua espressione era di pietra, anche se gli sudava la faccia. Gli mancava il labbro di sopra, era come se glielo avessero squarciato nel mezzo, e dalla ferita gli venivano fuori i denti tutti storti da una parte e dall’altra. Faceva paura.
Anche Abdi si è fermato a guardare quella foto con me.
«Venite, ragazzi!», ci ha chiamato la mamma. «È ora di andare».
Io ero pronto. Mi sentivo debole. Le foto erano stressanti e io avevo adrenalina e buoni sentimenti agli sgoccioli. Abdi non si è mosso come se non l’avesse sentita. Io l’ho tirato per un braccio.
«Dài».
Non riusciva a staccare gli occhi dalla foto. Io so che Corno d’Africa vuol dire Somalia e che è da lì che viene la famiglia di Abdi, ma non sapevo che cosa c’era in quella foto di tanto interessante da incantarlo in quel modo.
«Abdi!».
Lui ha tirato fuori il telefonino e ha scattato una foto della foto.
«Okay», mi ha detto dopo aver controllato la foto. È venuto con me, ma ha continuato a riguardarla mentre si metteva il cappotto e quando già stavamo andando alla macchina si è girato per cercare di rivederla un’ultima volta.
«Siete molto silenziosi», ha detto la mamma mentre ci portava a casa.
«Stanco», ho risposto io, e mi è parso che le bastasse. Ha acceso la radio.
Non so perché Abdi era così silenzioso. Non era da lui. Forse era stanco anche lui. Ero contento se si riposava un po’, perché avevamo il nostro piano per dopo.
Ho guardato dal finestrino della macchina mentre tornavamo a casa e mi sono chiesto se papà avesse aiutato quelle persone dopo averle fotografate.
La casa di Edward e Fiona Sadler è molto alta. In una piazza georgiana del Clifton Village dove quasi tutti i palazzi sono divisi in appartamenti, loro hanno una casa tutta per sé. L’esterno è tenuto eccezionalmente bene. I mattoni di arenaria sono puliti e dorati e i vetri delle finestre brillano. Al centro della piazza c’è un giardino lussureggiante recintato da una cancellata decorativa in ferro battuto nero.
«Miseria ladra», borbotta Woodley.
Percorriamo il vialetto dell’ingresso. Nelle aiuole ai lati del selciato le giunchiglie che sono già sbocciate sono state legate con cura e dal terreno spuntano le teste lucide dei tulipani. Nei grossi vasi ai lati della porta da cui scende a cascata l’edera splende il rosa intenso dei ciclamini.
Schiaccio il pulsante del campanello. Il suono armonico è distante.
Quando viene ad aprire, Edward Sadler è in condizioni pietose. È un uomo alto, più o meno della mia statura, con le spalle larghe.
La prima cosa che fa dopo averci invitati a sedere in un soggiorno lussuoso e formale, è lasciarsi andare, gomiti sulle ginocchia, testa presa nelle mani, dita bagnate di lacrime.
Io e Woodley aspettiamo che gli passi. Poi gli porgo le mie condoglianze sulla prognosi di Noah. Non suonano meno artificiose di quando ho detto le stesse parole a Fiona Sadler.
Lui risponde con un cenno del capo, ma ha altro per la testa. «Ieri sera mi sono ubriacato. Continuo a pensare a come sarebbe stato tutto diverso se non lo avessi fatto».
Schivando l’autocommiserazione, il lamento del “se solo” delle vittime o dei loro cari che ha accompagnato quasi tutti i casi a cui ho lavorato, prevedibile, comprensibile, ma del tutto inutile, lo avvio con delicatezza all’interrogatorio.
«Può dirmi qualcosa di Noah?»
«È molto intelligente, come mia moglie». Una contrazione gli muove le labbra. È quasi un sorriso. Ho il sospetto che sia un trucco ricorrente: autocritica come espediente perché i suoi interlocutori si rilassino. Stempera la sua figura da maschio alfa.
