13

«TORNA qui!» strepitò Testicle. «Vieni a oliarmi!»

Kassandra prese il suo mantello e se lo avvolse sul corpo nudo. «Ungiti da solo. Sei ubriaco... e in uno stato terribile.» Uscì dal ginnasio a lunghi passi a lasciare il riottoso campione a rotolarsi nella polvere dove lo aveva atterrato per la terza volta di fila durante l’addestramento di pankration. Era un idiota, ma le era simpatico, forse per quel suo modo di essere uno spartano così poco spartano, con un debole per le battute di spirito, gli scherzi... e il vino.

Era stato un inverno lungo, costellato da serate di libagioni con cui innaffiare recitazioni di poesia epica spartana, giochi, gare di corsa e tecniche sportive. Era persino riuscita a convincere Pausania a ospitare Erodoto, Barnaba e la sua ciurma, che avevano così abbandonato la desolazione della piccola insenatura e vivevano anche loro nella casa del giovane re. La cittadella era rivestita da un sottile guscio di brina, ma nei prati intorno ai templi erano spuntati i primi bucaneve e sui cipressi cantavano gli uccelli. La primavera era alle porte. L’indomani Kassandra sarebbe partita, misthios di nuovo, per andare a nord a dare una svolta alla guerra nella lontana Beozia. Una cosa che aveva appreso durante l’inverno era quanto in quella regione le forze spartane e quelle ateniesi fossero ben rintanate. Si sentiva sciocca per aver accettato la proposta di Archidamo. Quello che sicuramene non aveva trovato in inverno era la prova dei segreti del vecchio sovrano. Quell’uomo era una serpe, ne era sicura. Ma non poteva accusarlo di essere un membro del Culto senza una solida prova.

Passò davanti alla loro casa ancora sbarrata e si fermò davanti alla piccola abitazione di due stanze che le aveva messo a disposizione Pausania. Si lavò e si sedette sulla soglia a bere un lungo sorso di acqua aromatizzata. Il suo sguardo vagò per Pitana e si posò sulla tomba di pietra di Leonida. Era quasi mezzogiorno. Con un sospiro stanco si alzò e si recò al monumento.

«Come mai qui, madre?» domandò distratta. Non capiva perché Myrrine le avesse chiesto di incontrarla lì alla tomba allo scoccare del mezzodì. L’indomani avrebbero lasciato Sparta anche Brasida e Myrrine. Avevano in programma di trasferirsi per la primavera e l’estate nella vicina Arcadia, dopo che sua madre aveva trovato indizi da cui risultava che anche Lagos, l’arconte dell’Arcadia fosse un membro del Culto. Se così era, allora era certamente possibile «persuaderlo» a rivelarle l’identità del re spartano traditore.

Entrò nell’antico monumento e nella luce di una fiaccola appesa al muro trovò Myrrine genuflessa sotto la solenne, ascetica statua del re Leonida, nudo salvo che per l’elmo, la lancia e lo scudo. Kassandra si inginocchiò accanto a lei.

«Leonida è stato l’ultimo vero eroe di Sparta», esclamò Myrrine. «Non fosse stato per il suo coraggio, ora saremmo tutti sotto il giogo persiano.»

«Che cosa ha a che fare con me e il mio viaggio a nord... dove ci sono greci che uccidono greci?»

«Sai perché Leonida andò alle Termopili contro ogni pronostico?»

«Perché era forte ed eroico, non come me», brontolò Kassandra.

«Dammi la tua lancia», chiese con calma Myrrine.

Kassandra socchiuse gli occhi insospettita, ma l’accontentò. «L’ultima volta che qualcuno mi ha chiesto di farlo è stato quando Erodoto...»

Myrrine avvicinò la lancia alla statua e Kassandra si sentì percorrere da una saetta.

Sono nella sala dei re, ma è diversa, gli antichi troni sono più splendenti, meno usurati... e vuoti.

«Sparta non andrà in guerra. La Pizia ha parlato», strilla uno scheletro d’uomo dietro uno dei troni. È un eforo. Gli altri quattro convengono sbraitando. Alcuni di loro indossano l’orribile maschera, altri la tengono in mano. Inginocchiata in mezzo a loro c’è una vecchia avvizzita che dondola borbottando. Riconosco le vesti impalpabili, la chincaglieria. La Pizia! Hanno l’Oracolo ai loro piedi come un cane!

La figura solitaria davanti ai gradini del palco su cui si trovano i troni, si dilata nel girarsi verso di me. «Tutto questo parlare della Pizia! La Pizia! Ebbene, la Pizia dice solo quello che voi le ordinate di dire. È stata una vostra marionetta per troppo tempo. È ora di tagliarle i fili.»

«Oh, Leonida, i giorni degli eroi sono finiti. Tu credi che il tuo sangue ti renda speciale? Se ti aprissimo le vene colerebbe per terra e scomparirebbe attraverso le crepe. Non sei nessuno.»

Allora capisco dove sono e quando.

Leonida alza la lancia e la punta sull’eforo. «Non sono niente? Vieni giù e affrontami, ti offro il piacere di scoprirlo.»

L’Oracolo smette di borbottare e leva la testa. Posa una mano delicata sulla punta della lancia di Leonida e la spinge verso il basso. «Perché combatti la certezza, Figlio del Leone? Serse ci unirà. Farà Ordine del Caos.»

Mi si congela il sangue. Perché l’Oracolo e gli efori chiedono al re spartano e al suo esercito di ritrarsi mansueti davanti a Serse, re dei re, signore di Persia, e le sue ingenti milizie?

Le labbra dell’eforo si distendono in un sorriso gioioso. «Vedi? Mettiti contro la Pizia e tutto quello che difendi cadrà.»

Leonida li guarda a lungo, poi gira i tacchi. «Preparate gli uomini», tuona mentre si allontana. «Se Serse vuole Sparta dovrà passare attraverso di me.» È lui invece a passare attraverso me come un fantasma e in un lampo accecante è tutto finito.