«Abbiamo avuto Noah quando eravamo molto giovani. Non eravamo insieme da molto tempo. Io stavo appena cominciando la mia carriera e Fi studiava incisione. Era, cioè è, un’artista di notevole talento. Ci siamo innamorati subito, un colpo di fulmine, e abbiamo cominciato a frequentarci. Io viaggiavo già un po’, ma lei veniva con me tutte le volte che poteva perché aveva vacanze molto lunghe. È stato bello, molto. Sono stati momenti felici. Non avevamo in programma di avere un figlio, ma quando è successo, passato lo smarrimento iniziale, eravamo contenti. Ci siamo stabiliti a Bristol perché Fi potesse essere vicino ai suoi e grazie alla sua famiglia abbiamo avuto la fortuna di poterci permettere di comprare una casa, così ci siamo sistemati qui felici e beati. Fi ha allestito uno studio in giardino. Con il mio lavoro andava tutto bene, così ho cominciato a viaggiare più spesso e lei non ha più potuto venire con me, ma quand’ero via c’erano i suoi genitori ad aiutarla. Ce la siamo cavata. Ci sentivamo fortunati. E Noah non ci rendeva la vita per niente difficile. Era un bambino super. Un maschietto davvero fantastico».
Ho avvertito un finché e che la loro vita insieme è segnata da un prima e un dopo. Non lo interrompo. Se un teste si mette a parlare, glielo lasci fare e ascolti con la massima attenzione.
«Abbiamo deciso di non avere altri figli perché ne avevamo avuto uno quand’eravamo così giovani e con la presenza di Noah ci sentivamo completi. Quando aveva sei o sette anni e noi stavamo attraversando quei primi anni insieme, la vita era meravigliosa. Eravamo felici e francamente lo consideravamo un trionfo di fronte ai tipici problemi di una gravidanza imprevista. Abbiamo costretto molta gente a ricredersi restando insieme! Ma poi, di punto in bianco, è crollato tutto. I genitori di Fi sono morti a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro. Per molto tempo lei ne ha sofferto tremendamente perché era molto legata a loro. Le ci sono voluti secoli per rimettersi in piedi e si era appena ripresa che la scuola ci ha chiamato per informarci che Noah aveva un’emorragia dal naso che non riuscivano a controllare. È così che è cominciata. Dopo non so quante visite dal medico e gite in ospedale abbiamo avuto la diagnosi ufficiale di cancro».
«Quanti anni aveva Noah?»
«Otto».
«Mi spiace molto».
Lui china la testa, alza le mani e le lascia ricadere. Chissà quante volte in questi anni lui e sua moglie hanno dovuto rispondere alle reazioni del prossimo.
Non dev’essere facile.
«Avere un cancro stravolge la vita di un bambino. Quando lo hanno diagnosticato a Noah, era abbastanza grande da sentire nel profondo di se stesso che ciò faceva di lui un bambino diverso dai suoi amici. Era conscio di tutte le cose che gli sarebbero state negate. Anticipava e aspettava con timore le terapie. E ora…».
Gli si spezza di nuovo la voce e stringe i pugni. Alza gli occhi al soffitto come sperando di trovarci delle risposte. Noi aspettiamo in silenzio dandogli il tempo che gli serve.
«Ora, quando siamo arrivati in quel posto che abbiamo sempre temuto, la fine di tutto, la cosa che per sette anni abbiamo cercato di schivare, ora succede questo. Ma dovete sapere che Noah è forte. Ne verrà fuori. Deve. Abbiamo fatto progetti per i prossimi mesi».
Si schianta contro i cuscini del divano e si passa le dita nei capelli. Guarda prima uno e poi l’altro, avanti e indietro, e il suo sguardo è interrogativo e disperato.
«Crede di poter rispondere a qualche domanda, signor Sadler? In caso contrario, possiamo rimandare».
Lui fa un sospiro pesante e uno sforzo per sedere più composto e dare l’impressione di essere più attento. Dal corridoio ci giunge il ticchettio sordo di un orologio.
«Facciamolo adesso. Qualunque cosa possa aiutare, anche se tra poco devo tornare in ospedale. E vi prego, chiamatemi Ed. Detesto le formalità. Sono così insulse».
«Vorrei sapere tutto quello che può dirmi dell’amicizia fra i due ragazzi», spiego.
«Sono amici del cuore. Assolutamente culo e camicia, come si suol dire. Abdi è un ragazzo favoloso ed è stata una vera benedizione per Noah quando ha cominciato le medie. Durante la terapia è rimasto così lontano dalla scuola che avevamo paura che non riuscisse ad ambientarsi, ma hanno legato subito dal primo giorno e da allora sono inseparabili».
È esattamente quello che sua moglie ha previsto che avrebbe detto.
«Uscire di casa di nascosto è il genere di comportamento che si sarebbe aspettato da uno o l’altro dei due?»
«Non sono a casa tanto quanto dovrei, perciò l’esperta di Noah è Fiona, ma personalmente mi sembra molto improbabile che facciano una cosa del genere. Sono ragazzi che rigano dritto. Vanno alle gare di scacchi. Studiano insieme. Diventano matti se non ottengono menzioni al merito per ogni singolo compito che fanno a casa. Quindi no, è l’ultima cosa che mi sarei aspettato».
C’è qualcosa nel modo in cui lo dice che mi fa pensare che da ragazzo Ed Sadler sia stato tutto l’opposto e che ancora lo sia da adulto. Mi interessa in modo particolare il suo atteggiamento al riguardo perché ho l’impressione che Ed Sadler potrebbe vedere di buon occhio qualche piccola trasgressione da parte di Noah, o come minimo accettarla di buon grado. Mi sembra meno protettivo della moglie.
«Sua moglie ci ha detto di temere che la loro amicizia possa non essere molto salutare per Noah», interviene Woodley. «Lei che cosa ne pensa?».
Sospira.
«È un argomento difficile. D’accordo, sentite, ecco come stanno le cose. Da anni la vita di Fiona è dominata dalla malattia di Noah e certamente vi potete immaginare come questo la faccia sentire. Aspira con tutto il cuore alla “normalità”. Pensa che io abbia incoraggiato Noah a farsi amico di Abdi per i miei interessi personali e me lo rimprovera perché avrebbe preferito che Noah si facesse amico un ragazzo la cui madre potesse bere un caffè con lei o alternarsi con lei nel portare i figli a scuola. Che potesse essere amica sua. E detto fra noi credo che questo incida sull’opinione che Fiona ha di Abdi. Non ha mai approvato del tutto la loro amicizia. Credo che si sbagli, credo che Abdi sia un amico perfetto per Noah, ma capirete sicuramente come il suo stato d’animo possa avere influenzato il suo giudizio su di lui. È sottoposta a una pressione incredibile da molto tempo».
Sceglie le parole con molta cura. Cerco di valutare quanto possa avergli giovato la devozione apparentemente totale di Fiona alla causa di Noah: ne ha ricavato certamente una notevole libertà. È evidente che Ed Sadler voglia molto bene a suo figlio, ma in nessun momento ha descritto il fardello delle conseguenze della malattia di Noah come qualcosa che affrontano insieme. Non di meno apprezzo la sua franchezza.
«È una risposta molto onesta».
«Al punto in cui siamo nella nostra vita, non vedo l’utilità di essere evasivi».
Non ho niente da obiettare.
«Dunque, per essere chiari, ieri sera non ha visto niente che possa averle fatto pensare che i ragazzi avessero litigato o avessero in programma di scappare di casa?»