Si ritrovò in ginocchio di fianco a Myrrine.

«Visto?» domandò sua madre. «Leonida andò in guerra per salvare Sparta dalla Persia... e dal Culto.»

«Dunque erano già qui, aggrappati come gramigna alle fondamenta di Sparta?»

«Erano già qui», confermò Myrrine. «Tornando a Sparta ho potuto appurarlo. Una scoperta sconfortante. Ora tu però devi andare a nord, Kassandra. Non pensare ad Archidamo o al passato. Cerca solo di sopravvivere... e di trovare la prova di cui abbiamo bisogno, con cui strappare dalla nostra patria le nere radici di questo maligno parassita una volta per tutte.»

Lo scalpiccio del suo cavallo nel silenzio generale la fece scivolare in nebbiose rimembranze del passato, ricordi degli anni più recenti e della guerra in cui era stata trascinata, e di tempi precedenti, ancora conficcati nel suo cuore come uncini arrugginiti. All’improvviso sentì i tonfi di molti cavalli e rialzò la testa sorpresa. Ma le colline della Beozia erano deserte, solo ciuffi verdi su lastre di pietra grigia che luccicavano nella calura di prima estate. Le alture intorno alla valle che percorreva stavano crescendo e i cavalieri fantasma che aveva sentito altro non erano che l’eco del suo destriero. Sono quasi arrivata, calcolò vedendo che la pista che percorreva cominciava a salire tra montagne che si elevavano maestose contro il sipario cobalto del cielo. Sorrise vedendo Icaro che la precedeva prendendo quota, il suo fedele esploratore. Nessun suono da parte sua ed era un buon segno. Recuperò una mela dalla borsa della sella e ne consumò distrattamente la polpa dolce, fresca e croccante. Rallentò un poco l’andatura per potersi protendere a regalare il torsolo al cavallo. Fu allora che accadde una cosa strana. I rintocchi degli zoccoli rallentarono in una maniera insolita, come se le zampe del cavallo avessero impiegato un po’ troppo tempo a corrispondere al rumore che facevano. Si sentì il dorso umido di sudore accarezzare da uno sgradevole senso di disagio. Si torse nella sella per guardare da dove era arrivata. Ora però, con il cavallo tornato a un’andatura regolare, non c’erano altro che il frinire frenetico delle cicale, il giocoso sciacquio di un torrente e il sordo martellare di un picchio in una macchia di pini.

Fece un sorrisetto con una disinvoltura che non sentiva affatto e riprese la marcia. Ma l’eco degli zoccoli continuava a essere... sbagliata. Per il resto del viaggio tenne sempre una mano dentro il mantello sull’impugnatura della lancia spezzata.

Ma le eco fantasma non assunsero mai la forma di una minaccia autentica e giunto il tardo pomeriggio vide apparire davanti a sé la vetta argentata dell’Elicona. Scorse una cerchia di lance su un altopiano dentro cui si muovevano sentinelle con il mantello rosso davanti a tende bianche. Spostò la mano dalla lancia al rotolo di pergamena, poi schioccò la lingua per spingere il castrato a salire al piccolo trotto verso l’ingresso al campo. Quando i due spartiati al cancello la videro, spianarono le lance e alzarono gli scudi, pronti a colpire. Kassandra mostrò loro il rotolo come fosse un’arma. I soldati videro il sigillo e la lasciarono passare.

Smontò, legò il cavallo vicino a una mangiatoia e proseguì a piedi. Passando tra le tende, registrò ogni dettaglio, usando la vista periferica per immagazzinare ogni particolare. Mi serve solo la più piccola delle prove, Archidamo. Tutti sapranno che sei uno dei mascherati, e il tuo falso potere come re di Sparta avrà fine. E con esso cadrà sicuramente anche il Culto. Giunse infine alla tenda del comando, giallo chiaro e più spaziosa delle altre, con i lati rimboccati per dare la possibilità a iloti e soldati di andare e venire con notizie e rinfreschi ad alimentare quelle che le sembrarono discussioni alquanto vivaci. Il comandante spartano, fermo con la testa china tra le spalle larghe, muoveva in continuazione una mano sopra la mappa stesa su un tavolo. Gli altri intorno a lui baccagliavano incrociando consigli contraddittori. Per un istante provò compassione per il capo... ma poi lo guardò meglio.

Si arrestò all’improvviso. «Stentore?»

Stentore impallidì, poi le sue guance si infiammarono e le sue labbra si assottigliarono come un filo di spada. Si staccò dal tavolo, spostò in malo modo il consigliere più vicino e le andò incontro.

«Non sapevo che a comandare qui fossi...»

Le nocche di Stentore la colpirono alla bocca e un lampo bianco le attraversò la testa. Un attimo dopo si ritrovò a terra in preda alle vertigini. «Malakas!*» ringhiò, poi si accorse che il suo aggressore le stava addosso, con la faccia deformata dalla collera e la spada sguainata. Intorno a loro si era riunita una piccola folla. Subito si riebbe dallo stordimento, rotolò via e agitò la pergamena. «Sono qui per aiutarvi, idiota!»

«Non dopo Megara. Non dopo quello che hai fatto, troia assassina!»

Gli fecero eco i commenti rabbiosi degli spartiati che l’avevano circondata. Quanto avevano saputo da Stentore?

Tenne il rotolo in alto perché tutti potessero vederlo. «Re Archidamo mi ha mandato ad aiutarvi a conquistare questa regione.»

Il brontolio generale si spense e tutti gli occhi si posarono sulla pergamena. Con il respiro contratto che gli gonfiava il petto, Stentore ripose bruscamente la spada nella guaina e a passi pesanti andò a fermarsi sul limitare settentrionale dell’accampamento. «È così che si fida di me Archidamo», protestò girandosi verso di lei. «Dando credito a una fottuta mercenaria?»