«Non ho visto niente. Non so perché l’abbiano fatto, nemmeno mia moglie. Era stata una bella serata. Erano anni che avevamo in progetto questa mostra. Per me è stato un gran momento sul piano professionale e lo è stato anche per noi come famiglia. Abbiamo molto meditato se non fosse il caso di annullarla, dopo che abbiamo saputo di Noah, ma è stato lui a insistere perché restasse tutto come prima».
Gli luccicano di nuovo gli occhi di lacrime e si schiaccia i pugni nelle orbite come per poterle cancellare.
«Le spiace se diamo un’occhiata alla camera di Noah?», domando. Voglio farmi un’idea di questo ragazzo al di fuori dell’immagine infelice che mi sono formato vedendolo in ospedale.
«Nient’affatto, accomodatevi». Si alza subito, come se gradisca l’interruzione, e ci precede per due rampe di scale.
Sosta sulla soglia e fa passare avanti me e Woodley. «Vi lascio soli», annuncia. «Ieri sera Abdi era venuto qui a dormire».
Quando se ne va io do una prima occhiata generale e faccio un punto preliminare dell’ambiente.
La prima considerazione è la più evidente: la stanza di Noah Sadler è senza dubbio dimostrazione dei privilegi di cui ha goduto crescendo. Questo finché non noti tutto il materiale relativo alla sua malattia.
Apriamo i cassetti e passiamo in rassegna quello che c’è sulla scrivania. Mentre lavoriamo, in un angolo ruota adagio un modellino di una mongolfiera ad aria calda della Balloon Fiesta di Bristol.
Il letto di Noah è sfatto e arruffato, come ci si aspetterebbe se qualcuno si fosse assentato di notte di nascosto. Per terra c’è un pigiama. In un angolo c’è un letto di fortuna in cui sembra che abbia dormito qualcuno, ma non c’è in giro niente che possa con qualche evidenza appartenere ad Abdi.
«Forse ha dormito in un’altra stanza», commenta Woodley.
Dà una sbirciata nel bagno comunicante. «Qui non c’è nemmeno uno spazzolino da denti».
«Forse Abdi aveva deciso di andar via e ha portato con sé la sua roba. Può darsi che abbiano litigato. E se ha preso su e se ne è andato arrabbiato e Noah lo ha seguito?».
Sto pensando ad alta voce, passo in rassegna le alternative, cerco di mantenere la mente aperta.
«Può essere. Possiamo chiedere al signor Sadler se lui o sua moglie hanno preso in consegna la roba di Abdi».
«Ne dubito molto. Probabilmente è l’ultima cosa a cui pensano in una giornata come questa».
«Hai ragione». Woodley apre l’armadio dove sono riposti in disordine gli indumenti di Noah. Le scarpe sono ammonticchiate sul fondo. Giusto quello che ci si aspetta dalla stanza di un adolescente.
Una sola cosa cattura veramente la mia attenzione. Sulla parete sopra il letto di Noah sono appesi dei disegni incorniciati. In tutti si vede una strada con il panorama che la circonda e non ce ne sono due che si somiglino. Sono particolareggiati e meticolosi. Ci devono essere volute ore per finirli. Sono tutti firmati NS.
Quando ridiscendiamo ne faccio cenno a Ed Sadler e per la prima volta tradisce un po’ di imbarazzo.
«Noah è in psicoterapia», spiega. «All’ospedale. Per affrontare meglio il suo problema. Si tratta soprattutto di parlare, ma c’è anche una componente di arteterapia. Dicono che aiuti a esprimere la propria personalità, perciò ogni tanto Noah disegna qualcosa. Sono disegni sul suo viaggio attraverso la vita o qualcosa del genere. Fi insiste per appenderli, anche se non sono sicuro che sia una buona idea, se devo essere sincero. Io sono più per guardare avanti e tirare dritto. Il pensiero di mettermi a parlare fino alla nausea su ogni singola cosa mi terrorizza».