Kassandra si toccò il mento. Le facevano male l’osso e le labbra. Andò a raggiungere il fratellastro. Prudente, si fermò dietro di lui nel punto da cui si spaziava con lo sguardo verso nord: vaste pianure dorate dal sole e al centro il grande lago di Copaide alimentato dal nastro verde del fiume Cefiso. Sul terreno scorrevano le ombre delle nuvole leggere che attraversavano il cielo.

Stentore avvertì la sua vicinanza. «Gli dèi mi puniscono con la tua presenza.»

«Se fossi qui per punirti, saresti già morto», ribatté lei che cominciava a spazientirsi.

«Che cosa spera di ottenere Archidamo mandandoti qui? Un’unica mercenaria traditrice?»

«Spera di ottenere quello che a te evidentemente non riesce», sbottò lei, reagendo ora con stizza al dolore forte che le aveva aggredito la mandibola.

«Tu proprio non ti rendi conto, vero?» l’apostrofò lui girando la testa di scatto. «Sono quattro anni che va avanti questa guerra. Tu credi di sapere tutto solo per aver partecipato con noi a una battaglia una volta a Megara?»

Il dolore giunse al suo apice e ridiscese a un livello costante. Kassandra arginò la collera. «Sono rimasta coinvolta in altri scontri dopo quella battaglia, Stentore. Vediamo di non trasformare ogni nostra parola in una lama di spada. Abbiamo un lavoro da fare. Mi aspetto di trovare mercenari e alleati qui con te. Non sapevo che il grosso delle forze spartane fossero tutte qui. Come mai? Perché la Beozia?»

Stentore abbassò la testa, come quando era al tavolo con la mappa. «Avevamo Atene», grugnì alzando una mano e afferrando l’aria, per poi scuotere il pugno prima di riabbassare il braccio. «Poi Cleone ha preso il potere. Governa Atene con un guanto di ferro. Ha guidato molte stupide invasioni via terra, ma in alcuni casi ha avuto successo. Quando noi abbiamo cercato di tornare nell’Attica, ci ha respinti. Ora ci troviamo bloccati in questa regione, un’accozzaglia di alleati e nemici spietati. Ora le forze ateniesi e quelle dei loro alleati plateani minacciano di buttarci fuori anche da questa regione. Sarebbe disastroso.»

«Farò tutto il possibile per impedire che accada», dichiarò pacata Kassandra.

Stentore tornò a guardare la pianura. «La sola ragione per cui sei ancora viva è quel documento che porti con te. Tu non sei un’alleata. Sei semplicemente un’arma.»

«C’è molto che non sai di quello che accadde veramente quella notte a Megara», cominciò lei.

Lui alzò di scatto una mano pretendendo silenzio. «Da allora ho ricostruito i fatti, lama a pagamento. Tu eri la figlia perduta del Lupo. Ti sei presentata nelle vesti di mercenaria... quando altro non eri che un’assassina.»

«Tu non capi...» rispose Kassandra avanzando pericolosamente di un passo sul ciglio del dirupo.

Stentore estrasse parzialmente la spada. «Una sola parola ancora.»

Kassandra tacque.

Dopo un po’ Stentore parlò di nuovo. «Abbiamo un solo reparto qui. Come a Megara. Gli auspici erano incerti, così gli efori hanno trattenuto gli altri quattro reggimenti. Di conseguenza le possibilità di vittoria di Sparta in queste terre è sulle spalle dei nostri alleati. Tebe», disse indicando a est dove le mura chiare della città erano appena visibili attraverso la calura che si alzava da terra. «E a sud, al di là del golfo, Corinto. Hanno una flotta pronta a sbarcare in nostro appoggio... con un gran numero di uomini.»

Kassandra osservò la città di Tebe, poi percorse con lo sguardo la via più diretta da laggiù fin dove si trovavano loro, passando per la pianura dorata. Ma i suoi occhi restarono impigliati su una strisciolina d’argento che si estendeva dalle sponde meridionali del lago Copaide ai piedi orientali dell’Elicona, sulle cui pendici si trovavano loro. Lì per lì pensò che fosse un fiume, poi si accorse che era un’opera di sterramento e che c’erano degli uomini. Opliti ateniesi.

«Molto bene», la derise Stentore. «L’hai visto anche tu. Quella linea è come un muro tra noi e i nostri alleati tebani, la nostra unica fonte di rinforzi a cavallo. Pagonda e i suoi cavalieri non ci possono raggiungere. La fascia di ferro ateniese controlla i piedi della montagna come un cappio. Hanno provviste in quantità e vedo arrivare altri uomini ogni giorno. L’esercito ateniese cresce come un bubbone, dicono alcuni, con Cleone che non si cura minimamente delle casse quasi vuote della sua città, ossessionato com’è dalla voglia di soddisfare il suo popolo, dopo lo scontento per la pavida strategia difensiva del suo predecessore.»

Gli occhi di Kassandra si spostarono sull’estremità della linea ateniese dove sfiorava la sponda meridionale del lago. Passò quindi a guardare la sponda settentrionale. C’era modo di passarci attorno?

«Terreno accidentato, impraticabile», disse Stentore prevenendo il suo suggerimento. «I cavalieri di Tebe conoscono questa terra meglio di chiunque altro e non sono così pazzi da cercare di passare intorno al lago per arrivare fin qui attraversando quella zona infida a costo di ritrovarsi con metà dei loro animali con le zampe spezzate.» Le indicò delle strane X allineate davanti allo schieramento ateniese sul lato più vicino all’Elicona. Kassandra dovette sforzare la vista prima di capire di che cosa si trattava: una ventina di uomini di Sparta fissati a terra sotto il sole, nudi, a braccia e gambe divaricate. «Per gli dèi, abbiamo cercato di rompere l’assedio di quel muro di lance e quello è il risultato.»

«Allora la chiave sta nei corinzi e nelle loro truppe che mi hai detto che sono ingenti», concluse Kassandra. «Quando sbarcheranno, potranno attaccare l’estremità sud di quella linea. Distrarrà gli ateniesi quanto serve per permettere al tuo lochos di assalirli da quest’altra parte, mentre altrettanto farà Pagonda dall’altro lato con i suoi tebani.»

«Una buona idea», le concesse Stentore. Ma solo con una risata amara. «Il fatto è che la Beozia è famosa per le sue pianure, i suoi boschi, e la sua dannata mancanza di punti d’attracco. Ci sono solo due posti dove la flotta di Corinto può prendere terra.»

Kassandra chiuse gli occhi. «E gli ateniesi li controllano entrambi, giusto? La flotta di Corinto non può approdare.»

«Benvenuta nel mio letto di spine, misthios. Non più così ottimista ora, vero?»

Per molte notti perlustrò le alture dell’Elicona, spostandosi invisibile da sud a nord fin dove le era possibile, esplorando, spiando. Alla fine, avendo concluso che cosa doveva fare, fece ritorno alla tenda di comando di Stentore.

«Non sei che una lama a pagamento. Che cosa dovresti esser capace di fare meglio e più del mio lochos?» l’aggredì Stentore alzandosi dallo sgabello e bevendo un lungo sorso di vino annacquato.

«Dammi una dozzina di uomini.»

Stentore la guardò con astio con un gelido mezzo sorriso. «Per tutti gli dèi, non ti darò un bel niente.»

«Tu hai bisogno di ottenere una vittoria qui. Sparta ha bisogno di una vittoria.»

Il sorriso di Stentore si trasformò in una smorfia. Digrignò i denti, le girò le spalle e passò intorno al tavolo su cui era distesa la mappa. «Ho promesso alla flotta di Corinto un segnale prima della fine dell’estate. Se non lo ricevono, dovranno tornare alla loro città. Ma non possiamo accendere un fuoco e chiamarli se non avremo prima liberato un luogo di attracco per loro.»

«Dammi degli uomini e ci penso io.»

Stentore si voltò e la sua espressione rabbiosa si sciolse di nuovo in un sorriso. Schioccò le dita richiamando qualcuno alle spalle di Kassandra che sentì dietro di sé un rumore di passi leggeri.

«Padrone?» rispose il massiccio ilota con la faccia quasi completamente nascosta da una cortina di capelli neri che gli scendevano da sotto il copricapo di pelle di cane.

«Il misthios qui presente ha un piano», annunciò Stentore.

Kassandra aprì la bocca per protestare.

«Aiutala a prepararsi», finì Stentore senza dargliene il tempo.

Kassandra chiuse la bocca stizzita. «Così sia», dichiarò asciutta mentre si girava per uscire. «Sii pronto all’alba, come ti ho spiegato.»

Al calare delle tenebre si incamminò a sud con l’ilota. Si fermarono non per dormire ma per riposare un po’ e rifocillarsi, mangiando una lepre arrostita allo spiedo, di cui Icaro spiluccò le ossa. L’ilota disse di chiamarsi Lido, un uomo timido e pauroso sulla trentina. Kassandra cercò di metterlo a suo agio chiedendogli della sua famiglia, ma lui le disse come si chiamavano i suoi parenti e aggiunse poco altro. Aveva l’abitudine di spingersi in continuazione i capelli dietro un orecchio, un gesto di nervosismo grazie al quale Kassandra aveva notato che aveva una guancia sfregiata per un incidente che doveva essere avvenuto parecchio tempo prima. Aveva anche parecchie cicatrici sul lato posteriore delle gambe.

«La krypteia è stata crudele con te», commentò alludendo ai giovani spartani che avevano il compito di perseguitare gli iloti. Sentiva crescere in sé un senso di compassione per quel poveretto, insieme con il dispiacere per una patria fondata su principi così sadici.

Imbarazzato, Lido si passò la lingua sulle labbra evitando di incrociare il suo sguardo. «Non è opera della krypteia

«Di chi allora?»

«Si sa del brutto carattere di re Archidamo. È lui a sfogare i suoi malumori su noi iloti. Mi ha fatto frustare con uno scudiscio chiodato perché una sera l’ho interrotto mentre discuteva con un gruppo di strani visitatori. Nel corso degli anni mi ha fatto spezzare le costole, una gamba, il naso.»

«E la guancia?»

Lido fece un sorriso malinconico. «No, quella volta è stato il re Pausania. È meno crudele e questa ferita era meritata. Una sera gli stavo versando del vino e per sbaglio ne ho rovesciato un po’. L’ho asciugato con l’orlo della mia tunica, giuro, ma ho solo peggiorato le cose, finendo per lasciare un’impronta della mia mano bagnata di vino su un documento che stava scrivendo. Quando mi sono rialzato mi ha ferito alla faccia. Almeno lui si è fermato lì. Fosse stato Archidamo, mi avrebbe massacrato.»

«Hai detto che una sera...» cominciò Kassandra abbassando la voce come se temesse che ci potessero essere spie del Culto ad ascoltare nell’aperto di quella campagna deserta. «...Che Archidamo aveva ricevuto degli strani visitatori?»

«Viaggiatori arrivati da lontano», confermò Lido corrugando la fronte, «stranieri ai miei occhi e alle mie orecchie. Ma del resto anche gli spartani sono stranieri per noi iloti. Senza offesa, naturalmente.»

Lei inclinò la testa a indicare di non darsi pensiero. «E questi visitatori indossavano qualcosa di strano... come delle maschere, per esempio?»

«Maschere?» ribatté lui confuso. «No. Erano vestiti da ufficiali e mercanti.»

Kassandra cercò un’altra angolazione per continuare a interrogarlo, ma non ne trovò. Il richiamo di un gufo interruppe il corso dei suoi pensieri e si rese conto che si stava facendo tardi. Ripresero la loro marcia verso sud finché furono in vista di una bassa pianura vicino alla costa, punteggiata dal bagliore di alcune torce.