È l’atteggiamento che avevo anch’io nei confronti della psicoterapia prima di essere costretto a vederla da un’altra prospettiva e di trovarmi seduto davanti alla dottoressa Manelli due volte alla settimana per sei mesi in una stanza dall’illuminazione bassa dove l’arredamento sottotono sembra progettato per assorbire la mestizia. Però non reagisco con il fervore del convertito all’imbarazzo di Ed Sadler sulla terapia a cui è sottoposto suo figlio, perché nel mio caso la giuria è ancora in sessione.
«Lo psicologo da cui va è di base all’ospedale», aggiunge Ed. «Noah ci si trova molto bene, credo. Ormai sono anni che va da lui. La sua équipe medica dice che gli fa bene, perciò così sia».
«Nella stanza di Noah non abbiamo visto niente di Abdi».
«È perché questa mattina è venuta sua sorella a prendere la sua roba. C’era qui Alvard, la nostra governante».
Lo lasciamo a riposare. Sembra non meno distrutto di sua moglie.
«Mi piacerebbe fare due chiacchiere con lo psicologo», dico mentre torniamo in centrale.
«Come la mettiamo con la riservatezza dei rapporti medico-paziente?», obietta Woodley.
«Secondo me vale la pena provare comunque. Non abbiamo niente da perdere».
Quella sera, tornando a casa, mi fermo a prendere da mangiare. La signora Chin del posto cinese vicino a casa mia grida la mia ordinazione a suo marito appena mi vede spingere la porta: «Un riso fritto speciale per il detective speciale!».
Mi siedo a uno dei suoi vecchi tavolini in fòrmica rossa ben strofinati e sbrecciati e aspetto pensando alle due famiglie che ho conosciuto e al giudizio unanime che danno sui rapporti tra i due ragazzi, con l’eccezione di Fiona Sadler. L’esperienza mi ha insegnato a non sottovalutare l’intuito di una madre, ma questa non è una madre in una situazione ordinaria. Questa sera l’ospedale ha comunicato che le condizioni di Noah Sadler sono stabili e rassicuranti e questo è già qualcosa.
Do un’occhiata al giornale cittadino che qualcuno ha abbandonato sul tavolo. Gli strascichi della manifestazione antimmigrazione della settimana scorsa sono ancora trattati in un articolo che include commenti di molti dei papaveri cittadini:
Il sindaco Tony Harris ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Bristol è una città inclusiva e multietnica. Siamo orgogliosi di accogliere persone di tutte le provenienze e di tutti gli orientamenti religiosi. Se avessimo avuto il potere di impedire che si tenesse la manifestazione della Nazione Bianca, lo avremmo certamente esercitato”.
Sotto c’è la descrizione dei danni provocati dai disordini e un calcolo approssimativo di quanto costeranno le riparazioni all’amministrazione e ai negozianti. La responsabilità è addossata senza mezzi termini su quello che viene descritto come un “al meglio patetico e al peggio goffo e incompetente” tentativo della polizia di tenere la situazione sotto controllo. Niente di buono per noi.
Quando mi porta la mia ordinazione, la signora Chin fa i suoi soliti commenti sul mio stile di vita da scapolo.
«Non fa bene a un bell’uomo cenare da solo tutte le sere, detective!».
«Grazie, signora Chin. Ci sto lavorando».
Butta nel mio sacchetto un biscottino della fortuna.
«Forse questo le porta fortuna in amore!».
«La terrò informata».
Mentre tolgo la catena alla bici e appendo il sacchetto al manubrio per l’ultima tappa fino a casa, il mio telefono si mette a squillare. Controllo chi è. Non ci sono molte persone che sanno sorprendermi, ma questa è certamente una di loro.
«Becky?»
«Jim. Non sapevo se questo numero era ancora buono».
«Ne è passato di tempo».
«Dove sei?»
«Sono… Perché?».