«Korsia», sussurrò Kassandra. «Uno dei due villaggi costieri.»

Lido annuì.

«Ricordi bene tutto quello che ti ho detto?» chiese lei.

Lui annuì di nuovo.

Kassandra sospirò sperando di non sbagliarsi e che quello non fosse un errore per lei fatale. «Vai», gli ordinò.

Lido prese la sua sacca di pelle e partì di corsa tra le colline che dominavano Korsia.

Kassandra si inoltrò tra le felci verso il villaggio con Icaro sulla spalla. La notte era afosa e il cielo di una limpidezza inopportuna, con la luna e le stelle come fiaccole accese a smascherare ogni cosa nella loro spettrale luce bianca. Prese del terriccio e si imbrattò viso e braccia, nel gracidare dei rospi e tra le corse di volpi e arvicole. Giunta a un tiro di freccia da Korsia si fermò. Centinaia di opliti ateniesi erano disposti lungo la palizzata del porto e il resto della guarnigione composta da due taxiarchie* di cinquanta uomini ciascuno, era accampato dentro e intorno al villaggio. La riluttanza di Stentore le apparve comprensibile: se avesse assalito quel posto così ben difeso con i suoi cinquecento spartani e fosse stato sconfitto, tutta la Beozia sarebbe caduta nelle mani di Atene. Un simile rovescio avrebbe potuto addirittura determinare le sorti della guerra. Udì le sguaiate volgarità che risuonavano nelle taverne, notò la silenziosa attenzione degli arcieri che pattugliavano i tetti e sorvegliavano i mari, ammirò le frastagliate chele di costa che si protendevano a fare da cornice alla piccola baia. Una struttura spiccava sopra tutte le altre, una torre di tronchi eretta di recente, in cima alla quale era appostato un arciere a torso nudo, con un copricapo bianco che luccicava al chiaro di luna. Più lontano scorse persino le sagome scure della flotta di Corinto, individuabili grazie alle torce accese sui ponti. Bloccata impotente al largo. Gli ateniesi presidiavano così bene la costa che le navi non avevano nessuna speranza di attraccare senza perdere la maggior parte delle truppe nello sbarco iniziale.

Tornò a guardare il villaggio, la torre dell’arciere e infine le colline dietro di sé. Si sentiva quasi matematicamente sicura che in quello stesso momento Lido era in fuga tra quelle alture avendo colto al volo l’occasione di riconquistare la propria libertà. Troppo tardi per piangerci sopra adesso, sospirò.

Riprese la sua avanzata tra le felci diretta al villaggio e scosse una spalla inducendo Icaro a spiccare il volo. Le guardie ateniesi che sorvegliavano il lato verso terra erano meno numerose e ne trovò una che stava dormendo. Una via d’accesso. Scavalcò un basso steccato, attraversò un’aia privata e da dietro un muretto si affacciò sulla strada principale, a ridosso della quale era stata eretta l’alta torre di guardia. Lasciò passare una coppia di opliti ateniesi e saltò dall’altra parte, rotolando in un covone di fieno prima che ne apparissero altri due. Ascoltò la loro conversazione sommessa aumentare e diminuire di volume, dopodiché emerse dal fieno e si avvicinò alla base della torre. Lì l’aria era impregnata dell’odore della resina, che riempiva decine di anfore ammassate intorno alla torre. Micidiali bombe di fuoco per eventuali scafi corinzi che avessero avuto l’ardire di avvicinarsi troppo. C’era anche uno strano congegno, una trave cava, lunga come un albero maestro e rinforzata con fasce di ferro, con un mantice a un’estremità e un paiolo incatenato dall’altra parte. Una macchina da guerra? Per un momento la sua mente cominciò ad architettare un piano nuovo...

Ma sarebbe servito solo se prima avesse fatto qualcos’altro. Studiò la torre. I tronchi in sé non avevano appigli, ma c’erano sporgenze offerte da cunei e corde e appena ebbe determinato un percorso per arrivare fino in cima, cominciò ad arrampicarsi. Le dita le fecero male per lo sforzo, sentì bruciore sugli stinchi quando li strofinò sulle corde e la superficie ruvida dei tronchi. Da sopra sentì il rumore dei lenti passi di un arciere e il respiro pesante di un altro. Si fermò quando li sentì parlare.

«Per la fine di questa luna i corinzi torneranno a casa. Gli spartani saranno costretti a rientrare nelle loro case, dopodiché Tebe cadrà», rifletté a voce alta quello che doveva essere il comandante. «Quaggiù la guerra prenderà una piega a noi favorevole», aggiunse, «e il nostro contributo non sarà dimenticato.»

«Ma», rispose quello dal respiro pesante, «capitano Nesaia, quello che ha fatto... Le famiglie che ha ucciso qui.»

«Nient’altro che le legittime spoglie di una conquista», minimizzò Nesaia. «Ma se dovesse sorgere la questione, la colpa ricadrà su di voi. E voi...»

Kassandra saltò sulla piattaforma. Entrambi si girarono verso di lei. «Tranquilli», disse loro, «la questione è risolta.» Fletté il polso e il piccolo coltello contenuto dal bracciale sfrecciò a conficcarsi nel collo di quello con il respiro pesante, mentre la sua lancia affondava nel petto del capitano Nesaia. Caddero entrambi senza fare rumore. Attese qualche momento per assicurarsi che nessuno di sotto si fosse accorto di niente, poi passò alla prossima fase del suo piano.

Invece che volgersi verso il mare, guardò in direzione del villaggio e del profilo nero dei colli, si portò le mani ai lati della bocca ed emise uno stridulo richiamo simile a quello di un uccello. Lo ripeté tre volte.

Poi... nulla. Solo gli incessanti rintocchi di coppe e le risa sonore provenienti dalle taverne. Tornò a guardare le colline. Stupida, si rimproverò.

In quel momento vide alcune figure nei pressi della palizzata del porto girarsi verso la torre. «Tutto tranquillo, Nesaia?» gridò uno del gruppo.

«Sì, tutto a posto», rispose Kassandra colta di sorpresa cercando di imitare al meglio la voce del capitano che aveva ucciso.

Poi notò con orrore che il sangue che sgorgava dal corpo di Nesaia stava gocciolando dal bordo della piattaforma.

«Sangue?» si meravigliò una delle guardie che passavano in quel momento per la strada. «Qui c’è qualcosa che non va. Saliamo.»

Altri soldati uscirono dalla taverna più vicina e la loro allegria si incrinò in pochi istanti e il tono delle loro voci si indurì.

«Nesaia? Cosa sta succedendo lassù?»

Kassandra sentì il tonfo dei passi degli uomini che salivano le scale facendo tremare tutta la struttura. Icaro scese in picchiata dal cielo notturno ad aggredire i soldati, senza che potesse in alcun modo fermarli.

Poi la notte vibrò delle pive da guerra spartane. La malinconica melodia scese dalle colline attraverso il campo di felci a inondare le strade di Korsia.

Il rumore degli uomini che salivano le scale cessò e subito dopo le voci sottostanti cambiarono tono, imitate da altre centinaia che giungevano da tende, acquartieramenti e taverne. «Arrivano gli spartani!» gridavano tutti. «Adunata! Prendete gli scudi! Fronte alle colline!»

Kassandra vide due taxiarchie schierarsi in tutta fretta e uscire nel campo di felci a fronteggiare il fantomatico esercito in arrivo. Grazie, Lido. Controllò la situazione della linea di difesa lungo la costa, ora privata della gran parte dei suoi uomini. Restavano una ventina di arcieri sulla palizzata, nessuno dei quali vicino a bracieri o scorte di pece. Un orcio di pece c’era anche in cima alla torre, vicino a un braciere con dei tizzoni ardenti. Guardò in direzione della flotta di Corinto. Spero che siate svegli, pensò, poi rovesciò l’orcio con una pedata. Il puzzolente liquido vischioso traboccò dalla piattaforma. Kassandra si avvicinò quindi al braciere. Perché qui c’è il segnale che vi era stato promesso...

Scalciò anche il braciere, saltando giù dalla piattaforma mentre dietro di lei avvampavano le fiamme con un sospiro assordante. Con gli occhi sgranati, Kassandra precipitò in volo sul covone di fieno.

Molti chilometri a nord, all’insaputa di quanto stava accadendo nel lontano villaggio costiero, il lochos spartano di Stentore aveva preso posizione ai piedi dell’Elicona. Fermo davanti alle sue truppe il comandante scrutava l’imponente schieramento ateniese dall’altra parte della pianura beota screziata dalle luci dell’alba.

«Non avremmo dovuto abbandonare il campo in quota», si rammaricò un ufficiale spartano.

Stentore si morsicò il labbro per prevenire la brusca reazione istintiva. Aveva mal di testa dopo una notte in cui aveva dormito poco. «Ma qui siamo.»

Cercò ancora una volta di trovare un punto debole nella linea difensiva degli ateniesi. All’alba, quando le prime luci avevano rivelato la discesa degli spartani dalle montagne, cinquecento uomini a fronte di cinquemila, dalle truppe ateniesi schierate lungo il terrapieno si erano levate grida di sfida. E se quella manovra fosse stata lo scherzo finale del misthios, avendo attirato lui e il suo lochos in una posizione indifendibile come quella?

Sii pronto all’alba, gli aveva raccomandato prima di mettersi in marcia accompagnata dall’unico ilota che le aveva messo a disposizione. Per qualche tempo aveva rimpianto d’essere stato così testardo da dargliene solo uno.

«Lochagos», sussurrò lo spartano al suo fianco. «Gli ateniesi si stanno muovendo, guarda!»

Lo vedeva da sé. La loro lunga linea si agitava come se si preparasse ad avanzare e travolgere il suo piccolo reggimento. Gli balenarono vergogna e ignominia davanti agli occhi. Provò un tuffo al cuore.

«Lochagos!» proruppe un altro spartiate. «Guarda!»

C’era qualcosa di strano, di innaturale, all’estremità sud dello schieramento ateniese. Era come se un dio avesse afferrato un lembo di terra e l’avesse scossa come se fosse un tappeto, innescando una serie di lente e grandi increspature verso nord. Si alzò della polvere. Il lato sud dello schieramento ateniese si scompose in un fuggi fuggi generale. I soldati abbandonavano le loro postazioni e correvano verso sud. Correvano incontro alle truppe di Corinto che, sbarcate, marciavano verso di loro.

«Ce l’ha fatta», mormorò tra invidia e gioia. «Spartani, a-vanti

Sotto gli stendardi rossi di Corinto, Kassandra marciava con lo strategos* alleato Aristeo e gli uomini della sua guardia personale. Le divisioni corinzie avanzavano sull’ala sud dello schieramento ateniese come la grande lama ricurva di una falce.

«Sfondate il fianco, penetrate nelle loro linee!» tuonò Aristeo nel sottofondo del ritmo sostenuto di un tamburo.

Kassandra diede un colpetto all’elmo facendoselo scivolare davanti alla faccia. Salì in cima al dosso più vicino in compagnia degli uomini della guardia reale. Un comandante ateniese si alzò sulla punta dei piedi a indicarla, e senza dubbio deriderla come aveva già fatto quell’altro bastardo a Megara. Non ebbe il tempo di pronunciare una sola parola prima che la lancia di Kassandra gli trapassasse la faccia, squarciandogli elmo, cranio e cervello. A decine gli ateniesi caddero sotto i colpi dei corinzi che avanzarono inarrestabili conquistando il terrapieno sopra un tappeto di cadaveri. A ovest Kassandra vide un’onda rossa emergere dalla foschia scendendo dalle pendici dell’Elicona.