Non ho praticamente più visto mia sorella da quando se n’è andata dalla casa di famiglia e dopo d’allora solo in quelle riunioni per cui mia madre riesce a esercitare un ricatto emotivo abbastanza in profondità da farci presenziare tutti e due. Becky è disposta a venirci solo se è sicura di evitare nostro padre. L’ultima volta che ci siamo visti è stato al suo funerale. Avevamo intenzione di bere qualcosa insieme quando mi sono trasferito a Bristol, perché lei già ci viveva, ma poi non so come non ce l’abbiamo mai fatta.
«Sono a casa tua. Ho bisogno di un posto dove stare».
Cinque minuti dopo la trovo seduta davanti alla mia porta e faccio fatica a riconoscerla. Ha lunghi, sporchi dreadlock biondi con dentro delle perline e zigomi troppo appuntiti con sotto guance incavate. Ha un occhio nero e gonfio. Quando mi vede si alza con una certa difficoltà.
«Per piacere non dire niente», mi ammonisce.
Ubbidisco mentre metto la catena alla bici, apro la porta e le faccio segno di entrare. È come un pesce fuor d’acqua nell’atrio elegante del mio palazzo. Mi offro di portarle il grosso zaino che ha con sé, ma rifiuta. Se lo carica in spalla e mi segue su per le scale.
Non è mai stata a casa mia e la vedo osservare il mio ambiente con l’occhio buono. Divido il mio riso speciale in due ciotole e gliene do una. Mangia molto velocemente. Vedo che ha le dita sporche e che ha un livido anche su una clavicola.
Parliamo tutti e due nello stesso momento.
«Hai intenzione di dirmi…».
«Posso restare qui da te per un po’?».
L’ultima volta che io e mia sorella ci siamo trovati nella stessa casa è stata la sera che mio padre l’ha colpita con un manrovescio ed è andata a sbattere contro il muro della cucina. Aveva messo parecchia forza in quel colpo, tanto che la rastrelliera delle spezie si è staccata dai suoi ganci ed è precipitata sul pavimento accanto a Becky. Ci fu un’esplosione di erbe e polveri di tutti i colori. Nostra madre aveva un debole per la sperimentazione gastronomica.
Quando successe, io stavo mangiando bastoncini di pesce. Mia madre era andata al congelatore a prendere del gelato che voleva servirci per dessert. Becky impiegò molto tempo per rialzarsi e quando lo fece le girava la testa.
Mio padre le voltò le spalle per prendere un bicchiere da whisky dal pensile e mentre era girato, Becky è uscita dalla cucina in silenzio ed è salita in camera a fare i bagagli. Lasciò sulla moquette una scia di orme speziate di rosso.
Mio padre aveva appena saputo che Becky era stata in un certo posto quando a lui aveva detto di essere in un altro.
Non molto tempo dopo, quando uscì di casa trascinando una valigia, la guardai dalla cucina attento a finire diligentemente il mio pasto anche se ormai era diventato gelido. Ero un bravo bambino. Ero terrorizzato. Vidi mia madre infilare nelle tasche di Becky delle banconote prese dalla scatola di latta che c’era in dispensa e cercare di toccare una guancia di sua figlia, solo per essere respinta. La vidi rovesciare nel lavello il gelato perché si era sciolto. Le tremavano le mani sotto il getto dell’acqua e la fece scorrere per molto tempo.
Quella sera la porta dello studio di mio padre restò chiusa e fu così per molti giorni quando rientrava dal lavoro. Una settimana dopo fece sostituire la moquette sporca di paprika, soprintendendo di persona alla posa di quella nuova e quello stesso giorno sparirono le fotografie di Becky che c’erano sul pianoforte. Non fece mai più il suo nome.
La sera in cui arriva a casa mia Becky non dice niente. Le do la mia stanza e io mi metto sul divano e dico a me stesso che non importa se le molle mi si infilano nella schiena, perché non sarei riuscito a dormire in ogni caso.