«Arrivano gli spartani da occidente», esclamò. «Date il segnale ai tebani!»

Risuonarono le trombe e i fischi di richiamo e, nell’immancabile coro di grida di guerra sempre più potenti, la prima linea degli spartani di Stentore si avventò contro il fianco occidentale del già incrinato schieramento ateniese e subito dopo, da est, si materializzò all’improvviso la lunga striscia argentata di uno squadrone di cavalieri tebani. Guidati da Pagonda nella sua stupenda armatura, piombavano come un enorme cuneo sul fianco orientale della scomposta linea ateniese con i volti protetti dall’ampia tesa degli elmi di bronzo e ferro e le lunghe picche spianate.

«Áge! Áge! Áge!» gridavano mantenendo i cavalli lanciati al galoppo in una formazione perfetta. Speronarono gli ateniesi con un terrificante fragore come di una tempesta e i bordi del cuneo andarono a bersaglio in un susseguirsi di strida nello schianto del ferro contro ferro. Braccia e gambe amputate volarono nell’aria, teste rotolarono e rimbalzarono nella polvere e sembrò che le urla dilaniassero l’aria stessa. Kassandra respinse il primo di un drappello di ateniesi che cercò di riconquistare il dosso perduto, poi si riparò con lo scudo dall’assalto di un secondo gruppo. Vide il lungo fronte ateniese scontrarsi e dibattersi come un serpente a cui i cani abbiano morso coda e fianchi... ma l’elemento sorpresa si era ormai esaurito e l’esercito di Atene era ancora assai più numeroso di quello raccolto dagli spartani e i loro alleati.

Una guardia di Corinto affondò la lancia nel petto di un ateniese trafiggendogli un polmone. Il nemico stramazzò, ma ne arrivavano altri a decine. «Proteggete lo strategos!» gridò la guardia. I suoi colleghi si chiusero con Kassandra intorno ad Aristeo unendo gli scudi. Gli ateniesi li attaccarono piombando loro addosso come una foresta di lance, seguita da una pioggia di frecce. Kassandra ne trafisse uno nel ventre e spaccò un ginocchio a un altro, ma l’ondata di nemici continuò a crescere oscurando il mondo intorno a lei in un accerchiamento sempre più serrato. Le piovvero frecce sull’elmo mentre i sospiri e i gemiti dei corinzi colpiti si spegnevano nel silenzio della morte. La cerchia a protezione del re si andava assottigliando sempre di più...

«La macchina!» gridò nel fragore generale sovrastato dal funereo canto di guerra per niente sicura di poter essere sentita. «Portatela qui!»

Un gigante ateniese decapitò il soldato corinzio accanto a lei aprendosi un varco per abbattere la guardia del corpo personale dello strategos. Kassandra balzò al suo posto, lasciò cadere la lancia da oplita ed estrasse quella di Leonida. Il gigante ateniese l’aggredì. Riuscì a bloccare il colpo, ma si sentì vibrare dalla testa ai piedi per la violenza dell’impatto. Altri due l’assalirono dai fianchi. Non c’era abbastanza tempo per reagire. Ma in quel momento... il boato più assordante.

Fu accompagnato da una bordata di calore e dall’ardere improvviso dell’aria davanti a lei. La vampata che le bruciò faccia e occhi, fu così intensa da strapparle un grido di dolore. E la travolse anche l’odore, il puzzo della carne abbrustolita e dei capelli strinati. Un muro arancione si alzò dietro gli ateniesi contro cui stava combattendo come se il sole fosse cascato dal cielo e stesse incendiando la pianura. L’ultimo della fila ricadde all’indietro strillando, con la schiena in fiamme. Dietro di lui a centinaia si buttarono al suolo rotolando di qua e di là come torce umane. Quasi tutti quelli a loro più vicini abbandonarono armi e scudi e si diedero alla fuga. Il gigante davanti a lei, lasciato solo dai due che l’avevano aggredita dai fianchi, fu trafitto attraverso il collo dalla lancia dello strategos corinzio.

Lunghe colonne di denso fumo nero si allungarono sopra la pianura togliendo l’aria a Kassandra che cominciò a boccheggiare. Vide l’enorme tubo di rame montato sul carro e i tre corinzi che ne manovravano il mantice. A ogni compressione, l’estremità del tubo vomitava una ventata che attizzava il fuoco di resina dell’antistante crogiolo e investiva lo schieramento ateniese di una nuova fiammata. Era stata lei a suggerire di trasferire il marchingegno dal porto nei pressi del terrapieno. Un atto malvagio per una buona causa, si scagionò.

Prima che il sole si fosse staccato del tutto dall’orizzonte gli ateniesi erano allo sbando. I cavalieri tebani li inseguivano, abbattendo i più imprudenti e gli arcieri corinzi non davano tregua ai fuggiaschi ritardatari. La battaglia era vinta.

Kassandra piantò la sua mezza lancia nel terrapieno. Icaro scese a posarlesi sulla spalla. Lo strategos si allontanò dalla zona dove la carneficina era stata più efferata, scortato dal manipolo delle sue guardie superstiti. «Non dimenticherò quello che hai fatto per le mie milizie, misthios, né quello che hai fatto in passato per la mia città», le gridò passando. Trascorse del tempo e l’aria sopra la spianata beota si riempì dei canti di vittoria mescolati al ronzio delle mosche e i gridi dei corvi. Kassandra sapeva che il puzzo della morte e dei cadaveri bruciati non l’avrebbero mai più abbandonata. Ma la lotta era conclusa. Si agganciò la lancia alla cintura e scese dal dosso, annerita da fumo, polvere e sangue rappreso. Vide allora una scena commovente: Lido, l’ilota che aveva reso possibile quell’importante vittoria, la stava aspettando, tutto tremante, ai margini del campo di battaglia. Aveva con sé una bacinella di acqua e una fiasca di olio con cui lavarla. Gli si avvicinò. «Per oggi hai fatto abbastanza», gli disse. «Per gli dèi, se non è abbastanza da meritarti la libertà, secondo me.»

«Non...» rispose lui sempre impaurito, «non oserei mai sperare tanto», balbettò sulle spine, ravviandosi una ciocca dietro i capelli.

«Vedrò che la parte che hai avuto nel salvare questa terra non sia ignorata, Lido», gli promise Kassandra.

Si girò a spaziare con lo sguardo sul campo di battaglia e guardò spuntare numerose le piccole stele di vittoria lungo la linea su cui erano stati schierati gli ateniesi. Sentì le grida in coro di molte voci spartane: «Aroo!» Vide i soldati dal mantello rosso levare in alto le lance all’arrivo del loro comandante. Stentore, con il volto trasformato in una maschera di sangue indossata come un serto vittorioso, veniva verso di lei a passi veloci.

«Hai condotto bene il tuo lochos», lo lodò Kassandra. «La vittoria è di Sparta. La vittoria è tua.»

Ma lui mantenne il passo spedito venendo a piazzarlesi davanti. «E ora che re Archidamo ha ottenuto la vittoria che pretendeva, posso occuparmi finalmente del mio vero nemico...»

Vide la lancia di Stentore alzarsi e dondolare nell’aria come un cobra innervosito. Vi si sottrasse con un saltello. «Sei impazzito?»

«Mai avuto la mente così limpida», ribatté lui a denti stretti sferzando l’aria per allontanare Icaro che cercava di aggredirlo. «Morirai per quello che mi hai portato via a Megara.»

«Non deve finire così», protestò lei schivando i colpi che cercava di infliggerle Stentore girandole intorno.

«Infatti. Sarebbe stato tutto diverso se non ti fossi infilata in mezzo a questa guerra. Se non avessi rovinato questa guerra. Assassinando mio padre, carogna maledetta

«Ho fatto quello che dovevo», dichiarò con forza lei estraendo la mezza lancia.

«E altrettanto farò io», rispose Stentore. I suoi muscoli si tesero come quelli di un leone che si prepara al balzo... e subito dopo si allentarono. Indietreggiò di un passo, due, e ancora, mentre il suo volto si distendeva in un’espressione sorpresa, con lo sguardo fisso su un punto alle spalle di Kassandra.

Quando si voltò, Kassandra vide una forma uscire dalla nuvola di fumo che turbinava al di sopra dei feriti sparsi al suolo. In una semplice tunica marrone, non sembrava né spartano né ateniese né altro che un semplice cittadino dell’Ellade.

«Non ha nulla di cui rispondere, Stentore», disse in tono pacato Nicolao.

Kassandra si sentì formicolare la pelle al suo passaggio. Mentre lui le rivolgeva un breve cenno di saluto, si rese conto di essere stata effettivamente sempre seguita da quando aveva messo piede in Beozia. Il Lupo aveva spiato ogni suo passo.

«Padre?» mormorò Stentore con un filo di voce strozzata. «Ti credevo morto...»

«Morto per la guerra, almeno per qualche tempo», rispose lui. «Quando Kassandra mi ha affrontato a Megara, sapevo che non avrei potuto guidare degli uomini con questa... questa vergogna sulle spalle. Sapevo anche che tu eri pronto, perfettamente in grado di assumere il comando. Avrei preferito non lasciarti senza un saluto, ma sapevo che se quella notte fossi venuto da te, poi non sarei stato capace di andarmene.»

«Ti aveva ucciso, sulla scogliera...» balbettò Stentore.

«Avrebbe potuto. Secondo alcuni avrebbe dovuto. Ma non lo ha fatto. Mi ha preso l’elmo per dare prova della missione compiuta, ma mi ha lasciato lassù in lacrime. Le sue parole, quant’è vera la luce di Apollo, mi hanno ferito peggio di qualunque lama. Per qualche tempo, aggirandomi senza meta, sono morto di mille morti. Alla fine ho fatto pace con il mio passato. Allora sono venuto al tuo fianco, per quasi due estati ho vegliato su di te e le tue truppe. Ho fatto quanto ho potuto per sviare le spie nemiche e per segnalarti le iniziative migliori da prendere.»

Kassandra ripose la lancia. Guardava Stentore diritto negli occhi senza provare alcun senso di superiorità.

«Ma la verità è che non avevi affatto bisogno del mio aiuto. Mio figlio sarà un generale più valoroso di quanto sia stato io», dichiarò Nicolao avvicinandoglisi.

Stentore reagì scattando in un virile saluto militare.

Un generale ritorna dal mondo dei defunti per ricevere da suo figlio un formale saluto militaresco, rifletté Kassandra. È proprio vero che la scorza di uno spartano è di ferro gelido e invulnerabile.

Ma poi Nicolao reagì allargando le braccia.

L’espressione austera si sciolse sul viso di Stentore. La lancia gli scivolò dalle dita e si lasciò andare nell’abbraccio del padre.

I due rimasero stretti a lungo sotto gli occhi dei soldati.

Kassandra si sentì gonfiare il cuore da una affettuosa tristezza. Nel profondo del guscio di ferro arde la fiamma, pensò. È quello che ho sempre desiderato per me stessa. Amore. Tra padre e figlia. Madre e fratello. Ora, Stentore, a te è dato questo dono. Non sprecarne un solo istante.

Dopo qualche minuto, Stentore soffocò un singhiozzo con le lacrime che gli scorrevano sulle guance. Aprì per un momento gli occhi per incenerire con lo sguardo tutti quelli che stavano assistendo alla scena e si asciugò la faccia con un gesto brusco della mano lasciando intendere che le lacrime erano solo dovute al fumo.

Kassandra accolse il suo gesto con un breve sorriso divertito, poi girò loro le spalle e si allontanò dal campo di battaglia accompagnata dal volo lento di Icaro.